ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il “dopo Cilfit”. Una sentenza morbida della Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza-Corte giust. 6 ottobre 2021,C‑561/19-.
Con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2021 la Grande Sezione della Corte di Giustizia ha affrontato l’attesa questione della persistenza dei criteri fissati dalla sentenza Cilfit per il rinvio pregiudiziale del giudice nazionale di ultima istanza, prendendo lo spunto da un rinvio pregiudiziale sollevato dal Consiglio di Stato italiano.
Giova ricordare che la ratio principale dell’obbligo di rinvio pregiudiziale disciplinato dall’art.267, 3^ par.TFUE, è quella di impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che rechi errori di interpretazione o un’erronea applicazione del diritto UE- Corte giust. 15 settembre 2005, causa C495/03, Intermodal Transports, punto 29; Corte giust.24 maggio 1977, causa C-107/76, Hoffman-La Roche, p.5-.
Tale obbligo è commisurato alla posizione strategica di cui godono le corti supreme negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, nel rispetto del loro tradizionale ruolo di unificazione del diritto, dette corti sono tenute ad assicurare il rispetto, da parte degli altri giudici nazionali, della corretta ed effettiva applicazione del diritto eurounitario. Inoltre, esse si occupano degli ultimi ricorsi destinati a garantire la tutela dei diritti che il diritto UE conferisce ai singoli- Concl. Avv. Gen Yves Bot presentate il 24 aprile 2007 nella Causa C2/06-.
In questa prospettiva la risalente sentenza della Corte di Giustizia 6 ottobre 1982, Cilfit - ebbe a chiarire che i giudici nazionali le cui decisioni non possono costituire oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno «sono tenuti, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essi, ad adempiere il loro obbligo di rinvio, salvo che abbiano constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi».
È dunque questo il contesto nel quale matura la decisione del 6 ottobre 2021, affidata alla Grande Sezione per l'importanza del tema trattato.
Tale sentenza, preceduta dalle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, alla quali la Rivista ha dedicato un approfondimento – cfr.G. Martinico-L. Pierdominici, Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management di Giuseppe Martinico e Leonardo Pierdominici – ha affermato i seguenti principi:
L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi.
La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.
Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Riservando a successivi interventi l’analisi approfondita della pronunzia si coglie, a prima lettura, una prospettiva di apparente continuità della Corte di giustizia rispetto ai sedimentati criteri fissati per stabilire quando il giudice nazionale di ultima istanza ha l’obbligo di rimettere la decisione interpretativa alla Corte di Lussemburgo.
Rimangono, infatti, inalterati i criteri che il giudice nazionale di ultima istanza deve considerare per astenersi dal sollevare il rinvio pregiudiziale – a) quando la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale o nell’ambito del medesimo procedimento nazionale; b) qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, anche in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse; c) qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi -.
La Corte di giustizia, tuttavia, compie un evidente passo in avanti, nel tentativo di circoscrivere meglio il compito del giudice nazionale, al fine di evitare che un ricorso massiccio alla Corte di Lusseburgo possa in definitiva pregiudicare la funzione ed il ruolo della Corte di Giustizia. E lo fa sviluppando in modo articolato alcune riflessioni sul “ruolo” del giudice nazionale nel sistema di protezione offerto dalla giurisdizione nazionale UE.
In questa prospettiva la Corte UE non manca di sottolineare che per verificare se l’interpretazione del diritto UE s’imponga senza lasciare adito a ragionevoli dubbi il giudice nazionale di ultima istanza “…prima di concludere nel senso dell’esistenza di una situazione di tal genere deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì ai giudici di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte”.
Irrompe, così, sulla scena una dimensione transanazionale della giurisdizione nazionale quando essa si occupa del diritto UE, la quale dovrà indossare un cappello che va ben oltre il suo ruolo di giudice interno per assumere davvero le vesti del giudice UE. Compito improbo, potrebbe sembrare, che tuttavia la Corte di giustizia prova a circoscrivere.
Dunque, il giudice dovrà valutare le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, le particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione, senza nemmeno tralasciare le difficoltà che possono derivare dall’esistenza di divergenze linguistiche fra le disposizioni del diritto dell’Unione.
Ma la Grande Sezione si premura anche di chiarire che se un giudice nazionale di ultima istanza non può certamente essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione, lo stesso dovrà comunque tener conto delle divergenze tra le versioni di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate, senza nemmeno tralasciare di verificare se entrano in gioco nozioni autonome - regolate dal diritto UE- come anche i criteri ermeneutici proprio del diritto UE.
Solo all’esito di tali verifiche il giudice potrà ritenere l’assenza di elementi atti a far sorgere un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione e così astenersi dal sottoporre alla Corte di Giustizia una questione di interpretazione del diritto UE e risolverla sotto la propria responsabilità.
La Corte di giustizia non manca poi di aggiungere che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di esse - alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce - appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione.
Particolare valore assumeranno, ancora, eventuali contrasti giurisprudenziali interni al giudice di ultima istanza nazionali o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale.
In definitiva, chiarisce la Corte, se l’obiettivo della procedura pregiudiziale è quello di perseguire l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione una particolare attenzione alle caratteristiche proprio del diritto UE e delle sue ricadute in altri Paesi diversi da quello in cui sorge il dubbio sul rinvio non potrà essere trascurata.
All’individuazione dei canoni da verificare per disporre o meno il rinvio pregiudiziale la Corte UE aggiunge, in chiusura, forse quello maggiormente caratterizzante, rivolto a richiedere ai giudici di ultima istanza un’ulteriore responsabilizzazione in ordine al loro ruolo di raccordo con la Corte di giustizia. Ciò si realizza richiedendo al giudice nazionale un particolare onere motivazionale sulle ragioni che lo hanno indotto a non sollevare il rinvio pregiudiziale.
Rileva infatti la Corte che “allorché un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno ritenga, per il fatto di trovarsi in presenza di una delle tre situazioni menzionate al punto 33 della presente sentenza, di essere esonerato dall’obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, la motivazione della sua decisione deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.”
In chiusura, la Corte di giustizia non manca poi di fornire risposta ai dubbi espressi dal Consiglio di Stato in ordine alla possibilità/obbligo del giudice nazionale di disporre il rinvio sulla base di motivi esposti dalle parti in violazione delle regole procedurali interne, senza che il giudice di Lussemburgo abbia sul punto fornito elementi di particolare novità rispetto alla propria sedimentata giurisprudenza. Ciò che dimostra ancora di più come il rinvio pregiudiziale deciso dalla Grande Sezione abbia costituito davvero l’occasione per modificare, senza particolari scossoni e movimenti tellurici, il sistema sedimentato attorni ai criteri Cilfit, alla ricerca di un delicato punto di equilibrio fra contrapposte esigenze dei giudici di diritti UE - nazionali e della Corte di Giustizia - coinvolti a vario titolo nel dialogo fra le Corti.
Il processo amministrativo dopo l’estate del 2021 di Francesco Volpe
Sommario: 1. Lo scopo dell’intervento. – 2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto. – 3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati. – 4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato. – 5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. – 6. La complicazione dei riti. - 7. Conclusioni.
1. Lo scopo dell’intervento.
La consistentissima produzione normativa che ha caratterizzato l’estate del 2021 ha toccato anche il processo amministrativo, con provvedimenti apparentemente minori e disorganici, ma che - se considerati nel loro insieme – possono produrre qualche ripercussione sull’impianto generale oltre a ispirare riflessioni più ampie sulla attuale efficacia complessiva del rito.
Cercherò di passarli in rassegna ugualmente senza pretese di organicità, salvo aggiungere qualche considerazione generale a mo’ di chiusura.
2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto.
Innanzi tutto, va segnalato che, con proprio decreto del 28 luglio 2021, il Presidente del Consiglio di Stato è tornato – per la terza volta da quando ne ha assunto la competenza – a esercitare la funzione di disciplina del processo telematico, sostituendo tutta la disciplina precedentemente in vigore.
Le differenze tra le vecchie e le nuove Regole Tecniche non sembrano sostanziali, se non per il fatto che viene data una disciplina organica delle c.d. udienze da remoto.
Ci si potrebbe stupire della cosa, posto che con il 31 luglio è cessato il regime che prevedeva tali forme di udienze, che erano state istituite in occasione dell’emergenza legata all’epidemia da Covid.
In realtà, non è così.
In ragione dell’art. 17, comma 6, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, le udienze da remoto sono state recepite in via ordinaria, nel processo amministrativo, per quanto riguarda lo speciale rito, che lo stesso art. 17 introduce, relativo alle udienze destinate allo smaltimento dell’arretrato.
Si tratta di un processo alle cui udienze i magistrati partecipano su base volontaria, con la conseguenza che è difficile prevedere cosa possa avvenire nel caso in cui non si reperiscano adesioni in tal senso.
Ugualmente è poco chiaro, nel silenzio della legge, se la partecipazione a tali udienze sarà fatta oggetto di una particolare remunerazione e, soprattutto, se sia consentito, ai magistrati che vi prendono parte, di istruire e relazionare su controversie in eccedenza ai c.d. carichi di lavoro che, come è noto, determinano il numero massimo di questioni che il singolo magistrato può contemporaneamente seguire.
In effetti, l’art. 17 altro non dice se non che “la partecipazione dei magistrati alle udienze straordinarie di cui al comma 5 costituisce criterio preferenziale, da parte del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, nell’assegnazione degli incarichi conferiti d’ufficio”.
3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati.
Anche senza considerarne i contenuti, vi sono altri aspetti della nuova disciplina del processo telematico che meritano di essere messi in evidenza.
In effetti, il decreto in parola è stato assunto dal Presidente del Consiglio di Stato dopo aver sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia ammnistrativa, ma senza che siano state interpellate le “associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”, come invece era stato previsto dall’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, con il quale era stato disposto il trasferimento della competenza regolatrice in materia dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Presidente del Consiglio di Stato stesso.
L’omesso passaggio procedimentale, da un punto di vista formale, è del tutto corretto.
Infatti, il successivo art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 ha previsto che la nuova disciplina delle regole tecniche sul p.a.t. potesse, fino al 31 luglio 2021, prescindere dai pareri previsti dal citato art. 4. In tal senso, dunque, si è proceduto, con l’emanazione delle nuove Regole Tecniche avvenuta qualche giorno prima della scadenza di detto termine.
Sul punto, tuttavia, mi sembra di cogliere una sostanziale incoerenza di fondo. Tanto il d.l. n. 28/2020 quanto il d.l. n. 137/2020 appartengono alla normativa emergenziale, collegata alla vicenda epidemica. È dunque difficile comprendere perché un parere che, nell’aprile 2020 (d.l. n. 28), non era considerato pregiudizievole tenendo conto delle necessità di quel momento sia diventato tale a ottobre dello stesso anno (d.l. n. 137/2020) e in circostanze storiche pressoché invariate.
Tanto più che, quando il trasferimento delle competenze venne attuato, vi fu chi criticò la misura (e riconosco di essere stato tra quelli). Si era sostenuto, infatti, che il giudice deve essere terzo sia rispetto alle parti sia rispetto alla normativa, sostanziale e processuale, che è chiamato ad applicare, a pena di sbilanciare la posizione delle parti nel processo.
I dubbi che allora emersero vennero tuttavia tacitati proprio in ragione della maggiore incisività che avrebbero avuto le associazioni professionali di categoria, per il mezzo dell’indicato parere. I rischi collegati alla minore terzietà del giudice venivano, in un certo senso, compensati da una maggiore partecipazione del ceto forense nel processo decisionale, che avrebbe dovuto in un certo senso evitare l’introduzione di una disciplina troppo sbilanciata.
Constatare che, sia pure in una fase transitoria (ma che poi ha concretamene condotto a una disciplina - quella dettata dal decreto del 28 luglio 2021 - destinata a rimanere permanentemente), tale partecipazione sia stata superata porta a concludere che anche quella sorta di compensazione sia venuta meno e che, con il passaggio di funzioni di cui ho fatto cenno, siano rimasti solo gli aspetti potenzialmente pregiudizievoli.
4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato.
Proprio con riguardo alle udienze da remoto, il processo amministrativo è l’unico rito che, dal 31 luglio 2021, le ha abbandonate (nella qual cosa io ravviso un elemento del tutto positivo).
Questo, però, per quanto sopra detto, non vale per le future udienze di smaltimento, le quali, invece, si dovranno svolgere necessariamente da remoto. Se, dunque, sono state perse le udienze da remoto emergenziali, per altro aspetto, il processo amministrativo è finora l’unico rito che ha introdotto le medesime udienze da remoto in via ordinaria.
È mia opinione, tuttavia, che tale novità – in disparte ogni dubbio sulle udienze da remoto in sé e sulle conseguenze che le stesse possono potenzialmente causa sulla effettiva collegialità delle decisioni – possa servire ben poco a ridurre l’arretrato.
Da un lato, infatti, non è la forma dell’udienza quel che rallenta i processi.
Per altro verso, non è chiaro, appunto, se la previsione di dette udienze da remoto e di smaltimento consentirà di superare i tetti ai carichi di lavoro dei magistrati, che, se invece permanessero, costituirebbero il vero collo di bottiglia, preclusivo di ogni possibilità di eliminare l’arretrato accumulato.
Sullo sfondo, peraltro, vi è anche il tema dell’Ufficio del processo, per il quale si stanno impegnando tante risorse, volte al reclutamento di molti assistenti di curia. A questi dovrebbe essere preclusa una diretta partecipazione alle decisioni giudiziarie e anche alla semplice stesura dei testi di sentenza, sia pure in conformità a quanto stabilito nelle collegiali camere di consiglio.
