ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Gaetano De Amicis a P. Gianniti, Diritti fondamentali e giudice comune. Verso un sistema europeo di tutela integrata, Aracne, 2022, pp. 793; P. Gianniti, Corti supreme e diritti fondamentali. Verso una nomofilachia europea, Aracne, 2022, pp. 880.
Un vasto affresco dedicato ai grandi ed affascinanti temi del diritto europeo nelle sue varie declinazioni, all’analisi dei rapporti fra Corti nazionali e sovranazionali e all’individuazione delle più efficaci forme di protezione dei diritti fondamentali all’interno di un sistema europeo di tutela integrata, la cui edificazione in fieri necessita di uno sforzo di crescita culturale da parte dell’intera comunità dei giuristi europei: questo il filo conduttore delle numerose questioni problematiche condensate in due volumi, fra loro strettamente collegati, che l’Autore, Consigliere della Corte di Cassazione, ha offerto, con straordinaria ricchezza di contenuti e rara limpidezza espositiva, all’attenzione non solo degli specialisti del settore, ma anche dei giovani magistrati ed avvocati che intendano avvicinarsi ad uno studio approfondito di tematiche tanto complesse, quanto attuali nell’odierna esperienza delle vicende giuridiche e delle relazioni inter-giurisdizionali sullo scenario geopolitico europeo.
Nel primo lavoro monografico, ampiamente articolato nella sua rigorosa impostazione metodologica, l’Autore affronta con nitore argomentativo e dovizia di riflessioni critiche le tematiche, di centrale rilevanza, legate alla posizione dei giudici nazionali e al loro contributo di “garanzia” quali giudici “naturali” dei diritti tutelati in sede convenzionale o euro-unitaria.
L’opera è suddivisa in una parte generale e in una parte speciale.
Nei primi due capitoli della parte generale”, dedicata all’esame dei presupposti giuridico−politici dell’integrazione europea, vengono ampiamente richiamate le basi ideali e le attività dei movimenti europeisti, unitamente alle opere delle personalità e delle organizzazioni cui è stata legata l’evoluzione storica della “grande” e della “piccola” Europa.
Nel terzo, quarto e quinto capitolo della parte generale vengono esaminati i rapporti fra i diversi ambiti dell’integrazione europea e la tutela dei diritti fondamentali nel quadro dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione, evidenziando i nessi di collegamento con il ruolo di garanzia svolto dalle corti nazionali ed europee.
La parte speciale è dedicata ad una organica ed approfondita trattazione espositiva dei singoli livelli di tutela dei diritti fondamentali (quello nazionale, quello convenzionale e quello comunitario), con particolare attenzione al ruolo assunto oggi dal giudice comune, quale “motore” del vigente sistema europeo di tutela integrata, nell’ambito di un “costituzionalismo multilivello” che vede la compresenza negli ordinamenti interni dei singoli Paesi membri dell’Unione di tre – diversi, ma strettamente connessi - sistemi di salvaguardia dell’ormai ampio catalogo dei diritti fondamentali.
La diversa tipologia di strumenti interpretativi a disposizione del giudice comune gli permette di “collaborare” pienamente, in forma interattiva, al dialogo giudiziario intessuto nella dimensione dei rapporti euro-unitari e convenzionali, dando luogo ad una “comunità giuridica europea” orientata verso l’obiettivo della massima espansione dei livelli di garanzia del contenuto dei diritti fondamentali.
Nel secondo, ancor più ponderoso, studio monografico, dal titolo Corti supreme e diritti fondamentali. Verso una nomofilachia europea, pubblicato dall’Autore per i tipi della stessa casa editrice, si pone il tema centrale del contributo che la nomofilachia della Corte di cassazione, unitamente ad altre Corti, nazionali ed europee, potrebbe offrire alla crisi della certezza del diritto, quale elemento fondamentale dell’esperienza giuridica e principio cardine dell’Unione europea e dei suoi Stati membri, con particolare riferimento al settore dei diritti fondamentali.
I due volumi, fra loro complementari, esplorano tematiche strettamente contigue, la cui analisi critica deve essere condotta necessariamente in forma incrociata, attraverso uno sguardo sinottico volto a comporne le diverse implicazioni operative in un quadro unitario.
In questo secondo lavoro monografico, in particolare, il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, con tutti i problemi legati alla gestione del suo enorme contenzioso, viene esaminato inquadrandone l’esercizio delle complesse funzioni – sia di definitiva risoluzione della questione oggetto del caso concreto nell’ultimo grado di giudizio (ius litigatoris), che di guida e orientamento nella elaborazione di un consolidato quadro di principii destinato ad orientare le future decisioni di merito a garanzia dell’unità del diritto nazionale (ius constitutionis) - al crocevia di un sistema multilivello di fonti, che innesca un dialogo ermeneutico circolare nel rapporto con le altre Corti supreme dei diversi ordinamenti nazionali e con le stesse Corte europee.
La parte generale viene dedicata ad un’ampia trattazione dei caratteri fondamentali e delle funzioni della moderna nomofilachia a livello nazionale, ponendone in rilievo i nessi con i grandi temi della ermeneutica contemporanea, della formazione del precedente negli ordinamenti di civil law e di common law e del mutamento del ruolo del giudice all’interno di un ordinamento multilivello a carattere, ormai, non più piramidale, bensì “reticolare”, a seguito del progressivo espandersi del diritto convenzionale e di quello euro-unitario.
Nella parte speciale, articolata in più sezioni, vengono esaminate, in particolare: a) le relazioni del giudice di legittimità con i giudici di merito e la Corte costituzionale; b) quelle con le altre Corti di ultima istanza a livello nazionale (Consiglio di Stato e Corte dei conti), evidenziando il problema della formazione di nomofilachie divergenti in materia di diritti fondamentali; c) il circuito dei rapporti con le altre Corti supreme di legittimità degli altri Paesi europei, con la Corte di giustizia e la Corte EDU, evidenziando i casi emblematici di dialogo e mancato dialogo, per mettere in luce, infine, la tensione dell’intero sistema di tutela dei diritti fondamentali verso la costruzione di una “nomofilachia europea”, con la conseguente trasformazione del contenuto delle funzioni svolte non solo dalla Corte di cassazione, ma da tutte le Corti di legittimità operanti nei diversi ordinamenti nazionali.
Utili riferimenti storici sull’unicità della Corte di cassazione nazionale e sull’evoluzione del ruolo esercitato dal supremo organo della nomofilachia si accompagnano, in una prospettiva diacronica, ad una vasta ed approfondita analisi della progressiva incidenza sul diritto interno delle Carte dei diritti fondamentali e dell’attività interpretativa delle Corti europee (Corte di giustizia e Corte EDU), nell’ambito di uno spazio territoriale europeo ove il giudice comune viene a porsi come organo giudiziario di riferimento sia per l’ordinamento euro-unitario che per quello convenzionale.
L’Autore mette in risalto la portata del fenomeno, sottolineando la possibilità che l’interpretazione della legge nel giudizio di legittimità venga rimessa in discussione, sotto vari profili, da organi giurisdizionali estranei all’assetto nazionale dell’ordine giudiziario, attraverso pronunce cui si riconosce una peculiare efficacia, non limitata all’ordinamento sovranazionale di riferimento, ma direttamente rilevante anche in quello interno, sì da determinare, in alcuni casi, l’eventuale superamento della intangibilità del giudicato, alla cui formazione anche la Corte di cassazione concorre, quale organo di vertice della giurisdizione, in conseguenza dell’esaurimento dei mezzi d’impugnazione.
Una nuova connotazione delle funzioni e del ruolo tradizionalmente assegnati alla Corte di legittimità inevitabilmente emerge, dunque, a fronte di un contesto ordinamentale esterno che in maniera pressante la sollecita ad assicurare l’uniforme interpretazione (ex art. 65 O.G) di un diritto positivo non più identificabile soltanto con le norme interne, ma anche con quelle derivanti dall’ordinamento comunitario (art. 11 Cost.) e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma, Cost.), tracciando percorsi interpretativi che devono, auspicabilmente, risultare conformi alle rispettive elaborazioni giurisprudenziali, stabilmente orientati ed affidabili, nella loro oggettiva prevedibilità, pur a fronte di un accesso di massa alla giustizia che registra, ormai da tempo, un vertiginoso aumento della domanda.
La Corte di cassazione, come noto, è ormai da troppo tempo “assediata” nell’esercizio delle sue funzioni regolatrici dal quotidiano esame di centinaia di ricorsi, in presenza di un unicum rappresentato dall’adozione di oltre trentamila decisioni civili e cinquantamila decisioni penali all’anno, con il conseguente rischio di non riuscire a garantire un sufficiente livello di uniformità e coerenza, interna ed esterna, delle proprie linee di indirizzo giurisprudenziale.
La contestuale crisi della politica e della certezza del diritto si accompagna ad un profondo mutamento del rapporto fra legge e giurisdizione, la cui progressiva evoluzione tende ad affidare un ruolo centrale alle Corti supreme, per le loro ineliminabili funzioni di garanzia della prevedibilità, della coerenza e della qualità delle decisioni nel processo di integrazione europea.
Una nomofilachia sempre più declinata non come un antistorico ed inutile esercizio di autorità, ma nella diversa prospettiva della sua capacità di ricondurre ad unità la complessità del nuovo sistema multilivello, da un lato, fungendo da raccordo fra tutte le componenti della comunità dei giuristi, dall’altro, bilanciando la tutela del principio del libero convincimento del giudice con le esigenze di certezza e di stabilità delle decisioni, all’interno di una visione “unitaria”, che sappia tener conto sia dei nuovi indirizzi assunti dalla giurisprudenza di merito, sia delle “correnti” profonde che orientano le “rotte” seguite dalle elaborazioni giurisprudenziali delle Corti europee.
Un contesto, dunque, radicalmente mutato sia rispetto alla centralizzazione della giurisdizione di legittimità a seguito della proclamazione del Regno d’Italia, sia rispetto alla visione fatta propria dalla Costituzione repubblicana del 1948, che non intaccò la duplicità di prospettive emergenti dalla fondamentale disposizione contenuta nell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 10, là dove la garanzia dell’esatta osservanza delle leggi, con la cassazione dell’atto del giudice che non le avesse rispettate, si accompagnava al diverso profilo di garanzia della uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale al fine di assicurare l’unità e l’uguaglianza del diritto positivo.
Di qui l’analisi critica dell’Autore, che prende le mosse dalla pressante esigenza, sociale ancor prima che giuridica, di recupero dei valori della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, per valorizzare le implicazioni del necessario confronto istituzionale del sindacato di legittimità affidato alla Corte di cassazione rispetto a quello esercitato, a vario titolo, sia dalla Corte costituzionale e dagli organi apicali delle giurisdizioni speciali, che dalle Alte Corti europee, nella duplice prospettiva di una nomofilachia “dialogante”, volta ad evitare la formazione di contrasti sia nell’ambito dell’ordinamento interno, sia con riferimento alle indicazioni provenienti da quello sovranazionale.
Se la legittimazione costituzionale della Corte di cassazione deve ancor oggi rinvenirsi nella sua capacità di costruzione di un “diritto vivente”, in grado di orientare con un sufficiente grado di affidabilità i comportamenti dei cittadini e ricondurre ad unità sistematica il confuso intreccio di leggi, norme esterne e correlative elaborazioni giurisprudenziali, la nomofilachia che essa è chiamata a rendere, al pari delle altre Corti supreme nazionali, dovrebbe sempre più orientarsi nel senso della tutela dello ius constitutionis, al fine di garantire la tendenziale uniformità degli indirizzi giurisprudenziali, e sempre meno in quello della tutela dello ius litigatoris.
La natura di “vertice ambiguo” della Corte di cassazione, secondo la immaginifica definizione datane da Michele Taruffo, è rinvenibile peraltro nello stesso codice genetico del giudice della legittimità, trattandosi di funzioni coessenziali, che devono comunque trovare, come spiegato da Giorgio Lattanzi (Cassazione o terza istanza, in Cass. pen., 2007, p. 1370 ss.), un opportuno punto di equilibrio, la cui mancanza renderebbe problematica l’opera di uniforme elaborazione del diritto giurisprudenziale.
Nella prospettiva interna, se da un lato pare irrealistico, per l’Autore, ipotizzare un ritorno al sistema della giurisdizione unica ordinaria – pur teoricamente auspicabile nella dimensione evolutiva del diritto europeo –, dall’altro lato, il pericolo correlato al possibile formarsi di nomofilachie divergenti a causa dei numerosi plessi giurisdizionali che compongono a “mosaico” l’ordinamento nazionale deve spingere l’intera comunità dei giuristi e il legislatore ad interrogarsi sulle possibili soluzioni da offrire al problema.
Certamente opportuno, anche se non risolutivo, potrebbe rivelarsi, al riguardo, uno sforzo di coordinamento istituzionale volto a promuovere la ricerca di canali di costante dialogo – sul piano scientifico ed organizzativo – tra giudici ordinari, amministrativi e contabili su temi che richiedono la declinazione di forme e meccanismi di tutela di valori fondamentali comuni (ad es., attraverso una più intensa e stretta collaborazione tra l’Ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte di cassazione e gli Uffici studi delle altre Corti).
