ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini”: alcune riflessioni su infanzia e adolescenza nell’opera di Pasolini
di Maria Federica Moscati
L’intento di questo scritto è condividere alcune iniziali riflessioni di una ricerca ancora in corso su come l’infanzia e l’adolescenza siano rappresentate nell’opera di Pasolini e una sua comparazione con il diritto e i metodi di ricerca. Come suggerito dalla citazione nel titolo, queste brevi riflessioni si concentrano su Comizi d’Amore.[1]
In generale, infanzia e adolescenza hanno un ruolo importante nell’opera di Pasolini. Pasolini racconta la propria infanzia e l’adolescenza, ma dedica spazi importanti a bambini/e, adolescenti e giovani adulti. Mamma Roma, Edipo Re, Ragazzi di Vita sono solo alcuni esempi di tale narrazione. A ben guardare, quella che ne esce è una fotografia di bambini/e ed adolescenti non considerati ‘minori’ ma persone. Benché raccontati alcune volte di adolescenti in situazioni di degrado, e benché all’epoca la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989) ancora non esistesse, bambini/e ed adolescenti sono comunque considerati/e non solo in termini di protezione ma soprattutto come agenti. Inoltre, potremmo spingerci quasi a sostenere che Pasolini adotti un approccio contestuale e intersezionale nella sua rappresentazione: età, genere, classe sociale, livello di istruzione, relazioni familiari, ambiente sono analizzati e utilizzati per raccontare l’infanzia. Lontano da una visione paternalistica italiana, per la quale bambini/e e adolescenti sono considerati estensione dei genitori, i bambini, bambine e adolescenti in Pasolini non sono infantilizzati ma empowered. Questa visione agente e partecipativa di bambine/i e adolescenti non sempre è condivisa da diritto, politiche e programmi scolastici, o dall’etica metodologica da applicare quando si sviluppano ricerche con bambini/e e adolescenti.[2]
Comizi d’Amore, film inchiesta girato agli inizi degli anni 60 e basato su interviste riguardo vari aspetti della sessualità, è un’opera in cui partecipazione e ascolto confluiscono. Tra le varie persone che Pasolini intervista vi sono bambine/i e adolescenti di varie età. Perché tutto questo sarebbe originale, qualcuno potrebbe chiedere?
L’innovativa unicità non è solo nei temi ma anche nella metodologia e nei metodi partecipativi utilizzati da Pasolini – l’autore racconta infanzia e adolescenza ma lo fa adottando metodi partecipativi anche su temi, quali la sessualità, che ancora oggi, occultati da stigma e pseudo protezione per l’infanzia, sono ritenuti non alla portata di bambine/i e adolescenti. Le domande sono dirette, il tono loquace e inclusivo ma mai infantilizzato, il linguaggio è tecnico (o meglio è lo stesso utilizzato per le domande poste agli adulti).
L’ approccio metodologico che Pasolini usa, analizzato alla luce delle procedure e principi etici da seguire per ricerche che coinvolgano minori di età, avrebbe richiesto considerevoli cambiamenti prima di essere approvato. Ad esempio, Comizi d’Amore si apre con la frase ‘Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini’. Al giorno d’oggi potremmo comprendere come si eviterebbe di usare la parola ‘malandrino’ perché potrebbe essere considerata denigrante. Seguire principi etici quando si fa ricerca empirica è doveroso, e lo è di più quando bambine/i e adolescenti sono coinvolti. Ugualmente importante è cercare di proteggere chi partecipa in progetti di ricerca da rivittimizzazione, imbarazzo, domande denigratorie. Ma una riflessione sul trovare un giusto equilibrio tra protezione e infantilizzazione quando si sviluppano ricerche partecipative con bambine/i e adolescenti è necessaria.
In questo senso, non si potrebbe considerare che il tono scherzoso nel dire ‘malandrino’ non risulti comunque meno offensivo del termine ‘minore’? Il linguaggio si presta a essere adoperato come strumento sia di emancipazione sia di oppressione, sia per sottolineare posizione di potere. Come esempio di linguaggio usato per emancipare penso alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989). La Convenzione adopera il termine child che non ha nessun riferimento a genere o sesso – include entrambi bambina e bambino.[3] Non è un caso che la Convenzione usi la parola ‘bambino/a’ e non ‘minore’ e che si usi il singolare e non il plurale. Questo linguaggio è sintomatico di una rinnovata visione dell’infanzia in cui ogni singolo bambino/a è titolare di diritti propri e differenti da quelli degli adulti. Come esempio invece di oppressione e sbilanciamento di potere penso al nostro ordinamento e all’utilizzo della parola ‘minore’ che ricorre spessissimo in giurisprudenza, dottrina, e in testi normativi. La parola ‘minore’ sembra quasi connotare una posizione di inferiorità di coloro che non hanno ancora compiuto 18 anni e giustificarne la relativa compressione dei diritti e subordinazione a interessi e decisioni degli adulti.
Ancora, le domande che Pasolini pone riguardano la sessualità in svariate sfaccettature incluso il divorzio, l’omosessualità, e la differenza tra sessualità e amore. Queste tematiche ci portano a considerare se e come la voce di bambine/i e adolescenti sia effettivamente ascoltata. Per esempio, ascoltare la voce di bambini/e e adolescenti durante il divorzio è un tema dibattuto da ricercatori e professionisti di vari ambiti in vari paesi e sempre di più riceve consenso includere bambini/e e adolescenti durante la mediazione familiare. La ratifica della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza ha contribuito allo sviluppo dell'idea che la partecipazione sia ora ritenuta necessaria nel corso del procedimento di separazione, divorzio e quelli relativi allo scioglimento della convivenza. Tuttavia, dubbi ancora rimangono sulla discrezionalità nel decidere se la partecipazione corrisponda ai best interests e sul peso che la voce di bambini/e abbia sulla decisione finale.
Altro esempio, domandare ‘che differenza fai tu tra sessualità e amore’, nel porre le domande, e nel riassumere quello che bambini/e dicono, Pasolini sembra anche cercare di educarli/e alla sessualità. Questo stride con la mancanza in Italia di politiche scolastiche che sviluppino percorsi adeguati in tema di educazione all’affettività e alla sessualità.
Più avanti nei Comizi, Pasolini fa a una madre domanda sull’orientamento sessuale del figlio. Il fatto stesso di chiedere un’opinione su tale argomento stride con l’attuale invisibilizazione di bambini/e e adolescenti LGBTIQ[4] in Italia. I diritti di bambini e adolescenti LGBTIQ sembrano scomparire o almeno diventare evanescenti dai discorsi legali. Eppure è noto che tali bambine/i e adolescenti siano sottoposti a violazioni, abusi e limitazioni. Insieme ad una cultura generale dell’eterosessualità, penso che l’approcciare la sessualità di bambini ed adolescenti quale tabù o quale argomento delicato da lasciare alla clinica, alla patologia, o relegare a discussioni da tenersi sottovoce per evitare che si urtino sensibilità e menti, ha come effetto solo il mettere ancora più a rischio le loro vite. Ho l’impressione che una certa cultura di quello che io chiamo il falso rispetto e falso interesse nella protezione dei diritti contribuisca in realtà a non rispettare tutti quei bambini/e e adolescenti che non si conformano al modello binario maschio-femmina eterosessuale. È come se consapevolmente si sia deciso di negare l’esistenza di tutto ciò che non sia eterosessuale o non rientri nel binarismo maschio/femmina.
Curiosità, rispetto e inclusione caratterizzano, a mio avviso, le conversazioni tra Pasolini e bambini/e e adolescenti in Comizi d’Amore...ciò che bambine, bambini e adolescenti necessitano anche nel diritto, sua interpretazione e applicazione.
[1] Per una generale disamina di Comizi d’Amore, si veda: Antonelli Carli, Laura (2015) ‘Comizi d’amore di Pasolini e l’Italia degli anni Sessanta’, disponibile al sito: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/comizi-damore-di-ppp-mappa-italiana-della-sessualita/. Si veda anche Halliday, Jon (1969) Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Milano: Uno Guanda Editore, Capitolo 5 ‘Comizi d’amore’ e ‘La Rabbia’, pp. 93-97.
[2] Si veda ad esempio: https://childethics.com/reflexive-tool/#1638255296107-ca845caf-d8bb
[3] Bilotta, F. e Moscati, M.F (2020) “Nella Giornata dell’Infanzia si dia valore alla Convenzione che tutela i diritti dei bambini”, Il Dubbio.
[4] Lesbica, gay, bisessuale,trans, intersex, queer.
La spada penale trafigge i rave party. Osservazioni attorno al nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi (art. 434 bis c.p.)” di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi” - 2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno - 3. I soggetti attivi del reato - 4. Note conclusive - 5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione.
1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”
Con il Decreto-legge 31 ottobre 2022 n.162, il governo in carica ha introdotto nel codice penale, all’art. 434 bis, la nuova figura delittuosa dell’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Il fine dichiarato dell’intervento normativo è di prevenire e contrastare il fenomeno “dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (c.d. rave party)”; come si legge testualmente nella - per la verità, stringatissima - relazione illustrativa della disposizione.
Mai, come in questo caso, la sintesi giornalistica utilizzata dai mezzi di comunicazione per commentare una nuova fattispecie di reato è riuscita ad esprimere in maniera tanto precisa le reali finalità politico-criminali perseguite dal legislatore e le effettive intenzioni del Governo: l’art. 434 bis c.p. è stato concepito sin dal principio come una norma penale “anti-rave party[1]”. Tanto la citata Relazione illustrativa, quanto le dichiarazioni ufficiali rese dalla Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro degli Interni hanno chiaramente confermato come l’obiettivo dell’esecutivo sia di punire i partecipanti e soprattutto, i promotori e gli organizzatori dei c.d. “rave party[2]”.
Altrettanto di rado, lo slogan securitario posto alla base di un’opzione di politica-criminale è stato palesato in modo tanto inequivoco e senza alcun tipo di infingimento da parte delle forze politiche promotrici: si intende colpire con durissime sanzioni penali il fenomeno dei rave party. Poco importa se, così facendo, vi è il rischio di introdurre norme penali incostituzionali; o se ciò determina una pericolosa deviazione dai canoni di sussidiarietà, frammentarietà ed extrema ratio che dovrebbero guidare le scelte di incriminazione del legislatore verso un modello di diritto penale razionalmente orientato. Il fine giustifica i mezzi.
A fronte di cotanta nettezza, risulterebbe dunque ridondante - oltre che scientificamente improficuo - restringere le ragioni di un’analisi dettagliata della nuova incriminazione esclusivamente all’urgenza di stigmatizzarla come un’ennesima manifestazione di populismo penale da parte del legislatore[3]. Che si tratti di un intervento normativo generato dall’irrazionale “passione di punire” che affligge l’età contemporanea[4], non vi è alcun dubbio. Lo stesso legislatore non ne ha, del resto, fatto mistero.
Più che per i profili di politica-criminale, la nuova fattispecie incriminatrice suscita invero interesse per aspetti squisitamente tecnici. Dal punto di vista lessicale e strutturale, essa appare talmente farraginosa, sciatta e tautologica da mettere a dura prova l’abilità esegetica anche di penalisti di chiara fama[5]. Il tentativo di attribuirle un qualche plausibile significato mette di fronte ad un vero e proprio rompicapo da cui si può ricavare una cartina di tornasole rispetto ad una modalità di errato utilizzo delle categorie penalistiche; un esempio paradigmatico di come non andrebbe (mai) scritta una norma penale incriminatrice.
2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno
Il primo errore tecnico commesso dal legislatore nella formulazione della nuova fattispecie si rinviene nell’incipit della stessa. La norma non si apre con la descrizione del fatto tipico, ma con una definizione esplicativa della rubrica che viene peraltro tautologicamente ripetuta nel contenuto della disposizione.
Com’è noto, le norme di carattere definitorio hanno lo scopo di chiarire il significato di elementi costitutivi del fatto tipico o di nozioni utilizzate dal legislatore penale con riferimento ad una pluralità di fattispecie incriminatrici (es. la definizione di pubblico ufficiale ex art. 357 comma 2 c.p.; la nozione di cosa mobile rilevante nell’ambito dei reati contro il patrimonio - art. 624 comma 2 c.p. etc.). Spetta invece alle norme penali incriminatrici il compito di descrivere la condotta tipica penalmente rilevante ed i soggetti attivi della stessa (es. chiunque cagiona la morte di un uomo etc.); ossia, contengono il precetto penalmente rilevante che opera nei confronti dei destinatari come un divieto.
Nel caso dell’art. 434 bis c.p., il legislatore compone la norma penale incriminatrice alla stregua di una norma definitoria, confondendo nella sostanza i due tipi di disposizioni e commettendo un imperdonabile errore tecnico. Bisogna così scorrere la disposizione sino ai commi successivi per riuscire ad individuare i soggetti attivi del reato; rispettivamente, i promotori e gli organizzatori dell’invasione (comma 1) e i partecipanti all’invasione stessa (comma 2). All’insolita scelta di impiegare una tecnica normativa di tipo definitorio nella redazione di una norma incriminatrice si aggiunge poi la sciatteria linguistica dell’aver utilizzato un verbo - “consistere” - che nel contesto della disposizione incriminatrice risulta del tutto pleonastico.
L’espressione “consiste” viene in genere usata per indicare gli elementi costitutivi di un dato di realtà, empiricamente definito. Il “consistere di qualcosa” ha infatti a che fare più con la dimensione ontologica di un ente materialmente esistente, che non con gli elementi di una fattispecie normativa astratta. Se anche si vuole utilizzare tale verbo per delineare i contrassegni di una fattispecie normativa tipica, l’impiego dello stesso all’interno di una norma incriminatrice suona come un’evidente tautologia. È come se, nel descrivere la condotta tipica del reato di omicidio, il legislatore esordisse nel seguente modo: «l’omicidio consiste nel cagionare la morte di un uomo». Si tratta di una trascuratezza linguistica davvero inaccettabile da parte di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il lessico delle norme penali.
Dopo aver superato l’ostacolo espressivo, il lettore si imbatte finalmente nella descrizione degli elementi costitutivi del fatto tipico. Viene sanzionata l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati. Evidente è, qui, il rinvio alla condotta tipica del reato di invasione arbitraria di terreni o edifici pubblici o privati commessa al fine di occupazione o di trarne altrimenti profitto (art. 633 c.p.). In entrambe le fattispecie incriminatrici, si punisce la condotta di invasione di un immobile realizzata arbitrariamente; ossia, commessa contra ius o in assenza di un legittimo titolo di accesso e per un periodo di tempo apprezzabile[6].
Rispetto alla fattispecie gemella, l’art. 434 bis c.p. presenta però una serie di elementi eterogenei. La prima differenza si rintraccia nel numero dei partecipanti all’invasione che nel nuovo delitto deve essere necessariamente superiore a cinquanta. Il secondo elemento differenziale investe invece il dolo specifico. Nella norma “anti-rave”, il fine di occupare o di trarre altrimenti profitto che connota l’invasione lesiva dell’altrui patrimonio viene sostituito dallo scopo di organizzare un raduno.
Nonostante le numerose affinità, la neonata disposizione non sembra tuttavia norma speciale rispetto all’art. 633 c.p.[7]; a meno di non voler ritenere che essa sia legata all’omologa fattispecie patrimoniale da un rapporto di specialità reciproca. Ciascuna delle due disposizioni incriminatrici presenta in effetti un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra norma incriminatrice. Non si può, dunque, escludere che le due norme incriminatrici concorrano effettivamente; anche tenuto conto che ciò verrebbe avvalorato dall’eterogeneità dei rispettivi beni giuridici oggetto di tutela: il patrimonio nell’art. 633 c.p.; l’incolumità pubblica, la salute pubblica e l’ordine pubblico nel nuovo delitto di invasione arbitraria per raduni.
Dal punto di vista del reale disvalore penale sostanziale però, la soluzione del concorso effettivo non convince però del tutto. Essa determina un’irragionevole duplicazione sanzionatoria rispetto ad un fatto che esprime un significato unitario. Per questo, è preferibile ritenere che il più grave reato di invasione arbitraria a scopo di raduno assorba la più lieve fattispecie di invasione arbitraria, commessa al fine di occupazione o di profitto.
Non vi è dubbio, infatti, che perlomeno in alcuni casi, il dolo specifico di organizzare un raduno implichi anche il correlativo scopo di occupare. Nell’ambito di un normale quadro di vita, può accadere che l’orientarsi finalistico della condotta verso lo scopo di organizzare un raduno implichi una previa occupazione dell’immobile invaso, per un periodo di tempo sufficiente a consentire alla moltitudine di persone che compongono il raduno di accedervi. Non è perciò infrequente che un gruppo composto da più di cinquanta persone, il quale intenda avvalersi arbitrariamente di un’area o di un edificio altrui per organizzare un rave party, permanga nell’immobile invaso per un tempo apprezzabilmente maggiore a quello necessario ad integrare la semplice invasione, compatibile anche con la condotta di “occupare”. Ciò si verifica, in effetti, quando la carovana dei partecipanti al rave sosta con furgoni, camper o roulotte nell’area invasa per più giorni, prima e dopo lo svolgimento dello stesso rave party.
Da quanto detto emerge peraltro come l’oggettività giuridica del reato di cui all’art. 434 bis c.p. comprenda necessariamente anche la lesione patrimoniale, in quanto la condotta di invasione arbitraria risulta già di per sé offensiva del possesso e della proprietà altrui[8].
Con riguardo all’oggetto del dolo specifico di organizzazione del raduno invece, è stato correttamente osservato come il legislatore paia riprendere ivi una terminologia del codice fascista; in particolare, l’art. 655 c.p. che punisce le c.d. “radunate sediziose[9]”. Per esegesi consolidata, si ritiene che il nucleo della condotta tipica di tale norma incriminatrice imponga di leggere la nozione di radunata come inscindibile dall’aggettivo che la qualifica. A rendere penalmente rilevante la riunione di più persone è il fatto che essa risulti, per l’appunto, oggettivamente sediziosa; ossia, idonea a mettere in pericolo l’ordine pubblico in quanto volta a disconoscere i valori costituzionali dello Stato o ostile all’integrità, all’unità o all’indipendenza dello stesso; oppure, in quanto tende a determinare la discordia o il malcontento nella popolazione o atteggiamenti di ribellione e disobbedienza alla pubblica autorità[10]. Come nell’invasione arbitraria lesiva del patrimonio sussiste un nesso di interdipendenza teleologica fra la condotta materiale dell’invadere e il fine di occupare, anche nel reato di cui all’art. 655 c.p., la radunata trae interamente il proprio significato di disvalore penale dal suo orientarsi oggettivo a fini di “sedizione[11]”.
Tuttavia, la finalità di sedizione scompare nella radunata oggetto del dolo specifico della nuova norma “anti rave”; qui, è sufficiente che il raduno risulti astrattamente idoneo a porre in pericolo l’ordine pubblico, la salute pubblica o l’incolumità pubblica. La volontà di far convergere un numero indeterminato di persone nell’edificio o nel terreno arbitrariamente invaso deve, cioè, dirigersi verso l’organizzazione di un raduno di individui che non è necessario sia volto a realizzare uno specifico scopo collettivo, purché risulti potenzialmente in grado di porre in pericolo i beni collettivi sopra citati.