È da augurarsi che detto Ufficio conservi tale sua ristretta funzione. Perché, se è vero che una più ampia partecipazione degli assistenti di curia all’attività giurisdizionale potrebbe, effettivamente, contribuire a smaltire l’arretrato (tanto più se ciò avvenisse insieme allo svolgimento di ampie udienze di smaltimento, preliminari a sentenze la cui stesura fosse così risolta), per altro verso esporrebbe a rischi non preventivabili sia in termini di qualità delle pronunce assunte sia, soprattutto, perché l’esercizio della funzione giurisdizionale è collegata a garanzie di un certo rilievo che così verrebbero omesse.
5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Merita, ancora, di essere messo in rilievo (perché anch’esso collegato con le udienze di smaltimento), quanto è previsto dall’art. 17, d.l. 9 giugno 2021, secondo il quale “ferme restando le udienze straordinarie annualmente individuate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 16, comma 1, delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, al fine della trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 11, comma 1, del presente decreto, sono programmate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ulteriori udienze straordinarie, in un numero necessario e sufficiente al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, per la Giustizia amministrativa, dal PNRR. A tal fine, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa aggiorna il numero di affari da assegnare al presidente del collegio e ai magistrati componenti dei collegi”.
La disposizione si segnala per la partecipazione diretta del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa alla programmazione delle udienze dei giudici amministrativi e addirittura alla determinazione del numero di affari da assegnare ai singoli magistrati.
Premesso che il richiamo all’art. 16 delle disposizioni di attuazione del codice di rito appare, quanto meno, improprio (l’art. 16 non prevede, infatti, nessuna preesistente competenza del Consiglio di Presidenza in tal senso), la disposizione pare inopportuna perché, per ragioni di indipendenza dei giudicanti, l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa – anche perché esso è in gran parte elettivo ed è composto da laici designati dalle Camere – non dovrebbe poter partecipare, neppure indirettamente, allo svolgimento delle funzioni giurisdizionali e alle competenze che, altrimenti, sarebbero proprie dei Presidenti dei singoli collegi.
Come per gli assistenti di curia, vale anche qui ripetere che è necessario tenere distinti i ruoli e le funzioni, perché su tale distinzione riposano ben precise garanzie.
6. La complicazione dei riti.
L’introduzione di uno speciale rito da remoto, destinato allo smaltimento dell’arretrato porta in ogni caso a formulare alcune riflessioni di carattere più generale e a constatare che si è ulteriormente diversificato e complicato il modo con cui il processo ammnistrativo può giungere a sentenza.
Rispetto al tradizionale schema, oggi si può giungere a sentenza in molti altri modi, con termini e specificità diversi da caso a caso.
Vediamo qui di trattarli in rassegna.
a) Vi è innanzi tutto il sistema ordinario.
È quello tradizionale, a cui fa riferimento l’art. 71 c.p.a.
Il Presidente della Sezione, decorso il termine dilatorio di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione del ricorso per la costituzione delle parti intimate, fissa l’udienza pubblica, dandone comunicazione alle parti costituite almeno sessanta giorni prima. Seguono termini, calcolati a ritroso dall’udienza, di quaranta giorni liberi per la produzione di documenti, di trenta per le memorie e di venti per le repliche.
b) Vi è poi il sistema ordinario accelerato.
È disciplinato anch’esso dall’art. 71 e differisce dal primo perché il termine di comunicazione dell’udienza di trattazione può essere ridotto fino a quarantacinque giorni, per il caso in cui, su accordo delle parti, l’udienza di merito sia stata fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.
Tutti gli altri termini rimangono invariati.
c) Sussiste quindi la definizione in sede di trattazione della domanda cautelare.
L’istituto – infelice erede del rito veneziano - è previsto dall’art. 60 c.p.a. e implica che siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso; che sussista la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e che siano sentite sul punto le parti costituite.
La decisione è assunta in forma semplificata e in Camera di consiglio (ma la forma dell’udienza pubblica non costituisce ragione di nullità della sentenza: art. 87, comma 4, c.p.a.).
Il giudice, nel procedere in tal senso, non è vincolato alle domande delle parti, alle quali è consentito di opporsi con conseguenze vincolanti per il collegio solo quando esse dichiarino che intendono proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione. In tal caso, il collegio fissa la data per il prosieguo della trattazione in altra Camera di consiglio, fissata all’esito di tali incombenti (come pure all’esito dell’eventuale integrazione del contraddittorio).
d) Ancora, va ricordata la definizione a seguito di istanza di prelievo.
L’istituto è disciplinato dall’art. 71 – bis c.p.a., introdotto dall’art. 1, comma 781, lett. b), l. 28 dicembre 2015, n. 208.
Esso presuppone, appunto, la presentazione di detta istanza, in conseguenza della quale il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite, fissa udienza di Camera di consiglio per decidere la controversia.
Trattandosi, appunto, di rito in Camera di consiglio, si applica l’art. 87 c.p.a. Perciò i termini per il deposito delle memorie e dei documenti sono dimezzati.
e) Oggi esiste anche la definizione a seguito di udienza di smaltimento.
Costituisce appunto una delle novità introdotte dall’art. 17, d.l. n. 80/2021 e di cui ho già fatto cenno.
Il rito non si può applicare alle controversie disciplinate dagli artt. da 112 a 117 c.p.a. e, pertanto, non può riguardare le liti per l’ottemperanza, quelle per l’accesso e quelle contro il silenzio inadempimento.
Le udienze si svolgono da remoto e in camera di consiglio.
Nonostante il rito consiliare, a queste liti non si applica l’art. 87, comma 3, c.p.a., salvo che per l’ultimo periodo di tale disposizione.
Pertanto, se le parti possono chiedere di essere sentite in udienza (art. 87, comma 3, ultimo periodo, cit.), non vale invece la dimidiazione dei termini per i depositi.
Ovviamente, trattandosi di liti giacenti in arretrato e, quindi, pendenti da tempo, non trova applicazione neppure l’art. 87, comma 3, c.p.a., nella parte in cui esso stabilisce che il giudice è tenuto a fissare la lite nella prima Camera di consiglio utile, decorsi trenta giorni dal termine di costituzione di tutte le parti.
f) Ancora, vi è il rito per la definizione dei ricorsi suscettibili di immediata definizione.
Anche questa è una novità introdotta dall’art. 17, d.l. n. 80/2021, che ha inserito un art. 72 – bis nel codice di rito, secondo il quale, “il presidente, quando i ricorsi siano suscettibili di immediata definizione, anche a seguito della segnalazione dell’ufficio per il processo, fissa la trattazione alla prima camera di consiglio successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio. Salvi eccezionali motivi, non è possibile chiedere il rinvio della trattazione della causa. Se è concesso il rinvio, la trattazione del ricorso è fissata alla prima camera di consiglio utile successiva. Se è possibile definire la causa in rito, in mancanza di eccezioni delle parti, il collegio sottopone la relativa questione alle parti presenti. Nei casi di particolare complessità della questione sollevata, il collegio, con ordinanza, assegna un termine non superiore a venti giorni per il deposito di memorie. La causa è decisa alla scadenza del termine, senza che sia necessario convocare un’ulteriore camera di consiglio. Se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica. In ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Si tratta, come sembra evidente, di un rito destinato a colpire quelle controversie afflitte da ragioni riconducibili all’art. 35 c.p.a., come tali insuscettibili di portare a qualunque decisione di merito, dal momento che, ove si pongano questioni di detto ultimo tipo, il rito si converte nel rito ordinario.
g) Tra i vari modi con cui la lite può giungere a sentenza, si segnala anche quello che procedere dalla esecuzione dell’accoglimento della domanda cautelare.
L’istituto trova fondamento nell’art. 55, comma 10, c.p.a, secondo il quale “il tribunale amministrativo regionale, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito. Nello stesso senso può provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l'ordinanza cautelare di primo grado; in tal caso, la pronuncia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la sollecita fissazione dell'udienza di merito”.
Quello così pronunciato è un vero e proprio provvedimento di accoglimento della domanda cautelare, il cui contenuto consiste, paradossalmente, proprio nella fissazione dell’udienza di merito. All’udienza così fissata si applicano i termini previsti dall’art. 71 c.p.a.
h) Vi sono, infine, i riti non codificati.
Non è infrequente, infatti, che, presso i diversi organi giurisdizionali, si applichino schemi che non trovano un formale recepimento esplicito nel codice.
Tra questi si segnalano quelli che procedono dalle udienze di verifica dell’interesse a proseguire nel processo (talora informalmente definite anch’esse “udienze di smaltimento”). Queste sono una specie di udienze filtro o di smistamento, alle quali le parti sono invitate a dichiarare se permane l’interesse processuale. Per il caso in cui la dichiarazione sia negativa, la lite viene immediatamente definita in rito; altrimenti viene fissata nuova e ulteriore udienza.
Sono noti anche riti non codificati che procedono da decreti di verifica dell’interesse, assunti dal Presidente della Sezione o da un magistrato delegato, in applicazione (esplicita o implicita, ma in ogni caso piuttosto estensiva) dell’art. 68, comma 2, in materia di istruttoria. Essi, in ragione delle risposte che al decreto vengono date, portano talora a decreti di estinzione del giudizio o alla fissazione di udienze di smaltimento o ancora alla fissazione di normali udienze pubbliche di trattazione.
Da ultimo, è noto l’istituto del rinvio al merito, che trae spunto da un’udienza di trattazione della domanda cautelare, ma che non sembra potersi identificare né con un provvedimento pronunciato ex art. 55, comma 10, c.p.a., né con una sorta di rinuncia alla sospensiva in cambio dell’udienza di merito (ipotesi a cui, per quanto si è già detto, fa riferimento l’art. 71 c.p.a. per il caso in cui il Presidente anticipi fino a quarantacinque giorni la comunicazione della fissazione dell’Udienza).
A tutti questi diversi riti, che riguardano le controversie ordinarie, si aggiungono poi gli istituti relativi ai riti speciali e quindi:
a) alle controversie sul silenzio (31 e 117 c.p.a.),
b) a quelle sull’ottemperanza (112-114 c.p.a),
c) a quelle sull’accesso (116 c.p.a.),
d) a quelle con termini dimezzati (119 c.p.a.),
e) a quelle sui contratti pubblici (120 e s. c.p.a.) e,
f) a quelle sul contenzioso elettorale (126 e s. c.p.a.), a loro volta distinte secondo che,
f1) riguardino le operazioni elettorali o
f2) gli atti preparatori delle elezioni.
Infine, in ragione della domanda specificamente fatta valere e quindi secondo che si tratti di una domanda relativa:
a) all’ annullamento,
b) alla nullità,
c) al silenzio inadempimento
d) alla condanna al risarcimento del danno, d1), in via autonoma o,
d2), contestuale all’azione di annullamento o all’azione sul silenzio,
e) all’appello nelle controversie ex artt. 119 e 120 c.p.a.,
f) alle cause di primo grado nelle controversie ex art. 120 c.p.a.
e) alle controversie sull’ottemperanza,
f) alle controversie per l’accesso ai documenti amministrativi,
g) alle controversie sulle operazioni elettorali,
h) alle controversie sugli atti preparatori alle elezioni,
variano anche i termini di notificazione del ricorso introduttivo della lite o del grado di giudizio.
Come si comprende, anche in ragione degli interventi legislativi recenti, che hanno aggravato una situazione già pesantemente compromessa, il processo amministrativo oggi è un vero e proprio dedalo, ben diverso dal sistema con il quale era stato originariamente ideato.
Quello attuale, invece, è un sistema intriso di decadenze che possono risultare pregiudizievoli per le parti.
Esso, inoltre, può condurre a sentenze nate vecchie, perché formatesi su pericolose preclusioni (si consideri anche l’art. 104, comma 2, c.p.a.) che impediscono di fotografare la fattispecie sostanziale qual è sussistente al momento della pronuncia della sentenza, con la costituzione di vincoli conformativi essi stessi inattuali.
Né sembra del tutto persuasivo sostenere che questa varietà di riti sia compensata dalla necessità di portare a compimento, entro un ragionevole tempo, i processi, perché, infine, tutto ciò dipende da quando il giudice fissa l’udienza di trattazione della causa, tanto più che, entro certi limiti, spetta a questi decidere il rito più opportuno.
L’esperienza, tuttavia, sembra suggerire che proprio in questi non infrequenti ritardi vada ravvisata la principale causa dell’intempestività del processo amministrativo, vieppiù acuita dal fatto che talune controversie (quelle in materie di appalti) - viaggiando su binari che, per volontà di legge, sono assai più veloci - finiscono per rallentare lo svolgimento di tutte le restanti.
7. Conclusioni
La nuova disciplina delle Regole Tecniche sul processo telematico, peraltro, ha contribuito a mettere in luce anche ulteriori riforme di questi mesi, alle quali, forse, è il caso di prestare una certa attenzione. - Che conclusioni trarre dal panorama che emerge e su cui si innestano le riforme dell’estate del 2021?
In primo luogo, a me pare che si debba osservare che, attraverso misure apparentemente di dettaglio, la stagione covidica stia consegnando interventi sul processo amministrativo che potrebbero sortire conseguenze piuttosto preoccupanti quanto all’indipendenza e alla terzietà del giudice. Questo vale sostenere soprattutto con riguardo al modo con cui viene attuata la disciplina del processo telematico e al modo con cui il Consiglio di Presidenza è chiamato a partecipare alla programmazione delle udienze e delle attività dei magistrati.
Né deve rassicurare l’onestà intellettuale di è concretamente chiamato a dare esecuzione a queste nuove norme, perché le istituzioni non possono reggersi sulla contingente probità degli individui e perché, infine, vale anche a questo proposito quello fu detto della moglie di Cesare.
In secondo luogo – con riferimento al variegato panorama di riti che stanno cumulandosi – viene a rafforzarsi ulteriormente la convinzione che è sempre più necessario affrontare una radicale e generale riforma del processo, volta a semplificarne lo svolgimento e a introdurre strumenti di sua accelerazione effettivi e non puramente formalistici.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI – Quarta parte -Le tabelle della Corte di Cassazione e il benessere organizzativo
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. Le tabelle della Corte di Cassazione. – 2. Le disposizioni sul “benessere organizzativo”.