Sotto altro, ma connesso profilo, occorre tuttavia considerare che l’ordinamento costituzionale ha già individuato nella sola Corte di cassazione l’organo supremo della giustizia (ex art. 65 ord. giud.), attribuendole una funzione regolatrice della giurisdizione (art. 111, comma ottavo, Cost.) che di per sé esclude una divaricazione delle nomofilachie sulle questioni di giurisdizione, devolute unicamente al giudice di legittimità: seguendo tale linea di orientamento l’Autore suggerisce di estendere la nozione di “limite esterno della funzione giurisdizionale” per riconoscere al ruolo nomofilattico, da sempre esercitato dalla Corte di cassazione in materia di diritti soggettivi, una rilevanza esterna, non circoscritta ai soli giudici ordinari, ma estesa a tutti i giudici – nessuno escluso – in modo da valorizzare l’orientamento consolidato della Corte in tema di norme attributive di diritti soggettivi e ridurre, in caso di diverse determinazioni, l’area delle decisioni inficiate, in materia amministrativa o contabile, da un difetto di giurisdizione relativa, in quanto tale impugnabile mediante ricorso per cassazione.
Su altro versante, maggiormente legato allo sviluppo del dialogo con le Corti europee, si impone, ad avviso dell’Autore, e il rilievo non può che essere condiviso, un deciso rafforzamento del ruolo della Corte di cassazione come Corte del precedente.
Non si tratta, ovviamente, di spingersi sul piano dell’attribuzione di un’efficacia vincolante alle decisioni di legittimità, che l’inevitabile pluralismo nella elaborazione della giurisprudenza di merito e i tratti di una moderna nomofilachia – non certo piramidale, né gerarchica, ma basata su un metodo partecipativo orientato a garantire la stabilità nel cambiamento e il cambiamento nella stabilità – non consentirebbero affatto di percorrere.
Si tratta, invece, di definire un quadro di interventi normativi che affidi alla Corte il potere di stabilire, sulla base di criteri oggettivi e predefiniti, quali siano i ricorsi da ammettere e, dunque, da decidere nella prospettiva del sindacato di legittimità che la Costituzione tipicamente le affida.
Un ampio spettro di soluzioni, a tal fine, potrebbe essere oggetto di adeguato approfondimento in linea con la disposizione di cui all’art. 111, settimo comma, Cost.: dalla perimetrazione della violazione di legge come unico motivo di ricorso per cassazione nella prospettiva di una prevalente tutela della nomofilachia che l’Autore definisce “positiva” (ossia rivolta al contenuto delle future decisioni giudiziali, e non alla valutazione della decisione già emessa ed impugnata), alla previsione del vincolo della Corte di legittimità all’accertamento del fatto contenuto nella sentenza pronunciata dal giudice di merito; dalla configurazione del ricorso in cassazione come mezzo straordinario di impugnazione, volto a sindacare il solo profilo in iure della sentenza impugnata (in coerenza con il principio del doppio grado di giurisdizione e con la natura del giudizio di sola legittimità svolto dalla Corte), alla introduzione di efficaci filtri alla possibilità di impugnare la sentenza di secondo grado.
Pur prescindendo da una possibile revisione dell’assetto normativo costituzionale, già oggi la disposizione dettata nell’art. 111, settimo comma, Cost. potrebbe essere letta, secondo l’Autore, nella più razionale prospettiva della garanzia del diritto a proporre il ricorso per cassazione, non in quella che tutela il diritto all’ammissione del ricorso.
Un efficace vaglio preliminare sull’ammissibilità del ricorso risulta dunque coerente non solo con la norma costituzionale che limita la garanzia del ricorso per cassazione alla sola violazione di legge, ma anche con gli orientamenti tracciati dalla Corte EDU sulla compatibilità convenzionale dei “sistemi di filtraggio” adottati nei diversi ordinamenti europei in relazione al merito o alla tipologia delle questioni poste all’attenzione delle Corti di legittimità.
Nella medesima prospettiva, effetti “decisamente positivi” potrebbero derivare da interventi legislativi finalizzati, nell’ambito dell’attuale assetto costituzionale, a disporre una separazione categoriale tra difensori legittimati a difendere nei giudizi di merito e nel solo giudizio di legittimità, ove sono richieste una preparazione ed una esperienza particolari, in modo da limitare il numero degli abilitati a proporre ricorso per cassazione (secondo il modello francese), creando un corpo di difensori altamente specializzati, idonei pertanto a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità, con l’effetto ulteriore di selezionare i ricorsi realmente meritevoli di essere trattati e di migliorarne il livello qualitativo (v. la Prefazione di E. LUPO, secondo cui l’esperienza della introduzione di filtri meramente interni alla Corte, attraverso la previsione di strumenti giuridici di volta in volta diversi, si è dimostrata sostanzialmente inutile, quando non è stata fonte di ulteriori complicazioni e difficoltà per le attività della Corte).
Del resto, non si pone in contrasto con le regole dell’equo processo, come ricordato dalla stessa Corte EDU in una pronunzia del 26 luglio 2002, la possibilità di riservare ad un ristretto numero di difensori la rappresentanza del ricorrente dinanzi ad una Corte suprema.
Una Corte del precedente, collocata in una posizione distante dalla configurazione di una Corte di terza istanza volta ad assicurare anche la giustizia del caso concreto, che si trovi in piena consonanza di poteri e funzioni con le linee di tendenza rilevabili negli altri ordinamenti nazionali europei, in grado di garantire effettivamente l’unificazione della interpretazione del diritto sul territorio dello Stato e l’eguale trattamento dei cittadini in una società democratica fondata sul principio della rule of law, senza però abbandonare la prospettiva di una nomofilachia che, in linea con le moderne acquisizioni della teoria dell’ermeneutica, sappia enunciare il principio di diritto nel contesto della concretezza della singola vicenda storica oggetto del giudizio: questo, secondo l’Autore, dovrebbe essere il modello di una Corte di legittimità al passo con i tempi, ormai lontani dalle scelte che il legislatore costituzionale ebbe ad operare – con la formulazione dell’art. 111 - in un momento storico (il 1948) in cui il numero annuale dei ricorsi – almeno quelli civili - era stato quasi sempre inferiore a 4.000, laddove dal 2002 ad oggi è risultato superiore, per lo più, ai 30.000.
Pare difficilmente giustificabile oggi, nello scenario europeo, l’anomalia di una Corte suprema come quella italiana, dinanzi alla quale possano proporre ricorso circa 50.000 difensori, sollecitandola ad esercitare - attraverso l’abnorme pianta organica di circa 400 magistrati che emettono migliaia di sentenze ed ordinanze a fronte di una sterminata massa di ricorsi - una funzione nomofilattica la cui declinazione avviene ormai all’interno di una sempre più ampia rete di rapporti sovranazionali, attraverso una voce “dialogante” il cui dictum dovrebbe essere necessariamente percepito in termini di certezza e uniformità, così da interloquire efficacemente con le altre Corti supreme nazionali e con le stesse Corti europee, in un contesto normativo sempre più eterogeneo ed articolato, che richiede un’immediata capacità di stabilizzare la formulazione del principio di diritto, garantendo la prevedibilità delle decisioni al fine di governare gli effetti magmatici di un sistema policentrico, e non solo multilivello, delle fonti di produzione del diritto.
Va ricordato, peraltro, che il legislatore non si è mostrato indifferente alle esigenze di una moderna nomofilachia, avendo rafforzato – con le novelle del 2 febbraio 2006, n. 40, e del 23 giugno 2017, n. 103 – gli obiettivi di tendenziale stabilità e uniformità dei principii di diritto espressi dall’organo di vertice della legittimità attraverso l’ampliamento della portata del vincolo di coerenza con il precedente costituito dalla decisione che le Sezioni unite civili e penali hanno pronunciato al fine di dirimere i contrasti interpretativi emersi tra le sezioni semplici o per risolvere questioni giuridiche di particolare importanza.
Sono state infatti disciplinate sia l’enunciazione del principio di diritto «nell’interesse della legge» (art. 618, comma 1-ter, c.p.p.), anche d’ufficio, quando il ricorso è dichiarato inammissibile per una causa sopravvenuta, sia la regola di raccordo fra le Sezioni semplici e le Sezioni unite (comma 1-bis: «Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso»), in coerenza con quanto analogamente previsto sia per il giudizio civile di cassazione (artt. 363, comma 3, e 374, comma 3, c.p.c., sost. dagli artt. 4 e 8 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), che per il giudizio amministrativo (art. 99, comma 3, d.lgs. n. 104 del 2010: codice del processo amministrativo) e contabile (artt. 42, comma 2, legge n. 69 del 2009 e 117 d.lgs. n. 174 del 2016: codice del processo contabile), con riguardo alle decisioni rispettivamente assunte dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e dalle Sezioni riunite della Corte dei conti.
Ulteriori innovazioni di rilievo, anche se non decisive nella prospettiva indicata dall’Autore, vanno individuate nelle modifiche degli artt. 360, primo comma, n. 5, 360-bis, 384 e 420-bis c.p.c.
Ragioni di “pacato ottimismo” possono trarsi, soprattutto, dall’analisi degli interventi normativi operati con le recenti riforme processuali (d.lgs. nn. 149 e 150 del 2022), varate in attuazione delle leggi delega per la riforma della giustizia civile e penale (leggi nn. 134 e 206 del 2021), in vista del raggiungimento degli obiettivi fissati dal P.N.R.R.
Vanno segnalate, in tal senso, l’introduzione del rimedio finalizzato alla revocazione della sentenza civile il cui contenuto sia stato successivamente dichiarato contrario alla CEDU (legge delega n. 206 del 2021, art.1, comma 10, attuato con l’art. 3, comma 28, lett. o), d. lgs. n.149 del 2022, che ha inserito nel codice di rito civile il nuovo art.391-quater) e la previsione, all’interno del processo penale, di “un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”, con l’attribuzione alla Corte di legittimità del “potere di adottare i provvedimenti necessari” (legge delega n.134 del 2021, art.1, comma 13, lett. o), attuato con l’art. 36 d.lgs. n. 150 del 2022, che ha inserito nel codice di rito penale la nuova disposizione dell’art. 628-bis).
Strumenti processuali nuovi, che mirano a realizzare le fondamenta di un circolo ermeneutico biunivoco rispetto agli orientamenti interpretativi assunti dalla Corte EDU, le cui implicazioni operative, tuttavia, dovrebbero essere necessariamente saggiate all’esito dell’auspicabile ratifica del Protocollo n. 16 CEDU, ponendo la Suprema Corte di cassazione e le Alte Corti nazionali nella condizione di attivare opportunamente, anche in una logica di deflazione della massa dei ricorsi, un dialogo preventivo in funzione consultiva, non certo vincolante, utile soprattutto nella fase “ascendente” della formazione del giudicato interno.
Disposizioni di analogo rilievo, ai fini che vengono qui in considerazione, sono quelle cristallizzate dal legislatore nelle nuove disposizioni di cui agli artt. 380-bis c.p.c. (procedimento accelerato per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati) e 363-bis c.p.c. (che introduce l’istituto del rinvio pregiudiziale degli atti dal giudice di merito alla Corte di cassazione per risolvere una questione di diritto, nella prospettiva di prevenire la formazione di contrasti giurisprudenziali o di contenziosi seriali).
Dati incoraggianti emergono, peraltro, dall’analisi statistica della lenta, ma costante, riduzione del contenzioso civile e penale di cui si dà conto nell’ultima Relazione del Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022 (leggibile sul sito www.cortedicassazione.it).
Sia nel settore civile che in quello penale, infatti, il numero delle decisioni assunte dalla Corte è sensibilmente cresciuto rispetto all’inizio del 2021, consentendo di ridurre in misura sensibile il peso delle pendenze.
Analoghi risultati positivi sono registrabili con riferimento alla durata dei processi celebrati dinanzi al Giudice di legittimità, poiché rispetto agli obiettivi fissati dall’Unione europea per la riduzione dei tempi di decisione entro il 2026, il criterio basato sul cd. disposition time, il cui target rispetto alla base di partenza dei dati relativi al 2019 è pari al 40% nel settore civile ed al 25% nel settore penale, consente di ritenere già raggiunto e superato il traguardo in quest’ultimo ambito (ove si è giunti al risultato di 132 giorni a fronte di un limite stimato in 166 giorni) ed in via di progressivo avvicinamento anche nel settore civile, il cui limite massimo è di 976 giorni a fronte di un baseline per il 2019 di 1302 giorni.
Linee di tendenza, quelle illustrate nella richiamata Relazione, che appaiono estremamente confortanti, specie se poste in relazione ai positivi effetti - allo stato non ancora obiettivamente verificabili nella loro entità - della prossima attuazione del quadro delle riforme normative varate dal legislatore nella seconda metà del 2022.