Come nel reato di cui all’art. 633 c.p. è il rapporto tra l’invasione e il fine di occupare l’immobile che determina il nucleo di significato penale della condotta punita, così, anche, l’invasione arbitraria ex art. 434 bis c.p. deve risultare oggettivamente conforme alla realizzazione della specifica finalità di organizzare un raduno che ne connota il vero contenuto di disvalore. L’invasione di immobili penalmente rilevante non può, cioè, che essere quella oggettivamente connotata dall’idoneità di realizzare il fine del raduno, il quale concorre a rafforzare l’offesa al bene giuridico del patrimonio, già realizzatasi con la semplice invasione arbitraria.
Dalla formulazione letterale della norma sembra poi che la capacità astratta di porre in pericolo l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico costituisca una qualità del raduno, oggetto del dolo specifico; non una condizione obiettiva di punibilità, né un evento di pericolo che scaturisce dall’invasione arbitraria. L’espressione «quando dallo stesso può derivare un pericolo per…» è infatti chiaramente riferita nel testo della disposizione al contenuto del dolo specifico[12].
Trattandosi di un contrassegno offensivo della finalità specifica della condotta, non occorre che il pericolo si verifichi in concreto; come del resto non è necessario che abbia effettivamente luogo lo stesso raduno, essendo sufficiente che l’invasione arbitraria sia animata dalla voluntas di dar vita ad una radunata potenzialmente pericolosa per i beni protetti; a prescindere dal fatto che questa avvenga.
D’altro canto, neppure, la natura plurioffensiva dell’incriminazione può riuscire a ritagliare un qualche ambito di legittimazione ad un’incriminazione che si pone in irrimediabile contrasto con il criterio della necessaria dannosità sociale del reato. La particolare severità del trattamento sanzionatorio previsto dimostra, infatti, in modo inequivoco come nell’ottica del legislatore, l’offesa al patrimonio cagionata dall’invasione arbitraria abbia un rilievo secondario rispetto alla centralità della messa in pericolo dei beni collettivi indicati.
3. I soggetti attivi del reato
Soggetti attivi del reato sono gli organizzatori e i promotori dell’invasione. La norma non incrimina chi organizza o promuove il raduno, ma chi pianifica e dirige l’invasione arbitraria finalizzata al raduno. L’invasione arbitraria diviene però penalmente rilevante ai sensi dell’art. 434 bis c.p. soltanto se commessa da più di cinquanta persone; sicché, laddove ad invadere l’immobile sia un gruppo più ristretto di soggetti, i promotori e gli organizzatori non verranno comunque puniti, neppure se in seguito dovesse effettivamente svolgersi il raduno pericoloso di una moltitudine di gente. La soglia numerica minima di soggetti agenti è infatti riferita all’invasione, non alla radunata.
Quanto ai partecipanti all’invasione arbitraria, il comma 3 dell’art. 434 bis c.p. stabilisce che essi vengano puniti meno severamente rispetto ai promotori e agli organizzatori, ma non indica l’entità della diminuzione di pena. In assenza di espliciti riferimenti, per quantificare il relativo trattamento sanzionatorio non resta altra strada che ricorrere alle regole generali in materia di circostanze attenuanti e ritenere che ai sensi dell’art. 65 c.p. la pena debba essere diminuita in misura non eccedente un terzo. Va da sé che tali soggetti saranno puniti, anche laddove prendano parte soltanto all’invasione arbitraria e non altresì al successivo (eventuale) raduno.
Si tratta in definitiva di un reato a concorso necessario di proporzioni davvero elefantiache. Il numero minimo di compartecipi va bene oltre la soglia di tre persone richiesta per le ben più gravi fattispecie associative. Ad essere punita è, cioè, l’invasione di edifici o terreni realizzata da una massa indefinita di persone che deve essere superiore a cinquanta, ma che può anche sfiorare l’ordine delle decine di migliaia. Non vi è chi non si avveda come sia proprio la natura “massiva” della condotta materiale di ingresso nella proprietà altrui, in quanto teleologicamente orientata al successivo raduno, a venire considerata dal legislatore come di per sé sintomatica della pericolosità di quest’ultimo. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’urgenza del legislatore di stabilire un requisito così elevato di numerosità dei soggetti attivi.
Ebbene, pur tralasciando i molteplici problemi pratici che una previsione di questo tipo genera sul versante processuale - dato l’obbligo di procedere d’ufficio nei confronti di una moltitudine di indiziati e di potenziali indagati - resta del tutto oscura la ratio che ha ispirato la scelta di fissare in più di cinquanta il numero minimo di soggetti agenti. Per quanti sforzi si facciano per rintracciare una qualche dimensione di senso, l’indicazione di tale soglia appare sostanzialmente illogica ed arbitraria.
4. Note conclusive
Numerosi, e per verti versi, insuperabili, appaiono i profili critici della norma in commento: imprecisioni linguistiche, approssimazione nell’uso della tecnica di redazione delle norme penali, eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale, arbitrarietà nella determinazione del numero dei compartecipi necessari al reato, eccessivo rigore sanzionatorio, vaghezza delle nozioni impiegate nella descrizione del fatto tipico etc.
La ragione dell’incriminazione risiede interamente nella presunta pericolosità intrinseca dei raduni di “folle” e, soprattutto, dei soggetti che li organizzano e li promuovo. La massa indistinta di individui che si concentra in un luogo pubblico o privato - soprattutto se composta da giovani dai costumi inusuali e “alternativi” - viene ritenuta di per sé idonea a porre in pericolo l’ordine pubblico o il più indefinito interesse della collettività alla propria sicurezza; a prescindere dal fatto che il raduno si svolga poi in maniera ordinata o che esso ex post non si sia rivelato un’occasione per la commissione di reati più gravi (traffico di stupefacenti, devastazione etc.). Il raduno è avvertito dal legislatore come una minaccia talmente seria per i beni collettivi da giustificare la punizione della semplice intenzione di realizzarlo; come una sorta di istigazione collettiva alla violazione delle regole.
È sin troppo evidente, infatti, che l’oggettività giuridica della fattispecie si concentra sul dolo specifico di organizzare la radunata, più che sull’invasione arbitraria di immobili altrui, la quale viene utilizzata dal legislatore soltanto per schivare il rischio che la norma incriminatrice dei rave party finisca con il punire le mere intenzioni. Occorreva, in sostanza, individuare un fatto materiale (l’invasione arbitraria, in questo caso) cui poter ancorare l’anticipazione della tutela penale rispetto alla sanzionabilità della mera voluntas di radunarsi.
Ne è derivata una norma incriminatrice dalle incontenibili potenzialità espansive; d’ora in avanti, qualunque organizzatore o partecipante ad un’occupazione abusiva e pacifica di aree, spazi o edifici, commessa per scopi leciti, o per finalità moralmente e socialmente approvate (per esempio, per finalità di protesta politica o sociale) rischia una sanzione che va dai tre ai sei anni di reclusione, per il promotore; e sino a cinque anni e undici mesi, per il partecipante.
All’evidente effetto boomerang generato da una diposizione il cui ambito applicativo travalica di gran lunga lo specifico fenomeno dei rave party, si affianca poi l’oggettiva sproporzione dello strumento sanzionatorio impiegato, rispetto allo scopo di prevenzione prefissato. Non vi era alcuna necessità politico-criminale di prevedere una nuova incriminazione per prevenire il fenomeno. Si rinvengono già nell’ordinamento giuridico disposizioni adeguate a fornire una sicura base normativa per eventuali interventi preventivi delle forze dell’ordine, in caso di occupazione arbitraria di un terreno e di un edificio per tenervi un rave party.
Rilievi segnaletici, sgomberi e sequestri possono essere disposti dall’Autorità di pubblica sicurezza in caso di violazione dell’art. 18 del Testo Unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza (TULPS), il quale prevede che i promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico nei diano avviso, almeno tre giorni prima, al Questore. Quest’ultimo, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
La violazione dell’obbligo di preavviso è di per sé punibile a titolo contravvenzionale, ai sensi del comma 1 del suddetto art. 18 TULPS; così come, viene sanzionata penalmente - sempre in forma contravvenzionale - l’inosservanza delle prescrizioni imposte dal Questore (art. 18 comma 4 TULPS). Mentre l’art. 17 TULPS prevede, in via sussidiaria, la punibilità con l’arresto o ammenda di tutte le violazioni al TULPS che non siano altrimenti sanzionate con pena o sanzione amministrativa. Infine, non è un caso che in perfetta coerenza con la finalità di prevenzione che le pertiene, la legislazione complementare di polizia stabilisca che non sia comunque punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’autorità o per obbedire ad essa, si ritiri dalla riunione non autorizzata (art. 18, ultimo comma TULPS). Una sorta di premialità del recesso volontario che sovente rende possibili gli sgomberi pacifici.
Il quadro normativo vigente appare dunque tutt’altro che carente di strumenti adeguati a contenere il fenomeno dei rave e a prevenire gli eventuali pericoli per beni collettivi e individuali, di varia natura che da essi possono derivare. La scelta di ricorrere ad una norma penale ad hoc, sostanzialmente superflua rispetto ai fini di prevenzione generale perseguiti, rappresenta piuttosto l’eterno ritorno della tendenza del legislatore a far assurgere l’interesse generico alla sicurezza pubblica ad oggetto diretto della tutela penale; nell’erronea convinzione che spetti alla sanzione penale il compito di rafforzare le misure extrapenali di prevenzione dei pericoli, altrimenti ritenute ineffettive[13].
Rispetto all’art. 434 bis c.p., il segno evidente di tale approccio securitario si rintraccia nell’assoluta evanescenza del nesso di offensività tra il fatto punito e l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico. Invece di orientarsi teleologicamente verso la prevenzione di una relazione di pericolo - epistemologicamente fondata - nei confronti dei beni giuridici meritevoli di protezione penale, la fattispecie incriminatrice risulta asservita alle funzioni di controllo e di prevenzione delle persone e delle folle pericolose; funzioni che sono però tipiche del diritto amministrativo di polizia[14]. Essa interviene, cioè, a coprire un bisogno, più o meno, irrazionale di sicurezza pubblica e trae in ciò la propria legittimazione.
Il meccanismo è, purtroppo, tristemente noto e di frequente reiterato dal legislatore contemporaneo. Alla base dell’incriminazione ricorre la precisa volontà di fare un uso strumentale del diritto penale per fini di consenso elettorale. Si passa dal paradigma del diritto penale quale extrema ratio, all’idea che la funzione primaria della sanzione penale consista nel tranquillizzare l’opinione pubblica, attenuandone gli stati emozionali di insicurezza collettiva[15].
Le legittime istanze di sicurezza di cui il diritto penale può farsi carico perché rivolte a fini di tutela dei beni giuridici meritevoli di protezione cedono, così, il passo alla tutela diretta di un indistinto interesse alla sicurezza tout court, che finisce con il fagocitare la sfera delle libertà individuali[16]. Quando infatti, come nel caso del delitto in questione, l’equilibrio del «rapporto obbligato tra sicurezza e libertà[17]» viene alterato e distorto, ne deriva l’effetto finale di rendere insicure le libertà fondamentali degli individui; esposte al rischio, tutt’altro che evanescente, di un’ingiusta compressione attraverso la coercizione penale.
5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione
Nelle more della pubblicazione di questo contributo, l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia ha depositato una proposta di emendamento alla Legge di conversione del Decreto-legge n. 162/2022 che interviene sulla fattispecie in commento, modificandone la collocazione cocidicista ed alcuni elementi strutturali[18].
Senz’altro apprezzabile è la scelta di trasferire la disposizione incriminatrice dal titolo dei reati contro l’incolumità pubblica al titolo dei reati contro il patrimonio; in particolare, al nuovo art. 633 bis c.p. Ciò serve ad evidenziare la segnalata simmetria con l’omologa fattispecie di invasione arbitraria di immobile a scopo di occupazione (art. 633 c.p.) e rende palese la dimensione plurioffensiva del reato, necessariamente comprensiva anche dell’offesa al patrimonio, che era invece rimasta in chiaroscuro nella prima versione della disposizione. Di più, la revisione della collocazione topografica denota la precisa volontà di assegnare alla lesione patrimoniale quel rilievo centrale che nella formulazione vigente non sembra possedere.
Si restringe inoltre la tipicità della fattispecie ai soli raduni «musicali o ad altro scopo di intrattenimento», con l’intento di evitare il sopra menzionato effetto boomerang di estensione dell’area applicativa della norma a raduni realizzati anche per scopi di altra natura; per esempio, alle adunate collettive per fini di protesta, politica o sociale. Circa la ragionevolezza di tale restrizione, permangono nondimeno non pochi dubbi; non è infatti del tutto chiaro quale sia il contenuto sostanziale di (maggiore) disvalore che connoterebbe i raduni musicali o di intrattenimento, rispetto ai raduni volti ad altre finalità. La scelta conferma piuttosto l’idea che alla base dell’incriminazione vi sia una presunzione di intrinseca pericolosità oggettiva nei confronti dei c.d. “rave-party”.
Non a caso, l’emendamento si preoccupa di prevenire eventuali future obiezioni sul punto, definendo in maniera più stringente i contorni dell’offesa penalmente rilevante. Occorre che il pericolo per la salute pubblica, l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica si verifichi in concreto, a causa dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti, o di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento; anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi. Il reato diviene dunque di pericolo concreto e l’evento lesivo è posto in connessione causale con la condotta di invasione; e non più con l’oggetto del dolo specifico. A cagionare la situazione di concreta messa in pericolo dei beni collettivi protetti deve, cioè, essere l’invasione arbitraria.
Il tentativo di rimediare in tal modo all’oggettivo deficit di offensività della precedente versione della norma non può che essere accolto con favore. Qualche perplessità suscita invece il requisito dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti o di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Si tratta in questo caso di una clausola di illiceità speciale che opera come contrassegno dell’offesa tipica. La messa in pericolo dei beni collettivi cagionata dall’invasione costituisce conseguenza di un’invasione non soltanto arbitraria, ma anche realizzata in violazione delle regole indicate, le quali possono tuttavia integrare tanto meri illeciti amministrativi, quanti illeciti penali. In tale seconda evenienza, la commissione di altri reati, - per esempio, in materia di stupefacenti - da parte dei promotori e degli organizzatori dell’invasione rileva sia in modo autonomo, che come indice di concreta idoneità lesiva o di offensività della condotta di occupazione. Il che può generare evidenti problemi di coordinamento tra la nuova fattispecie e le altre norme incriminatrici la cui violazione integri il suddetto requisito di illeceità speciale. Non è invero affatto scontato che gli illeciti penali sussidiari o accessori possano considerarsi assorbiti nella nuova incriminazione.
A ciò si aggiunge poi la complessità del rapporto strutturale instauratosi fra il requisito dell’arbitrarietà dell’invasione e la violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Considerato che le relative autorizzazioni, ove richieste, vengono rilasciate a condizione che siano garantiti i necessari standard di igiene e sicurezza, l’arbitrarietà dell’invasione può ora, di per sé, rilevare anche ai fini del diverso requisito dell’inosservanza delle specifiche regole cautelari e di prevenzione, menzionate dalla disposizione.
Nell’ottica di meglio precisare i contorni offensivi del fatto punibile, l’emendamento sopprime inoltre la necessaria numerosità dei soggetti attivi e le attribuisce un rilievo soltanto indiretto (peraltro svincolato dalla quantificazione di una precisa soglia numerica), quale possibile indice o indicatore sintomatico della pericolosità del fatto rispetto ai beni collettivi oggetto tutela; insieme alla valutazione dello stato dei luoghi. La natura massiva dell’invasione e il fatto che essa comporti un’alterazione, di qualsiasi genere, dello stato dei luoghi (es. danneggiamento, devastazione, deturpamento etc.) rilevano quali eventuali elementi di contesto; utili ad accertare la sussistenza dell’accadimento di pericolo, ma che non occorre si realizzino in ogni caso, ai fini dell’integrazione del reato.
Viene meno infine la punibilità dei partecipanti all’invasione, i quali sarebbero sanzionabili soltanto ai sensi del meno grave reato di cui all’art. 633 c.p.; mentre si indicano come unici soggetti attivi del reato i promotori e gli organizzatori. Invariata l’entità del trattamento sanzionatoria, con tutte le conseguenze che ne derivano in materia processuale. Scompare invece molto opportunamente il riferimento alla possibilità di applicare misure di prevenzione personale.
Dalla lettura della proposta di emendamento, si ricava la sensazione - peraltro confermata dalla Relazione illustrativa al testo - che il legislatore abbia voluto concentrare la principale ragione dell’incriminazione nell’offesa al patrimonio, considerando la messa in pericolo dei beni collettivi una conseguenza lesiva ulteriore, idonea a legittimare la previsione di un trattamento sanzionatorio più severo di quello stabilito nella fattispecie base di cui all’art. 633 c.p.
Sennonché, rispetto alla nuova struttura del fatto, appare eccentrica la previsione di restringere l’ambito applicativo della norma attraverso il dolo specifico del raduno musicale o per altro scopo di intrattenimento. Se, infatti, lo scopo della fattispecie è davvero quello di punire più severamente le occupazioni di edifici o immobili che siano sfociate in un’effettiva messa in pericolo - in via alternativa - dei beni collettivi selezionati, dal punto di vista empirico, non si può escludere che tale pericolo possa in concreto derivare anche da invasioni arbitrarie di immobili finalizzate a realizzare altri tipi di raduni. Vi è in sostanza un’errata generalizzazione alla base dell’idea che il fenomeno dei rave sia di per sé portatore di una carica di pericolosità oggettiva maggiore, rispetto a quella di qualunque altra riunione di una moltitudine di persone cui una condotta lesiva dell’altrui patrimonio risulti orientata.
[1] Espressione utilizzata, tra gli altri, da Micromega, 2 novembre 2022 e dal Corriere della sera online, 2 novembre 2022.
[2] Testualmente, la Presidente del Consiglio dei ministri, on. Giorgia Meloni, alla conferenza stampa del Consiglio dei ministri, 31 ottobre 2022: «Ci aspettiamo di non essere diversi dalle altre Nazioni d’Europa. Quando ci fu il famoso rave di Viterbo, mi colpì che migliaia di persone arrivate in Italia a devastare, provenivano da tutta Europa, perché l’impressione che in questi anni ha dato l’Italia è stata di lassismo rispetto alle regole. Ora l’Italia non è più la Nazione in cui si può venire a delinquere, ci sono le norme e vengono fatte rispettare, Vedremo se con l’applicazione della norma accadrà ancora o se si dovrà migliorare. Questo può essere un deterrente per proibire di venire qui a devastare».
In un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 2 novembre 2022, il Ministro degli Interni Piantedosi ha dichiarato: «Credo sia interesse di tutti contrastare i rave illegali. Trovo invece offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento. In ogni caso la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social. In quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo».
[3] Sulla nozione di «populismo penale» si rinvia al volume di Donini M., Populismo e ragione pubblica, Modena, 2019 ed al suo più recente contributo dal titolo Populismo penale e ruolo del giurista, in Sist. pen., 7 settembre 2020.
[4] Il riferimento è al saggio di Fassin D., Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018.
[5] Invitato dalla trasmissione televisiva, Di martedì, del 1° novembre 2022 a fornire un commento a caldo della nuova norma, il prof. Tullio Padovani non ha esitato a definirla «un caso di analfabetismo legislativo»,
[6] Nel reato di cui all’art. 633 c.p., la permanenza deve tuttavia perdurare per un periodo di tempo sufficiente a rendere evidente il nesso della condotta con la finalità di occupare tenuto conto che l’occupazione di un immobile si realizza soltanto se la presenza all’interno di esso dei soggetti attivi non sia momentanea, ma apprezzabilmente duratura. Si veda, Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, Milano, 2003, p. 252.