1. Le tabelle della Corte di Cassazione
Come si è ricordato (supra, par. 3) a partire dalla circolare n. 6308/1987 le regole tabellari sono state gradualmente estese – non senza resistenze da parte dei “vertici” dell’Ufficio - anche alla Corte di cassazione, fatti salvi gli adattamenti imposti dalle peculiarità delle funzioni svolte dal giudice di legittimità.
Alla formazione delle tabelle della Corte di cassazione è dedicato l’intero Titolo III (artt. 220 -255) della circolare vigente, che contiene tra l’altro analitiche indicazioni in ordine all’Ufficio del Massimario e del ruolo, ai suoi compiti istituzionali ed alla relativa organizzazione[1].
Le direttive dettate per la Corte di cassazione sono conseguenti anche alle modifiche processuali introdotte dal decreto-legge n. 168/2016 sull’”efficientamento della giustizia”, convertito dalla legge n. 197/2016 e contengono alcune tra le principali novità della nuova circolare con la quale il CSM ha inteso delineare, nei limiti delle proprie competenze istituzionali, alcuni percorsi organizzativi idonei a far fronte al grave stato di crisi della Suprema Corte.
In particolare:
* negli artt. 221-222 si specifica che, ai fini della designazione dei presidenti titolari delle sezioni, dovrà tenersi conto della capacità organizzativa dei candidati valutata sulla base della pregressa attività e dei risultati ottenuti nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, della capacità professionale, desunta anche dalla qualità dei provvedimenti redatti e della dimostrata disponibilità alle esigenze dell’ufficio[2], e che nella proposta vanno indicati gli incarichi conferiti, nell'ambito di ciascuna sezione, ai Presidenti di sezione, nonché le modalità con cui essi collaborano con il Presidente titolare all’organizzazione della Sezione, anche al fine di evitare l’insorgere di contrasti inconsapevoli tra le decisioni e di determinare criteri omogenei ed efficaci con cui individuare i processi destinati alla pubblica udienza e quelli assoggettati al rito camerale.
* negli artt. 223 - 226 vengono regolate la ripartizione delle materie tra le diverse sezioni[3], quella degli affari relativi ad una stessa materia che sia attribuita a più sezioni, l’assegnazione alle c.d. “sezioni filtro”[4] e la proposta di organizzazione relativa al periodo feriale;
* negli artt. 229 - 232 sono contenute le disposizioni relative ai calendari di udienza, alla costituzione dei collegi ed all’assegnazione degli affari, tutte ispirate all’esigenza di rispetto di criteri oggettivi, predeterminati e verificabili[5] ed a quella dell’equilibrata assegnazione dei magistrati sia alla pubblica udienza sia alla camera di consiglio[6]. I procedimenti penali concernenti reati di criminalità organizzata debbono essere distribuiti tra le diverse sezioni e, nell’ambito della stessa sezione, tra i diversi collegi, secondo criteri predeterminati che garantiscano una periodica rotazione sia delle sezioni, sia dei presidenti e componenti dei singoli collegi della sezione.
* negli artt. 233-237 sono indicate le regole tabellari relative alla composizione delle sezioni unite civili e penali; ai criteri di assegnazione ad esse ed al numero massimo di permanenza di ciascun componente[7]; alla formazione dei collegi ed all’assegnazione degli affari; ai coordinatori delle sezioni unite;
* negli artt. 238-255 è analiticamente disciplinata la materia concernente l’Ufficio del Massimario e del ruolo, con l’indicazione dei relativi compiti istituzionali[8]; della composizione[9]; degli incarichi apicali e di collaborazione interna; dei criteri di assegnazione degli affari, che debbono in ogni caso assicurare la turnazione nello svolgimento dei compiti dell'ufficio; dei magistrati con compiti di assistente di studio[10]; dei criteri di valutazione per la loro scelta o per la destinazione d’ufficio; l’applicazione alle sezioni per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità[11] e le disposizioni inerenti alla procedura relativa.
Le funzioni consultive tabellari svolte per i distretti di Corte d’appello dai Consigli giudiziari, sono devolute - per quanto concerne la Corte di cassazione - al Consiglio direttivo (le cui prime elezioni si tennero nella primavera del 2008), anteriormente alla cui istituzione sulla proposta organizzativa dell’Ufficio veniva acquisito il parere di un “Gruppo consultivo” istituito con decreto del Primo Presidente a seguito dell’assemblea generale della Corte del 23 aprile 1999.
Rispetto al “gruppo consultivo”, il nuovo organo si è posto, in qualche modo, in relazione di continuità; ma nello stesso tempo ne ha segnato anche la discontinuità in quanto alla legittimazione ufficiosa e quasi incerta del primo, si è contrapposta la legittimazione piena derivante dall’esplicito riconoscimento legislativo, con una immediata collocazione del consiglio direttivo nel solco dell’esperienza dei consigli giudiziari, cui il legislatore li ha accomunati anche nell’iter di riforma dell’ord. giud. che portò a modificarne composizione e competenze ed a limitarne, con la legge 111/2007, l’originaria configurazione di organo decentrato della giurisdizione.
Il Consiglio direttivo (che è nato tra l’altro nel segno dell’importante novità costituita dalla presenza al suo interno di “componenti” laici per l’esercizio di alcune competenze - ed anzi, per quanto riguarda il presidente del Consiglio nazionale forense, per tutte le competenze - e si è dotato di un proprio Regolamento, in attuazione dell’art. 3, 1° co. del d.lgs. 25/2006, come modificato dalla legge 111/2007) deve essere pertanto collocato a pieno titolo nel novero degli organi cui sono affidati compiti amministrativi strumentali all’esercizio della giurisdizione, la cui caratteristica essenziale non è solo quella del “bilanciamento” o del “controllo”, quanto insieme di concorrere, anche mediante l’esercizio di tali funzioni, alla realizzazione del governo autonomo responsabile, efficace, effettivo e trasparente.
I pareri per le valutazioni di professionalità dei magistrati ai sensi dell'articolo 11 del d.lg. 160/2006 e successive modificazioni e, soprattutto, quelli relativi alla tabella della Corte di cassazione[12], ai criteri per l'assegnazione degli affari ed alla sostituzione dei giudici assenti o impediti[13], costituiscono lo snodo attraverso il quale si è radicata la funzione del consiglio direttivo non solo come organo di garanzia rispetto al principio del giudice naturale, ma anche come interlocutore qualificato dal punto di vista della razionalità organizzativa dell’Ufficio, della funzionalità del servizio e del rilievo delle cause di eventuali carenze e disfunzioni; di talché il Consiglio direttivo si è posto quale fattore dinamico dei processi di autoorganizzazione e quale tramite per utilizzare al meglio le pur scarse risorse esistenti. La coesistenza, nell’attuale assetto normativo, di un duplicità di funzioni della Cassazione riconducibili, da un lato, alla garanzia di corretta applicazione del diritto all’interno nel singolo processo e, dall’altro, a quella di corretta applicazione del diritto obiettivo, costituisce la premessa per scelte conseguenziali sul piano organizzativo, indirizzando verso un’opera di selezione dei ricorsi e delle forme decisorie non limitata alla individuazione dei casi di inammissibilità e di manifesta fondatezza o infondatezza ma, più in generale, all’individuazione dei casi che (per quanto simili distinzioni presentino sempre margini di opinabilità) non si caratterizzano per profili di particolare novità e di quelli che, viceversa, richiedono maggiori approfondimenti e comportano scelte più impegnative sul piano interpretativo o perché relative ad aspetti mai prima esaminati, o per la necessità di prevenire o superare contrasti[14]: con effetti positivi, tra l’altro, quanto alla riduzione della forbice relativa alla durata media dei processi; alla realizzazione di “economie di scala” connesse al risparmio di inutili duplicazioni di lavoro e di incombenti; alla possibilità di svolgere in modo più efficace (con la decisione anticipata di ricorsi di carattere seriale, in relazione ai quali una sollecita risposta della Corte potrebbe agire da argine al loro moltiplicarsi) una funzione di orientamento destinata ad esplicarsi anche verso il futuro anziché limitarsi – come oggi continua troppo spesso ad accadere – ad una “nomofilachia rivolta solo al passato”.
L’obiettivo di coniugare maggiore celerità nella decisione e qualità della risposta, contrastando la tendenza a ricercarla unicamente sul piano dei numeri e dei tempi, o a spostarla direttamente sul terreno improprio dei “carichi massimi esigibili” (che pure esprime un problema reale, dovendosi riconoscere con onestà e chiarezza che esiste un limite fisiologico alla capacità della Corte di esaminare seriamente le questioni che le vengono sottoposte) deve essere affidato, in primo luogo, ad una più idoneo impiego delle risorse. In relazione a ciò, sottolineando come l’istituzione della “Struttura” per lo spoglio centralizzato dei ricorsi e la definizione di quelli indirizzati verso la procedura camerale per manifesta inammissibilità infondatezza o fondatezza, costituisse un’importante innovazione che aveva contribuito alla definizione di una significativa percentuale di ricorsi, all’elaborazione di proficui metodi di lavoro collegiale ed all’elaborazione di forme di motivazione semplici ed essenziali, nella prima edizione di quest’opera formulavamo l’auspicio che la “struttura” si trasformasse in un’articolazione organizzativa, opportunamente dotata sul piano dell’informatizzazione ed adeguatamente potenziata quanto a personale di supporto, idonea a procedere ad una "schedatura“ dei ricorsi sin dal momento del loro deposito, ad identificare le questioni seriali o comunque già risolte, ad individuare questioni (o filoni di questioni) per favorire la formazione di collegi secondo criteri di concentrazione ed incanalare i ricorsi - senza necessità di successive classificazioni - verso il relativo percorso decisorio.
Com’è noto (e per concludere su questo argomento), con l’art. 47 comma 1 lett. b) della legge n. 69/2009 il primo comma dell’art. 376 c.p.c. (“i ricorsi sono assegnati alle sezioni unite o alle sezioni semplici dal primo presidente”) è stato sostituito con la previsione secondo cui “il primo presidente, tranne quando ricorrano le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione [15], la quale verifica la sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5)”. Se poi, “ad un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice” [16]. E’ peraltro da rilevare che, in base alle proposte per la riforma della giustizia richiamate alla nota 103, i riti camerali, attualmente disciplinati dagli articoli 380-bis (“Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso”) e 380-bis.1 cpc (“Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice”), verrebbero unificati, con conseguente soppressione (non si sa quanto opportunamente) della sezione di cui all’articolo 376 cpc e concentrazione della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici.
2. Le disposizioni sul “benessere organizzativo”
Nel Titolo IV, artt. 256 -270 della circolare, vengono dettate le disposizioni relative al “benessere organizzativo” alla “tutela della genitorialità” ed alla tutela della salute, dando una sistemazione più organica a materie che prima erano disciplinate in modo sparso ed incompleto all’interno delle circolari relative all’organizzazione degli uffici[17].
Premesso che l'organizzazione dell'ufficio deve garantire “il benessere fisico, psicologico e sociale dei magistrati”; che a protezione del nucleo familiare le misure organizzative debbono tener conto “dello stato di gravidanza, maternità, paternità e malattia dei magistrati”; che esse debbono tutelare i magistrati genitori di prole con handicap o che comunque assistano un familiare con handicap nonché tutelare i magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da poter impedire lo svolgimento di alcune specifiche attività di ufficio, nella circolare è previsto che il dirigente dell'ufficio:
* debba attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e di produttività, anche per mantenere il benessere fisico e psicologico dei magistrati, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della loro vita professionale;
* valorizzi le competenze e gli apporti dei magistrati all'organizzazione, coinvolgendoli nelle scelte organizzative dell'ufficio incidenti sulla loro attività lavorativa e mettendo a disposizione le informazioni pertinenti il loro lavoro;
* si adoperi per mantenere un clima relazionale sereno, valorizzando le competenze e gli apporti dei magistrati all'organizzazione, coinvolgendoli nelle scelte organizzative dell'ufficio incidenti sulla loro attività lavorativa e nei progetti di innovazione, risolvendo la presenza di situazioni conflittuali con l’ausilio dei presidenti di sezione ed assicurando l'equa distribuzione dei carichi di lavoro;
* nell’organizzazione dell’ufficio tenga conto delle esigenze connesse a situazioni di gravidanza e maternità e, più in generale, della compatibilità del lavoro con le necessità personali, familiari ed i doveri di assistenza gravanti sui magistrati, con particolare riferimento alle condizioni di coloro che provvedano alla cura di figli minori, anche non in via esclusiva o prevalente e fino a sei anni di età degli stessi. Tali condizioni soggettive non devono costituire occasione di pregiudizio nel concreto atteggiarsi delle modalità di svolgimento della vita professionale.
Le diverse modalità organizzative (da adottare previo asciolto dei magistrati interessati) non potranno comportare una riduzione del lavoro, ed eventuali esoneri saranno compensati da attività maggiormente compatibili con la condizione del magistrato.
In assenza del consenso degli interessati, non può essere disposto il mutamento delle funzioni tabellari, né della sede di esercizio delle funzioni per i magistrati in maternità o che provvedano alla cura di figli minori, in via esclusiva o prevalente e fino a sei anni di età degli stessi.
I magistrati con prole di età inferiore a sei anni debbono essere esentati da ogni attività o incombenza ulteriore rispetto all’ordinaria attività giudiziaria, salva la disponibilità da essi manifestata.
Analoghe misure sono assunte anche a favore dei magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, nonché a favore dei magistrati genitori di prole con situazione di handicap accertata ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Le previsioni per la tutela della genitorialità dei figli minori fino a sei anni possono essere derogate se il dirigente, con provvedimento che dia conto di esigenze non altrimenti garantite, rilevi motivatamente l’insostenibilità della misura organizzativa prevista per la piena tutela della genitorialità. In tali casi resta comunque salva la piena applicabilità delle menzionate previsioni a tutela della genitorialità di figli sino a tre anni.