In definitiva, l’auspicio dell’apertura di una “nuova stagione” per il funzionamento e la realizzazione degli obiettivi costituzionali propri di un’istituzione plurisecolare e gloriosa come la Corte di cassazione si coniuga, nella prospettiva dell’Autore, alla rinnovata e condivisa consapevolezza della grave responsabilità che su di essa incombe, quella, cioè, “di tracciare la rotta dell’interprete, non con la ragione dell’autorità, ma con l’autorità della ragione”.
Sommario: 1. La selettività del concorso in magistratura e la nascita di una specifica domanda di formazione. - 2. Il monopolio dei corsi privati: semplice dato di fatto o necessità? - 3. La riforma Cartabia e le modifiche in tema di corsi di preparazione al concorso in magistratura. - 4. I compiti attuali della Scuola Superiore della Magistratura e le forze a disposizione. - 5. L’ipotetica attuazione della riforma Cartabia a risorse invariate. - 6. La possibile soluzione: cambiare passo.
* Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] Spunti per una nuova formazione comune per le professioni legali di Angelo Costanzo sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
1. La selettività del concorso in magistratura e la nascita di una specifica domanda di formazione.
Poco più di due mesi fa hanno preso servizio 202 nuovi magistrati: sono i vincitori dell’ultimo concorso bandito dal Ministro della Giustizia circa tre anni prima.
I posti a concorso erano in realtà 310, sicché più di un terzo dei posti disponibili non è stato coperto, nonostante i candidati che si sono presentati alle prove scritte siano stati ben 5827. Di questi, infatti, solo 220 (circa il 5% dei partecipanti) sono stati ammessi all’orale, ed un’altra ventina sono stati dichiarati inidonei all’esito delle interrogazioni.
Si tratta di un divario tra aspiranti e vincitori impressionante e senza precedenti, anche se normalmente i posti a concorso non vengono mai coperti nonostante l’altissimo numero di partecipanti, sicché si può agevolmente comprendere il motivo per cui il concorso in magistratura sia considerato uno dei più impervi tentativi di accedere al mondo del lavoro per un laureato in giurisprudenza.
Anche se la commissione che giudica i candidati varia nella sua composizione per ciascuno dei concorsi che periodicamente si succedono, il criterio di selezione improntato a massima severità sembra una costante, frutto consapevole di una scelta di non derogare al criterio della qualità, anche a costo di contribuire a non sanare i vuoti di organico che notoriamente affliggono i ranghi della magistratura.
L’alto numero dei candidati è, per altro verso, conseguenza del fatto che il posto a concorso è uno dei posti più appetibili per un laureato in giurisprudenza, per numerosi e concorrenti motivi: prestigio della funzione, idealismo, soddisfazione intellettuale, lo stipendio (fisso e più che adeguato a soddisfare le esigenze di un buon tenore di vita).
L’estrema selettività del concorso, unita alla sua appetibilità, ha generato negli anni una specifica domanda di formazione: si sono moltiplicati manuali di diritto dedicati espressamente allo sviluppo degli argomenti ritenuti papabili per le tracce scritte e sono sorti in tutta Italia corsi di preparazione al concorso in magistratura, soprattutto per colmare il gap tra una formazione universitaria totalmente declinata in esami orali e un concorso la cui selezione viene svolta, come si è visto in precedenza, in via pressoché esclusiva attraverso l’espletamento di prove scritte.
L’utilità di questi corsi è dimostrata da un dato empirico: la quasi totalità dei magistrati italiani attualmente in servizio ha partecipato ad uno di questi corsi e indirettamente deve a questa esperienza almeno una parte della specifica preparazione giuridica utilizzata per l’accesso all’impiego desiderato.
2. Il monopolio dei corsi privati: semplice dato di fatto o necessità?
Di fatto, non è praticamente ipotizzabile diventare magistrati in Italia senza avere partecipato ad un corso di preparazione al concorso.
È quindi evidente che si tratta di uno degli snodi fondamentali dell’accesso alla magistratura.
Non può pertanto non destare preoccupazione il fatto che esso non sia allo stato regolamentato in alcun modo: l’organizzazione di questi corsi è del tutto estranea sia al mondo della magistratura che a quello universitario ed affidata interamente a privati.
Non esistono requisiti soggettivi per aprire una scuola di preparazione al concorso, non vi sono controlli sulla didattica o sulla selezione dei docenti né sulle metolodogie formative scelte.
Le uniche norme che stabiliscono chi può far parte di questo delicatissimo settore o come deve starci sono le regole del mercato, che dovrebbero premiare l’offerta formativa migliore. Ma dove non interviene provvidenzialmente la “mano invisibile” di Adam Smith …. vale tutto.
Recenti episodi di cronaca giudiziaria, troppo noti anche per essere menzionati incidentalmente, hanno mostrato quanto possa essere pericolosa questa situazione di assoluta deregulation.
La situazione attuale presenta un ulteriore profilo di singolarità, perché una regola in verità esiste: è quella che impedisce ai magistrati ordinari di organizzare e far parte, anche in via occasionale, dei corsi in esame.
In particolare, l’articolo 3, 3° comma della circolare del C.S.M. sugli incarichi extragiudiziari 22581/2015 del 9 dicembre 2015 statuisce che “sono vietate l’organizzazione di scuole private di preparazione e concorsi o esami per l’accesso al pubblico impiego alle magistrature e alle altre professioni legali nonché la partecipazione, sotto qualsiasi forma ed indipendentemente dalle caratteristiche dimensionali, alla gestione economica, organizzativa e scientifica di tali scuole ovvero lo svolgimento presso di esse di attività di docenza, anche in via occasionale”.
La violazione di questo precetto costituisce illecito disciplinare a norma del d.l.vo 23 febbraio 2006, n. 109 aart. 3 comma 1 lettera d) secondo cui “costituiscono illeciti disciplinari al di fuori dell’esercizio delle funzioni:
(…) d) lo svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria di cui all’articolo 16, comma 1 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni, o di attività tali da recare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dall’articolo 1”.
In altri termini, attualmente, chiunque può insegnare ai laureati in giurisprudenza come prepararsi al concorso per diventare magistrati, persino (in ipotesi) un non laureato in legge, tranne i magistrati, cioè i futuri colleghi dei vincitori dei concorsi, che avrebbero ovviamente più di altri competenze giuridiche e potrebbero portare un dato di esperienza non surrogabile da parte di chi questo lavoro non svolge.
La ratio di questo divieto risiede nella necessità di impedire il proliferare di incarichi extragiudiziari, peraltro di carattere particolarmente remunerativo ed impegnativo e dunque la tutela lato sensu del prestigio e della funzionalità della magistratura.
Ma l’effetto è paradossale: è impedito ogni contatto tra chi chiede formazione per diventare magistrato e i maggiori esperti della materia, ovvero i magistrati medesimi.
Né può essere trascurato che si è consegnato in questo modo l’accesso alla magistratura a privati estranei alla stessa, affidando al caso o alla buona volontà dei singoli la tenuta dell’offerta formativa, che ricomprende non solo la competenza giuridica in senso stretto ma anche l’insegnamento della cultura della giurisdizione e la trasmissione della sensibilità istituzionale che sono invece connaturati – salve dolorose eccezioni - all’essere magistrato.
C’è da dire che molti di questi corsi sono gestiti da magistrati amministrativi o da ex magistrati ordinari, sicché di fatto il rischio ora paventato viene ad essere escluso, ma si tratta comunque di un effetto del tutto casuale.
Desta preoccupazione il fatto che non esista alcuna regola che impedisca deviazioni da un percorso virtuoso lasciato alla singola iniziativa o alle leggi di mercato né alcuna previsione che bilanci l’esclusione dall’offerta formativa in questa fase dei naturali depositari della cultura della giurisdizione con la imposizione di regole per imporre una metodologia formativa in un settore formativo intrinsecamente connesso all’accesso alla magistratura.
3. La riforma Cartabia e le modifiche in tema di corsi di preparazione al concorso in magistratura.
Da questa riflessione prende dunque le mosse la preannunciata riforma del sistema di accesso al concorso contenuta nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, che fa parte del complesso di disposizioni legislative noto come “riforma Cartabia”.
In particolare, l’articolo 4 della legge numero 71 del 2022, rubricata “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura”, nell’indicare al Governo i principi cui i decreti legislativi dovranno attenersi per il riassetto dell’accesso in magistratura, prescrive che essi debbano “prevedere che la Scuola superiore della magistratura organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario per laureati”.
Con lo stesso provvedimento normativo è stato abolito l’obbligo di frequentazione di corsi presso una scuola di specializzazione (oltre al tirocinio presso gli uffici giudiziari), recidendo l’unico legame previsto tra mondo accademico ed accesso alla magistratura.
La ratio della norma esaminata è, ad avviso di chi scrive, condivisibile.
La Scuola Superiore della Magistratura è l’espressione più alta della formazione dei magistrati e costituisce dalla sua istituzione un baluardo della indipendenza della magistratura non solo a livello culturale e formativo in senso stretto ma ontologico, essendo formazione e legittimazione democratica dei magistrati concetti intimamente legati.
Sembra più che opportuno che la Scuola partecipi alla formazione dei magistrati sin dall’inizio del loro approccio al loro futuro impiego.
Prevedere un coinvolgimento dell’organo di formazione dei magistrati nella fase di preparazione al concorso in magistratura consentirebbe dunque di eliminare il divieto per i magistrati di fare formazione agli aspiranti colleghi ma canalizzerebbe questo intervento attraverso il filtro dell’istituzione addetta professionalmente alla formazione anziché lasciare l’iniziativa ai singoli magistrati.
Verrebbero in tal modo neutralizzati i rischi (esorbitanti guadagni, estranei alla funzione giudiziaria e compromissioni dell’efficienza degli uffici per sottrazione di importanti risorse) sopra evidenziati.
Tuttavia, se esercitata nei termini indicati dalla norma descritta, la delega porterebbe ad effetti esiziali non solo per la preparazione al concorso in magistratura, ma per la stessa Scuola Superiore della Magistratura e conseguentemente per la formazione dei magistrati in servizio.
È infatti sufficiente comparare i compiti che ipoteticamente ricadrebbero sulla Scuola con le forze, materiali e umane, a disposizione per per evocare immediatamente l’immagine del cavallo tragicamente spirato sotto il carico insostenibile impostogli dal padrone in uno dei primi capitoli di “Delitto e castigo”.
4. I compiti attuali della Scuola Superiore della Magistratura e le forze a disposizione.
Il Comitato Direttivo della Scuola è composto da 12 persone. Quasi metà di loro – i cosiddetti “laici”, nominati tra professori universitari e esponenti del foro – non svolgono questo compito in via esclusiva, ma continuano l’attività precedente, che li assorbiva fino al momento della nomina a tempo pieno. Nei tre Comitati Direttivi che si sono succeduti dall’istituzione della Scuola ad oggi solo uno dei quindici componenti laici ha sospeso l’attività precedentemente svolta in costanza del mandato.
Su questi scarsi effettivi grava il compito di organizzare e gestire ogni anno circa 120 corsi di formazione permanente, il tirocinio di uno o due plotoni di MOT (la formazione dei colleghi vincitori di concorso prevede normalmente lo svolgimento presso la sede di Scandicci della Scuola di otto settimane di generico e nove di mirato, oltre alla preparazione ed alla gestione degli stages), numerosi corsi di formazione internazionale e di scambi EJTN, la formazione dei magistrati onorari, la formazione dei direttivi e semidirettivi (è in corso di svolgimento il primo corso post- riforma, che prevede una durata di tre settimane per quasi 250 aspiranti alle funzioni apicali), i corsi di riconversione, il coordinamento delle articolazioni territoriali dette “formazioni decentrate”, oltre a una gran quantità di attività collaterali, alcune delle quali di rilevante impegno (tra di esse la gestione e l’aggiornamento del sito, della newsletter, del canale Youtube, dei Quaderni, dell’archivio dei materiali, la gestione delle attività amministrative e contabili, et cetera).
La struttura amministrativa di supporto è costituita da un organico teorico di 50 unità, mai interamente coperto (il pensiero che la Scuola condivide questa condizione di cronica scopertura dell’organico con la totalità degli uffici giudiziari della penisola aiuta a sentirsi meno soli ma non risolve il problema).
Negli ultimi anni la situazione, già critica, si è aggravata con l’attribuzione alla Scuola di compiti aggiuntivi comportanti ulteriori carichi: oltre a quello, notevolmente più gravoso rispetto al passato, della formazione dei direttivi (la cui durata non era predeterminata e si esauriva in poche sessioni mentre ora è stata portata per disposizione legislativa ad “almeno tre settimane” ed estesa ai semidirettivi, platea assai più numerosa di quella dei direttivi) è stato previsto un coinvolgimento della Scuola nella formazione degli addetti all’Ufficio per il Processo, in collaborazione con il Ministero della Giustizia; un notevole aggravio di lavoro è inoltre pervenuto dalle modifiche in tema di formazione dei magistrati onorari.