[7] Ritiene invece che fra le due incriminazioni vi sia un rapporto di specialità, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), in Sist. pen., 3 novembre 2022.
[8] Sul significato offensivo della condotta di invasione, si veda Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, cit., p. 249 e 250.
[9] Si veda Cavaliere A., L’art. 5 D.L. 31 ottobre 2022, n.162: tolleranza zero contro le “folle pericolose” degli invasori di terreni ed edifici, in Pen. dir. proc., 2 novembre 2022.
[10] Cass. pen., sent. 17 ottobre 1958; Cass. pen., sent. 10 giugno 1957; Cass. pen., sent. 17 marzo 1953.
[11] Per tutti Panagia S., La radunata sediziosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 570 e ss.; Bettiol R., Sulla struttura del reato di radunata sediziosa (art. 633 c.p.), in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 409 e ss.
[12] In tal senso, Forzati F., Gli equilibrismi del nuovo art. 434 bis c.p. fra reato che non c’è, reato che già c’è e pena che c’è sempre, in Arch. pen., 3/2022, p. 16 e ss. Contra, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), cit., p. 4.
[13] Amplissima la letteratura penalistica in materia, per tutti, si vedano: Militello V., Sicurezza e diritto penale: nuovi sviluppi in Italia, in Gedächtnisschrift zu Ehren von Prof. Dr. C. Dedes, Ant. Sakkoulas, Athen, 2013, p. 127-143; Pulitanò D., Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 147 e ss.; Donini M., La sicurezza come orizzonte totalizzante del discorso penalistico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011, p. 11 e ss.
[14] Per una descrizione analitica dei limiti, dei contenuti e degli scopi della funzione amministrativa di «polizia di sicurezza» - la quale essenzialmente consiste nell’attività di prevenzione finalizzata alla conservazione dell’ordine pubblico, della sicurezza, della pace sociale e dell’incolumità pubblica -, si veda Ursi R., La sicurezza pubblica, Bologna, 2022, p. 80 e ss.
[15] Profilo ben evidenziato da Militello V., Sicurezza e diritto penale, cit., pp. 140 e 141.
[16] Non vi è dubbio che nell’ambito del binomio «libertà e sicurezza», il diritto penale sia tenuto a ricercare un corretto bilanciamento e ad evitare pericolosi smottamenti del sistema a favore del primo elemento - la sicurezza - e a discapito del polo delle libertà; in tal senso, tra gli altri, oltre a Militello V., op. ult. cit., pp. 142 e 143, anche Pulitanò D., Sicurezza e diritti. Quale ruolo per il diritto penale, in Dir. pen. proc., 2019, p. 1542 e ss. Come opportunamente segnalato da Ursi R., La sicurezza pubblica, cit., pp. 27 e ss.; 90 e ss., la necessità di stabilire un punto di equilibrio tra libertà e sicurezza rappresenta un contrassegno tipico del paradigma giuridico della sicurezza tanto nella sfera penalistica, quanto in quella amministrativa.
Fortemente critico nei confronti della prospettiva che il diritto penale possa farsi legittimamente carico di istanze di sicurezza, è invece Naucke W., La robusta tradizione del diritto penale della sicurezza, illustrazione con intento critico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, cit., p. 79 e ss.; analogamente, giudica impossibile il raggiungimento di un equilibrio tra i due poli della libertà e della sicurezza, essendo le istanze di libertà destinate a soccombere a fronte della forza espansiva dei bisogni di sicurezza, Prittwitz C., La concorrenza diseguale tra sicurezza e libertà, ivi, p. 106 e ss.
[17] L’espressione è presa in prestito da Militello V., op. ult. cit., p. 143.
[18] Per il testo dell’emendamento si rinvia a https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=19&id=1361683&idoggetto=1364990
Perché gli adolescenti commettono reati? E come si può fare in modo che la domanda non espressa che sta alla base dell’atto deviante minorile venga riconosciuta e trovi una risposta all’interno del sistema penale minorile?
In questo scritto, che riassume decenni di esperienza clinica e scientifica e rielabora l’intervento svolto al Convegno annuale dell’AGIA in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti dei Bambini e degli Adolescenti, Alfio Maggiolini dà alcune possibili risposte e indica una prospettiva di responsabilità comune.
Reati minorili e bisogni evolutivi degli adolescenti
di Alfio Maggiolini*
Sommario: 1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale: i diversi fattori di rischio. 2. La prospettiva psicologica: il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti. 3. La risposta del sistema penale minorile: i tre livelli di intervento e la loro efficacia. La messa alla prova.
1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale.
La devianza minorile è un fenomeno multifattoriale, che può essere letto da molteplici punti di vista: giuridico, sociale, culturale, economico, psichiatrico, neurologico, antropologico e così via. La mia prospettiva di psicologo e psicoterapeuta è soprattutto attenta alla dimensione evolutiva, cioè alla relazione tra adolescenza e reati.
C’è un dato statistico consolidato che giustifica questo punto di vista. È la curva dei reati, che mostra come i reati tendano ad aumentare dall’ingresso in adolescenza e continuino a salire fino all’età del giovane adulto per poi progressivamente scendere. Non solo i reati sono più frequenti in questa fascia d’età, ma anche il rischio di recidiva è più elevato. Questo dato conferma in modo evidente che l’adolescenza è in sé un fattore di rischio per i reati minorili. Anche per questo la psicologia dello sviluppo e la psicopatologia evolutiva possono dare un contributo alla comprensione della delinquenza minorile.
L’adolescenza, in effetti, è una fase del ciclo di vita in cui c’è una particolare predisposizione alla trasgressività e all’impulsività. In primo luogo, il cambiamento puberale comporta un’attivazione ormonale che rende turbolenta la gestione degli impulsi, in particolare per i maschi, grazie all’aumento del testosterone. L’incremento dell’impulsività in adolescenza è un fenomeno biologico, che non riguarda solo gli uomini, ma anche altri mammiferi, che con l’ingresso in pubertà tendono a essere più esplorativi, a correre più rischi e a ricercare più gratificazioni nel loro rapporto con il mondo.
Oltre al cambiamento del corpo, tuttavia, è importante quello del cervello, che in adolescenza subisce una grande trasformazione: nella prima parte dell’adolescenza c’è una grande proliferazione neuronale, molto disordinata, una crescita che rende il cervello molto plastico, cioè disponibile a farsi modellare dalle esperienze, con una maturazione che parte proprio dalle aree più emotive e impulsive. Nella seconda parte dell’adolescenza, invece, c’è una fase di potatura sinaptica, che organizza il funzionamento cerebrale e che porta ad una maturazione delle capacità di controllo e di funzioni esecutive, che arrivano a compimento addirittura nell’età del giovane adulto. È così che gli adolescenti, non solo in senso metaforico, finiscono per “mettere la testa a posto”. È evidente che sarebbe stato più sensato se la natura avesse previsto una maturazione delle capacità di controllo prima dell’aumento dell’impulsività, ma questa apparente incongruità può avere una giustificazione: per crescere è necessario rischiare, uscire dalla zona di conforto famigliare e andare a cercare nuove fonti di gratificazione.
Gli adolescenti devono passare da una condizione in cui è prevalente l’eteroregolazione, da parte dei genitori e di altri adulti, a una capacità di autoregolazione e questo passaggio non può non comportare una fase di disordine, prima che si instauri un nuovo ordine. In questa transizione è inevitabile che le regole degli adulti siano messe in discussione. In società più primitive la complessità di questo passaggio è regolata dai riti di iniziazione, in cui gli adulti che rappresentano la società (non i genitori) sottopongono gli adolescenti a prove di coraggio, tolleranza del dolore, fino a stati alterati di coscienza, per conferire poi il riconoscimento di un nuovo status di adulto. Nel nostro contesto sociale i riti di passaggio sembrano svaniti e spesso sono gli stessi adolescenti che diventano degli “iniziatori”, alla ricerca di comportamenti a rischio, stati alterati da sostanze e segni sul corpo che certificano la nuova identità.
Nell’ultimo secolo l’ingresso nella pubertà è stato anticipato di qualche anno, per maschi e femmine, ma la durata dell’adolescenza non si è ridotta, anzi tende ad essere prolungata, come se servisse un tempo più lungo per maturare. L’anticipazione della pubertà ha un particolare rilievo per i reati minorili, perché può far pensare che si costituisca come una ragione per una corrispondente anticipazione dei reati, così come per altri comportamenti che hanno una significativa componente impulsiva, come quelli sessuali. In realtà, sia per i comportamenti aggressivi, sia per quelli sessuali non vi è stata un’anticipazione significativa.
I maschi tendono ad avere maggiori problemi di comportamento delle femmine, una differenza che è ben rispecchiata dalla sproporzione tra reati minorili maschili e femminili. Anche le ragazze possono essere trasgressive e violente, ma la loro violenza è più spesso verbale che fisica, la loro ostilità è indirizzata più a persone conosciute che ad estranei e, infine, manifestano di preferenza una disregolazione dei comportamenti sessuali, più che aggressivi. Per tutte queste ragioni è meno probabile che la trasgressività delle ragazze entri in conflitto con la legge.
Perché questa propensione fisiologica degli adolescenti alla trasgressività si trasformi in antisocialità occorre comunque che si combini con altri fattori di rischio.
Alcuni fattori sono temperamentali e possono essere presenti fin dalla nascita. Ci sono adolescenti che sono trasgressivi e che commettono reati, che sono stati bambini senza particolari problemi di comportamento, mentre altri fin dall’infanzia hanno mostrato alcuni tratti temperamentali, che sono poi associati in adolescenza ad una tendenza antisociale. Il tratto principale è l’impulsività, l’intolleranza alle frustrazioni e fragilità emotiva impulsiva e mentale, ma alla fragilità psicologica possono contribuire anche l’emotività negativa e la difficoltà a elaborare cognitivamente gli stimoli.
Una situazione famigliare attenta e accudente riesce ad annullare l’effetto negativo di questi tratti: una madre sufficientemente sensibile e disponibile progressivamente è in grado di aiutare il bambino ad avere più fiducia nel mondo, a tollerare le frustrazioni, ad imparare a regolarsi e così via. Ma ci possono essere molti fattori che impediscono questo sviluppo positivo. L’elenco può essere lungo: una madre giovane e sola, una madre depressa o con problemi mentali, un sovraccarico dovuto ad altri figli piccoli, conflitti coniugali, problemi economici, un padre assente o poco capace di fornire supporto, a causa di problemi con le sostanze o altro ancora, e così via. Tutti questi fattori hanno come esito una riduzione della capacità di accudimento e, a meno che il figlio abbia già in sé una buona capacità di resilienza, possono portare a una tendenza a essere impulsivo e a interpretare in modo ostile e antagonistico le interazioni con gli altri, che in adolescenza possono contribuire allo sviluppo di uno stile antisociale di personalità.
Oltre a questi fattori individuali, il gruppo ha una grande influenza sulla devianza minorile. Per tutti gli adolescenti il gruppo è un grande supporto, perché serve per raggiungere una maggiore autonomia e per la costruzione di una nuova identità sociale. Ma il gruppo può essere anche un fattore di rischio. In primo luogo, può avere un effetto di diffusione di responsabilità, che riduce l’attenzione alle conseguenze dei comportamenti, e in secondo luogo propone normalmente un codice di gruppo, dei valori che spingono verso comportamenti a rischio. Un adolescente, infatti, è in grado di valutare i rischi dei suoi comportamenti, ma quando è in gruppo la necessità di mostrare di non avere paura o il bisogno di non essere un bambino dipendente lo portano a sottovalutare i rischi che corre.
Oltre a fattori individuali, famigliari e gruppali, anche fattori sociali, economici e culturali influiscono sui comportamenti a rischio e sulla propensione a commettere reati. La maggior parte dei reati minorili ha motivazioni appropriative: furti, rapine o spaccio. Gli adolescenti cercano così una via per diventare adulti ed essere indipendenti, per raggiungere un’autonomia e un’identità sociale in modo “deviante”, perché non pensano di avere altre vie per crescere.
Il contesto socioeconomico attuale nella società occidentale è paradossale. Da una parte abbonda di beni di consumo, anche perché è sul consumismo che si regge il funzionamento della nostra economia, dall’altra per molti giovani questi consumi così attraenti sono proibiti, perché costosi. Gli ultimi dati sullo sviluppo economico in Italia, contenuti nel recente rapporto Caritas, mostrano non solo che il divario tra ricchi e poveri è in aumento, ma che i giovani hanno sempre meno probabilità di essere in grado di costruirsi un futuro, e sono così costretti a dipendere dai genitori. L’ascensore sociale funziona al contrario e i figli dei poveri rischiano di essere ancora più poveri. Una condizione socioeconomica di questo tipo può evidentemente spingere un adolescente a pensare di non avere altre vie se non illegali per potersi procurare certi beni, che certamente non hanno solo un valore economico, ma anche di status, perché è quello che consumiamo che sempre più dice chi siamo.
Altri fattori di rischio sono culturali. La generazione attuale, detta generazione Zeta, è indubbiamente prima di tutto una “generazione internet”, perché la costruzione dell’identità sociale dei giovani d’oggi passa sempre di più attraverso i social e la rete. La nascita di internet aveva portato a profetizzare due esiti negativi: l’esposizione dei giovani ai contenuti violenti in rete li avrebbe resi più violenti, per l’incapacità di distinguere tra virtuale e reale, e anche il facile accesso alla visione dei contenuti pornografici avrebbe comportato un’anticipazione dei comportamenti sessuali e una loro maggiore disregolazione.
In realtà queste due profezie non si sono avverate. Nei ragazzi che vivono la loro realtà in rete aumenta il vissuto di esclusione, e sono portati a vivere emozioni come la tristezza o la vergogna più che la rabbia. La rete non si è rivelata un istigatore di comportamenti violenti o sessualmente impulsivi. Le esperienze fatte in internet, infatti, tendono a restare nella rete, a espandersi nel virtuale, più che a passare direttamente nella realtà. I reati minorili negli ultimi decenni sono diminuiti e non aumentati e una possibile spiegazione è che ciò sia dovuto proprio a internet. È evidente che alcuni reati si stanno spostando nella rete, ma al momento l’aumento dei reati virtuali non compensa la diminuzione di quelli fisici.
L’effetto di internet più che di istigatore ai reati è di amplificatore. Una rissa tra gruppi viene convocata in rete e viene subito filmata e postata, come se l’obiettivo dello spettacolo diventasse primario sulle ragioni del conflitto. La reazione ad un’umiliazione subita in classe da un’insegnante si trasforma in una campagna di odio, che attira molti utenti, un’ampia platea, quando in passato si sarebbe forse limitata a una scritta offensiva nel bagno della scuola.
Altri fattori di rischio ancora sono circostanziali. L’epidemia da Covid, per esempio, ha avuto un impatto importante sul malessere degli adolescenti. Il loro disagio si esprime soprattutto con un aumento di ansia e depressione, ritiro sociale, comportamenti autolesivi, disturbi alimentari. Tra i comportamenti esternalizzanti che hanno avuto un incremento a seguito del Covid c’è il fenomeno delle risse, che è anche un modo dei ragazzi di riprendersi le piazze, in una logica da branco, un effetto dell’assenza dei presidi sociali, in primo luogo della scuola. Un altro fenomeno è la violenza filio-parentale o parental abuse. Il lockdown ha costretto alla vicinanza forzata molti nuclei famigliari, consentendo in alcuni casi di riscoprire il valore dello stare insieme, ma nelle situazioni ad alta conflittualità ha inevitabilmente esasperato i comportamenti violenti tra i diversi ruoli affettivi famigliari. La violenza dei figli contro i genitori è sicuramente un fenomeno sommerso, da tempo presente e sottovalutato, ma che è stato incentivato dal lockdown.
2. Il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti.
Al di là dei fattori di rischio, in una prospettiva di psicologia evolutiva e di psicopatologia evolutiva, è fondamentale prestare attenzione ad un’altra dimensione: i bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Un reato per un adolescente è anche un modo disfunzionale di cercare di realizzare un compito evolutivo, in un certo senso è un modo di diventare grande: la devianza è una scorciatoia per lo sviluppo.
Quali sono i bisogni evolutivi degli adolescenti? I ragazzi devianti spesso sentono di dover crescere in fretta, di non poter aspettare ad essere indipendenti, e in questo modo la loro ricerca di autonomia, di valore sociale, di una positiva identità, finisce per portare alla costruzione di un’identità antisociale.
Prestare attenzione ai bisogni evolutivi significa capire quali sono le motivazioni soggettive che sono alla base dei reati e non solo prestare attenzione ai comportamenti, cioè ai reati, o ai fattori di rischio che vi sono associati. Questo punto è importante: in questo modo, paradossalmente, si cerca di capire quali sono le motivazioni “positive” che hanno portato a delinquere, come un bisogno di autonomia o di valore sociale.
Un reato come espressione di un bisogno è l’equivalente di una domanda, che tuttavia non è formulata perché i ragazzi antisociali non chiedono (se mai pretendono): “Non ho bisogno di niente, se sono forte me la posso cavare, devo essere io a farmi valere, posso contare solo sugli amici, …”, queste sono le convinzioni tipiche degli adolescenti antisociali.
L’attenzione ai bisogni evolutivi è alla base di un intervento efficace del sistema penale. In passato era molto diffuso il pessimismo sull’efficacia della riposta penale ai reati minorili, come anche sui risultati della psicoterapia dei disturbi antisociali. Oggi c’è un maggiore ottimismo sia sulla psicoterapia dei disturbi esternalizzanti sia sull’efficacia del sistema penale, che può raggiungere i suoi obiettivi se segue tre principi fondamentali.
Il primo principio è l’attenzione ai fattori di rischio e di protezione. Una risposta efficace, infatti, non è solo proporzionata al reato e alla sua gravità, ma prende in considerazione i fattori di rischio di recidiva, sulla cui base regola la risposta. In pratica questo significa che, a parità di reato, l’intensità della risposta deve essere commisurata al livello di rischio.
Il secondo principio indica l’importanza dell’attenzione ai bisogni che sono alla base del reato, che nella letteratura anglosassone sono definiti criminogenic needs.
Il terzo principio, infine, sostiene che è fondamentale costruire un’alleanza con l’adolescente autore di reato, in modo da arrivare ad un progetto condiviso e commisurato alle sue possibilità di risposta (responsiveness). Questi principi possono apparire utopici, ma il codice di procedura penale minorile italiano è allineato a questa prospettiva.
3. I tre livelli di intervento del sistema penale minorile e la loro efficacia. La messa alla prova.
In pratica, il sistema penale può agire a tre diversi livelli. Ad un primo livello la risposta è reattiva. Di fronte ad un adolescente impulsivo, che non sa controllare il proprio comportamento, che non ha sensi di colpa e che non valuta le conseguenze del reato, l’intervento penale interviene controllandolo, attraverso misure restrittive della libertà, giudicandolo colpevole e cercando di svolgere una funzione di deterrenza con la pena. Questa risposta è inevitabile per fermare il comportamento distruttivo e è giustificata socialmente, perché lo Stato si assume una funzione di giustizia sociale, avocando a sé l’erogazione di punizioni, per evitare il rischio di una catena di vendette private.