Nell’organizzazione degli uffici si deve tener conto, altresì, delle esigenze del magistrato connesse alla assistenza dei prossimi congiunti affetti da gravi patologie, quando non vi siano altri familiari che possano provvedervi.
Nell'individuare le specifiche modalità con cui dare concreta attuazione alle disposizioni poste a tutela della genitorialità, i dirigenti si ispirano a criteri di flessibilità organizzativa; e negli artt.266 e 267 della circolare sono indicate esemplificativamente le modalità con cui dare concreta attuazione alla tutela della genitorialità nel settore civile ed in quello penale.
Nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale di cui agli articoli 16, 17, 28 e 32 del d.lgs. n. 151/2001, al magistrato non possono essere assegnati affari, anche di immediata e urgente trattazione, salvo che si provveda alla sua sostituzione[18].
Il periodo di astensione obbligatoria per congedo parentale e quello per congedo di paternità o parentale di durata superiore a tre mesi determinano la sospensione dei termini di permanenza massima nell'ufficio di appartenenza.
Qualora il settore di servizio in cui opera il magistrato non consenta una organizzazione compatibile con le esigenze di famiglia questi, a sua domanda, può essere assegnato, in via temporanea ed eventualmente anche in soprannumero rispetto alla pianta organica della sezione, ad altro settore nell'ambito del medesimo ufficio, mantenendo il diritto a rientrare nel settore di provenienza.
Le disposizioni relative alla tutela della genitorialità si applicano anche a favore dei magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, nonché a favore dei magistrati genitori di prole con handicap o che comunque assistano un familiare con handicap, accertato ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
In caso di gravi patologie del magistrato o dei suoi figli, e di conseguente riconoscimento di eventuali esoneri, l’assegnazione di attività compensative potrà essere differita, entro il termine massimo di sei mesi, al fine di renderla effettivamente compatibile con le condizioni di salute del magistrato o con la sua situazione familiare rilevante nei termini di cui sopra.
[1] Dal 1941 il numero di magistrati addetti all’Ufficio del Massimario e del Ruolo è progressivamente aumentato. Con il d.l. n. 69 del 2013 convertito in legge n. 98 del 2013, l’Ufficio è stato interessato da un incisivo incremento di organico (da 37 a 67 unità) perché in esso è stata inserita la nuova figura degli “assistenti di studio” che, inquadrati presso l’Ufficio del Massimario, svolgono funzioni di assistenza presso le sezioni della Corte, collaborando alla formazione dei ruoli d’udienza, alla redazione di progetti di provvedimenti su singoli ricorsi e di relazioni sugli orientamenti della giurisprudenza, nonché all’attività di “spoglio” e formazione dei ruoli di udienza. Ancora più recentemente, il d.l. n. 168 del 2016, convertito in legge n. 197 del 2016, oltre a prevedere rilevanti modifiche del rito civile in cassazione ed a rivedere i tirocini formativi presso la Corte e la Procura generale, ha aggiunto all’art. 15, r.d. n. 12 del 1941 altri due commi, riguardanti l’applicazione dei magistrati del Massimario ai collegi per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità.
Con l’art. 6 del disegno di legge “Bonafede” l’organico dell’Ufficio del Massimario verrebbe notevolmente ridimensionato, dal momento che a fronte dell’ampliamento del numero della pianta organica della Suprema Corte, non è più necessario attingere dal bacino dell’Ufficio del Massimario per comporre i collegi giudicanti.
[2] A parità di valutazione, prevale l’aspirante più anziano nell’ufficio quale Presidente di Sezione.
[3] Specificando tra l’altro la sezione incaricata della trattazione dei ricorsi di cui all’articolo 5 ter, comma 5, della legge n. 89/2001 (“Legge Pinto”).
[4] Si tratta della sezione prevista dall’articolo 376, comma 1, c.p.c. (sesta sezione civile) e di quella incaricata della trattazione dei ricorsi di cui all’articolo 610, comma 1, c.p.p. (settima sezione penale).
[5] A detti criteri è possibile esclusivamente per motivate esigenze di servizio, tra le quali può eccezionalmente ricorrere quella derivante dalla necessità di risolvere particolari questioni di diritto, che induca a tenere conto della specifica esperienza professionale di determinati magistrati, la quale deve essere espressamente indicata. Peraltro i criteri di assegnazione degli affari prevedono meccanismi di attribuzione a un unico collegio dei ricorsi relativi ai provvedimenti emessi nel medesimo processo.
[6] All’interno di ciascuna sezione possono essere individuate aree omogenee di competenza specifica, per le quali ciascun relatore può fornire indicazione di preferenza da utilizzare nel periodo di vigenza della tabella. Nel caso in cui siano individuate aree omogenee di competenza, debbono essere altresì previsti congrui limiti temporali alla permanenza dello stesso consigliere nella medesima area omogenea. Va escluso che la medesima materia possa essere trattata, in via esclusiva, da un unico consigliere
[7] La permanenza non può superare gli otto anni, anche non continuativi.
[8] L’attività dell’Ufficio del Massimario e del ruolo si articola, esemplificativamente, nelle seguenti forme: a) massimazione delle decisioni civili e penali; b) segnalazione dei contrasti; relazioni preliminari per le sezioni unite; c) attività attinenti al ruolo; d) relazioni informative sullo stato della dottrina e della giurisprudenza per specifici temi; e) attività di assistenza di studio alle sezioni della Corte di cassazione; f) applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità.
La massimazione, la segnalazione dei contrasti e le relazioni per le Sezioni Unite, l’attività di assistenza di studio alle sezioni civili della Corte di cassazione sino alla scadenza del termine quinquennale di cui al comma secondo dell’articolo 74 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98 e l’applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali costituiscono attività prioritaria dei magistrati addetti al Massimario.
Ogni altra attività cui possono essere addetti i magistrati dell’ufficio del Massimario è comunque diretta a favorire la funzione nomofilattica della Corte di cassazione attraverso lo studio e l’analisi della giurisprudenza di legittimità (art. 238 della circolare).
[9] La tabella organica del Massimario comprende, oltre ai componenti previsti per legge, un Direttore, due Vicedirettori, uno per il settore penale e uno per il settore civile, e due Coordinatori, egualmente destinati uno al settore penale e uno al settore civile.
L’incarico di Direttore e di Vice Direttore ha durata pari a tre anni, tendenzialmente coincidenti con la durata della tabella, ed è rinnovabile per una sola volta per ulteriori tre anni. Nel caso in cui lo stesso magistrato è nominato Vicedirettore e poi Direttore, la durata complessiva dei relativi incarichi non può essere superiore a sei anni, fermo restando che la nomina a Direttore ha durata di tre anni, anche se ciò comporta una durata complessiva superiore a quella dell’indicato termine.
L’incarico di coordinatore ha la durata di un anno, rinnovabile alla scadenza per due volte sino a un massimo di tre anni.
Dal 1941 il numero di magistrati addetti all’Ufficio del Massimario e del Ruolo è progressivamente aumentato e da ultimo, con il d.l. n. 69 del 2013 convertito in legge n. 98 del 2013, è stato portato a 67 unità, essendovi stata inseriti magistrati che, inquadrati presso l’Ufficio del Massimario, svolgono le menzionate funzioni di assistenza presso le sezioni della Corte e possono essere applicati ai collegi per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali. Con il ddl “Bonafede” di riforma dell’ordinamento giudiziario (cfr., infra, il par. 13), a fronte dell’ampliamento del numero della pianta organica della Suprema Corte, si propone di ridurre a 37 il numero dei magistrati facenti parte della pianta organica dell’Ufficio in questione.
[10] In caso di applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità, il magistrato con compiti di assistente di studio, accanto alle funzioni dell’Ufficio del Massimario di cui all’articolo 238, comma 2, lettere da a) ad e) della circolare, può svolgere l’attività di spoglio funzionale alla formazione dei ruoli di udienza.
L’incarico di magistrato con compiti di assistente di studio ha di regola durata annuale, salva motivata esigenza di deroga prospettata dai Presidenti di sezione e disposta dal Primo Presidente sentito il Direttore del Massimario.
Il magistrato, il cui incarico di assistente di studio è scaduto, è destinato a svolgere le ulteriori funzioni dell’Ufficio del Massimario, tenendo conto delle attitudini e delle competenze acquisite.
[11] L’assegnazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità ha durata annuale. In ogni caso, non può essere superiore a tre anni.
Il magistrato, cessata l’assegnazione alle sezioni, è destinato a svolgere le ulteriori funzioni dell’Ufficio del Massimario.
[12] Di cui all'articolo 7-bis, 3° co. r.d. 12/1941 e successive modificazioni.
[13] Di cui all'articolo 7-ter, 1° e 2° co. R.d. 1271941 e succ. mod.
[14] In base alle proposte per la riforma della giustizia civile elaborate dalla Commissione ministeriale nominata dalla Ministra Marta Cartabia in forma di emendamenti al ddl ddl 1662/S/XVIII (“Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”: d’ora in avanti, ddl “Bonafede) presentato al Senato il 9 gennaio 2020, verrebbe introdotta per il giudice di merito - quando deve decidere una questione di diritto su cui ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti - la possibilità di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito, sempre che la questione sia esclusivamente di diritto, nuova, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza; presenti gravi difficoltà interpretative; sia suscettibile di porsi in numerose controversie. Ricevuta l’ordinanza di rimessione (da cui consegue la sospensione del giudizio di merito), il primo presidente, entro i novanta giorni successivi, potrebbe dichiarare inammissibile la richiesta qualora risultassero insussistenti i relativi presupposti, mentre nel caso in cui non provvedesse dichiarare la inammissibilità, assegnerebbe la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente. La Corte di cassazione, in esito ad un procedimento da svolgersi mediante pubblica udienza, deciderebbe enunciando il principio di diritto con un provvedimento vincolante (solo) nel procedimento nel cui ambito è stata rimessa la questione e destinato a conserverà tale effetto, in caso di estinzione del processo, anche nel nuovo giudizio eventualmente instaurato con la riproposizione della domanda.
Si tratterebbe di una innovazione indubbiamente significativa, teoricamente sucettibile di coinvolgere anche il giudice di merito nell’opera di costruzione della nomofilachia, entrando a far parte dell’insieme degli strumenti - tra cui quello relativo al principio di diritto nell’interesse della legge di cui all’art. 363 cpc.- che in vario modo convergono in questa direzione. Ma essa si presta, nel contempo, ad alcune critiche già manifestate in dottrina, a partire da quella che l’innovazione - anziché contribuire al recupero di efficienza e funzionalità del processo - potrebbe avere effetti deresponsabilizzanti per il giudice remittente e produrre il rischio di ingolfare ulteriormente la Corte, che deve assolvere non solo alla funzione di nomofilachia ma anche a quella attinente alla tutela dello ius litigatoris e che è già gravata da carichi enormi a ridurre i quali sono mirate nel complessivo disegno riformatore anche le coeve proposte di riforma relative alla giustizia tributaria.
[15] Si tratta, nell’organizzazione attuale della Corte, della Sesta sezione.
[16] Quest’ultima parte è stata inserita con l’art. 1-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n. 168/2016 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 197/2016. In precedenza l’art. 376 recitava: “Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici".
[17] Le norme di principio dirette a garantire il benessere fisico, psicologico e sociale dei magistrati sono state introdotte per la prima volta con la circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, approvata dal Csm il 25 gennaio 2017
[18] L’ingiustificata violazione del divieto di assegnazione di affari nei periodi di cui agli articoli 16, 17 e 28 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 è valutato ai fini della conferma del dirigente o del conferimento di ulteriori incarichi.
Note di udienza e tutela dell’integrità del contraddittorio nella disciplina emergenziale del processo amministrativo (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, 19 luglio 2021, n. 5404)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La disciplina emergenziale del processo amministrativo: l’alternativa tra la discussione orale ed il deposito delle note d’udienza. – 3. La questione rilevata d’ufficio dal giudice amministrativo ed il problema delle c.d. pronunzie della terza via. – 4. Osservazioni critiche: l’effettività della tutela non può prescindere dall’integrità del contraddittorio.
1. Il caso di specie
La crisi sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19 ha comportato conseguenze rilevanti anche per il processo amministrativo, la cui disciplina ha necessariamente subito delle modifiche, in modo particolare per quanto concerne la possibilità di svolgere il processo da remoto.
Ovviamente, queste innovazioni debbono essere compatibili con l’esigenza fondamentale di ogni processo, ovvero quella di tutelare in modo effettivo e soddisfacente le posizioni giuridiche soggettive che si deducono in giudizio, sia che si tratti di diritti soggettivi ovvero di interessi legittimi.
Il caso oggetto di attenzione da parte della sentenza del Consiglio di Stato che si annota concerne proprio una particolare facoltà concessa dalla disciplina emergenziale del processo amministrativo, con particolare riferimento alle conseguenze che si producono sulla tutela del contraddittorio.
I ricorrenti si oppongono alla realizzazione di un impianto per la produzione di ceramiche con recupero di scorie da termovalorizzazione e, a tal fine, hanno impugnato dinanzi al T.A.R. Lazio la determinazione di V.I.A. (valutazione di impatto ambientale) rilasciata dalla Regione Lazio, deducendo due articolati motivi di gravame per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili.
Nel giudizio di primo grado si sono costituiti la Regione Lazio e la società titolare dell’impianto.
Con note di udienza, le controparti hanno eccepito l’improcedibilità del ricorso per omessa impugnazione della sopravvenuta determinazione regionale recante l’approvazione dell’A.I.A. (autorizzazione integrata ambientale).
Con sentenza n. 12805/2020, il T.A.R Lazio ha dichiarato improcedibile il ricorso proprio per la mancata impugnazione della determinazione recante l’autorizzazione ambientale integrata.
La pronunzia del T.A.R. Lazio è stata impugnata dagli originari ricorrenti, che hanno affidato il gravame a due mezzi di impugnazione.