5. L’ipotetica attuazione della riforma Cartabia a risorse invariate.
L’allestimento da parte della Scuola di un corso di preparazione al concorso in magistratura richiederebbe la predisposizione di un programma di lezione con cadenza almeno settimanale in via continuativa con argomenti differenti per almeno un anno, con attività collaterali di tutoraggio specifico e la gestione di esercitazioni scritte periodiche con conseguente necessità di correggere centinaia di elaborati ogni pochi giorni.
Servirebbero magistrati in grado di organizzare e gestire la parte didattica e personale per la parte amministrativa e contabile.
Si tratta di un surplus di attività, come dovrebbe risultare evidente da quanto detto in precedenza, che appare del tutto ingestibile con le attuali forze della Scuola, senza contare che mancherebbero le strutture ed il personale, già interamente impiegati per le attività già in essere.
Né può essere di alcun aiuto l’inciso, pure contenuto nella delega legislativa in esame, che “suggerisce” di prevedere come unità di supporto le strutture territoriali della Scuola dislocate presso ciascuna Corte di Appello (le già richiamate unità di “formazione decentrata”).
Anche queste sono infatti gravate da compiti in tutti i settori della formazione (permanente, iniziale, internazionale, onorari, ecc.) sia in proprio che come delegati dal Comitato Direttivo, potendo contare su forze ancora più esigue di quelle esistenti a livello centrale: buona parte delle strutture territoriali sono composte da pochissimi magistrati e quasi nessuna può avvalersi di personale amministrativo.
Nessuna di esse ha una struttura autonoma dove svolgere la propria attività né una vera e propria “sede”, sicché appare anche difficile ipotizzare come si possano articolare su base regionale i corsi di preparazione in esame.
I formatori decentrati, peraltro, non svolgono la loro delicata e importante funzione a tempo pieno ma sono magistrati impegnati nelle normali attività di ufficio, che godono di un parziale esonero, basato su parametri spesso incongrui.
La previsione di corsi di preparazione su base territoriale avrebbe il solo effetto, in definitiva, di moltiplicare il numero dei “cavalli” tragicamente schiacciati dal carico di dostoevskijana memoria.
6. La possibile soluzione: cambiare passo.
Le problematiche sopra descritte non devono indurre, a mio avviso, a rigettare come inattuabile la previsione contenuta nella delega legislativa, anche perché come già detto in precedenza, la ratio che ispira la norma commentata appare pienamente condivisibile.
Esiste un modo per attuare la previsione legislativa e “salvare” il cavallo: adeguare la struttura della Scuola ai nuovi compiti che via via si stanno aggiungendo a quelli tradizionali.
L’istituzione di formazione dei magistrati sembra matura, dopo un decennio dalla sua nascita, per il completo svezzamento e la trasformazione in una struttura di carattere più stabile, magari con distaccamento a tempo indeterminato di un numero congruo di magistrati, professori e personale amministrativo, come già sperimentato con successo in altre realtà omologhe (si pensi alla Francia).
Declinata in questo modo, la delega legislativa non solo non porterebbe svantaggi ma, nel realizzare la previsione di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura un corso di preparazione al concorso in magistratura, indirettamente farebbe compiere all’istituzione quel cambio di passo che appare ormai ineludibile.
*Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
Sommario: 1. Equilibrio fra i poteri dello Stato e ruolo della giurisdizione - 2. La Giurisprudenza e le sue Facoltà - 3. Un biennio (infralaurea) specializzante per le professioni legali.
1. Equilibrio fra i poteri dello Stato e ruolo della giurisdizione
1.1. La crisi della democrazia rappresentativa incide sulla legittimazione dei professionisti legali - soprattutto, ma non esclusivamente, dei magistrati - a esercitare la loro funzione di interpreti della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà dei cittadini.
La difficoltà che il legislatore non infrequentemente mostra - sia nell’uso della tecnica legislativa sia nella determinazione dei contenuti delle norme - a determinare quanto necessario per una efficace regolazione rende instabile l’equilibrio fra i poteri dello Stato sia che li si concepisca secondo la loro tripartizione tradizionale, sia che li si consideri adottando uno schema più articolato e attuale.
Questo esito è evidente quando la legislazione non è preceduta da un adeguato dibattito politico e dalla ponderazione delle scelte tecniche. Soprattutto, se i contenuti della produzione legislativa derivano da mediazioni fra esigenze fra loro confliggenti, l’autosufficienza logica delle norme si riduce e questo espande il ruolo della ermeneutica giuridica con il rischio dell’affermazione di principi normativi in realtà non dettati dal legislatore ma introdotti dagli interpreti facendo leva sulla elasticità dei significati delle norme, per analogo verso, delle clausole generali che a volte si trovano sciorinate in ordine sparso persino nelle disposizioni penali incriminatrici.
Quando accade che i significati veicolati dalle disposizioni slittano verso dei nuovi contenuti confezionati dagli interpreti, l’ingranaggio giuridico non funziona più soltanto come un meccanismo per veicolare prescrizioni ma diventa trampolino di nuove prospettive delle quali può risultare difficile anche individuare i fautori e gli sviluppi, tanto più quando l’ars distinguendi degli interpreti viene avvizzita dall’aggravio dei carichi lavorativi e dal restringersi degli orizzonti culturali.
Tuttavia, resta (ovviamente) inaccettabile che la giurisdizione svolga un ruolo di supplenza politica: il rapporto tra la legislazione e la giurisdizione non deve andare oltre la concretizzazione e lo sviluppo degli obiettivi e dei contenuti che la seconda riceve dalla prima. Non basta l’autorità della posizione per giustificare i risultati della interpretazione della legge, che è una attività che richiede metodo e trasparenza per essere intellettualmente e deontologicamente adeguata. Questa è una delle varie ragioni per le quali la giurisdizione non può trascurare le elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica può fornire e che nell’approntarle sistema logicamente per questa via spersonalizzando le categorie e gli argomenti adoperati per le decisioni.
Invece, da qualche decennio, proprio quando il mondo è diventato più complicato, nelle università si è affermata l’idea che l’essenziale sia l’apprendimento delle leggi così identificando il diritto con la legge. La formazione universitaria si è orientata verso la legislazione di settore impinguandosi con la giurisprudenza, e lasciando la formazione ulteriore a un nebuloso post-laurea facilmente obsolescente in un tempo di trasformazioni continue, tanto più se è mancata la formazione orientata a fornire abilità più che nozioni. Al graduale maturarsi dell’acquisizione degli strumenti del mestiere si è contrapposta la ricerca della tempestività che si infrange contro la complessità di molte questioni, sicché la tensione verso le conclusioni prevale sullo sviluppo delle capacità argomentative.
2. La Giurisprudenza e le sue Facoltà
2.1. Questi mutamenti sono il prodotto di un’epoca ma i corpi professionali interessati (l’accademia e la magistratura, come anche l’avvocatura) non sono ancora riusciti a sviluppare una capacità di elaborazione che consenta loro di comprendere e gestire il cambiamento (prefigurandosi degli obiettivi) e non soltanto di subirlo con l’illusione di esserne protagonisti.
Eppure, l’attenzione degli Ordini professionali (forense e giudiziario) ai meccanismi di formazione e selezione dei propri componenti è un segno primario del loro livello di adeguatezza istituzionale e di attenzione verso la società presente e le generazioni future.
In questa direzione, la riapertura dell’accesso al concorso per la magistratura ordinaria dovrebbe stimolare qualche novità perché, mentre, certamente, come viene da più parti sottolineato, soddisfa varie esigenze pratiche immediate, risulterà miope se non sarà seguita da una seria rielaborazione della formazione ─ che deve essere comune, già durante il corso universitario ─ degli aspiranti magistrati e degli avvocati, due categorie professionali che integrano un unico sistema culturale e funzionale[1].
In questo contesto, l’art. 4. l. n. 71/2022 è importante per il suo aprire nuove prospettive quando affida alle norme di attuazione il compito di far sì che «la Scuola superiore della magistratura organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario» per laureati che stiano svolgendo o abbiano svolto il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari previsto dall’art. 73 d.l. n. 69/2013 o abbiano prestato presso l’ufficio per il processo l’attività prevista dall’art. 14 d.l. n. 80/2021, «stabilendo che i costi di organizzazione (…) gravino sui partecipanti in una misura che tenga conto delle condizioni reddituali dei singoli e dei loro nuclei familiari». Ancor più importante è dove (lett. d) richiede che «la prova scritta del concorso per magistrato ordinario abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico».
A questo punto è possibile prefigurare un nuovo sistema di selezione per la magistratura con un centro unico e pubblico che, «in sede decentrata», attivi proficuamente la rete dei magistrati formatori oppure (o anche) ridia uno scopo alle Scuole di specializzazione per le professioni legali (che al momento sono destinate a estinguersi per mancanza di specializzandi) presso le Università.
Un analogo impianto potrebbe ispirare l’azione della Scuola superiore dell’avvocatura per alimentare un circuito culturale che leghi l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura nella elaborazione di convergenti percorsi di formazione (che è cosa diversa è più impegnativa del mero aggiornamento) dei giuristi forensi.
2.2. Tuttavia, pare necessario rimarcare che anche riuscire nella difficile impresa di approntare soluzioni organizzative efficienti non basterebbe a renderle efficaci se si prescindesse da una riflessione preliminare sui contenuti che esse possono veicolare.
Il ruolo dei corsi universitari è insostituibile rispetto allo scopo di fornire (per tempo e con il tempo necessario a sedimentare gli apprendimenti) una preparazione ancorata alla solida conoscenza degli istituti giuridici e alla capacità di padroneggiare l’argomentazione giuridica nelle sue plurime forme.
La Facoltà di Giurisprudenza (che nell’ordinamento universitario italiano attuale non esiste più con questo nome) all’inizio del diciannovesimo secolo era collocata idealmente all’incrocio fra teologia, medicina e filosofia e destinata, come le altre, all’educazione spirituale dell’individuo.
Non molto tempo dopo, il successo del positivismo, lo sviluppo delle scienze sociali, la rivoluzione industriale e l’egemonia della mentalità borghese concorsero nel favorire un nuovo modo di concepire il rapporto tra il sapere e l’azione: la ricerca della efficienza rafforzò il profilo del sapere come capacità tecnico-funzionale, indirizzata verso la specializzazione in vari modi acquisita.
Questa tendenza è stata rafforzata dalla perdita di coesione del sistema normativo che – in parte svincolato anche dalle sovranità statali – non nasconde la sua contingenza, frutto di volontà incostanti, talvolta arbitrarie.
Così il sapere giuridico si è frantumato in una molteplicità di conoscenze settoriali e la dottrina (orfana di eccellenze) risulta timida nel razionalizzare il sistema integrandovi le (proliferanti) leggi speciali. Nel diritto forense, si appoggia alla giurisprudenza mentre dovrebbe aiutarla a chiarirsi le idee: invece, si è sparsa in piccole scuole, spesso politicizzate e dubbiose nei confronti delle finalità stesse della scienza che dovrebbero tramandare, timide nel confrontarsi fra loro.
In questo periodo di disinvoltura metodologica più che i giuristi si affermano gli esperti legali. Le tensioni principali degli interpreti più che il perfezionamento del sistema dei concetti e la coesione dei principi nutrono il sottosistema giudiziario come meccanismo di regolazione atto a fronteggiare il massiccio numero di conflitti derivanti dall’aumento delle relazioni sociali.
Allora, la ricerca dell’efficienza produttiva (che rischia di incartarsi su sé stessa) alimenta e enfatizza una vivacità mentale che cela la pigrizia intellettuale.
Il punto è che l’interpretazione del diritto non costituisce un mero compito da eseguire ma una fonte di problemi (spesso semplici, altre volte complessi) da risolvere.
Soprattutto l’elasticità dei principi normativi, come anche delle clausole generali, e delle loro composizioni consente una gamma di soluzioni diverse che possono comportare delle scelte che ampliano lo spazio del potere giudiziario. Il quale, tuttavia, non per questo può oltrepassare il suo limite: non deve produrre principi normativi diversi e nuovi rispetto a quelli offerti (esplicitamente o implicitamente) dall’insieme dei dati normativi.
Per queste ragioni, la giurisdizione non dovrebbe rinunciare alle elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica è in grado fornire sistemando e così oggettivando le categorie adoperate nel decidere. Invece, la cultura della semplificazione nelle università va individuando l’essenziale della formazione nell’apprendimento delle leggi favorendo l’idea che basti il fatto di essere investiti di una funzione attuativa qualificata (quella di magistrato) per giustificare i risultati della interpretazione della legge, legando l’autorità alla posizione e facendo della pratica giudiziaria la base per la formazione dei nuovi giuristi. Così i magistrati tendono a chiudersi in un orizzonte autoreferenziale (che in alcuni casi si riverbera anche negli atteggiamenti esteriori rispetto all’operato professionale).
Anche la ricostruzione dei fatti ai quali applicare le norme non costituisce un mero compito ma è fonte di problemi specifici (e in alcuni campi ardui) della epistemologia giudiziaria per la soluzione dei quali gli attuali corsi di laurea non forniscono strumenti.