Questa risposta basata su una logica accusatoria, sanzionatoria e di controllo sociale è inevitabile, ma non è in grado di produrre una riduzione delle recidiva, che rischiano in realtà di aumentare, con un effetto iatrogeno.
Un secondo livello di risposta è rieducativo o riabilitativo, perché non si limita a reagire al comportamento deviante per controllarlo, ma cerca di insegnare al minore ad acquisire maggiori capacità di controllo e una maggiore sensibilità alle conseguenze del proprio comportamento. Questo intervento, che può essere realizzato con progetti di diverso tipo e con interventi educativi, sociali o terapeutici, è in realtà efficace. E tuttavia è basato sul presupposto di una “correzione” degli errori del minore, che per raggiungere gli obiettivi prefissati deve riconoscere una propria mancanza o deficit, che necessita di un intervento riabilitativo. Non sempre, tuttavia, anche quando riconoscono il reato e sono disposti a pagarne le conseguenze, gli adolescenti sono pronti a considerare davvero il disvalore sociale dei loro comportamenti.
A questi due livelli di intervento è possibile aggiungere una terza prospettiva, che è attenta ai bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Se un reato è anche un modo, per quanto disfunzionale e deviante, per tentare di realizzare un bisogno evolutivo, allora l’intervento del sistema penale può essere orientato a farsi carico di questo bisogno, indicando nuove vie per realizzarlo. Questa prospettiva non è solo correttiva, ma è progettuale, perché cerca proprio di aiutare l’adolescente a raggiungere il compito evolutivo che cercava di realizzare in modo disfunzionale con il reato.
La messa alla prova prevista dal codice di procedura penale minorile è in linea con questi principi e livelli di intervento, perché non ha solo una funzione rieducativa, ma è orientata da obiettivi positivi, di costruzione di un progetto di sviluppo e di responsabilizzazione sociale, che riapra la speranza di una realizzazione personale. In questa prospettiva l’obiettivo del sistema penale non è di colpevolizzare o punire il minore, ma nemmeno solo di rieducarlo, bensì di capire i bisogni che sono nascosti nel gesto deviante per aiutarlo a trovare nuove soluzioni.
La messa alla prova ha un alto tasso di esiti positivi, intorno all’80%, ma non è esente da difficoltà. Pur essendo in grado di realizzare una riduzione del tasso di recidiva, se confrontata con interventi punitivi o anche con il perdono, non è certamente in grado di azzerarlo.
La logica della messa alla prova è soprattutto basata sull’obiettivo di responsabilizzare il minore sulle conseguenze del suo comportamento, anche attivando funzioni riparative. Comprensibilmente l’attenzione è, quindi, rivolta al minore. In molti casi questi obiettivi possono essere raggiunti, seppure con molte difficoltà e attraverso percorsi non certo lineari, ma irti di ostacoli.
In molti altri casi, tuttavia, si rischia di sottovalutare alcuni problemi. In primo luogo, soprattutto nella prima parte dell’adolescenza, le capacità di responsabilizzazione sono ancora in fase di sviluppo e il rischio dei progetti di messa alla prova è di chiedere troppo al minore, colludendo in fondo con l’immagine che ha di sé, di qualcuno che se la può cavare da solo.
In secondo luogo, sulla spinta della responsabilità individuale del reato, si finisce per sottovalutare il peso del contesto, in primo luogo della famiglia, come fattore che è alla base dei comportamenti devianti. Molte messe alla prova non hanno l’esito sperato o possono comunque portare a recidive non solo per una mancata adesione del minore, ma per problemi all’interno della famiglia, un mancato supporto al progetto di messa alla prova o più in generale alle esigenze evolutive del figlio.
È fondamentale, quindi, che per raggiungere l’obiettivo di una responsabilizzazione del minore sul suo comportamento, siano prima di tutto gli adulti a responsabilizzarsi, la famiglia innanzitutto, ma anche tutto il sistema penale.
I ragazzi che commettono reati pensano spesso di poter fare da soli e non chiedono aiuto. È importante, invece, che imparino a fidarsi di qualcuno, che imparino a chiedere e per questo la presenza di adulti che si assumono la propria responsabilità per lo sviluppo dell’adolescente è il primo requisito perché l’adolescente stesso possa a sua volta sviluppare un senso di responsabilità sociale.
*Alfio Maggiolini è psicoterapeuta e socio dell’Istituto Minotauro di Milano. Ha insegnato psicologia dell’adolescenza e del ciclo di vita presso l’Università di Milano-Bicocca. Da molti anni lavora con un modello di intervento psicologico efficace con i ragazzi che commettono reati come consulente nei Servizi della giustizia minorile di Milano.
Recentemente ha pubblicato: Senza paura, senza pietà. Valutazione e trattamento degli adolescenti antisociali (Raffaello Cortina, 2014); I sogni tipici. Metafore affettive della notte (Angeli, 2021). In corso di pubblicazione: Pieni di rabbia. Comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti (Angeli, 2023).
L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte di Cassazione)
Intervista di Ernesto Aghina a Katia Laffusa e Rosaria Innaimi
A nove mesi dall’esordio operativo dell’Ufficio per il processo sembra utile, dopo avere acquisito le prime valutazioni di impatto organizzativo dei dirigenti degli uffici giudiziari (questa rivista si è occupata di una prima analisi organizzativa relativa alla Cassazione L’esordio operativo dell’Ufficio per il processo in Corte di cassazione - Giustizia Insieme, alle Corti d’Appello L’esordio operativo dell’Ufficio per il processo nelle Corti di appello - Giustizia Insieme, ed ai Tribunali L’esordio operativo dell’Ufficio per il processo nei Tribunali - Giustizia Insieme), estendere la rilevazione anche ai funzionari che compongono questa nuova struttura, e che ne sono gli attori principali.
Abbiamo quindi raccolto le opinioni di giovani funzionari addetti all’U.P.P. in merito alle specifiche attività loro demandate, interrogandoli sulle principali criticità emerse nella fase di esordio, relativa alla formazione, al rapporto tra supporto ai giudici ed alle cancellerie e (soprattutto) alle modalità di affiancamento alla specifica attività giudiziaria, in cui si rileva la principale difformità organizzativa tra i vari uffici.
L’inizio di questa rilevazione è riservata alla Corte di Cassazione (seguiranno le interviste ai funzionari degli U.P.P. degli uffici di merito), interessata più che gli altri uffici giudiziari dalle novità introdotte dal d.lgs.vo n. 151/2022, vigente dall’1.11.2022, che regola in dettaglio la struttura dell’U.P.P. presso gli uffici di legittimità, ampliandone l’applicazione concreta alla Procura Generale.
Il confronto delle risposte offerte, per il settore civile, dalla dott.ssa Katia Laffusa (sesta sezione) e, per il settore penale, dalla dott.ssa Rosaria Innaimi (quinta sezione), non rivela particolari differenze operative.
Vengono evidenziate modalità organizzative sostanzialmente simili, ed anche le comuni criticità (iniziali) di carattere logistico e (sopravvenute) relativamente alle progressive scoperture di organico.
Conforta la concorde attestazione di una concreta percezione dell’efficacia dell’apporto offerto all’ufficio di appartenenza, rivelatrice di un sentiment positivo sull’attività svolta e sul contributo offerto, un “carburante” che connota diffusamente l’esordio operativo dell’UPP.
1. La formazione iniziale è risultata coerente rispetto alle attività da svolgere?
(LAFFUSA) La formazione iniziale per il settore civile è stata nel complesso coerente rispetto alle attività da svolgere ed ha riguardato principalmente l’utilizzo degli applicativi informatici e le modalità operative ed organizzative di svolgimento delle varie attività all’interno delle singole Sezioni.
(INNAIMI) Si. Inizialmente il periodo di formazione da remoto, in assenza di assegnazione definitiva alle sezioni, ha riguardato sia l’ambito civile che penale.
Ci è stato, in particolare, illustrato il percorso dei fascicoli, partendo dall’iscrizione del ricorso in cancelleria sino al deposito della sentenza, con particolare riferimento agli applicativi informatici utilizzati dalla cancelleria stessa.
Quanto poi alla attività di redazione di provvedimenti semplici, v’è stata una attività di formazione specifica, in affiancamento al magistrato coordinatore e la condivisione di modelli e documenti in appositi spazi di archiviazione digitale.
2. Quale è il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e ai giudici?
(LAFFUSA) Preliminarmente occorre evidenziare come le attività concretamente svolte dagli addetti siano variamente declinate nel settore civile a seconda della Sezione di riferimento. In linea generale, il settore civile registra una ripartizione equa delle attività tra supporto alla cancelleria e ai giudici, considerando la funzione di supporto all’attività giurisdizionale nel suo complesso. Le peculiarità connesse al ruolo e alla natura della Sesta sezione civile hanno fatto sì che il contributo degli addetti in questi mesi si sia concretizzato in maniera eterogenea, alla luce delle esigenze fatte presenti via via sia dalla cancelleria che dai giudici.
(INNAIMI) Le mansioni svolte garantiscono un rapporto equilibrato nelle attività di supporto tanto ai magistrati, quanto alla cancelleria (circa 50% di supporto alla cancelleria e 50% ai magistrati). Quest’ultimo, comunque, risulta allo stato limitato alle specifiche attività di supporto alla giurisdizione.
3. Quali compiti ti sono concretamente attribuiti nella collaborazione all’attività giudiziaria? Partecipi all’udienza?
(LAFFUSA) La collaborazione all’attività giudiziaria si concretizza in vario modo. Nel mio caso specifico è preponderante l’attività di supporto allo spoglio dei ricorsi e studio preliminare dei fascicoli, con contestuale suddivisione degli stessi per macroaree tematiche e, nell’alveo di ciascuna area, per materia, al fine anche di individuare le questioni giuridicamente rilevanti o che determinano filoni giurisprudenziali. L’esame dei fascicoli è inoltre finalizzato alla formazione dei ruoli, con contestuale segnalazione di quelli che presentano particolarità in termini di priorità di trattazione.
Un ulteriore contributo all’attività giudiziaria è costituito dalla attività preparatorie alla organizzazione delle adunanze, soprattutto da un punto di vista informatico.
No, per gli addetti U.P.P. in Cassazione non è prevista la possibilità di partecipare alle udienze.
(INNAIMI) Tra i principali compiti (con particolare riferimento alla Sez. V penale):
- collaborazione con l’ufficio spoglio (segnalazione fascicoli urgenti; controllo dati riportati su fascicolo; verifiche Sidet e posizioni giuridiche dipendenti; acquisizione atti dagli uffici di merito ad integrazione dei fascicoli, ivi compreso schede ex art. 165 bis disp att cod. proc. pen.; calcolo sospensioni ex art. 159 cod. pen.; etc.);
- redazione di provvedimenti semplici (bozze di provvedimenti emessi dalla Settima Sezione), che vengono messi a disposizione (in forma analogica e digitale) dei componenti dei collegi;
- supporto attività preparatoria dell’udienza (in particolare, è anche prevista una turnazione tra i funzionari U.P.P. come referenti di udienza);
- supporto alla tenuta di un brogliaccio digitale relativo ai ruoli delle udienze della Settima Sezione, istituito anche con la finalità del controllo di gestione delle sopravvenienze, pendenze e definizioni;
Non è prevista la partecipazione alle udienze. Su invito della Presidente titolare abbiamo partecipato a due udienze della Settima Sezione, anche per verificare la tenuta del modulo organizzativo relativo alla preparazione delle bozze di motivazione.
4. Lo smart-working è utilizzato? Se sì, in che rilievo? È stato utile? E che tipo di attività è stata assegnata?
(LAFFUSA) No, in Corte di Cassazione lo smart-working non è utilizzato.
(INNAIMI) No, non è previsto lo smart-working.
5. L’organizzazione dell’U.P.P. prevede una attribuzione del funzionario al singolo magistrato o alla materia? Quali i vantaggi o le criticità della scelta organizzativa adottata?
(LAFFUSA) In alcune sezioni e/o sottosezioni, come nel caso della Sezione Sesta civile, i funzionari sono stati assegnati a singoli o a più Consiglieri e suddivisi per aree, mentre in altri casi l’attribuzione è avvenuta esclusivamente per aree e/o materie. L’assegnazione al singolo Consigliere consente un efficace svolgimento delle funzioni, grazie al rapporto diretto e alla supervisione continuativa fornita dal magistrato al funzionario oltre alla circostanza che si consente al funzionario di avere una panoramica completa dell’iter di lavorazione di ogni singolo fascicolo assegnato. La suddivisione per aree invece consente di acquisire competenze specifiche a seconda della materia di riferimento, anche valorizzando il lavoro in team dei funzionari.
(INNAIMI) L’ufficio U.P.P. della V sezione penale è principalmente dedito alla attività di supporto dei magistrati dell’Ufficio esame preliminare dei ricorsi.
L’attività di redazione di provvedimenti semplici e di preparazione delle udienze implica una collaborazione con tutti i magistrati della sezione.
La collaborazione con tutti i magistrati è, inoltre, garantita dalla turnazione nel ruolo di referenti di udienza, attraverso la quale il singolo addetto U.P.P. supporta l’attività di tutto il collegio dell’udienza di riferimento.
Non è prevista l’assegnazione dell’addetto U.P.P. al singolo magistrato, né una particolare distribuzione del lavoro per materia.
6. Le mansioni svolte si sono rivelate in linea con le tue aspettative?
(LAFFUSA) Complessivamente le mansioni si sono rivelate in linea con le mie aspettative.
(INNAIMI) Si.
7. Quali sono state le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro?
(LAFFUSA) Le maggiori criticità relative allo svolgimento concreto del lavoro si sono registrate, com’è ovvio che sia, soprattutto nelle prime fasi di inserimento lavorativo e sono state legate principalmente alla natura e alla varietà delle mansioni. Quello degli addetti U.P.P. è un profilo professionale nuovo ed inedito per cui, soprattutto nelle fasi iniziali, si è registrata una certa incertezza nella individuazione precisa ed omogenea delle attività da svolgere, soprattutto perché ogni Sezione e ogni ufficio presenta esigenze e criticità diverse. Alla diversità di situazioni è quindi seguita una diversità di interventi e di attività concretamente richieste agli Addetti.
(INNAIMI) Alcune difficoltà iniziali si sono riscontrate a fronte del consistente ampliamento della pianta organica (con l’arrivo dei funzionari UPP, il numero dei dipendenti amministrativi è variato da 600 a 800 unità): gestione degli spazi, collocamento degli addetti e suddivisione delle mansioni.
8. Si è avuta una generale percezione dei progressi organizzativi e operativi dell’ufficio di appartenenza?
(LAFFUSA) L’apporto degli addetti in termini qualitativi e quantitativi all’ufficio di appartenenza ha registrato una progressiva evoluzione determinando un miglioramento complessivo da un punto di vista organizzativo ed operativo dell’ufficio di appartenenza.
I vari uffici si sono avvalsi progressivamente sempre più del contributo dei funzionari dell’U.P.P. su vari piani: in effetti, un tangibile incremento si è registrato in particolar modo nel settore della digitalizzazione e dell’innovazione, anche grazie alla stretta e proficua collaborazione con il personale di cancelleria. Un significativo contributo in termini di organizzazione dell’ufficio e delle attività deriva da quella che potrebbe essere definita come ‘componente relazionale’ intrinseca al ruolo degli addetti all’UPP, ossia la valorizzazione del compito di raccordo tra Cancellerie e Consiglieri.
(INNAIMI) Si. L’attività dell’Ufficio esame preliminare dei ricorsi è stata agevolata dalla collaborazione degli addetti UPP. È stato ridotto notevolmente l’arretrato relativo ai procedimenti pendenti in VII Sezione penale grazie alla attività di supporto dell’Ufficio per il processo, che da marzo 2022 ha contribuito alla preparazione di cinque udienze straordinarie, nonché di tutte le udienze ordinarie (due per ogni mese), con ruoli formati da oltre 200 fascicoli per udienza.
Ulteriore innovazione può evincersi dal controllo dei flussi e dalla riorganizzazione dei ruoli. È stato, infatti, introdotto un file excel relativo ai ruoli delle udienze ordinarie attraverso cui monitorare il dato dei “tempi di definizione” delle sopravvenienze (che non dovrebbero superare i 180 giorni).
Il “brogliaccio digitale” relativo alle udienze della Settima Sezione funge da resoconto (riepilogo) automatizzato dei flussi e delle definizioni; l’obiettivo raggiunto è quello di avere, con l'utilizzo delle formule incrociate, un foglio excel che, in tempo reale, fornisce dati sull'andamento dell'attività, senza aspettare i dati statistici ufficiali, che ovviamente si basano su quelli inseriti nel SIC e, quindi, risentono dei tempi di scarico dei fascicoli in tale sistema.
In via generale, tutti i magistrati della Sezione sono supportati dalla attività dell’U.P.P. nella implementazione dell’uso degli strumenti digitali, prevedendo il modulo organizzativo adottato la creazione di appositi spazi di archiviazione di atti e documenti.
8. In che misura percentuale si rilevano attualmente scoperture nell’organico dell’U.P.P. presso la Corte di Cassazione nel settore civile/penale di competenza?
(LAFFUSA) Il totale complessivo degli addetti previsti in cassazione sia per il civile che per il penale ammonta a 200 unità. In linea di massima si registra attualmente una scopertura dell’organico soprattutto nel settore civile di circa 25-30 unità.
(INNAIMI) Attualmente vi è, all’incirca, una scopertura totale del 13%.
In tema di ufficio del processo in Cassazione si rinvia alla lettura di Antonio Scarpa, "L'attuazione dell’Ufficio per il processo (di cassazione): panacea o utopia?" e Raffaele Frasca, "Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione".
La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
di Riccardo Ionta e Franco Caroleo
La pareidolia è quel processo psichico che porta a ricondurre ad immagini conosciute quel che si mostra amorfo. È l’illusione che porta a vedere un volto in una nuvola, il denominatore comune di note opere d’arte, da Mantegna a Dalì. È la manifestazione della tendenza ad affrontare il disordine per mezzo di strutture ordinate e forme familiari. Ed è quel che accade leggendo il nuovo art. 127-ter c.p.c. che introduce, in parte complicandola, la trattazione scritta nella sistematica della procedura civile. Da un lato nella norma si scorge qualcosa che non c’è, l’udienza, ma di cui vi sono tutti gli accadimenti ed effetti. Dall’altro la norma prevede uno strumento processuale dalla struttura indecisa. Nel presente scritto si propone una sistematizzazione della trattazione scritta nelle coordinate codicistiche - nella consapevolezza di come questa si sia ormai imposta nella prassi e nella certezza che essa verrà utilizzata in modo esteso - al fine di offrire all’operatore del diritto uno strumento giuridico effettivamente dotato di senso. Lo scritto presenta, alla fine, uno schema riepilogativo delle principali questioni affrontate.