In particolare, con il primo, hanno dedotto la nullità della sentenza di primo grado in quanto il T.A.R per il Lazio non avrebbe dovuto accogliere l’eccezione proposta per la prima volta da parte resistente e controinteressata nelle note di udienza.
Il T.A.R. Lazio, difatti, avrebbe dovuto rilevare che il deposito di note di udienza presuppone la fissazione di un’udienza da remoto con la presenza delle parti. Tale udienza si svolge solamente a seguito di richiesta delle parti, che nella specie non veniva presentata.
Ragion per cui, il TAR avrebbe dovuto considerare nulle le suddette note e rilevare d’ufficio, se del caso, la questione di rito assegnando termini alle parti per controdedurre sul punto ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.
2. La disciplina emergenziale del processo amministrativo: l’alternativa tra la discussione orale ed il deposito delle note d’udienza
La questione processuale su cui si è soffermata la sentenza del Consiglio di Stato che si annota è peculiare perché sorge da una normativa emergenziale che il legislatore ha dettato per disciplinare l’andamento del processo amministrativo durante l’apice della crisi sanitaria determinata da Covid-19.
La norma di riferimento, difatti, è l’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv. in legge 25 giugno 2020, n. 70, rubricato “Disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia amministrativa”, che ha integrato e modificato, in alcuni casi solo per un limitato arco temporale, il dettato del Codice del processo amministrativo.
In particolare, questa disposizione ha previsto che “a decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici. L'istanza è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite. Negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto. In tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno tre giorni prima della trattazione, l'avviso dell'ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell'udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza”.
La vigenza di questa previsione è stata poi estesa per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si sono tenute dinnanzi ai diversi Tribunali Amministrativi Regionali, al Consiglio di Stato ed al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia sino al 31 luglio 2021 dall’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, che, dettando ulteriori disposizioni per il processo amministrativo, ha ritenuto di estendere questa particolare modalità di svolgimento delle udienze, anche cautelari, dinnanzi al giudice amministrativo.
La disposizione è apparsa sin da subito particolare perché prevede una modalità di discussione della causa alquanto singolare[1].
Il legislatore, difatti, ha dovuto fronteggiare la problematica della presenza fisica dei difensori per la discussione in udienza pubblica o in camera di consiglio per la trattazione delle istanze cautelari[2] resa impossibile dalle misure di contenimento della pandemia da Covid-19, che hanno anzitutto imposto dei limiti alla circolazione delle persone ed un distanziamento sociale oltre che fisico per limitare la diffusione del virus.
Così, con questa norma emergenziale, si è deciso anche per il processo amministrativo di prevedere delle modalità telematiche di trattazione delle controversie tramite una discussione “virtuale” tra i difensori delle parti ed il collegio giudicante.
A tale possibilità il legislatore ha pensato, tuttavia, di aggiungerne un’altra.
Il difensore non solo può richiedere la discussione a distanza, ma può altresì depositare brevi note d’udienza sino alle 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza o della richiesta del passaggio in decisione e, in questo caso, pur non essendovi stata un’effettiva discussione della controversia, anche se solo a distanza, il difensore è considerato presente all’udienza stessa.
Data la particolarità della previsione, occorre comprendere quale sia la portata di queste note di udienza, perché in un giudizio quale quello amministrativo, ove la trattazione scritta della causa è ampiamente articolata dal Codice tra deposito di documenti, memorie e repliche, certamente non possono assumere la portata di un ulteriore scritto difensivo dove inserire questioni nuove che non siano già state dibattute nel contraddittorio tra le parti in considerazione anche del fatto che la tutela dell’integrità del contradditorio[3] è un principio fondante, imprescindibile dello stesso processo amministrativo.
La giurisprudenza amministrativa, preoccupata dall’applicazione concreta che poteva trovare questa facoltà, si è subito affrettata a specificare le modalità di utilizzo delle note di udienza di cui all’art. 4, co. 1, d.l. 28/2020.
In primis, si è stabilito che le note di udienza intervenendo a ridosso dell'udienza, quale ultimo presidio del diritto di difesa prima di essa, e aggiungendosi all'atto introduttivo e alle memorie, devono rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non possono eccedere le tre - quattro pagine) e non possono assolvere alla funzione sostanziale della memoria con una elusione del termine di deposito di quest'ultima, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all'approfondimento collegiale della causa[4].
L'art. 4, co. 1, d.l. n. 28/2020 (cui rinvia l'art. 25 del d.l. n. 137/2020) stabilisce, difatti, che le note di udienza sono alternative alla discussione orale, ma non specifica che la discussione orale debba essere anche chiesta e autorizzata.
Sicché, in assenza di una limitazione espressa, pare preferibile una interpretazione ampia della disposizione, che consenta il pieno dispiegarsi del diritto di difesa, in forma orale o in forma scritta (purché alternativa e non congiunte) a scelta del difensore, fermi restando, ovviamente, i principi di parità delle armi e di correttezza processuale.
Le note d'udienza non possono cioè essere utilizzate per svolgere attività difensive che andavano effettuate nei termini perentori del codice di rito, i quali siano ormai trascorsi, e così per sorprendere le controparti con argomenti che avrebbero dovuto essere spesi nei precedenti scritti difensivi.
Possono, invece, contenere, sia pure succintamente, replica agli argomenti conclusivi delle altre parti, che non era stato possibile introdurre negli scritti precedenti, ovvero una semplice ripresentazione dei profili salienti delle proprie argomentazioni già avanzate[5].
Correttamente, nella lettura della giurisprudenza amministrativa, le note di udienza non possono contenere argomenti difensivi introdotti “a sorpresa” rispetto ai precedenti atti perché deve essere tutelata la pienezza del contradditorio, in considerazione del fatto che, già in sede cautelare, l’opzione prevalente, malgrado il periodo emergenziale, dovrebbe essere quello di garantire la discussione, quanto meno scritta tra le parti.
Ed infatti, in base ad una piana e coordinata lettura delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio (art. 4, d.l. n. 28/2020; art. 55 cod. proc. amm.) nonché della relativa normativa di applicazione deve escludersi che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio (art. 55, co. 5, c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale.
L'interesse a sentire le parti ex art. 73, co. 2, cod. proc. amm. è un'opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti, essendo la discussione orale un'incomprimibile estrinsecazione del diritto di difesa[6].
Peraltro, la discussione orale da remoto deve essere considerata del tutto equivalente rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l'esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale[7].
Al riguardo, è doveroso sottolineare che l’art. 7, d.l. 23 luglio 2021, n. 105, c.d. decreto green pass, ha esteso le disposizioni emergenziali, comprensive dello svolgimento da remoto delle udienze, sino al 31 dicembre 2021 per il processo civile e penale ma non anche per quello amministrativo.
La legge di conversione del decreto, legge 16 settembre 2021, n. 126 ha introdotto un articolo 7-bis, ove, per il processo amministrativo, si è previsto che, “fino al 31 dicembre 2021, in presenza di situazioni eccezionali non altrimenti fronteggiabili e correlate a provvedimenti assunti dalla pubblica autorità per contrastare la pandemia di COVID-19, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possono autorizzare con decreto motivato, in alternativa al rinvio, la trattazione da remoto delle cause per cui non è possibile la presenza fisica in udienza di singoli difensori o, in casi assolutamente eccezionali, di singoli magistrati”.
Questa distinzione, per cui lo svolgimento dell’udienza nel processo civile ed in quello penale sino al 31 dicembre 2021 continua ad essere a distanza mentre per quello amministrativo torna in presenza, salvo decisione diversa dei Presidenti dei Tribunali Amministrativi o delle singole Sezioni del Consiglio di Stato dinnanzi a situazioni eccezionali, francamente è incomprensibile perché la situazione emergenziale è la medesima per tutti i processi e l’equivalenza tra svolgimento da remoto ed in presenza delle udienze vale inevitabilmente anche per il giudizio amministrativo[8].
Tornando alle note di udienze, queste, come si è anticipato, costituiscono una modalità alternativa alla discussione orale del ricorso, configurata dall’art. 4 d.l. n. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020).
Si tratta, dunque, di una facoltà difensiva alternativa a quella della discussione orale.
Tanto che, come è stato chiarito in alcune pronunce, nel caso in cui le parti, per il tramite dei relativi difensori, partecipino alla discussione telematica, le note d’udienza dalle medesime depositate devono essere oggetto di una declaratoria di inutilizzabilità.
La maggiore problematica di queste note d’udienza riguarda il loro contenuto, perché per il loro tramite non si possono introdurre questioni o eccezioni difensive nuove che potrebbero sorprendere le controparti.
La sentenza del Consiglio di Stato che si annota evidenzia correttamente, difatti, come il contraddittorio scritto disciplinato dal Codice del processo amministrativo sia significativamente articolato, suddiviso nella presentazione di memorie e repliche.
Le repliche debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi.
Se ne deve inferire che le note di udienza rappresentano semplicemente una estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica.
Non appare possibile, pertanto, introdurre questioni nuove in precedenza non dibattute, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa[9].
Ancora, per di più, rileva la collocazione delle note di udienza.
Posto che si tratta di scritti depositati in prossimità dell’udienza, è evidente che ad esse deve essere attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi, bensì di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio.
Nel caso di specie, inoltre, rileva la circostanza che, essendo mancata la discussione orale del ricorso, alle quali le parti avevano rinunciato in primo grado, il mezzo utilizzato per introdurre la divisata eccezione di improcedibilità del ricorso per omessa impugnazione della sopravvenuta determinazione regionale, recante l’approvazione dell’A.I.A., si è tradotto in un surrettizio strumento di elusione del contraddittorio sul punto controverso, atteso che sulla questione nuova non è stato possibile replicare nelle ordinarie forme.
Né è possibile argomentare che, giusta la previsione della facoltà delle parti di depositare le predette note entro il giorno antecedente quello stesso dell’udienza, sarebbe stato onere delle ricorrenti verificare anche in extremis gli eventuali depositi di controparte e i relativi contenuti: è evidente infatti che un siffatto modo di argomentare, determinando una sorta di “gara” tra le parti per avere l’ultima parola nei confronti del giudice, non è idoneo ad assicurare il contraddittorio processuale nel modo pieno e leale imposto dai principi costituzionali in materia di “giusto processo”[10].
Le note d’udienza, pertanto, non devono costituire uno strumento di violazione del contraddittorio; le parti hanno la possibilità di articolare le loro difese entro gli ordinari limiti concessi dal Codice del processo amministrativo e le norme eccezionali, dettate per fronteggiare un’emergenza nazionale, non possono divenire norme derogatorie.
Peraltro, la possibilità di depositare note di udienza è alternativa alla richiesta di discussione orale; è quindi evidente che con le stesse si possano compiere solo delle precisazioni sulle memorie e sulle repliche delle controparti così come si potrebbe fare oralmente ma di certo non si può introdurre un’eccezione che non era stata precedentemente formulato.
Ed infatti, al riguardo la sentenza del Consiglio di Stato che si annota evidenzia come “nel caso di specie le parti intimate in primo grado avrebbero avuto tutta la possibilità di evidenziare prima le cause del sopravvenuto difetto di interesse, anziché ridursi all’ultimo momento utile processuale, così precostituendosi, ancorché inconsapevolmente, i presupposti di una eccezione formulata “a sorpresa”, sulla quale controparte non ha potuto replicare né è stata messa nelle condizioni per farlo”.
Ora, chiarita la portata di questi particolari scritti difensivi, occorre comprendere quale sia la conseguenza processuale dell’introduzione, tramite questi, di una questione nuova sul quale non si sia formato il contraddittorio, e cosa succeda in grado d’appello se il giudice di prima cure non rilevi tale aspetto.
3. La questione rilevata d’ufficio dal giudice amministrativo ed il problema delle c.d. pronunzie della terza via
Il Consiglio di Stato ritiene, correttamente, che “il giudice di prime cure, quindi, per un verso avrebbe dovuto considerare l’eccezione alla stregua di una questione nuova, fino ad allora non trattata, come tale inutilizzabile in quanto introdotta per la prima volta con mere note di udienza; per l’altro, ove ne avesse ravvisata la rilevanza ai fini della decisione (come poi accaduto in concreto), avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a, sostanziandosi essa in una questione rilevata ex officio”.
Quindi, il T.A.R. Lazio avrebbe dovuto ravvisare che l’eccezione di sopravvenuto difetto di interesse era stata posta per la prima volta con le note d’udienza, quindi “nuova” rispetto al contraddittorio tradizionalmente instaurato, e dichiararla inutilizzabile, salvo ritenerla rilevante ai fini della decisione ed agire, in questo caso, secondo il disposto dell’art. 73, co. 3 del Codice del processo.
Secondo questa norma, dedicata dal Codice all’udienza di discussione, se il giudice ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, la indica in udienza dandone atto a verbale; se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.
Vi è, pertanto, un vero e proprio obbligo per il giudice amministrativo: questo dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, comma 3, cod. proc. amm. è posto a garanzia della pienezza del contraddittorio; costituisce cioè un meccanismo di tutela volto ad evitare pronunzie "a sorpresa" su profili che esplicano una influenza decisiva sul giudizio[11], con la conseguenza che l'omessa comunicazione di una eccezione rilevata d'ufficio determina nel giudizio di appello l'annullamento con rinvio della causa[12].
Occorre, tuttavia, compiere una precisazione: l'obbligo di attivare il contraddittorio presuppone che il collegio debba pronunciare sopra una questione che assuma valore dirimente ai fini della decisione della causa; tale non è, per definizione, quella inerente l'eccessiva lunghezza di una memoria difensiva attesa la natura meramente illustrativa della stessa[13].
Il Codice si è preoccupato di garantire l’integrità del contraddittorio, tutelando le parti contro le sentenze della terza via pronunziate su questioni nuove, non poste all’attenzione delle stesse.