3. Un biennio (infralaurea) specializzante per le professioni legali
3.2. I giuristi legali (avvocati, magistrati, processualisti) si distinguono dagli altri laureati in giurisprudenza per la necessità di possedere non solo una solida conoscenza degli istituti giuridici del settore ma anche la capacità di padroneggiare le argomentazioni senza rimanere invischiati nei meandri delle loro ramificazioni. Al riguardo diverte ricordare quello che scriveva Gotofredo Contatter qualche tempo fa ma con osservazioni ancora attuali:
«Gli Italiani, nel trattare e discutere le controversie del nostro diritto, hanno quest'uso, che dopo aver proposto qualche questione disputano tanto a favore della tesi affermativa che della negativa. In primo luogo adducono per lo più gli argomenti con i quali si corrobori e si affermi quella opinione che a loro giudizio credono falsa. Di poi vengono prese in esame le ragioni a favore della contraria ed opposta opinione; e finalmente essi rigettano e confutano la prima opinione e insieme rispondono alle contrarie leggi per lo innanzi addotte a favore di quella .......Sebbene potrebbero risolvere con tre o tutt'al più con quattro parole il punto di diritto, appena lo esauriscono disputandone per tre giorni. Aggiungasi che gli inesperti e deboli intelletti degli scolari sono aggravati e confusi da questa moltitudine e varietà di controversie, sì che non possono facilmente discernere il vero dal falso. Né ciò fa meraviglia perché spesso accade ai dottori medesimi di non sapersi districare negli stupefacenti labirinti delle dispute che portano In campo»[2].
Varie idee possono svilupparsi circa i contenuti di un indirizzo del corso di laurea in giurisprudenza relativo alle professioni legali.
Ma sembra ragionevole prospettare che i piani di studio universitari dovrebbero delineare nel secondo biennio un percorso di formazione verso le professioni legali, distinto da altri percorsi professionali, dando adeguato spazio, oltre alle materie tecniche specifiche, a discipline che offrono le basi metodologiche delle professioni legali: l’ermeneutica giudiziaria (anche per padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative fondate sulla normazione “per principi” che si giustappone a quella tradizionale “per regole”), la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria (per rendere più attenti a una corretta ricostruzione dei fatti oggetto dei processi) e lo studio del diritto dell’Unione e del diritto comparato.
Per quel che specificamente riguarda il ragionamento giuridico, nell’attuale formazione i laureandi incontrano solo (peraltro implicitamente veicolati ma non esplicitamente studiati) elementi di logica classica che però non bastano a modellare tutti i ragionamenti e, particolarmente, quelli di tipo probabilistico (le cui fallacie sono meno agevolmente rinvenibili rispetto a quelle in cui possono cadere le inferenze deduttive). Inoltre, la logica matematica serve per costruire modelli dei ragionamenti e per controllarne la coerenza interna e la confidenza con i modelli logici ha un valore formativo come strumento di lavoro (solo formalizzando un ragionamento in termini logico-matematici possono cogliersene eventuali illogicità).
In generale, la formazione degli studenti italiani è approfondita sugli aspetti del diritto, ma è esclusivamente umanistica, priva di cultura scientifica. Sarebbe il caso di arricchirla. Sarebbe sbagliato scimmiottare le esperienze di altri ordinamenti ma tenerne conto è utile. Per esempio, è da considerare che negli Stati Uniti per accedere al primo livello di formazione giuridica in una law school occorre avere un bachelor degree (analogo delle nostre lauree triennali) in una qualsiasi altra materia; al primo anno di tutti i bachelor program (a prescindere da quale sia la materia principale affrontata) le università offrono insegnamenti sulle materie scientifiche. Ovviamente questo non serve a fare del giurista uno scienziato ma lo aiuta a meglio approcciarsi alle scienze, ai loro linguaggi e alle situazioni nelle quali è necessario distinguere la solida scienza dalla pseudoscienza.
In questa direzione, nel 2012 in Germania il Consiglio superiore della scienza si è espresso sulle prospettive della scienza giuridica indicando la necessità di un rafforzamento della dimensione culturale, di quella interdisciplinare e di quella internazionale della formazione giuridica. Si sottolinea la necessità di accrescere nella formazione del giurista la capacità di comprensione del contesto nel quale le norme sono poste e si auspica un accrescimento del peso dei Grundlagefächer, cioè delle basilari discipline ‘ storiche, filosofiche e comparatistiche e delle capacità di dialogo con le altre scienze, e l’allontanarsi dal tecnicismo fine a sé stesso[3].
3.3. In ogni caso, sarebbe utile che la formazione universitaria del giurista forense allenasse alla auto vigilanza psicologica e dialettica suggerendo schemi di comportamento intellettuale utili per ridurre il rischio di errori giudiziari. Tre mosse mentali risultano sempre essenziali a questo scopo: la prima consiste nell’individuare i preconcetti impliciti dubitando della oggettività dei propri giudizi e esaminando come si formano le proprie credenze; la seconda sta nel generare (o nell’ascoltare) tesi alternative a quella sostenuta, considerando imparzialmente ogni altra ipotesi plausibile (non soltanto quella opposta); la terza concerne specificamente la ricostruzione degli eventi singoli e richiede mantenersi consapevoli che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di induzioni e di loro conferme (o mancate confutazioni), per cui la conclusione raggiunta potrebbe comunque essere falsa. Anche in questa direzione serve l’alternanza, nelle varie materie, fra i corsi teorici tradizionali e le cosiddette cliniche legali (diffuse nelle università straniere e ora praticate anche in alcune italiane) che esercitano lo studente a costruire un’argomentazione legale corretta e coerente.
3.4. Né, ormai, può trascurarsi che nel prossimo futuro inevitabilmente aumenteranno le interazioni dei giuristi forensi con gli strumenti della razionalità artificiale veicolata dalle elaborazioni informatiche. Allora pare necessario delineare dei percorsi di formazione (come del resto e avviene in alcuni corsi di laurea anche in Italia) che conducano a servirsi di questi strumenti con adeguata cognizione delle loro virtualità come anche dei loro limiti per evitare che questi divengano insidie.
Questo dovrebbe avvenire nel quadro di una generale riconsiderazione degli strumenti intellettuali di base che possono servire a professionisti che hanno il compito di applicare i discorsi del diritto alle esigenze pratiche che sorgono dalla vita reale.
* Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
[1] Articolati contributi sul tema in: C. Angelici (a cura di), La formazione del giurista. Atti del convegno, Roma, 2 luglio 2004, Milano, Giuffrè, 2005; A. Giuliani – N. Picardi (a cura di), L’educazione giuridica, Bari, Cacucci, 2008; P. Costa, La formazione del giurista. A proposito di una recente collana di studi, in: Sociologia del diritto, 1, 2013, pp. 215-222; A. Pasciuta-L. Lo Schiavo (a cura di), La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, Roma Tre-Press, 2018.
[2] Dal diario di Gotofredo Conratter, studente tedesco di giurisprudenza iscritto alla Università di Padova nel 1577-78 (A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa,( 1), Le Fonti e il pensiero giuridico, ristampa inalterata, Giuffrè Editore, 1982, pp. 143-144.
[3] Sul documento: C. Wolf, Perspektiven der Rechtswissenschaft und der Juristenausbildung. Kritische Anmerkungen zu den Empfehlungen des Wissenschaftsrats, in: Zeitschrift für Rechtspolitik, 2013, pp. 20 ss.; G. Resta, Quale formazione per quale giurista?, in: B. Pasciuta- L. Loschiavo, op. cit., pp 127-150, 139.
Domani inizierà il giro d'Italia 2023
Piemonte, Italia, 10 giugno 1949.
Si respira, in città, un buon odore di pane; si ode il fresco clamore della libertà ritrovata; si avverte, nel luminoso mattino, il gradito torpore dell’estate incipiente.
Le biciclette brillano al sole, annunciando una felicità nuova: mentre si avvicinano al confine amico la festa fa luogo alla gara.
Il carosello si slabbra sulle pendici della MADDALENA, un uomo si stacca dagli altri e sale in solitudine i quasi duemila metri della cima.
È solo il primo dei cinque monti da scalare.
Non può essere una fuga decisiva. Non può essere neppure un tentativo. Se lo fosse, si tratterebbe di un’impresa impossibile, di un vero suicidio.
Il fuggitivo entra in territorio francese. Le ruote della sua bicicletta sembrano spinte da un motore silenzioso. Salgono ancora: il ripido VARS, oltre duemilacento, dietro non si vede nessuno.
Il distacco, nonché regredire, si accresce.
Non durerà, è certo: ben presto il freddo alpino penetrerà nel petto; il sudore si muterà in ghiaccio; i muscoli si riempiranno di umore doloroso; le gambe pesteranno sui pedali sempre più pesanti.
Il ribelle dovrà rallentare, finirà riassorbito nel mucchio selvaggio.
Forse sarà così, ma non ora: ora il temerario cavaliere sfreccia velocissimo lungo la sinuosa discesa, gli occhi incuranti del pericolo come le gambe della fatica. Questa sembra sciogliersi sulla catena della sua bicicletta come i fiocchi di nevischio sulle sue calde gote.
È pronto per la terza scalata: il superbo IZOARD, duemilatrecentosessanta circa.
Solo due movimenti: il primo per togliere dal petto il giornale che era servito da riparo al vento; il secondo per bere un sorso dalla borraccia.
Poi, solo le gambe si muovono: ritmicamente, di lena, sgretolano la salita, conducono al valico; si fermano, dopo aver raggiunto la cima, sull’inerzia del mutato pendio.
Nessun inseguitore è men che lontano. Si può virare verso l’Italia, con animo sereno, con la propria fiducia finalmente accompagnata da altre fiducie; con l’impresa già compiuta di aver convertito altri alla propria fede; e con l’impresa da compiere di mantenere la promessa.
Per raggiungere il confine si deve passare dal MONGINEVRO, il colle che lega gli itinerari della storia, unendo la via Romea al Cammino di Santiago. Il cavaliere solitario sale ancora, ora con maggiore fatica: le pedalate sono più lente e più dure; il vento sembra avere eretto un muro invalicabile; i fantasmi della via francigena minano la fiducia e incutono la paura del fallimento.
Finalmente, dopo la dolorosa cima, una nuova agognata discesa. Il fuggitivo si scuote. Tutti sono ancora tanto distanti. Il primo inseguitore, il rivale di sempre, è a quasi dodici minuti. Non lo raggiungeranno s’egli avrà la forza di resistere.
L’ultimo sorso d’acqua prima di introdurre il rapporto leggero. Lo scatto del cambio annuncia l’estrema scalata: il SESTRIERE.
Il cavaliere coraggioso fende con il viso la gelida foschia delle Alpi piemontesi, gli occhi densi di lacrime, il sangue pulsante sulle vene rigonfie, la mente fissa sull’ultima cima.
Tutta la forza del mondo si concentra nelle sue gambe; tutta la luce dell’universo si accende nel suo cuore.
Superba la scalata, sontuosa la progressione, trionfale l’arrivo: “Un uomo solo al comando ... la sua maglia è biancoceleste ... il suo nome è Fausto Coppi”.
Sommario: 1. Premessa. Il volume: “Solidarietà, Un principio normativo” e il giurista Guido Alpa. - 2. Prima analisi del volume. - 3. Gli approfondimenti: il concetto di solidarietà nei sistemi dittatoriali e in quelli democratici. - 4. Segue: il significato di “solidarietà” contenuto dell’art. 2 Cost. - 5. La trasformazione della solidarietà da valore morale a principio giuridico (ovvero della solidarietà orizzontale e della solidarietà verticale). - 6. La forza giuridica della solidarietà e i nuovi diritti e doveri di origine giurisprudenziale. - 7. La trasformazione della solidarietà in sostenibilità. - 8. La solidarietà come fine e la solidarietà come mezzo. - 9. Brevissime conclusioni.
1. Premessa. Il volume: “Solidarietà, Un principio normativo” e il giurista Guido Alpa.
È un onore e un piacere per me recensire questo libro, con il quale un grande giurista affronta un grande tema.
La solidarietà, infatti, considerata per lungo tempo solo un valore morale od una regola di carità cristiana, si è nel tempo affermata quale principio giuridico, riconosciuto da tutte le Carte costituzionali delle moderne democrazie, e oggi dallo stesso Ordinamento dell’Unione europea.
Guida Alpa ci aiuta in questo percorso, ne indica i passaggi, ne ricostruisce gli sviluppi.
Professore emerito di diritto civile dopo aver insegnato per quasi trenta anni nell’Università La Sapienza di Roma, e Presidente emerito del Consiglio nazionale forense, che ha presieduto dal 2004 al 2015, Guido Alpa è senz’altro uno dei principali giuristi italiani, e parimenti uno dei maggiori civilisti a livello internazionale, se si considera il grande numero di studi che ha pubblicato in lingue straniere.
Il volume, chiaro e ben strutturato, sintetizza rigore scientifico e concretezza dei fatti, e merita, anche solo per questo, un’attenta lettura e ogni più ampia riflessione.