Sommario: 1. Dall’emergenza alla codificazione. - 1.1. Prassi, emergenza, codificazione. - 1.2. Complicazioni e semplificazione. - 2. I principi. - 2.1. Strumentalità e flessibilità delle forme di trattazione. - 2.2. Direzione del procedimento e ragionevole durata. - 2.3. La scrittura e il principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari. - 3.4. Oralità, immediatezza e concentrazione. - 3. Quel che resta dell’udienza. - 3.1 Il concetto di udienza. - 3.2 Il concetto di trattazione (orale e scritta). - 3.3. La dimensione temporale. - 3.4. La dimensione ordinamentale. - 4. Il potere di disporre la trattazione scritta. - 4.1. Discrezionale o vincolato. - 4.2. Tre regole. - 4.3. I termini per disporre la trattazione scritta. - 4.4 L’assegnazione del termine per il deposito delle note. Orario e data di udienza. - 5. Il diritto di opporsi, il diritto alla trattazione orale e la mancata opposizione. - 5.1. Il diritto di opporsi alla trattazione scritta. - 5.2. Il diritto alla trattazione orale. - 5.3 La mancata opposizione e l’acquiescenza. - 5.4 Il provvedimento e il silenzio del giudice sull’opposizione. - 6. Le modalità della trattazione scritta. - 6.1 Il deposito delle note e il mancato deposito. - 6.2 Il dovere del giudice di provvedere entro trenta giorni. - Appendice. Schema riepilogativo.
1. Dall’emergenza alla codificazione
1.1. Prassi, emergenza, codificazione
La trattazione scritta è nella terza fase della sua esistenza.
Prassi
La prima fase della trattazione scritta è stata quella della prassi. La trattazione scritta già esisteva, e da tempo, nella concreta realtà degli uffici giudiziari. In taluni di questi non era insolito vedere i difensori scrivere, nel verbale di udienza, le proprie richieste e conclusioni e sottoporre il testo al giudice il quale, sempre per iscritto, assumeva il suo provvedimento. Ancor più frequente era ed è l’effettiva irrilevanza della trattazione orale del procedimento in udienza che, spesso, troppo spesso, è ridotta alla ripetizione di stanche espressioni (“ci si riporta”, “conclude come in atti”, “impugna e contesta tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito” e così via) volte solo a riempire di contenuto la comparizione in presenza.
Emergenza
La seconda fase della trattazione scritta è stata quella dell’emergenza pandemica[1], con tre diversi passaggi.
La trattazione scritta introdotta nella prima e più dura fase della pandemia - prima ex art. 2, comma 2, lett. h, decreto-legge 8 marzo 20202, n. 11 e poi ex art. 83, comma 7, lett. h), del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 - aveva una natura strettamente emergenziale. La finalità della norma, dal carattere eccezionale, era quella di consentire l’ordinaria trattazione orale della causa, e quindi la presenza negli uffici, solo quando indispensabile. Lo scopo finale è stato quello di escludere la presenza negli uffici di giustizia salvo i casi eccezionali idonei a giustificare una deroga alle limitazioni, di movimento e ingresso nei luoghi, dettate dalla legislazione pandemica[2].
La trattazione scritta ex art. 221, comma 4, legge 17 luglio 2020, n. 77 - di conversione del c.d. decreto-legge “Rilancio” (decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34) - ha avuto invece la finalità di consentire la trattazione scritta quando l’ordinaria trattazione orale del procedimento non appariva strettamente necessaria. Scopo finale della norma è stato infatti quello non di escludere ma di moderare e ponderare la presenza negli uffici di giustizia - inadeguati al rispetto delle regole di contingentamento delle presenze - permettendo al giudice, nei limiti prescritti, di disporre la trattazione scritta del procedimento civile[3].
Il terzo passaggio della trattazione scritta emergenziale è stato quello della “normalizzazione”. Il superamento delle fasi più dure della pandemia e l’allentamento, sino all’abrogazione, delle regole di contingentamento delle presenze, hanno consolidato nelle prassi degli uffici giudiziari la trattazione scritta ex art. 221, co. 4. La trattazione scritta è divenuta così, in disparte gli abusi pur verificatesi, uno strumento di ordinaria flessibilità, normativamente eccezionale, largamente apprezzato e utilizzato nei tribunali.
Codificazione
La terza fase della trattazione scritta coincide con la sua codificazione per mezzo dell’art. 127-ter c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 149/2022 e in vigore dal 1° gennaio 2023.
Le disposizioni sulla trattazione scritta sono collocate nella Sezione II “Delle udienze”, Capo I (“Delle forme degli atti e dei provvedimenti”), Titolo VI (“Degli atti processuali”) del Libro I (“Disposizioni generali”).
Il potere di disporre la trattazione scritta è generalmente previsto nel nuovo terzo comma dell’art. 127 c.p.c. rubricato “Direzione dell’udienza”: “Il giudice può disporre, nei casi e secondo le disposizioni di cui agli articoli 127-bis e 127-ter, che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza o sia sostituita dal deposito di note scritte” L’art. 127-ter c.p.c. “Deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza” è dedicato alla disciplina specifica della trattazione scritta.
La codificazione non è un atto neutro. La norma perde, anche giuridicamente, la sua essenza emergenziale ed eccezionale ed entra a far parte del complesso sistema della procedura civile[4].
1.2. Complicazioni e semplificazione
Complicazioni
Il legislatore con l’art. 127-ter c.p.c. ha in parte cambiato la trattazione scritta sino ad ora conosciuta e praticata incidendo così su esperienze e prassi consolidatesi negli ultimi tre anni[5]. Le complicazioni – che si evidenzieranno nel corso dello scritto - derivano da una sottovalutazione, da una intenzione e da una previsione.
La sottovalutazione è quella degli effetti della codificazione. La comparsa della trattazione scritta nel codice, strutturato sull’oralità, come si vedrà nel prosieguo, appare il frutto di un mero innesto normativo più che di una vera e propria codificazione.
L’intenzione, almeno letterale, è quella di scindere la trattazione scritta dall’udienza. Intenzione espressa nell’affermazione per cui l’udienza è sostituita dal deposito delle note. Inciso, si vedrà, impreciso in quanto è la trattazione orale del procedimento, prevista per l’udienza, ad essere sostituita e non l’udienza. Intenzione, tuttavia, non compiutamente realizzata in quanto il termine per la scadenza del deposito è da considerarsi data di udienza “a tutti gli effetti”; in quanto l’onere di “comparizione” resta - onere principale riferibile all’udienza e presupposto degli altri oneri e facoltà processuali - poiché il mancato deposito delle note determina i medesimi effetti previsti dagli artt. 181-309 c.p.c. (espressamente richiamati per la trattazione scritta emergenziale); in quanto l’art. 127-ter c.p.c. è inserito nelle norme codicistiche relative alle udienze e alla direzione dell’udienza.
La previsione - espressione della sottovalutazione e dell’intenzione sopra evidenziate - è quella di un termine unico e perentorio per il deposito delle note di trattazione scritta. Un termine non più ancorato alla data di udienza (e calcolato a ritroso da essa) ma decorrente dalla data di emissione del provvedimento con cui il giudice dispone la trattazione scritta[6].
Le complicazioni portano ad una secca alternativa: o la trattazione scritta è possibile per tutte o quasi tutte le fasi di trattazione (“udienze”) oppure per nessuna o quasi nessuna (salvo per le “udienze” che per il codice non esistono - udienza di precisazione delle conclusioni, udienza “interlocutoria”, udienza per l’ammissione dei mezzi istruttori - e per la nuova udienza di rimessione della causa in decisione). L’art. 127-ter c.p.c., norma generale, è impostata in favore della prima alternativa - come si evince già dall’ampia formulazione che ad oggi consente, a differenza di prima, la trattazione scritta anche per le fasi in cui è prevista la comparizione personale delle parti - senza tuttavia essere strutturata in detto senso.
Semplificazione
A fronte delle complicazioni l’interprete è chiamato ad una approfondita opera di razionalizzazione per sistematizzare la trattazione scritta nelle coordinate codicistiche – nella consapevolezza di come questa si sia ormai imposta nella prassi e nella certezza che essa verrà utilizzata in modo esteso - al fine di offrire all’operatore del diritto uno strumento giuridico effettivamente dotato di senso.
A tal fine, sono due gli strumenti utilizzati, nel presente scritto, per semplificare la complessità.
Il primo è il concetto di udienza quale categoria utile ad ordinare la realtà. Nel presente studio - come già espresso nei precedenti scritti[7] - si proporrà di ricorrere all’udienza quale schema logico-giuridico perché questa, seppur “non c’è”, “è come se ci fosse”. In termini più precisi si sostiene che è alla trattazione del procedimento che bisogna guardare e non all’udienza, ossia che è necessario guardare al contenuto (l’attività) e non al contenitore. E se la trattazione orale del procedimento avviene (ad oggi) nello spazio-tempo chiamato udienza, la trattazione scritta del procedimento è come se avvenisse in udienza, nel tempo d’udienza, recandone tutti gli effetti.
Il secondo è la valorizzazione del ruolo attribuito al consenso delle parti - espresso o tacito - utile altresì a realizzare un esercizio della giurisdizione condiviso (e non autoritativo).
2. I principi
2.1. Strumentalità e flessibilità delle forme di trattazione
L’art. 127-ter c.p.c. è una norma sulla forma della trattazione.
Attribuisce al giudice il potere, discrezionale o vincolato, di disporre che lo svolgimento della singola fase e attività processuale avvenga in forma scritta per mezzo del deposito di note - cui segue necessariamente un provvedimento scritto del giudice - invece che nella forma orale, documentata con il processo verbale. Al potere del giudice di disporre la trattazione scritta segue, per le parti, un onere di deposito - e non una semplice facoltà – e, ove soddisfatto, sorge il dovere del giudice di provvedere nel termine di trenta giorni.
È la relazione tra l’onere per le parti e il conseguente dovere del giudice che rende la sequenza una delle modalità con cui i soggetti processuali si relazione e comunicano tra loro, ovvero, una trattazione. L’art. 127-ter c.p.c., in altri termini, non prevede un mero “onere di deposito”, sia perché il giudice deve provvedere sul contenuto delle note, sia perché il mancato deposito determina le medesime conseguenze della mancata comparizione in udienza.
La norma, in tal senso, è riconducibile al principio di strumentalità delle forme (o della congruità delle forme allo scopo). Principio che – volto ad evitare il formalismo ovvero la tendenza a considerare le forme un “rituale complicato da considerarsi quasi fine a sé stesso” - consente alle parti e al giudice di rispettare le forme “solo in quanto e nei limiti in cui sono necessarie per conseguire lo scopo obbiettivo, ossia per assolvere alla loro funzione di garanzia o di obbiettività: ove non rispondono a questa funzione, possono essere trasgredite”[8].
L’art. 127-ter c.p.c., codificando la trattazione scritta, e aprendo al suo generale utilizzo, allarga lo spettro del principio di strumentalità delle forme includendo - nel rispetto del principio costituzionale del contraddittorio in condizioni di parità - l’alternativa tra trattazione orale e trattazione scritta della fase e attività processuale. La norma, così, introduce un innovativo principio di flessibilità delle forme di trattazione e “persegue un ragionevole fine di elasticità in forza del quale le risorse offerte dall'ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela”[9].
2.2. Direzione del procedimento e ragionevole durata
L’art. 127-ter c.p.c. è una norma sulla direzione del procedimento.
Il legislatore ha ricondotto il potere di disporre la trattazione scritta al potere del giudice di direzione delle udienze, come si desume dalla collocazione codicistica dell’art. 127, comma terzo, c.p.c. e dell’art. 127-ter c.p.c. La riconduzione normativa è tanto precisa da essere o imprecisa o indicativa.
Il potere di disporre la trattazione scritta della singola fase del singolo processo ha certamente una influenza sulla programmazione e sulla organizzazione della specifica udienza - che dal magistrato potrà essere programmata e organizzata prevedendo la trattazione scritta o orale, in presenza o da remoto, delle singole fasi dei processi chiamati per quel giorno - ma sembra rientrare solo latamente nello specifico potere ex art. 127, primo comma, c.p.c. di disporre che “la trattazione delle cause avvenga in modo ordinato e proficuo”. Quest’ultima norma è difatti finalizzata a disciplinare l’ordine dell’udienza in cui sono chiamate più cause - udienza che in teoria “manca” per la causa per cui è stata disposta la trattazione scritta -, l’ordine di chiamata delle cause previste per lo specifico giorno[10] e a disciplinare la trattazione orale che avviene davanti al giudice (“regola la discussione, determina i punti sui quali essa deve svolgersi e la dichiara chiusa quando la ritiene sufficiente”). Quindi delle due l’una: o il legislatore è stato impreciso oppure la trattazione scritta del procedimento nel tempo di udienza è equiparata alla trattazione orale del procedimento nel tempo-spazio di udienza.
Il potere di direzione dell’udienza attribuito al giudice è, del resto, solo una parte del più ampio potere di direzione del processo (art. 175 c.p.c.)[11].
Il potere ex art. 127-ter c.p.c., per come configurato, pare più correttamente riconducibile al potere di direzione del procedimento che, ex art. 175 c.p.c., è finalizzato al suo sollecito e leale svolgimento. Il procedimento è difatti strutturato in un progressivo svolgimento di fasi (introduttiva-istruttoria-decisoria) temporalmente organizzate dai termini processuali (tra cui il termine ex art. 127-ter c.p.c. o il termine-luogo chiamato udienza). In tal senso, la locuzione secondo cui il giudice “fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali” (art. 175 c.p.c.) può ad oggi intendersi come inclusiva di quel “termine”, che è data di udienza, disposto dal giudice per il deposito ex art. 127-ter c.p.c. L’aggancio al potere di direzione del procedimento disvela la connessione tra il principio di flessibilità delle forme di trattazione e il principio costituzionale della ragionevole durata del procedimento[12] e consente al giudice di poter imporre la forma di trattazione, orale o scritta, ritenuta necessaria a garantire la ragionevole durata del procedimento.
2.3. La scrittura e il principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari
L’art. 127-ter c.p.c. è una norma che esclude la pubblicità delle udienze.
L’art. 128 c.p.c. prescrive, a pena di nullità, la pubblicità dell’udienza “in cui si discute la causa”. L’art. 84 disp. att. c.p.c. prevede invece che “le udienze del giudice istruttore non sono pubbliche”. In termini più precisi, quindi, la pubblicità è prescritta dal codice a pena di nullità per le fasi di discussione orale del processo.
L’art. 128 c.p.c., norma sulla pubblicità, è prima di tutto una norma sulla forma orale della discussione. La forma orale è, difatti, la prima componente della pubblicità della discussione poiché nel codice vigente questa è pubblica solo se orale e solo se detta oralità si sviluppa in un momento-luogo pubblico come l’udienza a porte aperte. Pubblicità-oralità della fase di discussione sono un’endiadi pur se, astrattamente, la prima può essere garantita, in modo estensivo, anche da altre forme. La scrittura, almeno nella sistematica del codice, esclude quindi la pubblicità.
Il principio di pubblicità del dibattimento giudiziario[13] si afferma in via generale alla fine del XVIII secolo[14] e si consolida via via come “regola generale” come “espressione di civiltà giuridica”[15]. Regola espressa in vari atti internazionali - “componente naturale e coessenziale del processo ‘equo’ garantito dall'art. 6 della C.E.D.U”[16] - e implicitamente prevista dal sistema costituzionale prima “quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale, esercitato appunto, come recita l'art. 101, in nome del popolo”[17] e poi anche quale componente naturale e coessenziale del giusto processo del novellato primo comma dell'art. 111 Costituzione letto alla luce dell'art. 6 C.E.D.U.[18].
Il principio non ha valenza assoluta né per la Corte Costituzionale né per la Corte EDU[19] e può cedere in relazione a determinati procedimenti e fasi procedimentali e in presenza di giustificazioni obiettive e razionali[20]. Non è quindi consentito escludere a priori la pubblicità dell’udienza dibattimentale ma è possibile escluderla in concreto e per la tutela di altri interessi meritevoli di tutela - nelle giustizie diverse da quella penale anche non di caratura costituzionale[21] - ovvero condizionare la pubblicità alla presentazione, da almeno una delle parti, di un’apposita istanza di discussione[22].
La giurisprudenza costituzionale ha progressivamente orientato la struttura del principio di pubblicità dell’udienza dall’art. 101, comma 1, Cost. all’art. 6 CEDU. La lettura del principio ha così marginalizzato l’interesse pubblico che ne costituisce la radice - la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia - in favore del diritto di parte alla pubblicità della discussione giudiziaria. La conseguenza è che la pubblicità dei dibattimenti civili, salvo che per l’udienza pubblica in Cassazione, non è la proiezione dell’interesse pubblico, ma una proiezione dell’interesse della parte processuale. Il legislatore, allora, può garantire la pubblicità della discussione anche con la sola previsione della possibilità, per l’interessato, di richiedere che la stessa avvenga in pubblica udienza. La parte può di conseguenza rinunciare alla pubblicità.
La Corte Costituzionale ha, in tal senso, ritenuto non irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell'udienza pubblica, posto che, in assenza di una effettiva discussione, “la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa”[23].
La trattazione scritta emergenziale ha beneficiato dell’art. 23, comma 3, decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, norma speciale sulla possibilità di disporre la celebrazione “a porte chiuse” delle udienze pubbliche.
L’art. 127-ter c.p.c., interpretato alla luce degli approdi della Corte costituzionale, può essere applicato alla discussione prevista in pubblica udienza - e così escludere la pubblicità della discussione - a tre condizioni:
1) la prima è quella di garantire il contraddittorio in condizioni di parità; e tanto è possibile solo garantendo alle parti il deposito di memorie di discussione, o meglio, la possibilità del deposito;
2) la seconda è quella di rinvenire delle ragioni obiettive e razionali per la possibilità esclusione; se la Corte costituzionale n. 73/2022 ha ritenuto valida, per il processo tributario, la ragione di garantire le “esigenze di celerità e di economia processuale” tanto può valere anche per l’art. 127-ter c.p.c. interpretato, come visto prima, quale norma sulla direzione del procedimento (e di garanzia della sua ragionevole durata);
3) la terza condizione è quella di garantire, in ogni caso, il diritto di ciascuna delle parti alla discussione orale in pubblica udienza; e tanto significa che l’art. 127-ter c.p.c. richiede una interpretazione costituzionalmente orientata del suo secondo comma: l’opposizione di una sola delle parti al provvedimento che dispone la trattazione scritta per l’udienza di discussione orale - e non solo l’opposizione di entrambe - vincola il giudice a disporre la trattazione orale a porte aperte.
L’esigenza del legislatore di formulare la nuova disposizione dell’art. 379, comma 1, c.p.c. sulla pubblica udienza in Cassazione[24] - “L’udienza si svolge sempre in presenza” - e la rinnovata connessione tra l’interesse pubblico ex art. 101 Cost. e la pubblicità dell’udienza suggeriscono che la pubblicità delle altre udienze di discussione civili sia solo la proiezione dell’interesse della parte. Trova conforto allora l’interpretazione per cui l’art. 127-ter c.p.c. può essere applicato, nel rispetto delle tre condizioni esplicate, alla discussione orale prevista in pubblica udienza derogando, quindi, alla pubblicità.
2.4. Oralità, immediatezza e concentrazione
La trattazione scritta della causa, escludendo l’oralità, sembra sacrificare l’immediatezza e la concentrazione. L’oralità, difatti, è il mezzo attraverso cui il codice garantisce queste e il contraddittorio in condizioni di parità[25].
La trattazione orale non è però l’unico modo per assicurare il contraddittorio in condizioni di parità. Questo è garantito (come suggerisce la fase introduttiva del giudizio civile, la discussione scritta ex art. 281-quinquies c.p.c.) o può essere garantito - ad esempio con la facoltà delle parti, per la discussione, di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte[26] - anche dalla trattazione scritta. “Porre un'alternativa tra difesa scritta e discussione orale nel processo civile non può determinare alcuna lesione di un adeguato contraddittorio, anche perché le parti permangono su di un piano di parità”[27] e deve “escludersi che sussista un'unica forma in cui il confronto dialettico possa estrinsecarsi e che questa vada necessariamente identificata nella difesa orale”. “Non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità”[28].