Il problema è stato avvertito in modo particolare successivamente alla modifica che la legge cost. 23 novembre 1999, n. 2 ha apportato all’art. 111 Cost. ove è stato introdotto il primo comma secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
La necessità di evitare decisioni a sorpresa nel processo amministrativo era già stata, in realtà, evidenziata precedentemente alla modifica costituzionale[14], in quanto si sosteneva, giustamente, che i principi del giusto processo costituzionalizzati nel 1999 fossero già presenti nel nostro ordinamento[15]; la riforma costituzionale ha però avuto l’effetto di valorizzarli ancor di più e portare prima la giurisprudenza e poi il legislatore a riflettere su quali fossero le modalità migliori per tutelare l’integrità del contraddittorio nel processo amministrativo[16], che ha risentito molto, sul punto, anche delle correlative novità apportate nel giudizio civile.
Ed infatti, così come rilevato anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, a pena di nullità della sentenza, è stato espressamente introdotto, nel processo civile, prima per il giudizio di Cassazione con la novella apportata all'art. 384, co. 3, cod. proc. civ. dall'art. 1, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40; poi, in via generale, con quella apportata all'art. 101, co. 2, c.p.c. dall'art. 45, co. 13, della l. 18 giugno 2009, n. 69.
Quest’obbligo, in quanto correlato al potere-dovere del rilievo d'ufficio delle questioni non riservate all'eccezione di parte, quale espressione di un principio generale del processo, doveva ritenersi operante quantomeno dopo l'entrata in vigore delle novelle apportate al cod. proc. civ. anche nel processo amministrativo già nella disciplina previgente l'entrata in vigore del nuovo cod. proc. amm., ove risulta ormai codificato dall'art. 73, co. 3; ma anche a prescindere dalle stesse, esso era, come detto, già in precedenza ricavabile — rectius, ricavato — in via sistematica dalla garanzia costituzionale del giusto processo[17].
L’assunto è condivisibile, ma, come accennato, al di là dell’espressa codificazione della norma del Codice del processo, risulta ancor di più rafforzato dalle modifiche apportate dalla legge n. 69 del 2009 al cod. proc. civ., ed in particolare all’art. 101, dedicato al principio del contraddittorio[18].
Questa norma, difatti, dopo aver previsto che “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”, dispone al co. 2 che “se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”[19].
Come si può notare, al di là della fisiologica differenza dei termini, la norma dell’art. 73, co. 3 del Codice del processo amministrativo presenta un contenuto simile a quanto previsto nel co. 2 dell’art. 101, cod. proc. civ.[20], con la differenza che però questa prevede testualmente, quale conseguenza della sua inosservanza da parte del giudice, la nullità di ogni sentenza della terza via[21]: non è così nel processo amministrativo, perché, la nullità è circoscritta ai soli casi in cui si registra, in concreto, una violazione del contraddittorio come garanzia costituzionale, ex artt. 24, co. 2 e 111, co. 1 Cost., delle parti[22].
La preoccupazione del legislatore di evitare che vi sia una pronunzia assunta su una questione non sottoposta all’interlocuzione delle parti è forte e gli interventi normativi adottati in questo senso paiano adeguati, ma sul punto, sin dall’inizio degli anni 2000, è intervenuta in maniera decisa anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche nella composizione dell’Adunanza Plenaria.
Questa, difatti, già con la sentenza n. 1 del 2000, sulla spinta della riforma sul giusto processo dell’art. 111 Cost., ha affermato in modo risoluto che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio, sulla base dell’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. deve indicarla alle parti[23], per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio[24].
Occorre comprendere, ora, cosa accada alla sentenza di primo grado se il giudice non indica alle parti una questione rilevata d’ufficio, come avvenuto nel caso di specie.
Si è già anticipato che nel processo amministrativo, a differenza di quello civile[25], non vi è una previsione testuale della nullità della pronunzia della terza via.
La conseguenza è chiara: sono nulle soltanto le sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali pronunziate a sorpresa e che implicano, in concreto, un vulnus del contraddittorio come garanzia costituzionale delle parti[26].
Il legislatore dell’art. 73, co. 3 del Codice del processo ha compiuto una scelta limpida, non prevedendo la nullità testuale.
Difatti, se non vi è una violazione del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, la sentenza, in cui non vi è stata indicazione della questione rilevata d’ufficio, potrà essere qualificata come ingiusta, appellata quindi come tale, senza però che infici il campo della validità dell’atto processuale[27].
Nel caso di specie, la presentazione dell’eccezione di improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse da parte resistente e controinteressata nelle note d’udienza concretizza un vulnus del contraddittorio[28], non utilizzabile in quanto questione nuova salvo procedere, laddove giudicata rilevante, a’ sensi dell’art. 73, co. 3 del Codice.
La sentenza del T.A.R. Lazio, non avendo il Collegio proceduto in tali termini, per violazione del contraddittorio, è stata pertanto giustamente considerata nulla da parte del Consiglio di Stato con rimessione della causa al giudice di primo grado ex art. 105, co. 1, cod. proc. amm.
4. Osservazioni critiche: l’effettività della tutela non può prescindere dall’integrità del contraddittorio
La decisione assunta dal Consiglio di Stato, per quanto sopra esposto, appare equilibrata e pienamente condivisibile.
A’ sensi dell’art. 1 del Codice, la giurisdizione amministrativa “assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”[29].
L’effettività della tutela[30] è raggiungibile solamente ove vengano rispettati i principi del giusto processo[31], della pienezza del contradditorio nonché il diritto di difesa delle parti[32].
Ciò non sarebbe possibile ove, pur nella eccezionalità della disciplina dell’art. 4, d.l. 28/2020, si giudicassero legittime eccezioni sollevate nelle note difensive immediatamente antecedenti l’udienza pubblica o la camera di consiglio per la discussione dell’istanza cautelare.
È certamente vero che si tratta di una disciplina eccezionale, dettata per un periodo di emergenza nazionale, in cui è stato impossibile lo svolgimento tradizionale del giudizio amministrativo[33].
Ma questo non può divenire uno strumento attraverso cui introdurre nell’ordinamento processuale una lesione a principi e garanzie di rilevanza costituzionale.
Le note d’udienza sono state pensate dal legislatore come uno strumento alternativo, per di più facoltativo, attraverso cui il difensore, impedito alla discussione “virtuale” della controversia, è considerato presente all’udienza.
In questi brevi scritti si possono precisare questioni o argomenti che erano già presenti negli atti precedenti[34], al limite argomentando brevemente in relazione alla replica di controparte, così come si potrebbe fare discutendo oralmente in udienza[35], ma non si possono introdurre eccezioni nuove, perché la controparte non avrebbe la possibilità di reagire.
Se così fosse ci si potrebbe limitare ad evidenziare questioni di fatto e di diritto secondarie nelle memorie e nelle repliche per poi sollevare l’eccezione risolutiva della controversia nella breve nota antecedente l’udienza.
Al di là di evidenti questioni deontologiche rinvenibili nel comportamento del difensore che così si comportasse, è chiaro che un siffatto ordinamento processuale non potrebbe funzionare, perché la sentenza non sarebbe mai “giusta”[36].
Questa particolare modalità duale di discussione, come si è detto, salvo particolari eccezioni, non è stata rinnovata per il processo amministrativo sino alla fine del 2021, come invece è avvenuto per il processo civile e per quello penale e francamente non si riesce a comprenderne il motivo, perché se il processo è impossibile in presenza per le controversie civili e penali, così dovrebbe essere anche per quelle amministrative.
Ora, a parte questa considerazione di carattere sistematico, occorre sottolineare che la dichiarazione di nullità con rimessione degli atti al primo giudice compiuta dalla pronunzia del Consiglio di Stato che si annota è da condividere in toto.
L’eccezione di improcedibilità contenuta nelle note d’udienza non poteva essere utilizzata dal giudice di primo grado, con la conseguenza che, contravvenendo alla regola dettata nell’art. 73, co. 3 del Codice, la sentenza così pronunziata ha determinato una grave violazione del contradditorio[37].
In casi di così gravi violazioni, il Consiglio di Stato non può che pronunziare la nullità della sentenza, a garanzia della tenuta del sistema[38].
[1] Sull’importanza dell’udienza di discussione nel processo amministrativo cfr. C.E. Gallo, L’impedimento del difensore ed il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, in Foro amm. CdS, 2011, 1031 ss.
[2] Sullo svolgimento “tradizionale” delle udienze cfr. A. Crismani, Le udienze nel processo amministrativo, in Giustamm, 2012.
[3] In generale, su questo principio, cfr. L.P. Comoglio, Contraddittorio (principio del), in Encicl. giur. Treccani, VIII, Agg., Roma, 1997; per l’applicazione nel processo amministrativo v. A. Romano Tassone, Il contraddittorio, in R. Villata, B. Sassani (a cura di), Il codice del processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2012, 383 ss.; con riferimento alla disciplina ante Codice del 2010 cfr. F. Merusi, Il principio del contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 6 ss.; C. Dal Piaz, Sul contraddittorio nel processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 1971. Cfr. ancora, per un inquadramento sistematico del principio, il fondamentale studio di F. Benvenuti, Contraddittorio (dir. amm.), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1961, Vol. IX, 739 ss.; nonché L. Migliorini, Contraddittorio (principio del), in Encicl. giur. Treccani, Roma, 1988, Vol. VIII, 1 ss., secondo cui il contraddittorio “esprime la posizione di eguaglianza che è fatta alle parti nel processo in ordine alla possibilità di elaborazione del contenuto della sentenza”.
[4] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1° febbraio 2021, n. 662, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Così T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 6 maggio 2021, n. 409, in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] Così T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 5 giugno 2020, n. 102, in www.giustizia-amministrativa.it.
[7] Così Cons. Stato, Sez. II, 15 gennaio 2021, n. 24, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui, inoltre, “a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all'interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente)”.
[8] Al riguardo, si condivide il comunicato dell’UNAA, Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti, del 6 settembre 2021, in http://www.unioneamministrativisti.it/comunicato-unaa-dd-6-9-2021/, che, già prima della conversione del decreto in legge, evidenziava come “in Commissione alla Camera è stato approvato un emendamento che si limita a prevedere che la discussione possa avvenire da remoto solo in casi eccezionali, non meglio indicati e lasciati alla discrezionalità dei singoli Presidenti dei TAR e delle Sezioni del Consiglio di Stato, introducendo così un modello ibrido mai nemmeno sperimentato ed aggravando la disparità di trattamento anche all’interno del nostro processo”.
[9] V., ad esempio, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giurisd., ord. 15 gennaio 2021, n. 36, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui “le note di udienza, intervenendo a ridosso dell’udienza (entro le ore 12 del giorno anteriore l’udienza), quale ultimo presidio del diritto di difesa prima di essa, e aggiungendosi all’atto introduttivo e alle memorie, devono rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non possono eccedere le tre-quattro pagine) e non possono assolvere alla funzione sostanziale della “memoria” con una elusione del termine di deposito di quest’ultima”.
[10] Secondo S. Foà, Termine decadenziale e azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi. Dubbi di legittimità costituzionale, nota a T.A.R. Piemonte, Sez. II, 17 dicembre 2015, n. 1747, in Resp. civ. e prev., 2016, 595 ss., “il giusto processo amministrativo deve assicurare, secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo, una tutela piena ed effettiva. Ciò si traduce nella necessità di assicurare che il processo si svolga di fronte ad un giudice terzo e imparziale, nel contraddittorio ed a condizioni di parità tra le parti, senza cioè discriminazioni a vantaggio dell'una o dell'altra”; sul punto ancora Id., Interesse legittimo “disomogeneo” rispetto al diritto soggettivo: ragionevole il termine decadenziale per l’azione risarcitoria, nota a Corte cost., 4 maggio 2017, n. 94, in Resp. civ. e prev., 2017, 1583 ss.; si rinvia altresì a M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, Giappichelli, 2017, 1 ss.; M. Luciani, Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa “giusta”, Relazione al Convegno “La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi”, Castello di Modanella, Serre di Rapolano (Siena), 19 – 20 maggio 2017, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017, 1 ss.; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, 100 ss.; F. Merusi, Sul giusto processo amministrativo, in E. Catelani, A. Fioritto, A. Massera (a cura di), La riforma del processo amministrativo. La fine dell’ingiustizia amministrativa?, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, 8 ss., secondo cui il processo per essere giusto deve poter soddisfare la pretesa dedotta in giudizio; M. Mengozzi, Giusto processo e processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2009, 1 ss.; M. Renna, Giusto processo ed effettività della tutela in un cinquantennio di giurisprudenza costituzionale sulla giustizia amministrativa: la disciplina del processo amministrativo tra autonomia e “civilizzazione”, in G. Della Cananea, M. Dugato (a cura di), Diritto amministrativo e Corte costituzionale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, 552 ss.; S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2004, 1 ss.; v. G. Corso, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo amministrativo: profili generali, in Aa. Vv., Il giusto processo, Accademia nazionale dei Lincei, Roma, 2003, 51 ss.; G. Leone, Brevi note a margine della l. n. 205 del 2000. Un passo avanti verso il «giusto processo amministrativo»?, in Dir. proc. amm., 2001, 645 ss.; M. Cecchetti, Giusto processo (diritto costituzionale), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 2001, Agg., Vol. V, 595 ss; E. Picozza, Il “giusto” processo amministrativo, in Cons. Stato, 2000, 1074 ss.
[11] Profili che si possono concretizzare in qualunque questione di diritto o di fatto nonché ogni elemento valutativo, fino ad allora ignorato, che, se considerato rilevante, esige di venir sottoposto a contraddittorio: sul punto cfr. G. De Giorgi, Poteri d'ufficio del giudice e caratteri della giurisdizione amministrativa, in Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Annuario 2012, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, 23 ss.
[12] Sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. III, 24 marzo 2020, n. 2065, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Così Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1878, in Foro amm., 2020, 418; nonché Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277, in Foro it., 2019, III, 57 ss.
[14] V., ad esempio, C.E. Gallo, Lo svolgimento del giudizio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 520 ss.
[15] Così M.P. Chiti, Influenza dei valori costituzionali e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1994, 117 ss.