2. Prima analisi del volume.
Il libro, di 299 pagine, è ripartito in tredici capitoli.
Con essi, il tema della solidarietà è affrontato non solo nei suoi molteplici aspetti giuridici, ma anche nelle sue premesse storiche e filosofiche, e financo religiose, e ciò dal tempo della rivoluzione francese ai nostri giorni.
Lo studio investe prima di tutto il nostro ordinamento, ma poi anche quelli a noi vicini, soprattutto Francia e Germania, oltre ovviamente ad occuparsi dell’ordinamento comunitario.
Nel primo capitolo sono trattate le origini della solidarietà moderna, dai principi dell’illuminismo alle posizioni politiche e filosofiche dell’ottocento, fino al pensiero di Giuseppe Mazzini.
Il concetto di solidarietà è poi affrontato quale valore volto a superare le differenze di genere (cap. II) e quale terza via tra socialismo e capitalismo; e qui l’A. tratta del pensiero di studiosi quali L. Bourgeois, E. Durkleim, L. Duguit ed altri (cap. III).
I capitoli IV e VIII sono dedicati alla dottrina sociale della Chiesa e al senso e al significato della solidarietà in ambito religioso, e ciò dalla Enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII del 1892 all’Enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti del 2000.
Il tema centrale del volume ha poi ha ad oggetto, come anticipato, la trasformazione della solidarietà da valore morale a strumento normativo.
A questa trasformazione della solidarietà l’A. dedica in primo luogo il Cap. V, individuando un primo trapasso in tal senso nella Costituzione di Weimar del 1919, e poi negli ordinamenti giuridici dei sistemi totalitari successivi, tra i quali, ovviamente, quello corporativo del nostro periodo fascista.
Con il Cap. VI la trattazione passa alle Costituzioni del secondo dopoguerra: lì l’autore analizza il valore della fraternità contenuto nel preambolo della Costituzione francese del 1946, tratta della rifondazione del patto sociale in Gran Bretagna, e dibatte soprattutto della Costituzione italiana e del nostro art. 2 Cost., ricordando i lavori dell’Assemblea costituente, gli interventi di esponenti quali Palmiro Togliatti, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Giorgio La Pira, e aggiungendo una interessante raccolta della giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale sull’art. 2 Cost. avente ad oggetto i nuovi diritti emersi sulla base del principio di solidarietà.
Dedicato agli aspetti storico/comparatistici è poi il cap. VII, ove si trovano riportati per esteso le normative sulla solidarietà nelle Costituzioni delle due Germanie prima della loro riunificazione (assai interessante la Costituzione della DDR del 1949), e poi le Costituzioni dei paesi scandinavi, e soprattutto quelle del Portogallo (1976) e della Spagna (1978) dopo il ritorno della democrazia in quei paesi.
Dal Cap. IX il libro è dedicato, infine, alla solidarietà nel diritto europeo.
Si ricordano i Trattati e poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte di Giustizia dei diritti umani, che contemplano e riconoscono, uniformemente e coerentemente tutte, la solidarietà tra gli Stati membri e le istituzioni europee, e la solidarietà tra l’Unione e i cittadini; seppur, sottolinea l’A., possono sollevarsi dubbi sull’effettività del principio di solidarietà in Europa quando si passi dalla interpretazione esegetica dei testi alla realtà concreta della vita quotidiana.
E così, infine, l’ultima parte del libro è dedicata al mercato, e al ruolo della solidarietà nel diritto privato (Cap. XII) e commerciale (Cap. XIII).
Nel diritto privato il principio di solidarietà, come noto, attraverso l’art. 2 Cost. ha consentito ai Giudici costituzionali e della Corte di Cassazione, utilizzando anche il principio di buona fede di cui all’art. 1175 c.c., di superare accordi negoziali non equi e di compiere integrazioni dei contratti volti a correggere squilibri economici e sociali tra le parti.
Nel diritto dell’impresa la solidarietà si è poi trasformata in sostenibilità, e al principio di sostenibilità sono informate le ultime discipline in tema di società, di crisi dell’impresa, e oggi anche di ambiente.
Il volume termina con un Congedo, con il quale l’A sottolinea che “Il principio di solidarietà è un’opera aperta, è la nota di una sinfonia che può essere variamente ripercorsa”.
E ancora aggiunge: “Questo libro non ha conclusioni. Il percorso della solidarietà è lungo e tortuoso e senza fine. La pandemia e la guerra tra Russia e Ucraina alle porte dell’Unione hanno sollevato questioni delicate e gravi problemi anche sul piano della solidarietà……..siamo indotti a credere che occorra rimediare il testo dei Trattati per poter raggiungere nel prossimo futuro un livello di vita sociale in cui siano ridotte le differenze tra i ceti e le persone, e sia accettato il principio di inclusione”.
Si tratta, dunque, di un saggio di ampie dimensioni, volutamente privo di conclusioni affinché ogni lettore, con la propria sensibilità e la propria cultura, possa liberamente trarre le sue; uno studio, dunque, che conferma l’A. quale studioso e intellettuale non solo del diritto civile e/o del diritto c.d. positivo, bensì del pensiero giuridico nel suo senso più vasto e completo.
3. Gli approfondimenti: il concetto di solidarietà nei sistemi dittatoriali e in quelli democratici.
Dunque: spunti di riflessione.
La prima, a mio parere, è quella che cade sulla contrapposizione - che non può non darsi - tra il concetto di solidarietà nei sistemi totalitari e il concetto di solidarietà nei sistemi liberali e democratici.
È fuori discussione che la solidarietà fu un valore (anche) per i sistemi totalitari, mentre oggi tutti noi vogliamo essere solidari senza per questo aderire a politiche di tipo autoritario.
Come è possibile ciò?
Esistono due tipi di solidarietà?
Esattamente, l’illuminismo non aveva dedicato alla solidarietà particolare attenzione, e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino, come ci ricorda lo stesso A. “era tutta incentrata sull’individuo e sui rapporti tra individuo e autorità” tanto che “La triade dei valori rivoluzionari – libertà, uguaglianza, fraternità- in realtà si riduce al binomio libertà-uguaglianza, non essendo la fraternità menzionata neppure nel Preambolo” (pag. 20, 21).
Da altra parte l’A. ci ricorda altresì che la fraternità non compariva infatti nemmeno nella Restaurazione del 1814, e la si trovava per la prima volta solo nella Costituzione della Seconda Repubblica francese del 28 ottobre 1848: “Come si è documentato, in Francia vi è un silenzio nei testi costituzionali che si sono succeduti dal 1789 al 1848, nel senso che la fraternità appare solo nel 1848” (pag. 108).
Bene, se questo è chiaro, va constatato che la solidarietà, dopo la Repubblica di Wiemar, diventa invece un valore centrale nei regimi totalitari degli anni trenta, ed in particolare lo diventa nel nostro ventennio di dittatura fascista.
L’A. richiama la disciplina del lavoro e del sistema corporativo nel fascismo, in un passo del volume che conviene riportare: “La priorità della suprema autorità dello Stato, la prevalenza dell’interesse della Nazione su quello individuale, l’osservanza della giustizia sociale sono i pilastri dell’ordinamento corporativo portando ovunque quel senso di solidarietà sociale che non contrappone tra loro, ma unisce e coordina i vari interessi individuali per il raggiungimento dei fini superiori della Nazione. In poche parole il ministro Guardasigilli illustra i caratteri fondamentali del nuovo ordine, che lo distinguono dal modello liberale, individualista e libero dall’intervento dello Stato: alle finalità di superiore interesse perseguite dallo Stato deve essere subordinato l’interesse individuale. In poche battute si chiarisce allora il senso della solidarietà: è un sentimento, ma al tempo stesso un valore, un principio, e quindi un comando normativo” (pag. 97).
Anche il fascismo aveva dunque la: “declamazione della priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, l’istituto della proprietà privata deve ispirarsi a solidarietà e collaborazione…la disciplina delle immissioni sono subordinate al principio di socialità e……il potere di iniziativa privata è riconosciuto in funzione degli interessi nazionali alla produzione” (pag. 100); e posizioni analoghe si rinvenivano, ad esempio, nella Costituzione portoghese del 1933, per la quale “Proprietà, capitale, lavoro – le fonti della ricchezza – assolvono una funzione sociale in regime di cooperazione economica e di solidarietà, potendo la legge stabilire le condizioni del loro impiego o gestione in conformità alle finalità sociali (art.35) ” (pag. 95)
Ora, è chiaro, che questo tipo di solidarietà, che era la solidarietà delle dittature, deve inevitabilmente differenziarsi dalla solidarietà di oggi, e dalla solidarietà di un ordinamento che si proclami democratico e libero.
Ma quali sono le differenze?
In qual modo noi possiamo davvero avere una solidarietà democratica che si differenza da una solidarietà fascista o totalitaria o dittatoriale?
Questa, credo, è la questione preliminare in punto di studio della solidarietà.
L’A. ha chiaro questo problema, e così sottolinea la differenza tra questi due tipi di solidarietà: “là questo principio viene piegato alla realizzazione di fini ben diversi da quelli che la Costituzione attuale si propone, là si trattava di introdurre meccanismi di pace sociale in cui i lavoratori non potevano più contare su propri sindacati ma dovevano rivolgersi ai sindacati fascisti….la solidarietà era oggettiva, non tra le persone, ma tra gli interessi dei partecipanti alla produzione. Qui la solidarietà sociale implica l’intervento dello Stato, la sua azione, per avvicinare le classi sociali, per migliorare le condizioni di vita delle categorie svantaggiate, per sostenere finanziariamente lo Stato sociale, per assicurare a tutti eguali opportunità. Un significato ben diverso, molto più impegnativo, e correttamente collocato nella dialettica degli opposti interessi” (pagg. 98, 99).
La differenza concreta, tuttavia, rischia di non essere evidente, poiché, in uno Stato sociale, si ha parimenti la priorità degli interessi comuni a quelli individuali, e quindi la solidarietà di uno Stato democratico rischia invece di non contrapporsi affatto a quella già predicata nelle dittature del secolo che ci ha lasciato.
In questo senso, se riteniamo invece necessario avere una solidarietà che si contrapponga nettamente alla solidarietà fascista, si tratta, a mio parere, di ripescare il valore della libertà, e di coniugare, così, la solidarietà con la libertà, poiché lì sta, evidentemente, la prima e sostanziale differenza tra una solidarietà totalitaria e una solidarietà democratica.
Credo di poter dire che l’A. si colloca in questa linea di pensiero e ricorda infatti che “ A Firenze, nel maggio del 1946, Piero Calamandrei scrive la presentazione della seconda edizione del libro di Francesco Ruffini sui Diritti di Libertà….. (pag. 113) Un testo dunque che evocava l’anelito alla libertà e che, ripubblicato venti anni dopo, nell’Italia liberata dalla dittatura e nell’occupazione nazista, indicava la strada da seguire per ricostruire la democrazia” (pag. 114).
La sintesi, poi, tra libertà e solidarietà era questa, che “non ci può essere libertà senza che sia garantita a tutti una esistenza degna dell’uomo” (pag. 115).
Il concetto è ricordato dall’A. anche con l’intervento di Aldo Moro in Assemblea costituente: “Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociale nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità” (pag. 119).
E parimenti, in argomento, è ricordato anche il fondamentale intervento di Meuccio Ruini: “Contro la concezione tedesca, che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del “tutto dallo Stato tutto allo Stato, tutto per lo Stato” rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune” (pag. 121).
Dunque, come primo cosa, direi che la solidarietà di uno Stato democratico, e quindi la nostra solidarietà, deve necessariamente coniugarsi, diversamente da quella del fascismo, con un principio di libertà, e deve rispettare la regola secondo la quale il tutto si realizza nel fine supremo della dignità, della libertà, e dell’autonomia della persona umana.
4. Segue: il significato di “solidarietà” contenuto dell’art. 2 Cost.
In questo contesto, centrale è l’analisi del nostro art. 2 Cost., quale norma principale di tutto il sistema giuridico repubblicano in ordine al principio di solidarietà.
Di nuovo, è doveroso ricordare che quella disposizione sorse in antagonismo al fascismo, e fu voluta principalmente dalle forze cattoliche e di sinistra per opporla alla dittatura del ventennio.
È chiaro, pertanto, che il termine solidarietà dell’art. 2 Cost. non può essere in nessun modo assimilato o posto sul medesimo piano con il concetto di solidarietà che era stato predicato dal fascismo: una, infatti, la solidarietà del fascismo, altra la solidarietà della nuova Repubblica libera e democratica di cui all’art. 2 Cost.
Credo che la contrapposizione sia evidente e non possa essere messa seriamente in discussione.
Questa interpretazione dell’art. 2 Cost. mi sembra ben presente nel volume di Guido Alpa, tanto che l’A. sottolinea in argomento che si era di fronte ad un nuovo Stato: “che risorgeva dopo la tragedia della seconda guerra mondiale con cui il paese si era scrollato di dosso la dittatura e la monarchia” (pag. 117),
L’enfasi dell’art. 2 Cost.:“….è dettata dal riscatto morale che si vuol evidenziare da parte dei Padri costituenti, quasi tutti militanti antifascisti, e suona anche come condanna del recente passato” (pag. 119), e quindi: “La solidarietà acquista una dimensione più complessa di come era stata considerata nei testi costituzionali del novecento che hanno preceduto l’entrata in vigore della Costituzione italiana” (pag. 120).