L’immediatezza e la concentrazione non sono condizione indefettibili per l’attuazione del contraddittorio e per la formazione del convincimento del giudice[29]. L’attuazione del contraddittorio, infatti, non implica necessariamente che il confronto dialettico tra i litiganti si svolga in modo esplicito e contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi successivi, purché anteriori all’assunzione del carattere della definitività della decisione, e come momento soltanto eventuale del processo[30]. E tanto perché la garanzia del contraddittorio sta nella “necessità che tanto l'attore, quanto il contraddittore, partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento”[31], ossia, in altri termini, nell’assicurare alle parti la possibilità di incidere, con mezzi paritetici, sul convincimento del giudice.
La trattazione scritta se esclude l’immediatezza - salvo aprire a nuove forme come la trattazione via chat – non esclude comunque la concentrazione. Essa può essere preservata dalla trattazione scritta, ad esempio ove il codice prevede la contestualità tra discussione e decisione, solo a patto di vincolare il giudice, alla scadenza del termine per il deposito delle note, all’immediato deposito del dispositivo ovvero della sentenza nello stesso giorno[32].
La trattazione scritta ex art. 127-ter c.p.c. sembra essere stata strutturata dal legislatore in modo contrastante con le esigenze della concentrazione e della celerità: consentire alle parti, salvo possibili diverse interpretazioni, di depositare le note sino alle fine del giorno fissato come termine (e non fino all’orario previsto come orario di udienza) e consentire al giudice di provvedere entro trenta giorni, salvo il diverso e più lungo termine disciplinare (e non immediatamente “come” nell’udienza), apre ad inevitabili sfasamenti temporali e a ritardi.
3. Quel che resta dell’udienza
“L’udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte” recita il periodo iniziale del comma 1 dell’art. 127-ter c.p.c.
“Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato il giudice assegna un nuovo termine perentorio per il deposito delle note scritte o fissa udienza. Se nessuna delle parti deposita le note nel nuovo termine o compare all’udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo” dispone il penultimo comma dell’articolo che, pur non menzionando gli artt. 181-309 c.p.c., ricollega al mancato deposito delle note entro il termine-data di udienza, gli stessi effetti della mancata comparizione delle parti per l’udienza.
“Il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note di cui al presente articolo è considerato data di udienza a tutti gli effetti” afferma l’ultimo comma dell’articolo.
Le norme confermano, al di là dell’apparente dato testuale, quanto già sostenuto in precedenza, ossia che l’udienza non scompare, o meglio, non scompare del tutto. L’udienza perde la sua dimensione spaziale. Quel che resta è la sua dimensione logico-giuridica, temporale e, quindi, anche ordinamentale.
Il legislatore ha voluto scindere la trattazione scritta dall’udienza concependo questa nel suo senso statico di contenitore temporale e spaziale: se c’è trattazione scritta allora non c’è luogo e quindi non c’è udienza. È altrettanto evidente che, per lo stesso art. 127-ter c.p.c., l’attività svolta con la trattazione scritta è come se si svolgesse in udienza posto che se ne conservano tutti gli effetti.
Il processo è una progressione di atti posti in essere dai soggetti, nel contradditorio, in un dato tempo e, a volte, in un dato luogo. Il processo di cognizione è scandito in diverse fasi - introduzione, l’istruzione, la decisione - che contengono a loro volta specifiche attività processuali (o sub-fasi). La cadenza, normativa nel rito ordinario, corrisponde ad una logica modulazione del giusto processo.
Il concetto di processo (e per esso quello di fase processuale) non coincide con il concetto di udienza - elemento e contenitore spazio-temporale di alcune delle sue fasi - né con quello di trattazione (intesa in senso generale), forma che assumono tutte le fasi e sub-fasi processuali. Il concetto di udienza, a sua volta, non coincide con quello di trattazione.
Se si vuol comprendere l’effettività dell’art. 127 ter c.p.c. è quindi alla trattazione del procedimento che bisogna guardare e non all’udienza, perché è necessario guardare al contenuto e non al contenitore. E se la trattazione orale del procedimento avviene nello spazio-tempo chiamato udienza, la trattazione scritta del procedimento è come se avvenisse in udienza, o meglio nel tempo d’udienza o in un tempo ad esso pienamente equiparato, recandone tutti gli effetti.
3.1. Il concetto di udienza
L’udienza è il luogo e il tempo in cui i soggetti del processo si relazionano, tra loro, per il compimento degli atti processuali[33]. Il giudice ha il dovere - processuale e ordinamentale - di “tenere” udienza e dirigerla ed è l’unico soggetto necessario di essa[34]. Le parti hanno l’onere di comparire in udienza (artt. 181, 309 c.p.c.), dinanzi al giudice, al fine di compiere determinati atti del processo[35].
“Udienza” – indica la giurisprudenza formatasi sull’art. 343 c.p.c. - è un concetto dal duplice significato. In senso statico, è il contenitore spazio-temporale di specifiche attività processuali[36]. In senso dinamico, è l’attività giurisdizionale resa dal giudice nelle fasi processuali [37].
Tempo
I “giorni della settimana” e le “ore” - ovvero l’arco temporale - in cui i magistrati devono tenere udienza sono programmati (per mezzo delle tabelle di organizzazione) dal presidente del tribunale il quale, secondo le disposizioni di attuazione del c.p.c., è chiamato in teoria a determinare in modo separato le udienze “destinate esclusivamente” alla prima comparizione delle parti, all’istruttoria e quelle destinate alla discussione[38]. Per la singola causa il giorno - e non l’orario - è indicato dalla parte (art. 163 c.p.c.) o dal magistrato[39].
L’udienza ha quindi una duplice dimensione temporale: è il termine di riferimento entro cui compiere determinate attività processuale (soddisfare l’onere di comparizione, costituirsi, depositare gli atti il cui termine di deposito è fissato a ritroso); è la porzione di tempo in cui compiere le attività processuali orali (ad esempio, la discussione).
La dimensione temporale costituisce il nucleo fondamentale dell’udienza perché - e la trattazione scritta ormai lo ha dimostrato con chiarezza, grazie al processo civile telematico, così come lo comprova la fase iniziale del nuovo rito civile di primo grado - il luogo di udienza non è indispensabile per garantire il contraddittorio in condizioni di parità (poiché, a non essere indispensabile, è la contestuale presenza dei soggetti del processo).
Luogo
Il luogo dell’udienza è il tribunale adito e l’aula, o per questa altra sala, dove deve essere presente il giudice designato il giorno previsto per le udienze[40]. Le ipotesi in cui l’attività processuale può svolgersi al di fuori del tribunale sono tassativamente stabilite (ad esempio: artt. 203, 255, 259, 262 e 421 c.p.c.) e l’art. 67 disp. att. c.p.c. - che consentiva al giudice conciliatore di tenere le udienze, in caso di urgenza, nella propria abitazione - è stato abrogato.
Il nuovo art. 196-duodecies c.p.c., destinato alla trattazione orale da remoto, afferma poi che il luogo dal quale il giudice si collega è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti e l’udienza si considera tenuta nell’ufficio giudiziario davanti al quale è pendente il procedimento.
3.2. Il concetto di trattazione (orale e scritta)
La trattazione della causa, intesa in senso generale, è la modalità attraverso cui i soggetti del processo si relazionano e comunicano tra di loro nel processo e per il processo[41] attuando il contraddittorio. Il concetto generale si distingue da quello della trattazione “in senso stretto”, specifica fase processuale (art. 180 c.p.c.) che segue quella introduttiva[42].
L’oralità e la scrittura sono le due forme di trattazione delle fasi e attività del processo civile. Le forme, suggeriva Chiovenda, non si escludono a vicenda manifestando per lo più la tendenza a prevalere l’una sull’altra. La forma della scrittura è propria della fase introduttiva del giudizio, quella orale è la forma della attività di trattazione-istruttoria. La fase decisoria è sia scritta, tendenzialmente mista, e orale. La trattazione, quindi, può avvenire o non avvenire in udienza.
L’oralità non conosce una norma generale di disciplina – ma solo una norma di apertura per la singola fase (art. 180 c.p.c.) e norme specifiche sulla discussione - essendo la forma ordinaria della trattazione e quella materialmente necessaria per talune attività. Se le parti e il giudice si relazionano e comunicano in forma orale, quindi intervenendo contestualmente[43], vi è la necessità di un tempo-luogo per detta contestualità e del processo verbale delle attività compiute.
La trattazione (integralmente) scritta della fase e attività processuale è disciplinata ora dall’art. 127-ter c.p.c.[44]. Le parti e il giudice si relazionano, e comunicano tra loro, mediante la redazione e il deposito telematico di note scritte cui segue necessariamente un provvedimento scritto. La trattazione scritta si distingue così dal mero deposito di note proprio per il fatto che, il deposito, determina il dovere del giudice di rispondere entro un termine dato e il mancato deposito i medesimi effetti ex artt. 181-39 c.p.c. Se le parti e il giudice si relazionano e comunicano in forma scritta, non essendoci un intervento contestuale, vi è solo bisogno di un tempo entro cui compiere le attività (per le parti e il giudice) e non di un luogo.
3.3. La dimensione temporale
Il periodo iniziale del comma 1 dell’art. 127-ter c.p.c. è impreciso nella formulazione perché l’udienza - sia se fissata e soprattutto se non ancora fissata - non può mai essere sostituita dal deposito delle note scritte.
E tanto perché l’udienza coincide con il luogo e il tempo - o meglio le ore del giorno della settimana - in cui il giudice deve trattare i procedimenti e le relative fasi di essi. L’udienza è sempre programmata e fissata dal calendario previsto in tabella. Il giudice, o la parte, a ben vedere, individuano (fissano) solo lo specifico giorno di trattazione del singolo procedimento e tanto nei limiti di un calendario di udienze già stabilito dalle tabelle di organizzazione. L’udienza quindi o si svolge - e il giudice deve (nel suo arco temporale) trattare i procedimenti e le parti compiere le attività - oppure non si svolge.
La disposizione, in sintesi, confonde l’udienza con la trattazione.
È l’attività processuale orale, prevista per la data di udienza, che può essere sostituita dall’attività scritta - ovvero dal deposito delle note - e non l’udienza (che il giudice deve sempre tenere nei giorni previsti dalla tabella). In altri termini, la norma afferma che la trattazione orale prevista per l’udienza può essere sostituita dalla trattazione scritta (con onere di deposito delle note su cui il giudice deve provvedere).
L’ultimo comma dell’art. 127-ter c.p.c. invece evidenzia che, con la trattazione scritta, non c’è il luogo di udienza. E questo perché, semplicemente, non ce ne è bisogno.
Il penultimo comma conferma la parificazione piena tra le forme di trattazione, scritta e orale, in rapporto all’onere di comparizione: il mancato deposito delle note ha, difatti, i medesimi effetti processuali della mancata comparizione in presenza. Comparizione in presenza che, appare utile ricordarlo, le parti soddisfano con la mera presentazione fisica in aula entro l’orario di udienza fissato, senza che sia necessario svolgere alcuna ulteriore ed effettiva attività.
Quel che resta dell’udienza è quindi una delle due dimensioni temporali. Resta la data di udienza ovverosia il termine di riferimento entro cui compiere determinate attività processuali: in primis, soddisfare l’onere di comparizione (o comunque un onere “senza nome” parificato a questo) depositando le note contenenti quelle istanze e conclusioni che la parte avrebbe presentato, oralmente, all’udienza quale porzione di tempo.
3.4. La dimensione ordinamentale
La disposizione secondo cui “Il giorno di scadenza del termine …è considerato data di udienza a tutti gli effetti” implica che, se l’udienza non c’è, è tuttavia come se ci fosse. E ciò anche a livello ordinamentale. In altri termini il giorno di scadenza del termine appare comunque parificato al giorno di udienza anche ai fini degli effetti processual-ordinamentali.
L’udienza quale contenitore spazio-temporale, come già detto, è solo individuata dal giudice (o dalla parte ex art. 163 c.p.c.) in quanto le udienze sono programmate e fissate dal presidente mediante le tabelle di organizzazione. Quando il giudice indica l’orario per la trattazione del singolo procedimento esercita “solo” quel potere di ordine ex art. 127-175 c.p.c.
Il giudice allora sarà tenuto a far coincidere “il giorno di scadenza del termine” con una delle date di udienza previste dalle tabelle per l’udienza. In tal senso, potrebbe anche ipotizzarsi la possibilità per il giudice, in forza dell’art. 175 c.p.c., di stabilire uno specifico orario entro cui depositare le note di trattazione scritta o che queste, comunque, debbano essere depositate entro l’arco temporale delle udienze (“giorni e ore”) stabilite dalle tabelle di organizzazione.
L’udienza, come visto, ha un preciso significato ordinamentale in quanto costituisce il modo e il tempo attraverso cui il giudice adempie al suo dovere di “tenere” udienza. In connessione con quanto appena detto, se il giudice deve far coincidere “il giorno di scadenza del termine” con una delle date di udienza previste dalle tabelle per l’udienza allora adempie al suo dovere (altrimenti, no).
4. Il potere di disporre la trattazione scritta.
4.1. Discrezionale o vincolato
L’art. 127-ter, comma 1, c.p.c. dispone che “L’udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. Negli stessi casi, l’udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite”.
La prima parte del comma appare superflua nella sua formulazione.
È infatti chiaro che la trattazione scritta non possa essere disposta per quelle attività processuali - come l’assunzione delle prove orali - che richiedono la presenza di soggetti, come i testimoni, diversi dalle parti, la cui attività non è sostituibile dal deposito telematico di uno scritto (salvo il caso in cui sia stata disposta la testimonianza scritta). Soggetti, appare utile precisare, ulteriori (più che diversi) rispetto a quelli indicati, dato che la trattazione delle fasi processuali richiede sempre la presenza almeno dei difensori (su cui grava, perciò, un onere di comparizione che, talvolta, è rivolto anche alle parti personalmente).
La disposizione sembra non porre limite alcuno alla trattazione scritta e tuttavia, per avere un’effettiva funzione, deve essere interpretata nella sua portata sistematica e indicare il criterio cui conformarsi per affermare quando il giudice può o deve disporre la trattazione scritta della causa – se richiesta da entrambe le parti - in sostituzione della trattazione orale.
4.2. Tre regole
La norma, in tal senso e in termini più precisi, dispone che nel rispetto del contraddittorio in condizioni di parità, la trattazione orale della causa può essere sempre sostituita dalla trattazione scritta ex art. 127-ter c.p.c. ove questa sia idonea allo scopo. La stessa non può essere disposta nel caso in cui la legge prescrive la forma orale come obbligatoria per la tutela del diritto specifico della parte alla trattazione orale o per la tutela di un interesse diverso da quello delle parti (pubblico) [45].
La norma è così costituita da tre regole concentriche. E a tali regole risponde sia la possibilità per il giudice di disporre la trattazione scritta, sia la possibilità per le parti di vincolare il giudice nel disporla.
Prima regola
La prima regola è di apertura. La trattazione scritta può essere disposta, in astratto, anche quando il codice prevede, in modo generale (art. 180 c.p.c.) o puntuale, la forma orale della trattazione e, pertanto, un’attività da compiersi in udienza. Non ha valore generale, invece, la regola inversa. La trattazione scritta non è pertanto automaticamente esclusa da tutte quelle disposizioni che prevedono o presuppongono l’oralità della fase o dell’attività. Il codice presuppone o richiede l’oralità, o frangenti di oralità, per tutto l’arco del processo, in forma esplicita o implicita, e ritenere che la trattazione scritta non possa essere disposta in tali casi è insensato perché l’art. 127-ter c.p.c. non avrebbe ragione di esistere.
Seconda regola
La seconda regola è di chiusura. La trattazione scritta può sostituire la trattazione orale quando, mutata la forma, risultano soddisfatte le medesime esigenze e i medesimi diritti. In altri termini, quando è idonea al raggiungimento dello scopo e alla soddisfazione del contraddittorio in condizione di parità. E posto che la legge presuppone o determina la forma orale della trattazione poiché la valuta, in astratto, congrua allo scopo, è possibile trasgredirla - in applicazione del principio di strumentalità delle forme - ove l’alternativa scritta sia valutata, in concreto, idonea allo scopo.
Il primo corollario della regola è che il giudice può disporre, e imporre, la trattazione scritta solo ove non frustri lo scopo e ove non privi, in alcun modo, le parti dell’effettività del contraddittorio in condizioni di parità.
Il secondo corollario di questa regola è enunciato dall’art. 127-ter c.p.c., per cui la trattazione scritta è disposta “se ne fanno richiesta tutte le parti costituite”: le parti, ove concordi, hanno diritto alla trattazione scritta poiché valutata, in concreto, come congrua al raggiungimento dello scopo e il giudice ha il dovere di disporla. In sintesi, la trattazione scritta è quindi sempre possibile ove tutte le parti manifestino, in modo espresso o tacito (per mancata opposizione al provvedimento che la dispone), una volontà in tal senso.
Terza regola
La terza regola è quella per cui la trattazione scritta non può essere disposta dal giudice se la legge prevede l’obbligatorietà della trattazione orale a tutela del diritto specifico della parte proprio alla trattazione orale (un diritto disponibile) o a tutela di un interesse pubblico.
La legge prescrive come obbligatoria la trattazione orale, a tutela di un interesse della parte in tal senso, in due occasioni.
(a) La prima è quando la legge prevede l’oralità come l’unica forma per l’attività da compiersi.
L’oralità è l’unica forma normativa prevista, ad esempio, nel caso dell’interrogatorio libero, del tentativo di conciliazione. È il caso altresì della discussione orale nel rito lavoro (non invece del rito ordinario la cui fase di discussione prevede diverse alternative). In tali ipotesi, a ben vedere, la legge mira a preservare non l’oralità di per sé ma l’immediatezza e la concentrazione dell’attività per mezzo dell’oralità.
Una considerazione apre alla possibilità di disporre la trattazione scritta. Appare necessario distinguere tra la “obbligatorietà” della fase, l’obbligatorietà della attività e l’obbligatorietà della forma. Lo svolgimento delle tre fasi processuali è sempre necessario per gravare il giudice della decisione ma, al loro interno, non tutte le attività sono obbligatorie[46]. La fase di prima comparizione è necessaria ma il tentativo di conciliazione e l’interrogatorio libero non sono obbligatori, la partecipazione agli stessi è un onere per la parti, e tuttavia, se esperiti, devono essere svolti in forma orale. La fase di discussione è necessaria ma la parte è solo onerata di comparire il giorno della discussione, non ha l’obbligo di discutere effettivamente. La trattazione scritta, nelle ipotesi indicate, è allora possibile - fermo restando lo svolgimento giuridico della fase, proprio a trattazione scritta - a condizione che non si effettui materialmente la relativa attività perché tutte le parti manifestano, in modo espresso o tacito, una volontà in tal senso. L’opposizione di anche di una sola di esse, per converso, impedirà la possibilità di disporre la trattazione scritta.
(b) La seconda occasione è quando la legge ha come specifico fine quello di escludere la trattazione integralmente scritta.
E ciò accade in due ipotesi.