[16] Su come il dovere di collaborazione del giudice con le parti, che si concretizza nell’obbligo di indicazione delle questioni rilevate d’ufficio, debba farsi discendere dai precetti costituzionali dell’art. 111, co. 1 Cost. ma altresì dall’art. 24 Cost., cfr. F. Ceglio, Le sentenze della “terza via” nel processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2007, 905 ss.
[17] In tema cfr. l’affermazione di Cons. Stato, Sez. II, 12 dicembre 2019, n. 8447, in Foro amm., 2019, 2003 ss.
[18] Su questa disposizione cfr. D. Buoncristiani, Il nuovo art. 101, comma 2º, c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, in Riv. dir. proc., 2010, 403 ss.
[19] Secondo la giurisprudenza di Cassazione, come ad esempio Cass. civ., Sez. III, 5 maggio 2021, n. 11724, in Giust. civ. Mass., 2021, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, stabilito dall'art. 101, co. 2, cod. proc. civ., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese.
[20] Secondo G. Crepaldi, Le pronunce della terza via, Torino, Giappichelli, 2018, 67, “in entrambi i giudizi, civile ed amministrativo, deve ammettersi che le rispettive discipline consentano l’introduzione di tutti gli strumenti utili ad una difesa in senso ampio, dal deposito di memorie contenenti le rispettive posizioni e le ragioni giuridiche rispetto alla questione rilevata d’ufficio, sino alla produzione di mezzi di prova, primi fra tutti i documenti, compresa la possibilità che le parti rimodulino la propria pretesa modificando le domande e le eccezioni già presentate”.
[21] In tema cfr. M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della “terza via”, in Riv. dir. proc., 2010, 827 ss.; A. Giordano, La sentenza della “terza via” e le “vie” d'uscita. Delle sanzioni e dei rimedi avverso una “terza soluzione” del giudice civile, in Giur. it., 2008, 913 ss.
[22] Sul punto cfr. L. Bertonazzi, Forma e sostanza nel processo amministrativo: il caso delle sentenze “a sorpresa” e dintorni, in Dir. proc. amm., 2016, 1048 ss., che riprendendo le parole di S. Chiarloni, Questioni rilevabili d'ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 569 ss., osserva come si è evitato di importare nel processo amministrativo “un caso tipico formalismo delle garanzie”.
[23] Quest’orientamento dell’Adunanza Plenaria non era condiviso da parte della dottrina perché si riteneva che l’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. non potesse ricomprendersi tra le norme di diritto processuale comune applicabili (anche) al processo amministrativo né estensibile allo stesso in via analogica stante la sua stretta attinenza alle funzioni — collaborative rispetto alle parti in causa — proprie del giudice istruttore nell'ambito della prima udienza di trattazione: così, ad esempio, G. Iudica, Questioni rilevabili d'ufficio e contraddittorio nel processo amministrativo, in LexItalia, n. 1/2000.
[24] Cons. Stato, Ad. Plen., 24 gennaio 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 305, con nota di A. Travi, Riduzione del termine per l'appello nei giudizi in tema di opere pubbliche; in Dir. proc. amm., 2001, 12 ss., con nota di F. Ceglio, L’Adunanza Plenaria indica un nuovo modello di processo amministrativo: la decisione n. 1 del 2000.
[25] Sulle sentenze della terza via nel processo civile cfr., ad esempio, S. Chiarloni, Efficienza della giustizia, formalismo delle garanzie e sentenze della terza via, in Giur. it., 2011, 208 ss.; C. Consolo, Questioni rilevabili d'ufficio e decisioni della terza via: conseguenze, in Corr. giur., 2006, 507 ss.; L.P. Comoglio, “Terza via” e processo “giusto”, in Riv. dir. proc., 2006, 758 ss.; E.F. Ricci, La sentenza “della terza via” e il contraddittorio, in Riv. dir. proc., 2006, 751 ss.; E. Fabiani, Rilievo d'ufficio di “questioni” da parte del giudice, obbligo di sollevare il contraddittorio delle parti e nullità della sentenza, nota a Cass., Sez. III, 5 agosto 2005, n. 16577, in Foro it., 2006, 3181 ss.; F.P. Luiso, Questione rilevata di ufficio e contraddittorio: una sentenza “rivoluzionaria”?, nota a Cass. civ., Sez. I, 21 novembre 2001, n. 14637, in Giust. civ., 2002, 1612; L. Montesano, La garanzia costituzionale del contraddittorio e i giudizi civili di “terza via”, in Riv. dir. proc., 2000, 929 ss.; V. Denti, Questioni rilevabili di ufficio e contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1968, 217 ss.
[26] Come evidenziato, già con riferimento al processo civile, da E. Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1966, 580 ss., “contrariamente a ciò che alla superficie può apparire, l'inosservanza del dovere del giudice di stimolare il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevabili d'ufficio non mette in giuoco, di per sé... il principio del contraddittorio [come garanzia costituzionale delle parti] e la correlativa nullità che sanziona il suo mancato rispetto. Trattandosi del dovere di sollecitare la previa discussione su questioni che appartengono al patrimonio del comune sapere di tutti i soggetti del processo, il principio che viene in considerazione è un altro, la cui trasgressione non comporta (e sarebbe irragionevole che comportasse) la nullità della sentenza. Si tratta del principio di reciproca collaborazione del giudice con le parti”.
[27] In generale, sul tema, v. C.E. Gallo, Contributo allo studio della invalidità degli atti processuali nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1983.
[28] Si deve evitare la formazione del giudicato a sorpresa, che “è un attentato alla parità delle armi, e quindi all'idea del giusto processo”: così F.P. Luiso, Voilà m'sieurs dames, les jeux sont faits! Giudicato a sorpresa e cultura del giusto processo, in www.judicium.it, 2012.
[29] F.G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi e domani (brevi considerazioni), in Dir. proc. amm., 2020, 1095 ss., ritiene che “l’attuale orientamento della giurisprudenza sia, in ordine a tale fondamentale principio, piuttosto arretrato”.
[30] In linea generale, secondo I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in G.D. Comporti (a cura di), La giustizia amministrativa come servizio (tra effettività ed efficienza), Firenze, Firenze University Press, 2016, 85, il concetto di effettività deve valorizzare il principio chiovendiano, “in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”; l’affermazione del principio è di G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1930, Vol. I, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1923, ora in Principi di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1965, 81, secondo cui "il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire". C.E. Gallo, Servizio e funzione nella giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 73 ss., nell’affermare che la giustizia amministrativa non può essere qualificata come servizio pubblico ma come funzione, ricorda che il sindacato prestato dal plesso giurisdizionale T.A.R. – Consiglio di Stato deve essere pieno e completo sull’attività dell’amministrazione: in questo senso occorre leggere l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo; in merito cfr. altresì le osservazioni di M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss. Sul punto cfr. altresì S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene, 2012; C. Feliziani, Effettività della tutela nel processo o nel procedimento? Convergenze e divergenze tra il sistema italiano di giustizia amministrativa e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Dir. proc. amm., 2019, 758 ss.
[31] In tema v. M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, Giappichelli, 2017.
[32] Al riguardo si concorda con F.G. Scoca, Processo amministrativo e giusto processo, in Dir. e proc. amm., 2021, p. 1 ss., secondo cui il processo amministrativo si è profondamente evoluto fino ad essere almeno in potenza uno strumento pienamente efficace di tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Occorre, però, che lo strumento potenziale di piena tutela divenga effettivo: sul punto v. le considerazioni di C.E. Gallo, Attualità del giudice amministrativo, in Giustiziainsieme, 15 giugno 2021.
[33] In tema di norme eccezionali dettate durante il periodo di emergenza sanitaria occorre fare riferimento altresì all’art. 84, d.l. 18 marzo 2020, n. 18 ove si è previsto solo la possibilità per le parti di chiedere la discussione orale dell’istanza cautelare, andando altrimenti in decisione sulla base solamente degli atti difensivi scritti: in tema cfr. C.E. Gallo, La discussione scritta della causa nel processo amministrativo, in Giustiziainsieme.it, 16 luglio 2020; F. Saitta, Il processo cautelare alle prese con la pandemia, in LexItalia, 16 giugno 2020, 1 ss.; cfr. C. Cacciavillani, Controcanto sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo (con riferimento all’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28), in GiustAmm, n. 5-2020, 1 ss.; F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Federalismi, Osservatorio Covid-19, 15 aprile 2020, 3 ss., che evidenzia come neanche la crisi sanitaria che stiamo vivendo può far immaginare una giustizia amministrativa che non garantisca una tutela piena nei confronti dell’Amministrazione; in tema v. anche Id., L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in Federalismi, Osservatorio Covid-19, 23 marzo 2020, 1 ss.; M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in L’Amministrativista.it, 2020; Id., Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in L’Amministrativista, 1° maggio 2020 N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più speciale, in GiustAmm, 2020, 1 ss.
[34] In considerazione del fatto che, come evidenziato dalla giurisprudenza (ad esempio, Cons. Stato, Sez. II, 30 settembre 2019, n. 6534, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Toscana, Sez. II, 3 aprile 2019, n. 491, in Foro amm., 2019, 688 ss.), già l'oggetto della memoria di replica depositata dalla parte entro il termine di 20 giorni liberi prima dell'udienza di discussione deve restare contenuto nei limiti della funzione di contrasto alle difese svolte nella memoria conclusionale avversaria.
[35] Ai sensi dell’art. 73, co. 2 del Codice, difatti, “nell'udienza le parti possono discutere sinteticamente”.
[36] E le parti non si troverebbero in posizione di parità: sul punto cfr. le riflessioni di V. Domenichelli, Per un processo amministrativo paritario, in Dir. proc. amm., 1996, 415 ss.
[37] Si concorda con F. Saitta, La “terza via” ed il giudice amministrativo: la “questione rilevata d’ufficio” (da sottoporre al contraddittorio) tra legislatore e giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 2014, 827 ss., secondo cui “nessuna valida ragione — tantomeno quella del carico dei ruoli, che peraltro dovrebbe essere stato reso meno gravoso dal progressivo aumento del contributo unificato, che in alcune materie è divenuto talmente esorbitante da apparire incompatibile con la normativa comunitaria — può ormai giustificare esenzioni del giudice amministrativo dall'obbligo di sottoporre al contraddittorio le questioni rilevate d'ufficio”.
[38] Per evitare che il “giusto processo” rimanga “un’inafferrabile chimera”: sul punto v. le interessanti riflessioni di L.P. Comoglio, Requiem per il processo giusto, in www.judicium.it, 2013.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme. 3) Paolo Veronesi
Intervista di Roberto Conti a Paolo Veronesi
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato- sentenza n.242/2019 e ord. n.207/2018-. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
Il quesito referendario non si sovrappone affatto a quanto sancito dalla sent. n. 242/2019 sull’aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., ma – potremmo dire – vi si affianca. Esso non dà insomma attuazione a quella pronuncia (che tanti ostacoli sta illegittimamente incontrando), ma s’interessa di un reato diverso eppure strettamente collegato (l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p.): lo intende insomma rimodulare procedendo oltre quella decisione. Il quesito oggi sul tavolo non realizza dunque alcuna “indebita interferenza” sul legislatore, se mai un referendum (ogni referendum) possa essere letto in questi termini. Ciò vale specialmente in questo caso. Va infatti considerato che il legislatore, specie sui temi biogiuridici, accumula da sempre ritardi impressionanti e appare tradizionalmente propenso all’ostruzionismo o all’immobilismo. Anche il disegno di legge approvato dalla Commissione Giustizia della Camera il 6 luglio scorso, non si occupa minimamente di omicidio del consenziente, ricalcando soltanto quel che è sancito nella sent. n. 242/2019. Al contempo, la storia italiana prova che sono pari a zero le possibilità che un disegno di legge d’iniziativa popolare giunga a destinazione. In un quadro simile, proporre questioni di legittimità o attivare la c.d. “seconda scheda” – quella referendaria – costituisce semplicemente uno “strumento” per ottenere qualche risultato. Come un corso d’acqua che veda sbarrato il proprio cammino cercherà altri sbocchi a valle, lo stesso atteggiamento adotta chi intenda perseguire i propri legittimi obiettivi dopo aver cozzato contro l’inerzia e l’indifferenza parlamentare. È insomma naturale, in un contesto simile, rivolgersi ad altri istituti comunque previsti dalla Costituzione – referendum compreso – per giungere alla meta. Questa volta ciò avviene, tra l’altro, su un tema che riporta il referendum alla sua ratio originaria, sottoponendo all’elettore una questione chiara e precisa che riguarda direttamente l’esistenza di tutti e sulla quale tutti dovrebbero misurarsi: non è sempre stato così. Che poi ciò si traduca in una domanda referendaria ammissibile, alla luce della contorta e imprevedibile giurisprudenza costituzionale in materia, è un’altra questione: le variabili elaborate dalla Consulta sono ormai tali e tante che i suoi giudizi, in questo campo, sono diventati del tutto imprevedibili e non sempre comprensibili.