L’A. fornisce questa contrapposizione tra le due solidarietà, in un caso: “……. si parlava di solidarietà come vincolo fondante del consorzio umano, e come pilastro dello Stato sociale”; nell’altro caso: “……..la solidarietà è intesa come legame fondante le formazioni sociali, la famiglia, le associazioni, le comunità di lavoro – e potremmo includervi, naturalmente, i partiti e i sindacati” (pagg., 120, 121).
Solidarietà come pilastro dello Stato, e solidarietà come collante delle formazioni sociali.
Si tratta di una contrapposizione che merita, però, sia consentito, una ulteriore precisazione.
Il fascismo si fondò sulla supremazia dello Stato sull’individuo, facendo forza sulla filosofia hegeliana; e chi legga, ancora oggi,
La dottrina del fascismo di Benito Mussolini (Hoepli, 1936), vi trova: “Il mondo per il fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie in cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio; una vita in cui l’individuo attraverso l’abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo………….La concezione fascista è per lo Stato ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica, giacchè, per il fascismo, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”.
Ora, è evidente, che la prima precisa volontà dei nostri costituenti fu proprio quella di negare lo Stato fascista e riaffermare una diversa concezione dei rapporti tra individuo e Stato.
V’era, prima di tutto, da affermare che la persona ha diritti inalienabili che discendono dalla natura e non dallo Stato; v’era da affermare che, con riguardo ai diritti inalienabili dell’uomo, lo Stato ha solo il dovere di riconoscerli e tutelarli, non altro; e c’era, poi, più in generale, da negare lo Stato di hegeliana memoria, per ritornare a quello Stato coessenziale alla democrazia e alla libertà dei popoli.
Il compito di delineare questi principi della nuova Repubblica veniva affidato in primo luogo a Giorgio La Pira, e sia consentito riportare qui quanto questi, nella sottocommissione del 75, in data 9 settembre 1946, dichiarava: “È necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”.
E quanto alla negazione dello Stato etico hegeliano La Pira ancora esponeva: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”.
Non a caso, così, l’art. 2 Cost. riconosce per primo “I diritti inviolabili dell’uomo”, e solo dopo prosegue affermando: “e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”; ed ancora, i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti con priorità “come singolo”, e solo dopo nelle “formazioni sociali”, in ciò aderendo la norma a quel principio di centralità dell’uomo che risale alla nostra tradizione umanista.
E dunque la ratio prima, storica, dell’art. 2 Cost. è questa: superare l’ideologia fascista e assicurare a tutti il riconoscimento dei diritti fondamentali, dapprima della persona individualmente intesa, e poi della persona nelle sue formazioni sociali.
Tutto questo ha una ricaduta sulla lettura del concetto di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.: propongo così uno studio di queste tematiche che immagini una solidarietà che segua, e non si anteponga, ai diritti inviolabili dell’uomo; una solidarietà che metta lo Stato al servizio dei cittadini e non i cittadini a servizio dello Stato; una solidarietà che si coniughi con un principio di libertà e di indipendenza della persona, e non consideri invece queste ultime delle mere concessioni in mano all’autorità pubblica.
5. La trasformazione della solidarietà da valore morale a principio giuridico (ovvero della solidarietà orizzontale e della solidarietà verticale).
E veniamo al tema centrale affrontato dal libro, ovvero alla trasformazione della solidarietà da valore morale a principio normativo.
Questa distinzione prende anche altre etichettature, e con pari significato si può infatti distinguere una solidarietà orizzontale, o libera, e una solidarietà verticale, o imposta.
La solidarietà orizzontale è quella che, senza obbligo giuridico, si ha tra persona e persona, orizzontalmente, in modo spontaneo; la solidarietà c.d. verticale si ha viceversa in tutte le ipotesi nelle quali questa non sorga spontaneamente tra le persone, ma sia al contrario data dallo Stato nella forma dell’obbligo giuridico, e quindi sostanzialmente imposta dall’alto verso il basso.
L’A. espone in modo ben chiaro questa evoluzione, e rileva che la solidarietà, interpretata in origine quale regola morale nel corso di tutto l’800, inizia viceversa a trasformarsi in principio giuridico, e quindi ad essere imposta dallo Stato, con il ‘900: “Come categoria generale del diritto, è significativo il fatto che i doveri che compaiono nelle Costituzioni dell’ottocento si ritengono più politici e morali che non giuridici proprio per l’astensione dello Stato da ogni interferenza nei rapporti tra privati e quindi del libero mercato……Nelle costituzioni del secondo dopoguerra, che aprono allo Stato compiti sociali di grande rilievo, il dovere di solidarietà si rafforza” (pag. 123 e 124).
L’idea della solidarietà quale dovere giuridico è proprio invece della nostra Costituzione repubblicana, seppur con molte discussioni al riguardo: “Se si leggono i lavori della prima sottocommissione dedicati alla stesura degli articoli riguardanti i diritti e i doveri dei cittadini, si apprende che il concetto di solidarietà non era inteso, almeno originariamente, come un concetto normativo, ma piuttosto – e soltanto – come un concetto politico” (pag. 118); ma la scelta finale dei nostri costituenti fu quella di dotare di forza giuridica, e non solo politica, il concetto di solidarietà cosicché l’art. 2 Cost. “è dotato di quel carattere di coercibilità, che sfugge al concetto politico” (pag. 118); e poi ancora: “Individuo, collettività, Stato sono i dunque i pilastri in cui si snoda la solidarietà intesa – proprio perché contenuta in un testo normativo e deputata a rappresentare un coacervo di diritti e di doveri – come un concetto normativo” (pag. 118).
Il principio di solidarietà quale dovere giuridico si rafforza, poi, quando la fonte normativa passa da quella interna a quella sovranazionale.
L’A. ricorda in primo luogo il Manifesto di Ventotene del 1941: “La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà per ciò manifestarsi con le forme caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio” (pag. 113). Sottolinea inoltre che il discrimen tra l’una e l’altra concezione di solidarietà è data dal Trattato di Lisbona del 2007, che della solidarietà fornisce: “la dimensione giuridica vincolante” e “La solidarietà diviene quindi di volta in volta il cemento del consorzio umano, opera come meccanismo di coesione, come elemento dialettico tra individuo e collettività” (pag. 185).
E di nuovo sulla solidarietà orizzontale/verticale: “Grimmel pensa alla solidarietà orizzontale, mentre il concetto, come si è più volte sottolineato, è complesso, e ingloba anche la prospettiva verticale. Anzi, nella prospettiva europea, prevale la prospettiva verticale. L'analisi dei Trattati ci restituisce un’idea forte di solidarietà, considerate le numerose occasioni in cui questo principio viene evocato” (pag. 190).
Infine lo sguardo è rivolto al mondo cattolico.
L’A. dedica ben due capitoli del volume alla dottrina sociale della Chiesa.
Riporta, quale posizione iniziale di solidarietà, la Rerum novarum di Papa Leone XIII del 1892: “questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso” (pag. 74).
La posizione si evolve 40 anni dopo con l’Enciclica Quadragesimo anno di Papa Pio XI, il quale afferma che il compito dello Stato: “non è puramente quello di un guardiano dell’ordine e del diritto” poiché: “A ciascuno si deve attribuire la sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della giustizia sociale” (pag. 77).
Trova poi conferma con Papa Paolo VI a seguito del Concilio Vaticano II, e la si rinviene infatti nelle Encicliche Gaudium et spes del 1966 e Populorum progressio del 1967: “La giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria” (pag. 171).
L’A. commenta che già in quel momento storico: “La solidarietà è considerata un dovere, e il capitalismo liberale un modello che deve essere corretto”; e ricorda in proposito, con le parole del Papa, il dovere: “A tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le loro responsabilità” (pag. 173).
Segue poi l’Enciclica Sollicitudo rei socialis del 1988 di Papa Giovanni Paolo II; l’A. rileva: “La solidarietà chiamata da Leone XIII con il termine amicizia, vista da Pio XI come carità sociale, da Paolo VI come civiltà dell’amore, acquista con Giovanni Paolo II un significato ancora più pregnante: l’economia capitalistica corretta dai valori della giustizia sociale” (pag. 176).
E si arriva, così, infine, alle Encicliche di Papa Francesco Laudato sì e Fratelli tutti rispettivamente del 2015 e del 2020.
6. La forza giuridica della solidarietà e i nuovi diritti e doveri di origine giurisprudenziale.
Ciò premesso, la questione immediatamente successiva è la seguente: se la solidarietà si trasforma da regola morale a principio giuridico, essa allora può essere materia di decisione giudiziaria, ovvero i giudici, in forza del precetto della solidarietà, possono creare nuovi diritti e/o nuovi doveri che dalla solidarietà discendono.
Poiché, poi, la forza giuridica del principio di solidarietà si trova tanto nella nostra legislazione nazionale quanto in quella comunitaria, gli orientamenti giurisprudenziali in grado di creare nuovi diritti e nuovi doveri sono non solo da rinvenire della nostra Corte Costituzionale e di Cassazione, bensì anche nelle Corti europee, CGUE e CEDU.
A questo aspetto l’A. dedica molte pagine del volume, e precisa: “Si può dire che la Carta è stata in larga parte attuata grazie alla creatività della giurisprudenza……Molti sono i diritti di nuovo conio scaturiti dalla base costituzionale…..Neppure Piero Calamandrei avrebbe potuto immaginare la rivoluzione ermeneutica avviatasi alla fine degli anni sessanta, con la scoperta delle clausole generali, dell’uso alternativo del diritto e della storicizzazione delle categorie giuridiche….Proprio grazie a quei fermenti si sono potuti creare ex novo diritti che hanno dato soddisfazione ad interessi trascurati e reso concreta la concezione della solidarietà, individuale e sociale” (pag.133).
E poi ancora: “Sull’art. 2 si sono edificati i nuovi diritti della persona” e “La Corte costituzionale ha fatto un largo impiego del principio di solidarietà, dal 1956 al 2021” (pag. 134).
Questi nuovi diritti sono tutti basati, come prima sottolineato, “sui valori costituzionali primari della libertà individuale e della solidarietà sociale” (così Corte Cost. n. 75 del 1992, richiamata a pag. 136) e sono tutti ricordati dall’A.: tra questi, il diritto all’abitazione, all’ambiente salubre, alla tutela dei disabili, ai minori, alla salute, al danno biologico, fino ai c.d. nuovi diritti, quali l’acquisizione di un gender diverso, le trasfusioni non compatibili con il credo religioso, autodeterminazione nel testamento biologico, il diritto a portare anche il cognome della madre, il diritto a conoscere le proprie origini genetiche, ecc……………..
Qualcosa di analogo si ha in ambito comunitario.
L’A. ricordando che “La Corte di Giustizia svolge un ruolo di grande rilievo nel dettare le regole interpretative che modellano il significato delle fonti del diritto dell’Unione”, ha precisato che “Così è stato anche per la definizione dei significati di solidarietà. Alcuni casi decisi sono diventati pietre miliari nella costruzione giurisprudenziale del significato di solidarietà” (pagg. 186, 187).
E l’A. ha altresì rimarcato come: “È evidente che nel decidere le questioni la Corte impiega sempre un certo tassi di discrezionalità. Da qui la necessità di distinguere tra solidarietà nel mercato, solidarietà con finalità redistributive, solidarietà con finalità costitutive, solidarietà con finalità amministrative” (pag. 189).
Dalla ricerca della giurisprudenza della CGUE emergono cinque diverse accezioni di solidarietà: “(i) la solidarietà come rappresentazione moderna della carità della tradizione; (ii) la solidarietà come mutuo sostegno; (iii) la solidarietà come temperamento dei rischi economici; (iv) la solidarietà come limite all’esercizio individuale dei diritti fondamentali; (v) la solidarietà come limite alle libertà economiche e alla concorrenza” (pag. 191).
Questa sintesi degli orientamenti della giurisprudenza sviluppano però, almeno secondo me, due consequenziali, e non secondarie, riflessioni per uno studio sulla solidarietà:
a) la prima è che il valore della solidarietà, da sorgente di nuovi diritti, sempre più si è invece concretizzata quale fonte di nuovi doveri.
Ciò avviene in tutti i casi nei quali, in forza del principio di solidarietà, si ritiene infatti vi siano limiti o temperamenti ai diritti delle persone, e ciò tanto con riferimento alle libertà economiche, quanto, e soprattutto, con riguardo alla libertà dei diritti fondamentali della persona.
È evidente che una cosa è far sorgere, in nome della solidarietà, un nuovo diritto, altra cosa è far sorgere un nuovo dovere; e la cosa può essere tanto più oggetto di studio quanto più fondamentale, e/o personale, è il diritto che si va a comprimere in nome della solidarietà.