(b1) La prima ipotesi è quando la legge attribuisce espressamente alla parte il diritto ad ottenere l’oralità della trattazione della fase - come avviene nella disciplina degli art. 275 c.p.c., art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c., dell’art 352 c.p.c. -– allo specifico scopo di escludere la trattazione (solo) scritta della causa[47]. La trattazione scritta, in queste ipotesi, non ha spazio perché la forma è prevista espressamente come diritto della singola parte che manifesta, in modo espresso, una volontà in senso contrario alla trattazione ex art. 127-ter c.p.c.
(b2) La seconda ipotesi è quando la legge prevede la forma orale come obbligatoria perché servente alla pubblicità della fase. L’art. 128 c.p.c., norma sulla pubblicità, è prima di tutto una norma sulla forma orale della discussione[48]. La forma orale è, difatti, la prima componente della pubblicità della discussione poiché questa, nel codice vigente, è pubblica a due condizioni: se orale e se detta oralità si sviluppa in un momento-luogo pubblico come l’udienza a porte aperte. Pubblicità-oralità sono un’endiadi pur se, astrattamente, la prima può essere garantita, in modo estensivo, anche da altre forme.
Se la pubblicità della discussione è considerata – come visto al paragrafo 2.3 - la proiezione del diritto della parte alla discussione pubblica allora è possibile la trattazione scritta solo ove vi sia il consenso espresso o tacito delle parti. Il dissenso di anche di una sola di esse, per converso, impedirà la possibilità di disporre la trattazione scritta.
Se la pubblicità invece risponde ad un interesse pubblico - come avviene per l’udienza pubblica di discussione in Cassazione, per cui il nuovo comma 1 dell’art. 379 c.p.c. stabilisce che “L’udienza si svolge sempre in presenza” - allora non vi è spazio per la trattazione scritta, anche se richiesta da tutte le parti.
4.3. I termini per disporre la trattazione scritta
Il giudice, secondo la lettera dell’art. 127-ter c.p.c., sembra poter disporre la trattazione scritta senza limiti di tempo e anche il giorno prima dell’udienza prevista. È utile precisare che, sebbene la disposizione presupponga che il provvedimento sia emanato fuori udienza, lo stesso può essere emanato anche in udienza.
Un’interpretazione della norma conforme ai principi evidenziati nel paragrafo 2 - e all’insopprimibilità del termine di opposizione che verrà evidenziata successivamente - impone tuttavia di configurare due limiti.
Il primo limite
Il primo limite si ricava dalla considerazione per cui la trattazione scritta è uno strumento di flessibilità utile a garantire la ragionevole durata del procedimento.
Per tale ragione non sembra ammissibile un provvedimento con cui il giudice, nel disporre la trattazione scritta, fissi il termine per il deposito delle note in corrispondenza di un giorno di udienza successivo a quello originariamente stabilito per la data di udienza. Il provvedimento sarebbe, prima di tutto, un mero differimento della data di udienza.
Un esempio aiuta a chiarire. Se l’udienza (o meglio, la trattazione della causa in udienza) è già fissata per il giorno 12 dicembre, la lettera della norma sembra consentire al giudice di disporre la trattazione scritta anche con provvedimento dell’11 dicembre, con conseguente assegnazione alle parti del termine “minimo” di 15 giorni per il deposito delle note (quindi a partire almeno dal 27 dicembre).
Il provvedimento sarebbe da considerare, tuttavia, dapprima un differimento di udienza e solo dopo un provvedimento che dispone la trattazione scritta. E tanto perché - considerando che secondo l’ultimo comma il termine di scadenza per il deposito delle note è da considerarsi data di udienza - il provvedimento dovrebbe comunque indicare un termine per il deposito delle note (almeno 27 dicembre) diverso e successivo rispetto all’originario (12 dicembre).
Se l’istituto della trattazione risponde ad esigenze di economia processuale, nel solco di una proficua direzione del procedimento ex art. 175 c.p.c., non appare giustificato un differimento della data di udienza utile alla sola operatività della trattazione scritta (che, al contrario, serve garantire una maggiore celerità procedimentale).
Il secondo limite
Il giudice deve disporre la trattazione scritta in un tempo congruo e tale da garantire, alle parti, un termine per proporre opposizione (5 giorni, riducibili in caso di particolari ragioni di urgenza) e la possibilità di conoscere tempestivamente la decisione in merito all’opposizione stessa o il silenzio-diniego del giudice (5 giorni dalla presentazione dell’opposizione). Tale, infatti, appare lo scopo del secondo comma dell’art. 127-ter c.p.c.
Il tempo congruo è individuato dal legislatore, nel primo periodo del comma citato, quando dispone che “Con il provvedimento con cui sostituisce l'udienza il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note”. Termine che può essere ridotto in caso di particolari ragioni di urgenza e, può aggiungersi, con il consenso (espresso o tacito) di entrambe le parti.
Il provvedimento del giudice deve quindi intervenire in un tempo tale da consentire il rispetto del termine di 15 giorni - presunto come congruo dalla legge - intercorrente tra la comunicazione del provvedimento del giudice e il giorno di scadenza per il deposito delle note. E tanto sia nel caso in cui la trattazione in udienza del procedimento non sia stata ancora disposta (udienza non ancora fissata), sia nel caso in cui la trattazione in udienza sia stata già disposta (udienza già fissata, unica ipotesi presupposta dalla disposizione).
La violazione da parte del giudice del limite indicato dalla norma non è prevista espressamente a pena di nullità. Se il termine di 15 giorni, tuttavia, è stato indicato dal legislatore proprio al fine di garantire il raggiungimento dello scopo - la possibilità per le parti di opporsi e di conoscere in tempo utile il provvedimento giudiziale di risposta alla loro opposizione (anche se il tempo di questa conoscenza non è disciplinato, e rischia di lasciare le parti in un limbo) - sarà ravvisabile un vizio tutte le volte in cui le parti non abbiano avuto un termine utile per opporsi.
Al fine di evitare ipotesi di vizio, se il provvedimento del giudice interviene in un tempo tale da violare il termine di 15 giorni tra la comunicazione del provvedimento e il termine di scadenza per il deposito allora: deve essere garantito comunque un termine minimo per l’opposizione e il giudice deve aver cura di rispondere immediatamente se vi è stata opposizione tempestiva. In ogni caso, la mancata opposizione delle parti nel termine (consenso tacito) ovvero il deposito delle note da parte di tutte le parti consente di ritenere raggiungo lo scopo[49].
4.4. L’assegnazione del termine per il deposito delle note. Orario e data di udienza
Il termine assegnato per il deposito delle note non deve essere inferiore a 15 giorni e può essere abbreviato al ricorrere di particolari ragioni di urgenza di cui il giudice dovrà dare atto nel provvedimento (ad esempio, la ragionevole durata del procedimento se la trattazione ex art. 127-ter c.p.c. consente al giudice di disporre un rinvio breve rispetto ad una eventuale trattazione orale).
Il vero cambio di passo della nuova disposizione rispetto alla disciplina emergenziale è segnato dalla previsione, per il deposito delle note, di un termine unico. Un termine non ancorato alla data di udienza (e non più calcolato a ritroso da essa, gli ormai abituali “cinque giorni prima dell’udienza”) ma decorrente dalla data di emissione del provvedimento con cui il giudice dispone la trattazione scritta.
Cambio di passo che, allontanando la trattazione scritta dallo schema logico dell’udienza, reca alcune problematiche sulle tempistiche del deposito delle note.
Orario
Sino ad ora, difatti, il termine di 5 giorni (antecedenti alla data di udienza) per il deposito delle note era temperato dal limite dell’orario di udienza: le parti potevano non rispettare il termine di cinque giorni previsto per il deposito e tuttavia, al fine di soddisfare l’onere di comparizione, erano tenute al deposito delle note entro l’orario di udienza fissato.
Le soluzioni per l’interprete, dinanzi al termine unico fissato dal nuovo art. 127-ter c.p.c., sono tre.
1. La prima è quella di allontanarsi dallo schema logico dell’udienza.
In tal senso, il termine per il deposito delle note, come i tradizionali termini codicistici, consiste non già nella indicazione di un punto del tempo, ma nella indicazione di un periodo: ha due capi, che sono il giorno di inizio (dies a quo) e il giorno di scadenza (dies ad quem). È un termine (a giorni, non a ore) ed è quindi da escludere che il giudice possa indicare anche un orario; sicché, il deposito telematico delle note dovrà essere ritenuto tempestivo laddove effettuato entro la fine del giorno di scadenza (ovvero le 23:59 ex art. 16 bis, co. 7, d.l. n. 179/2012 ed ex nuovo art. 196-sexies c.p.c.).
Gli inconvenienti sono evidenti. Il giudice difficilmente potrà provvedere, su quanto dedotto nelle note, il medesimo giorno di scadenza del termine, frustrando così quella celerità del processo che, almeno nelle intenzioni, sembra aver ispirato il riformatore.
Le difficoltà indicate possono essere superate allora solo con la leale collaborazione delle parti. Il giudice potrà invitare le stesse a depositare le note, comunque, prima della scadenza del termine. Il Tribunale potrà concordare con il foro un (ennesimo) protocollo.
2. La seconda alternativa è quella di utilizzare lo schema logico dell’udienza dato che l’ultimo comma chiede di considerare il termine di scadenza per il deposito “data di udienza” a tutti gli effetti (si richiama a riguardo quanto detto in tema di conservazione della dimensione temporale dell’udienza).
In tal senso, il termine per il deposito delle note è da considerarsi come se fosse un termine di udienza e quindi anche l’indicazione di un punto del tempo. Il giudice, quindi, anche ricollegandosi all’art. 127 c.p.c. e 175 c.p.c., potrebbe indicare un orario e il deposito telematico delle note dovrà essere ritenuto tempestivo laddove effettuato entro tale termine orario del giorno.
I vantaggi sono evidenti. Continuare come si è fatto sino ad oggi, in modo efficace, e consentire al giudice di poter provvedere il medesimo giorno di scadenza del termine, aiutando la celerità del processo.
3. La terza soluzione è quella, sempre utilizzando lo schema logico dell’udienza, di implementare le tabelle secondo quanto previsto dalle disposizioni del codice di procedure civile per cui il presidente deve indicare “i giorni e le ore” (ovvero l’arco temporale) in cui il giudice svolge l’udienza (prevedendo così un orario “limite” entro cui depositare le note).
Data di udienza
Le soluzioni per l’interprete sono due.
1. La prima è, di nuovo, quella di allontanarsi dallo schema logico dell’udienza.
In tali ipotesi il giudice potrà assegnare un termine con scadenza in un giorno anche diverso dai giorni di udienza fissati nelle tabelle di organizzazione. L’opzione sembra tuttavia non collimare con la disposizione per cui il giorno di scadenza del termine è “data di udienza a tutti gli effetti” né essere congrua con la collocazione codicistica della norma. L’ulteriore conseguenza, già evidenziata, è che non vi sarà neppure la dimensione ordinamentale dell’udienza.
2. La seconda soluzione nasce dall’idea di utilizzare lo schema logico dell’udienza.
È da escludere, per le ragioni già esposte al paragrafo 3, che il termine di scadenza per il deposito possa essere fissato in un giorno in cui il giudice non tiene udienza.
Si è detto, infatti, che se il giorno di scadenza del termine è “data di udienza a tutti gli effetti”, il giudice non è libero di determinare le date di udienza posto che, queste, secondo le disposizioni di attuazione del c.p.c. sono programmate e fissate dal presidente del Tribunale per mezzo delle tabelle di organizzazione. Al giudice, infatti, compete solo individuare la singola data di trattazione del singolo procedimento nel solco del calendario delle udienze già fissato.
5. Il diritto di opporsi, il diritto alla trattazione orale e la mancata opposizione
L’art. 127-ter, comma secondo, c.p.c. disciplina il diritto della parte costituita di opporsi al provvedimento del giudice che dispone la trattazione scritta. È necessario precisare, anche alla luce di quanto in merito all’interpretazione del comma 1, che occorre distinguere tra diritto di opporsi al provvedimento che dispone la trattazione scritta e diritto alla trattazione orale della fase procedimentale. Il primo, difatti, non implica necessariamente il secondo.
5.1. Il diritto di opporsi alla trattazione scritta
Legittimazione
Il diritto è esercitabile solo dalla parte costituita e tanto esclude che l’opposizione possa provenire da chi non è parte del giudizio e da chi non è, o non è ancora, costituito (e pur se notiziato del provvedimento perché contenuto in un atto del giudice).
Termine
Il diritto è esercitabile, dalle parti costituite, nel termine di cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento che la dispone.
La decorrenza è dettata a partire dalla “comunicazione” del provvedimento poiché la norma presuppone che il termine sia assegnato fuori udienza e solo alle parti costituite. Nel momento in cui, tuttavia, il provvedimento è emanato in udienza, alla presenza delle parti, appare ragionevole affermare che l’opposizione possa essere immediata.
Il termine sembra decorrere, per la parte non ancora costituita per la prima udienza, dal momento della costituzione, poiché solo con la costituzione essa diviene parte. Può ritenersi tuttavia, interpretando la norma coerentemente con il sistema codicistico e con i suoi principi, che il termine per l’opposizione decorra invece dal termine previsto per la costituzione tempestiva (nel presupposto che la parte conosca o possa conoscere il provvedimento).
Il contumace, invece, costituendosi, accetta il processo nello stato in cui si trova e con tutte le preclusioni e decadenze già verificatesi. Pertanto, per questa parte, il termine decorrerà dalla data di deposito del provvedimento che dispone la trattazione scritta (quando emesso dopo la dichiarazione di contumacia) e l’opposizione sarà preclusa in caso di costituzione successiva al decorrere dei cinque giorni.
La previsione di un termine per opporsi, invece, non ha senso nel caso in cui la trattazione scritta sia disposta su richiesta concorde delle parti.
Il termine non è previsto espressamente a pena di decadenza. Il decorso dello stesso, tuttavia, determina l’accettazione del provvedimento e dunque la rinuncia ad avvalersi della trattazione orale. In tale prospettiva, e orientando il discorso al principio di leale collaborazione, la parte potrà proporre opposizione, dopo il termine di 5 giorni, solo nel caso in cui sopravvengano nuovi elementi.
L’insopprimibilità del termine
Il diritto può essere compresso in quanto è possibile abbreviare il termine per il suo esercizio.
La compressione è possibile nel caso indicato dalla norma, ovvero quando vi sono particolari ragioni di urgenza. Dette ragioni non sembrano facilmente categorizzabili non essendo agevole riscontrare un immediato nesso tra urgenza e una forma specifica di trattazione, in particolare quella ex art. 127-ter c.p.c. La norma, per avere uno scopo compiuto, deve interpretarsi nel senso che è possibile l’abbreviazione del termine ove vi siano ragioni obiettive e razionali (ad esempio la ragionevole durata del procedimento poiché la trattazione ex art. 127-ter c.p.c. consente al giudice di fare un rinvio breve rispetto alla trattazione orale).
Il diritto di opporsi alla trattazione scritta, si è visto, appare comprimibile solo nel tempo di esercizio e tanto significa che qualsiasi provvedimento che dispone la trattazione scritta deve preservare la possibilità per ciascuna delle parti di opporvisi in un tempo congruo. Il provvedimento che non garantisce detta possibilità è viziato. Vizio sanato nel caso in cui la parte depositi la nota di trattazione scritta senza nuovamente opporsi al provvedimento che l’ha disposta.
5.2. Il diritto alla trattazione orale
Il diritto di opporsi alla trattazione scritta non implica il diritto della parte alla trattazione orale. Il primo implica il secondo - e vincola il giudice - solo se esercitato da entrambe le parti. Il diritto alla trattazione orale vincola sempre il giudice a revocare il provvedimento che dispone la trattazione scritta se vi è opposizione anche di una sola delle parti.
La lettura della disposizione sembra suggerire che il giudice è vincolato alla revoca del provvedimento che dispone la trattazione scritta solo se l’opposizione è manifestata congiuntamente dalle parti.
L’interpretazione proposta del primo comma dell’art. 127-ter c.p.c., anche costituzionalmente orientata, induce tuttavia a ritenere che, oltre il dettato della norma, ciascuna delle parti può vincolare il giudice alla revoca del provvedimento che dispone la trattazione orale in almeno due ipotesi.
(1) La prima, di ordine generale, è quando il giudice ha disposto la trattazione scritta frustrando lo scopo previsto ovvero privando le parti dell’effettività del contraddittorio in condizioni di parità. È il caso in cui, ad esempio, fissi l’udienza di discussione ex art. 281 sexies c.p.c. in trattazione scritta senza autorizzare il deposito di memorie di discussione[50].
(2) La seconda è quando la trattazione scritta è stata disposta per una ipotesi in cui la legge prescrive una specifica forma di trattazione orale a tutela di un diritto espresso della parte ovvero a tutela di un interesse pubblico (come l’udienza pubblica in Cassazione). La legge, si è detto, prescrive come obbligatoria la trattazione orale quando prevede questa come l’unica forma per l’attività ovvero quando ha come specifico fine quello di escludere la trattazione integralmente scritta della causa. Nei casi indicati rientrano, quindi, la prima comparizione - in special modo nel rito lavoristico e nella nuova fase ex art. 183 c.p.c. in cui è previsto il tentativo di conciliazione e l’interrogatorio libero - e la discussione orale (ad esempio nel rito lavoro o ex art. 281 sexies c.p.c.) ovvero le ipotesi ex art. 275 c.p.c., art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c. o ex art 352 c.p.c.
In dette ipotesi, nel caso in cui il giudice non accolga l’opposizione revocando la trattazione scritta, l’atto successivo è destinato ad essere viziato. Vizio, si è detto, sanato nel caso in cui la parte depositi la nota di trattazione scritta senza nuovamente opporsi al provvedimento che l’ha disposta.
5.3. La mancata opposizione e l’acquiescenza
La mancata opposizione della parte, entro il termine di legge di cinque giorni, è qualificabile come consenso tacito (acquiescenza) al provvedimento del giudice, con conseguente rinuncia all’eccezione relativa all’eventuale vizio scaturente dal provvedimento del giudice che ha disposto la trattazione scritta.
Il medesimo effetto si ottiene nel caso in cui le parti - anche a fronte di un provvedimento che dispone la trattazione scritta in modo difforme da quanto stabilito dall’art. 127-ter c.p.c. - depositino le note di trattazione senza manifestare espressamente l’opposizione.
Così, ad esempio, qualora il giudice abbia assegnato un termine inferiore ai quindici giorni per il deposito delle note, la mancata opposizione della parte nei cinque giorni le impedirà di eccepire il vizio successivamente. Allo stesso modo, nel caso in cui depositi, comunque, le note senza eccepire nuovamente il vizio.
5.4. Il provvedimento e il silenzio del giudice sull’opposizione
Ai sensi del comma 2 dell’art. 127-ter, il giudice provvede sull’opposizione nei cinque giorni successivi con “decreto non impugnabile”.
La forma del decreto pare giustificata dal fatto che si tratta di una delibazione da assumere in tempi rapidi, senza la necessità di sollecitare il contraddittorio delle parti.
Alla medesima finalità di celerità procedimentale sembra orientata la previsione di inoppugnabilità del decreto.
Qualora il giudice ometta di pronunciarsi sull’opposizione, in assenza di un provvedimento modificativo della forma di celebrazione dell’udienza, dovrà intendersi confermata la modalità a trattazione scritta (per una sorta di silenzio-rigetto).
6. Le modalità della trattazione scritta.
6.1. Il deposito delle note e il mancato deposito
La trattazione scritta si sostanzia nel “deposito di note scritte” (non più anche lo “scambio” come avevano previsto le normative emergenziali).