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art.579 c.p. e non sull’art.580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
In base al modo in cui la Corte è venuta via via configurando il suo giudizio sull’ammissibilità dei referendum, non credo siano immediatamente trasferibili, nel giudizio oggi richiesto alla Corte, gli argomenti che la stessa Consulta ha utilizzato nella sua pur fondamentale sent. n. 242/2019. Se lo fossero, la Corte dovrebbe leggere il quesito sull’art. 579 c.p. come se esso incorporasse quanto già stabilito nella sua sentenza relativa all’art. 580 c.p. (la n. 242/2019, appunto). Mi pare invece che la Corte potrebbe ribadire quanto essa stessa ha sancito in un passaggio della sentenza da ultimo citata, applicando, in aggiunta, i fondamentali principi di legalità, tassatività e determinatezza alla fattispecie penale in discorso. Nella sent. n. 242 la Consulta precisò infatti che l’art. 580 c.p. non avrebbe consentito, stante il suo tenore letterale, alcuna interpretazione adeguatrice che “aprisse” alle ipotesi di aiuto al suicidio per i malati rientranti nelle condizioni in cui versava djFabo: era perciò assolutamente indispensabile un suo intervento di drastica ricalibratura costituzionale della norma e bene aveva fatto il giudice a sollevare la quaestio. Nella sent. n. 13/2012 essa ha inoltre affermato, in tutt’altro contesto, che i referendum abrogano disposizioni e non norme. Seguendo queste logiche, le medesime conclusioni credo dovrebbero ribadirsi anche per il testo dell’art. 579 c.p. che residuasse dopo l’eventuale abrogazione referendaria. Senza coinvolgere la Corte costituzionale – o senza l’improbabile intervento del legislatore – non sembrerebbe quindi possibile leggere l’art. 579 c.p. post-referendum procedendo oltre il tenore letterale dell’ipotetica normativa di risulta. La Corte ha del resto escluso di poter svolgere, nell’ambito dei giudizi di ammissibilità sui referendum, i tipici interventi che essa invece adotta nel quadro del suo sindacato incidentale. Più volte la Consulta ha quindi sottolineato che il giudizio di ammissibilità si atteggia «con caratteristiche specifiche a autonome», «in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge» (si v., ad esempio, la sent. n. 46/2005). Il quesito dev’essere insomma “autosufficiente”, delineando con chiarezza ciò che sarà prodotto per suo tramite, né il giudizio di ammissibilità si presta a ospitare, nella propria trama, pronunce di carattere sostanzialmente interpretativo di quanto si va a rimodulare abrogando. Sono aspetti che paiono acquistare un particolare rilievo proprio nel contesto penale.
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpita dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione ?
Se con la domanda s’intende sollecitare una presa di posizione sulla natura manipolativa del quesito referendario (inammissibile ai sensi della giurisprudenza costituzionale), ovvero sul suo dar vita a una mera abrogazione parziale (che darebbe il via libera alla richiesta dei promotori), ritengo di dover accogliere questa seconda opzione. Del tutto a prescindere, sia chiaro, dall’esistenza di altre possibili ragioni di inammissibilità della richiesta, estraibili tra le tante e variegate che la Corte ha via via elaborato in materia. Pur adottando la c.d. “tecnica del ritaglio”, più volte analizzata e precisata dalla Corte (si v. ad esempio le sentt. n. 26 e n. 27/2017), il quesito non presenta infatti un carattere fantasiosamente propositivo/manipolativo di disposizioni vigenti, bensì una portata effettivamente demolitoria. Esso si concentra infatti su un unico reato, interamente disciplinato dall’articolo oggetto di referendum, «proponendo l’ablazione» di un corpo di disposizioni autonome in esso presenti (come si legge nella sent. n. 27/2017). Il suo scopo è insomma quello di abolire semplicemente un divieto (di natura penale), e, proprio tramite questa operazione chirurgica, una condotta fino ad oggi vietata diverrebbe consentita (sent. n. 49/2005). Come afferma la Corte, si andrebbe con ciò «ad abrogare parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore senza sostituire a essa una disciplina estranea allo stesso contesto normativo», né costruendo «una nuova norma mediante la saldatura di frammenti lessicali eterogenei» e concepiti ad altri fini. Il quesito non sarebbe cioè per nulla finalizzato a dar vita a una disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento (sentt. nn. 36/1997, 13/1999, 33 e 34/2000, 26/2017). Il ritaglio, nel caso specifico, produrrebbe cioè solo la legittima «riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo» e finora «compressa per effetto dell’applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum» (sent. n. 27/2017, ma così già nelle nn. 13/1999, 33 e 34/2000, 15 e 16/2008): abrogate quelle specifiche disposizioni, quanto sin qui proibito diverrebbe consentito. Si avrebbe dunque omogeneità, chiarezza e non contraddittorietà del quesito, il quale parrebbe insomma presentare una matrice razionalmente unitaria. Non nascondo tuttavia che una qualche ambiguità potrebbe emergere ove si volessero esasperare le diverse (possibili) intenzioni di chi propone il referendum e di chi sarebbe chiamato a votarlo: si intende cioè semplicemente replicare quel che è sancito nella sent. n. 242/2019 o si sta operando per introdurre nell’ordinamento, tranne che in alcuni casi, il principio della piena disponibilità della propria vita (andando, cioè, al di là di quanto stabilito in quella stessa pronuncia)? Ma non credo che sarà questo il nodo della questione. I veri problemi – in base alla pregressa giurisprudenza della Corte – mi pare si collochino su un altro piano.
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art.580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
È proprio nel rispondere a questa domanda che emergono – alla luce dei precedenti giurisprudenziali in materia di referendum – i maggiori rischi di una pronuncia che sbarri le porte alla consultazione.
La Corte ha spesso sottolineato che quanto rileva, ai fini del suo giudizio di ammissibilità, va desunto esclusivamente dalla «finalità incorporata nel quesito», ossia da quanto si ricava in base alla sua formulazione. Il quesito oggi in esame, valutato in sé e per sé, e senza scandagliare altre possibili intenzioni dei proponenti (v. la risposta alla domanda n. 2, in fine), pone dunque un’alternativa netta all’elettore, il quale è messo «in grado di percepire immediatamente e con esattezza le possibili conseguenze del suo voto» (sent. n. 28/2017). Questo è del tutto conforme ad altre prese di posizione della Consulta, per le quali «ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare se essa abbia… un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (45/2005).
In base a ciò, la conseguenza dell’eventuale abrogazione prodotta dall’esito positivo del referendum sembrerebbe univoca: il reato di omicidio del consenziente verrebbe abrogato, salvo continuare a punirsi con le norme dell’omicidio le circoscritte ipotesi di persona minore, inferma di mente o il cui consenso sia stato estorto. Per le ragioni già espresse replicando al quesito n. 2, non pare inoltre sia possibile sottoporre la normativa di risulta a interpretazioni diverse rispetto a quelle fatte palesi dal dettato residuo dell’art. 579 c.p. Tanto più che si ragiona di una fattispecie penale, per la quale vigono, dunque, i già citati principi di tassatività e di determinatezza, essendo vietata l’interpretazione analogica e dovendosi altresì evitare impropri spazi d’azione per il soggettivismo dei giudici.
A questo punto, si dovrebbe però verificare se, come afferma la Corte, «la legge ordinaria da abrogare incorpori determinati principi o disposti costituzionali, riproducendone i contenuti o concretandoli nel solo modo costituzionalmente consentito», ma anche soltanto stabilire se essa concreti «quel minimo di tutela che determinate situazioni esigono secondo Costituzione: sicché la richiesta di referendum, attraverso la proposta mirante a privare di efficacia quella legge, tenda in effetti a investire la corrispondente parte della Costituzione stessa» (sent. n. 26/1981).
È in questo passaggio che – mi pare – si celi un problema.
Le disposizioni residuate dall’abrogazione parrebbero infatti annullare una tutela minima per situazioni che invece la esigono secondo Costituzione, almeno per come la Corte ha sin qui interpretato l’ambito d’intervento del diritto alla vita. In altri termini, la formulazione del quesito lascerebbe intendere che l’abrogazione sia destinata a incidere su una porzione di normativa e di tutele che la Corte, in base ai suoi precedenti, sembra ritenere costituzionalmente necessarie o, addirittura, a contenuto costituzionalmente vincolato (sentt. nn. 16/1978, 26/1981 e 45/2005). Più di preciso, ciò scaturirebbe da quanto la Corte stessa ha isolato proprio nella sent. n. 242/2019, che è ben più restrittiva rispetto alla sentenza costituzionale tedesca del 26 febbraio 2020, la quale (sempre in materia di aiuto al suicidio) punta decisamente l’accento sull’autodeterminazione individuale dei singoli, a prescindere da ogni motivazione, giustificazione o patologia del soggetto. La Consulta ha invece stabilito che solo i malati rientranti nelle quattro condizioni critiche da essa indicate nella sent. n. 242 possano legittimamente aspirare all’aiuto medico a morire, non già altri soggetti. Del resto, anche nella precedente ord. n. 207/2018, essa aveva altresì specificato che non si potrebbe comunque aprire a qualsiasi ipotesi di suicidio assistito fondandosi su un «generico diritto di autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita». Se il quesito referendario oggi in discussione venisse accolto dagli elettori, in base al “nuovo” testo dell’art. 579 c.p. – senza ulteriori correzioni legislative o introdotte dalla Consulta – potrebbe invece chiedere di essere sottoposto a eutanasia non solo chi presentasse il quadro clinico e psicologico delineato nella “sentenza Cappato”, ma chiunque non ricadesse nelle ipotesi che continuerebbero a essere disciplinate e punite dall’art. 579 c.p. emendato. Vale a dire che anche una persona perfettamente sana, per una qualsiasi ragione e in base a sue scelte personalissime, sarebbe in grado di assumere una simile decisione e chiedere di finirla. L’approdo del referendum – in base al suo stesso quesito – andrebbe quindi al di là di quanto plasmato dalla Corte nel cesellare l’illegittimità parziale dell’art. 580 c.p.
Lo stesso problema emerge anche da un altro profilo dell’art. 579 c.p., ove si ragiona di “chiunque” provocasse l’omicidio di un soggetto consenziente: questi non verrebbe più punito se non nei casi non coinvolti dalla richiesta abrogazione. Ma se davvero la Corte confermasse quanto ho sintetizzato in risposta alla domanda n. 2, anche in tal caso non sarebbero estensibili al quesito in esame le precisazioni indicate nella sent. n. 242/2019, ove la Consulta non ha aperto affatto all’aiuto al suicidio praticato da chicchessia e in qualunque luogo.
Sono tutte questioni che il quesito non risolve da sé e che la Corte – in base alla sua giurisprudenza – credo sarebbe difficilmente disponibile ad affrontare nell’ambito di un giudizio di ammissibilità. Con simili precedenti si deve fare i conti: la storia del referendum in Italia poteva certo essere diversa ma così non è stato.
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n.242/2019?
Penso che la risposta al quesito n. 5 sia già insita nella mia replica alla domanda n. 4.
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
Se la Corte dichiarasse ammissibile il referendum, non credo che ciò produrrebbe un’accelerazione dell’iter del disegno di legge ora all’esame del Parlamento. Per certi versi, si potrebbe addirittura generare l’effetto contrario: molti parlamentari potrebbero cioè preferire attendere il responso popolare, sperando, ad esempio, che ciò possa essere poi strumentalmente brandito per bloccare tutto, come massimamente accadrebbe se il corpo referendario bocciasse il quesito (in base ai sondaggi e al successo della raccolta delle firme non credo però che accadrebbe) o manifestasse il suo disinteresse (sperando che venga a mancare il quorum, magari mettendo in campo la strategia opportunistica già vista all’opera per i referendum sulla legge n. 40/2004). In ogni caso, come sottolineavo, il ddl ora in discussione alle Camere non riguarda affatto l’oggetto del referendum, limitandosi ad attuare quanto già contenuto nella sent. n. 242/2019 con riguardo all’art. 580 c.p.: esso opera dunque su un piano diverso e solo parallelo al quesito. Si potrebbe magari assistere a un maggior impegno parlamentare se una maggioranza rinvenisse in ciò lo stratagemma per bloccare la consultazione eventualmente ammessa dalla Corte, introducendo tempestivamente una nuova disciplina sostanziale dell’art. 579 c.p. Se poi il referendum superasse tutti gli ostacoli e raggiungesse i suoi obiettivi, magari il Parlamento ne trarrà stimolo per intervenire, coordinando e integrando opportunamente la disciplina non solo dell’art. 580 c.p. – come sembrerebbe intenzionato – ma anche dello stesso art. 579 c.p. Ma sono tutte ipotesi teoriche. Nell’immediato, se la Corte dichiarerà inammissibile il quesito, dovremo di certo assistere alla consueta passerella: mi attendo assurde prese di posizione secondo le quali la Corte si sarebbe in tal modo espressa per l’illegittimità tout court dell’aiuto medico a morire sub specie di eutanasia volontaria.
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
Temo che, in base a quanto ho già illustrato e alla luce della contorta giurisprudenza in materia, siano maggiori le possibilità che la Corte blocchi il quesito piuttosto che lo ritenga ammissibile. Ciò anche senza indulgere nell’applicazione di un altro (controverso) criterio che la Corte ha talvolta utilizzato e che sarebbe bene abbandonasse. Mi riferisco alla verifica anticipata della legittimità della normativa di risulta, che, in alcune pronunce, la Corte stessa ha peraltro dichiarato non doversi mai praticare (ad esempio, nelle sentt. nn. 26/1981 e 27/2017). Se poi la Corte decidesse di usare proprio questo discutibile criterio, credo che i problemi di ammissibilità aumenterebbero. Ciò in base a quanto ho illustrato in risposta ai quesiti 2 e 4, nonché per l’esigenza di sondare la legittimità della normativa residua anche nella sua ragionevole o irragionevole congruità rispetto a quanto affermato dalla Corte stessa sull’art. 580 c.p. Come dicevo, l’eventuale decisione d’inammissibilità verrà poi interpretata e sbandierata da molti – per insipienza o malafede – come una pronuncia d’illegittimità pro futuro di ogni possibile normativa in materia di eutanasia. Sul piano politico, ciò verrà probabilmente usato per inibire, in questa fase, ogni evoluzione ulteriore rispetto a quanto sancito nella sent. n. 242/2019, benché l’una cosa non comporti affatto l’altra. Ammesso e nient’affatto concesso che, poi, a una legge sull’aiuto al suicidio finalmente si arrivi, e che la prospettiva di andare anche un po’ “oltre” – coinvolgendo lo stesso art. 579 c.p. – abbia mai avuto concrete possibilità di successo in seno all’attuale Parlamento. Pur essendo questa, a mio avviso, un’opzione del tutto legittima e, anzi, ormai necessitata.
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