È chiaro che questi meccanismi, dati sovente dalla giurisprudenza come automatici o inevitabilmente dovuti, necessitano invece di rigorose analisi, poiché v’è da chiedersi se davvero sia possibile che in nome di un principio di solidarietà, che è pur sempre un principio di carattere generale, possano comprimersi specifici diritti fondamentali della persona espressamente riconosciuti, a volte come inderogabili, dalle varie Carte costituzionali degli Stati; e, se si, con quali limiti e/o a quali condizioni.
b) La seconda osservazione è che va a crearsi, in questi casi e in questo modo, un diritto tutto giurisprudenziale che non ha alcun appiglio alla legge.
La legge, esattamente, fa solo riferimento ad un valore elastico e discrezionale qual è quello della solidarietà; la giurisprudenza, poi, su questa base, determina in concreto quali siano i diritti e doveri che ne discendono; quindi, in tutti questi casi, i diritti e i doveri dei cittadini non sono più determinati dalla legge, bensì direttamente dalla giurisprudenza.
In questo modo, direi indiscutibilmente, la giurisprudenza si rende fonte del diritto, mentre nel nostro sistema la giurisprudenza non è, nÈ può essere, fonte di diritto.
Al riguardo, possono farsi degli esempi: a) si è sostenuto (v. Corte Cost. 24 ottobre 2013, n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014, n.77), che il giudice, in forza dell’art. 2 Cost., può mutare il tenore delle clausole di un contratto se queste sono “sbilanciate a danno di una parte”; b) egualmente si è statuito (così Cass. 5 novembre 1999, n. 12310, ma vedi anche Cass. 13 settembre 2005, n. 18128; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 20 aprile 1994, n. 3775), che il giudice, in una valutazione complessiva della relazione giuridica, “e a prescindere specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”, può determinare, il “dovere di agire” ritenuto più equo.
Ebbene, se queste sono le decisioni che si sono avute in forza del principio di solidarietà, uno studio che valuti la conformità di simili orientamenti ad un sistema di civil law quale il nostro credo sia necessario.
È vero che oggi è generalmente riconosciuto alla giurisprudenza la possibilità di bilanciare diritti che si contrappongono tra loro, ma qui non si tratta, in verità, di bilanciare due diritti contrapposti entrambi fissati in modo chiaro da un testo normativo, si tratta al contrario di ricavare dei diritti/doveri non disciplinati dalla legge lavorando su una espressione del tutto elastica e discrezionale qual è quella della solidarietà.
E in ogni caso nessun “bilanciamento” può spingersi fino al punto di creare nuovi diritti e doveri di sola fonte giurisprudenziale; poiché, par evidente, di bilanciamento in bilanciamento, sennò, tutto rischierebbe di diventare incerto e di minare la stessa funzione di una Carta costituzionale, che è quella di assicurare, al contrario, in modo chiaro e non discutibile, l’esistenza, appunto, dei diritti.
7. La trasformazione della solidarietà in sostenibilità.
L’evoluzione della solidarietà, infine, ha portato la stessa a rendersi, in molti casi, sostenibilità; e così l’A. ci avverte che, soprattutto nel diritto societario “il principio di solidarietà si esprime in termini di sostenibilità” (pag. 275).
Ma la sostenibilità è fenomeno che non interessa solo il diritto privato e societario, bensì anche quello dell’ambiente, della solidarietà tra generazioni, della tutela degli animali, e quindi si connette all’ultimo riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.
“Il termine sostenibilità è stato introdotto solo di recente nel vocabolario giuridico….da quel momento il termine diviene un concetto normativo, e come tale esprime un comando” (pag. 276).
Nella Conferenza delle Nazioni del 1972 si legge già che: “Per una più razionale amministrazione delle risorse finalizzata a migliorare l’ambiente, gli Stati dovranno adottare misure integrate e coordinate tali da assicurare che detto sviluppo sia compatibile con la necessità di proteggere e migliorare l’ambiente umano a beneficio delle loro popolazioni” (pag. 277)-
Si fa qui riferimento alla compatibilità, che poi diventa sviluppo sostenibile, ovvero sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità alle generazioni future di soddisfare i loro.
Parallelamente si mira al coinvolgimento delle imprese e si inizia a parlare di razionale distribuzione delle risorse; infine il principio di sostenibilità diventa punto di riferimento per le scelte economiche e sociali a livello globale e si elabora la teoria sociale dell’impresa (pag. 280).
Il percorso normativo si delinea dagli anni 2000 ed in questo contesto possono richiamarsi la direttiva 2014/95/UE, la direttiva 2017/828/UE, e il nostro d. lgs. 254 del 2016.
Qui si ha, secondo me, un secondo passaggio della solidarietà: da una solidarietà dei diritti/doveri, ad una solidarietà solo di doveri.
La sostenibilità, infatti, consiste soprattutto in questo: che vi sono cose che non si possono più fare, perché, appunto, non più sostenibili.
Che dire?
Credo, in primo luogo, che la solidarietà resa sostenibilità imponga un ulteriore studio, che è quello del rapporto (soprattutto) tra ambiente e persona.
Nessuno nega il dovere di tutti di tutelare l’ambiente, di non inquinare, di protegge la natura, e di fare quanto è possibile per difendere il nostro pianeta e la posizione delle generazioni future; tuttavia va valutato se sia corretto che la tutela dell’ambiente non trovi più la sua ragion d’essere nell’interesse dell’uomo a vivere in un ambiente salubre, bensì la trovi in sé stessa, e quindi anche in contrasto con i diritti dell’uomo.
Si capisce che se le cose in futuro dovessero davvero essere lette e interpretate così, tutto allora si potrebbe rendere possibile.
Si potrebbe imporre ogni riduzione dei consumi, e stabilire che a tutela dell’ambiente solo certi consumi sono ammessi e non altri; si potrebbe ridurre la produzione industriale e il libero commercio, e stabilire che solo alcune cose possono essere prodotte e vendute e non altre, e magari, con ciò, favorendo taluni e danneggiando altri; si potrebbe impedire l’accesso a taluni luoghi, o limitare fortemente, e in modo stabile, il diritto di circolazione, sostenendo che tutto questo va a vantaggio dell’ambiente e della biodiversità, poiché al contrario la libertà di circolazione dell’uomo, con i suoi egoismi e le sue disattenzioni, danneggia il pianeta; si potrebbe imporre regole comportamentali per ragioni ecologiche, impedendo ad esempio di mangiare certe cose, oppure imponendo la nutrizione con altre, se non addirittura imponendo taluni trattamenti sanitari; si potrebbe vietare il fumo anche all’aperto, stabilire un certo abbigliamento, imporre degli orari nei quali è possibile tenere certi comportamenti, che sarebbero invece vietati in altri momenti; si potrebbe limitare o escludere l’uso di taluni mezzi di trasporto, auto, aerei, ecc…., sempre a tutela dell’ambiente e al fine di limitare l’inquinamento; si potrebbe dividere tutti i beni in essenziali e non essenziali, ed escludere questi ultimi, o tutto ciò che venisse giudicato superfluo, o lussuoso, o eccessivo; si potrebbe imporre grossi oneri alla proprietà privata, facendola venir meno ove questa non si conformi ai dettati dell’ecologia e del risparmio energetico, consentendo così nuove forme di espropriazioni per ragioni ambientali; si potrebbe danneggiare la cultura e l’informazione impedendo o fortemente limitando l’uso della carta; si potrebbe ancora limitare i mezzi di comunicazione come internet o telefoni portatili, sostenendo che il loro uso contribuisce all’inquinamento del pianeta; si potrebbe imporre la riduzione drastica di beni quali l’elettricità, il gas, i carburanti, costringendo le persone a cambiare fortemente le loro abitudini e le loro attività lavorative; si potrebbe in ogni momento prevedere decadenze giuridiche in grado di incidere sui diritti contrattuali delle parti per ragioni di tutela dell’ambiente, compromettendo in questo modo il concetto stesso di “certezza del diritto”, e creando in tal misura un danno alle relazioni commerciali ed economiche; si potrebbe fortemente aumentare le imposte sui commerci e sulla proprietà privata, sostenendo che entrambe costituiscono ostacolo all’ambiente e all’igiene del pianeta; e così di seguito.
Di nuovo, l’equilibrio che deve darsi tra queste contrapposte esigenze non può non meritare uno studio e un approfondimento.
La nostra Costituzione ha messo al centro di tutto l’uomo, secondo una tradizione che per noi risale alla celeberrima Oratio de hominis dignitate di Pico Della Mirandola del 1486, e che fu propria dei nostri costituenti, da Giuseppe Dossetti (“Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona?”), a Palmiro Togliatti (che chiedeva solo che il principio fosse tradotto e concretizzato in modo accessibile: “dal professore di diritto e in pari tempo dal pastore sardo”).
La sostenibilità è un valore che può, evidentemente, confliggere con altri.
I suoi limiti e la sua ponderazione vanno dunque attentamente analizzati.
8. La solidarietà come fine e la solidarietà come mezzo.
Poiché, infine, l’A. ha chiuso il volume sottolineando che: “La solidarietà è un’opera aperta……questo libro non ha conclusioni”, e che: “Spetta al giurista con la sua cultura e il suo impegno civile esprimerne tutte le potenzialità” (pag. 299), io mi permetto, a conclusione di questa recensione, di sollevare una ultima questione che, in verità, l’A. non ha trattato, ma solo accennato con l’affermazione secondo la quale la solidarietà “in mano ai regimi illiberali diventa un’arma per legittimare il potere” (pag. 95).
Questo, a mio parere, è infatti l’ultimo studio - ma al tempo stesso, direi, il principale - che il principio di solidarietà necessita: evitare che essa si possa trasformare in strumento con il quale il pubblico potere impone ai cittadini ogni tipo di comportamento, oltre ogni razionale e legittima giustificazione.
Come è successo purtroppo in regimi del passato, non è difficile trasformare la solidarietà da fine a mezzo, e utilizzare la stessa non tanto per il raggiungimento di nobili obiettivi, quanto come pretesto per imporre compressioni di diritti e libertà.
Il gioco è fin troppo semplice: chi ha il potere può creare i presupposti di fatto, spesso anche in modo del tutto artificiale e/o volutamente indotto, affinché sia necessaria la tenuta di un certo comportamento, e dopo di che può pretendere quel comportamento perché imposto da un principio di solidarietà.
Ovviamente per evitare che il principio di solidarietà possa trasformarsi da fine a mezzo, ed evitare che venga usato in modo deviato e strumentale, come in taluni casi purtroppo è avvenuto, non sarebbe (forse) errato dotare gli Stati democratici di una autorità indipendente della solidarietà, così come esistono per altre pubbliche amministrazioni, in grado di vigilare sul corretto equilibrio che sempre deve darsi tra solidarietà e libertà, tra solidarietà e democrazia, tra solidarietà e serietà e sufficienza dei fatti che la giustificano; altrimenti tutto può diventare lecito con lo scudo della solidarietà, ed essa si può ben trasformare, dunque, in un’arma per legittimare il potere.
Può ritenersi, questa mia, una proposta bizzarra, tuttavia si tratta di muovere dalla constatazione che oggi, direi, nei nostri ordinamenti europei, una simile istituzione di garanzia normalmente non esiste, e sempre meno si avverte infatti la necessità di contrapporre potere a potere, secondo L’esprit des lois di Charles Louis de Montesquieu.
Ai posteri l’ardua sentenza.
9. Brevissime conclusioni.
La solidarietà, in conclusione, ha assunto nel nostro ordinamento giuridico un ruolo che un tempo non aveva.
Chi sfogli un’opera monumentale come l’Enciclopedia del diritto fondata da Francesco Calasso con Antonino Giuffrè, scopre che non esiste in essa una voce quale Solidarietà; l’enciclopedia passa infatti dalla voce Soggetto passivo d’imposta a quella di Solve et repete.
Lo stesso dicasi per altre importanti enciclopedie giuridiche: vale per Il Digesto italiano, ove il volume XXII, Torino, del 1925, ha una voce Solidarietà, interamente e solo dedicata alla solidarietà nelle obbligazioni per come disciplinata dal codice civile di allora, e la voce successiva è quella della Solvibilità; e vale anche per enciclopedie più moderne quali Il Diritto, curata da Il Sole 24 ore, Milano, 2007, ove il volume XV, dopo la voce Software, ha quella di Soggetti deboli, tuttavia dedicata alle problematiche del processo penale e al tema dell’imputabilità, ovvero dedicata a questioni ben diverse da quelle qui affrontate.
Oggi, tutto al contrario, la solidarietà è un valore fondante del sistema giuridico, valore che si interseca e si relaziona con molti altri diritti, e dà vita pertanto a commistioni che necessitano studi e approfondimenti.
Dobbiamo dunque ringraziare Guido Alpa per il contributo che ha dato all’argomento con la pubblicazione del volume qui recensito, e invitare tutti a ogni più ampia riflessione su un istituto giuridico tanto essenziale quanto difficile.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