Il deposito deve avvenire entro il termine fissato dal giudice.
Le note (l’aggettivo “scritte” è una ridondanza, essendo difficile immaginare delle note che non siano scritte) sono atti processuali che si distinguono dalle memorie per il loro contenuto più sintetico.
Ed infatti, le note menzionate nell’art. 127-ter c.p.c. possono contenere solo “istanze e conclusioni”.
Nel concetto di istanze possono intendersi incluse domande ed eccezioni. Così circoscritto il loro contenuto, dovranno ritenersi inammissibili quelle note che dovessero surrettiziamente integrare nuovi atti processuali esorbitanti le istanze e le conclusioni che possono prospettarsi in un’udienza di rito.
Il termine unico fissato al comma 2 è anche il termine ultimo per il deposito delle note.
Nel caso in cui nessuna delle parti depositi le note entro il termine, si producono i medesimi effetti processuali della mancata comparizione. In tal senso, il comma 4 (pur senza richiamarlo espressamente) ricalca il meccanismo degli artt. 309 e 181 c.p.c.: viene fissato un nuovo termine (o una nuova udienza) e, se neppure entro questo nuovo termine vengono depositate le note (o nessuno compare alla nuova udienza), la causa viene cancellata dal ruolo e il processo si estingue.
6.2. Il dovere del giudice di provvedere
Se nell’ultima legislazione emergenziale (art. 221, co. 4, d.l. n. 77/2020) era stato omesso qualsiasi riferimento al provvedimento finale del giudice all’esito della trattazione scritta, l’art. 127-ter gli dedica il terzo comma prevedendo anche un termine (di trenta giorni) decorrente dal giorno di scadenza del termine per il deposito delle note.
Il legislatore volutamente parla di “provvedimento”, lasciando così intendere che la trattazione scritta potrà dar luogo a provvedimenti di qualsiasi forma (ordinanza, decreto, sentenza) e natura (decisoria, istruttoria, etc.).
In assenza di una “udienza”, il provvedimento di cui al comma 3 non è altro che un provvedimento adottato dal giudice a fronte di una nota di parte (o di più parti) depositata fuori udienza e precedentemente autorizzata dal giudice (la norma sembra ricalcare lo schema dei commi 6 e 7 dell’art. 183 c.p.c., in vigore fino al giugno 2023, laddove si prevede che il giudice assegni i termini per le memorie e poi “Se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro trenta giorni”).
Aderendo al concetto di udienza quale schema logico-giuridico, può ritenersi invece che l’emissione del provvedimento sia lo scioglimento di una riserva (assunta automaticamente alla scadenza del termine) possibile in trenta giorni (non diversa quindi da quella ex art. 186 c.p.c. che presuppone un’udienza, se non nei termini).
Il termine per l’emanazione del provvedimento decorre dal giorno di scadenza del termine per il deposito delle note, a prescindere dunque dall’eventualità che tutte le parti abbiano depositato le proprie note prima del termine.
Appendice. Schema riepilogativo
[1] BIAVATI, “Processo civile e pandemia: che cosa passa, che cosa rimane”, in Riv. trim. dir. proc. civ., I/2021, 133 ss.; BIAVATI, “Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria”, in Giustizia Insieme, 15 luglio 2020; BIAVATI, “Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria”, in Nuova Giurisprudenza ligure, 2020, n. 2, pp. 29 e ss.; ROSSI, “Questioni di diritto civile all’epoca del coronavirus - la legislazione emergenziale sui procedimenti esecutivi”, in Giur. It., 10, 2020; COSSIGNANI, “Giustizia civile ed emergenza coronavirus - le controversie sottratte alla sospensione dei termini e al rinvio delle udienze”, in Giur. It., 8-9, 2020; VILLA-IMBROSCIANO, “Udienze online e processo civile telematico: lo stato dell’arte e alcune proposte de iure condendo”, in Il diritto degli affari, 3, 2020; BROGI, “Diritto emergenziale della crisi d’impresa all’epoca del Covid-19”, in giurcost.org, 13 aprile 2020; ANGIOI, “Le forme alternative all'udienza civile nella normativa d'emergenza”, in giustiziacivile.com, 3 settembre 2020; MASONI, “Diritto processuale civile dell'emergenza epidemiologica (a seguito della conversione in legge del decreto ristori)”, in giustiziacivile.com, 11 gennaio 2021; CECCHELLA, “Trattazione scritta, a distanza, digitalizzazione degli atti: cosa resterà nel processo civile dell’emergenza epidemiologica”, in Questione Giustizia, 2021; DE STEFANO, “La giustizia in animazione sospesa: la legislazione di emergenza nel processo civile - note a lettura immediata all’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020)”, in Giustizia Insieme, 18 marzo 2020; DE STEFANO, “La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile”, in Giustizia Insieme, 10 aprile 2020; DI FLORIO-LEONE, “Il processo di carta: dal “telematico” all’udienza da remoto”, in Questione giustizia, 24 aprile 2020; PANZAROLA, “Aspetti della normativa emergenziale anti-Covid per il processo di cognizione”, in Riv. dir. proc., IV/2021, 1361 ss.; SCARSELLI, “Contro le udienze da remoto e la smaterializzazione della giustizia”, in www.judicium.it, 13 maggio 2020; RUFFINI, “Emergenza epidemiologica e processo civile”, in Questione Giustizia, 2021.
[2] Si vedano al riguardo i precedenti scritti: CAROLEO-IONTA, “L’udienza civile ai tempi del corona virus. Comparizione figurata e trattazione scritta”, in Giustizia Insieme, 12 marzo 2020; CAROLEO-IONTA, “Trattazione scritta. Un’impalcatura”, in Giustizia Insieme, 1 aprile 2020.
[3] CAROLEO-IONTA, “La trattazione scritta. Un arabesco”, in Giustizia Insieme, 29 luglio 2020.
[4] BIAVATI, L’architettura della riforma del processo civile, Bonomia University Press, Bologna, 2021.
[5] Su questa rivista si è evidenziata la generale tendenza del legislatore a ricercare soluzioni volte a perseguire modelli astratti, senza prestare la dovuta attenzione alle criticità che emergono nel concreto esercizio della giurisdizione civile (OTTONI, Giustizia civile e ingiustizie. La Giornata Europea in Giustizia Insieme, 25 ottobre 2022).
[6] Se l’art. 221, comma 4, disponeva che “Il giudice…assegna alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data [fissata per l’udienza] per il deposito delle note scritte”, l’art. 127-ter c.p.c. dispone che il giudice “assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note”. Previsione, quest’ultima, non accompagnata da alcuna limitazione temporale per il giudice prevista, invece, dall’art. 221 comma 4 (“Il giudice comunica alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza”). Previsione che rende macchinosa l’applicazione della trattazione scritta poiché, salvo accedere alla interpretazione proposta nello scritto, le parti possono depositare le note sino alle 23:59 del giorno previsto come data di scadenza del termine.
[7] CAROLEO-IONTA, “L’udienza civile ai tempi del corona virus. Comparizione figurata e trattazione scritta”, in Giustizia Insieme, 12 marzo 2020; CAROLEO-IONTA, “La trattazione scritta. Un arabesco”, in Giustizia Insieme, 29 luglio 2020.
[8] MANDRIOLI, Manuale, Vol. I pag. 475
[9] Così Corte Costituzionale n. 73/2022 che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità di una serie di norme del processo tributario relative alla trattazione camerale.
[10] Corte di Cassazione n. 1492/1962
[11] FAZZALARI, “La funzione del giudice nella direzione del processo civile”, in Riv. dir. proc., 1963, pp. 64-72; COMOGLIO, “Direzione del processo e responsabilità del giudice”, in Riv. dir. proc., 1977, pp. 14 ss.; FABBRINI, voce “Potere del giudice (dir. proc. civ.)”, in Enciclopedia del diritto, 1985, pp. 721 ss.; GUGLIELMINO, “Il calendario del processo”, in BESSO – FRUS – RAMPAZZI – RONCO (a cura di), Trasformazioni e riforme del processo civile. Dalla l. 69/2009 al d.d.l. delega 10 febbraio 2015, Zanichelli, Bologna, 2015, pp. 195 ss.
[12] Per Corte di Cassazione n. 3189/2012 il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti.
[13] PERA, “«Quod non est in actis, non est in hoc mundo» (a proposito della pubblicità dell’udienza nelle cause di lavoro)”, in Riv. dir. proc., 1977, 684 ss.; FABBRINI, “Regime della sentenza emessa a seguito di udienza svoltasi in forma non pubblica”, in RDL, II, 1978; BORRÈ, “La pubblicità del processo del lavoro”, in Questione e giustizia, 1982; TERESI -TROJANO, “La pubblicità degli atti giudiziali e dei registri di cancelleria”, in Giur. it., 1984, 343 ss.; ORIANI, “Atti processuali”, in EG, III, Roma, 1988; CONSOLO, “La pubblicità nel contenzioso tributario (fra la sent. 16 febbraio 1989, n. 50 della Corte costituzionale e la L. 22 maggio 1989, n. 198)”, in Rass. trib., 1989, II, 1137 e in Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi, Milano, 1992, 125 ss.; CRESPI, “Pubblicità delle udienze e rispetto della persona”, in Riv. dir. proc., 1994, 559 ss.; CIPRIANI, “Pubblicità dei giudizi, diritto di spedizione e udienza collegiale di spedizione”, in Riv. dir. proc., 1995, 371 ss.; CHIARLONI, “Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile”, in CIVININI – VERARDI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, Atti del Convegno dell’Elba (9-10 giugno 2000), Quaderni di «Questioni Giustizia», Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 13 ss.; FRASSINETTI, “Pubblicità dei giudizi e tutela della riservatezza”, in Riv. dir. proc., 2002; MINAFRA, “La pubblicità dei giudizi (I-II)”, in Giusto proc. civ., 2018, 875 ss. e 1151 ss.
[14] Per una efficace sintesi della storia del principio si veda Corte Costituzionale n. 212/1986.
[15] Corte Costituzionale n. 50/1989.
[16] Corte Costituzionale n. 263/2017.
[17] Corte Costituzionale n. 212/1986.
[18] Corte Costituzionale n. 263/2017.
[19] Corte EDU, 6 novembre 2018, sentenza Ramos Nunes de Carvalho e Sà contro Portogallo.
[20] Corte Costituzionale n. 141/1998.
[21] Le sentenze n. 12/1971 e n. 69/1991 Corte Costituzionale hanno evidenziato la particolare rilevanza assunta dal principio in esame nel processo penale, nel quale, in considerazione degli interessi protetti e dei riflessi sociali della violazione delle norme incriminatrici, sono ammesse deroghe solo per garantire beni a rilevanza costituzionale, laddove negli altri casi il legislatore gode di un più ampio margine di discrezionalità nell'individuazione degli interessi in grado di giustificare la celebrazione del dibattimento a porte chiuse (sentenze n. 69 del 1991 e n. 12 del 1971).
[22] Corte Costituzionale n. 141/1998 e, recentemente, n. 73/2022.
[23] Vedi nota sopra.
[24] Art. 375 comma 1 c.p.c. (nuova versione): “La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza quando la questione di diritto è di particolare rilevanza, nonché nei casi di cui all’art. 391-quater”.
[25] COSTA, Oralità e scrittura nel processo civile, Imola, 1917; PICARDI, “Riflessioni critiche in tema di oralità e scrittura”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, 1 ss.; VOCINO, voce “Oralità nel processo (dir. proc. civ.)”, in Enc. dir., XXX, Milano, 1980; DENTI, voce “Oralità. I) Principio dell’oralità”, in Enc. giur., Roma, 1990; ONG W.J., Oralità e scrittura. La tecnologia della parola, Bologna 2014.
[26] Corte di Cassazione n. 395/2017.
[27] Corte Costituzionale n. 275/1998.
[28] Corte Costituzionale n, 73/2022.
[29] Corte Costituzionale n, 73/2022.
[30] Corte Costituzionale n. 89/1972, n. 80/1992.
[31] Corte Costituzionale n. 181/2008.
[32] Secondo Corte di Cassazione n. 2736/2015 la sentenza con motivazione contestuale, pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., non è nulla nel caso in cui il giudice non provveda alla lettura del dispositivo in udienza, quando sia comunque avvenuto il deposito immediato ed integrale del dispositivo e della motivazione. Secondo Cassazione n. 19338/2020 la sentenza pronunciata ex art. 281 sexies c.p.c. senza l'osservanza delle forme previste dal codice non può essere dichiarata nulla, ove sia stato raggiunto lo scopo dell'immodificabilità della decisione e della sua conseguenzialità rispetto alle ragioni ritenute rilevanti dal giudice all'esito della discussione, trattandosi, in ogni caso, di sanzione neppure comminata dalla legge.
[33] MARENGO, voce “Udienza civile”, in Enc. dir., XLV, pp. 483-494.
[34] Artt. 127, 168 bis c.p.c., 80 disp. att. c.p.c. e ss.; art. 202 circolare sulla formazione delle tabelle. L'assenza dei soggetti che hanno l'onere o il dovere di presenziare ha diversificate conseguenze sul singolo processo - il rinvio, ad esempio (artt. 164, 181 c.p.c.) - ma non sull'udienza che deve essere comunque tenuta dal giudice.
[35] La comparizione è la partecipazione effettiva - all’udienza e a mezzo del difensore - della parte costituita. Tramite la comparizione la parte soddisfa un onere (art. 181 e 82 c.p.c.) ed esercita i poteri processuali attribuiti. La comparizione delle parti in udienza si manifesta, tradizionalmente, attraverso la sola presenza all’udienza stabilita (art. 309 c.p.).
[36] Per Corte Cassazione penale n. 17314/2003 il magistrato deve ritenersi "in udienza" tutte le volte che si trovi ad amministrare giustizia con l'intervento delle parti, intendendosi per "udienza" qualsiasi seduta nella quale si svolge l'attività giudiziaria del magistrato, talché è del tutto irrilevante che l'oltraggio sia stato commesso durante il breve e necessario intervallo che corre tra il termine di un processo e l'inizio di un altro.
[37] Corte di Cassazione penale n. 18486/2022 afferma che l’art. 343 c.p. ricollega la specifica offensività della condotta di oltraggio non tanto al fatto che la stessa sia direttamente collegata allo svolgimento dell'attività processuale intesa in senso proprio, piuttosto alla circostanza che l'offesa venga rivolta al magistrato nel contesto spazio-temporale in cui questi è chiamato ad esercitare la propria funzione. Ciò comporta che il riferimento al termine "udienza" va correttamente inteso ricomprendendovi tutte quelle fasi - anche preliminari ed immediatamente successive alla celebrazione del processo - che si pongano in rapporto di diretta ed inscindibile continuità funzionale con l'attività processuale propriamente intesa. In buona sostanza, il magistrato è in udienza allorché è presente nel luogo deputato alla celebrazione della stessa e compie anche atti che possono essere meramente preparatori alla celebrazione del giudizio, nonché nelle fasi immediatamente conseguenti ad esso. La pronuncia richiama anche Cassazione penale n, 7730/1982 secondo cui l'espressione "udienza" di cui all'art. 343 c.p.c. va intesa nel senso di qualsiasi seduta, nella normale aula di udienza o altrove, ed in qualunque fase processuale essa si svolga destinata allo svolgimento dell'attività giudiziaria del magistrato.
[38] Artt. 163 c.p.c., 69 bis, 80, 113 disp. att. c.p.c. e ss.; 114 artt. 201 e 202 della circolare sulla formazione delle tabelle.
[39] Artt. 163, 168 bis, 175, 415 c.p.c., 81 e ss. disp. att. c.p.c.
[40] Artt. 163, n. 1, 414 c.p.c.
[41] MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Tomo II, Giappichelli, Torino, 2011, p. 72.
[42] TARUFFO, “La trattazione della causa”, in TARUFFO (a cura di), Le Riforme della Giustizia Civile. Commento alla L. 353 del 1990 e alla L. 374 del 1991, UTET, Torino, 1993; BALENA, “La trattazione della causa”, in BALENA – BOVE (a cura di), Le riforme più recenti del processo civile. Commento sistematico delle disposizioni processuali di cui al decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80, e successive modificazioni, Cacucci Editore, Bari, 2006.
[43] “Volendo significare che la causa si svolge davanti al giudice senza solennità di forma, esponendo le parti le loro questioni e le loro domande, rispondendo il giudice con l'immediatezza che è consentita dalla preventiva conoscenza della causa, e dalla possibilità di venir a contatto con la materia stessa della contesa”. SATTA S., Diritto processuale civile, Cedam, 2000, p. 300.
[44] La trattazione scritta, consentita per il periodo emergenziale, è diversa sia da quella prevista dalla vecchia formulazione dell'art. 180 post-riforma del 1950 e dall' art. 83 bis disp. att. c.p.c. sia da quella di cui all'art. 281 quinquies c.p.c., inclusive comunque di una parte di oralità.
[45] Sul tasso di oralità che dovrebbe avere qualsiasi processo si veda PAGNI, “Le misure urgenti in materia di giustizia per contrastare l’emergenza epidemiologica: un dibattito mai sopito su oralità e pubblicità dell’udienza”, in www.judicium.it, 15 dicembre 2020.
[46] È necessario precisare come la parte soddisfi l’onere di comparizione in tutte le fasi del processo - attivando così i doveri del giudice - semplicemente comparendo. La parte è solo onerata di comparire il giorno della prima comparizione. La parte è onerata di comparire il giorno della discussione, non di discutere effettivamente. La parte è onerata di comparire il giorno di acquisizione della prova, non di parteciparvi attivamente. In altri termini il codice onera la parte di comparire, non obbliga la stessa al compimento delle attività.
[47] Secondo Cassazione n. 28229/2017 l’omessa fissazione, nel giudizio d’appello, dell'udienza di discussione orale, pur ritualmente richiesta dalla parte ex art. 352 c.p.c., non comporta necessariamente la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, giacché l'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato "error in procedendo"; sicché, avendo la discussione della causa nel giudizio d'appello una funzione meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e non sostitutiva delle difese scritte ex art. 190 c.p.c., per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, essendo al contrario necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi.
[48] L’art 128 c.p.c. sembra fornire una prima indicazione che collide strutturalmente con l’art. 127-ter c.p.c. nel momento in cui afferma, prima di tutto, che la discussione orale debba avvenire in una udienza (che deve essere anche pubblica e in cui la discussione, per essere effettivamente pubblica, deve essere orale). La conclusione - assecondando lo sforzo del legislatore di escludere l’esistenza di una udienza quando vi è la trattazione scritta della fase - è che la trattazione scritta non potrebbe mai essere disposta per la discussione perché se c’è la trattazione scritta non c’è una udienza, prima ancora di non esserci una udienza pubblica, in cui discutere oralmente.
[49] Una soluzione utile a semplificare e ridurre i tempi di emanazione del provvedimento - e il diritto delle parti all’opposizione - è quella per cui il giudice dispone la trattazione scritta condizionandola espressamente alla mancata opposizione di una delle parti. L’opposizione di una sola di esse determinerebbe quindi, in automatico e senza necessità del provvedimento del giudice, il venir meno trattazione scritta e quindi l’onere per le parti di comparire in presenza per l’udienza.
[50] Alle stesse conclusioni sembra giungere ZITARELLI, “Le prime questioni applicative relative alla «trattazione cartolare» delle udienze”, in Riv. dir. proc., 3, 2022.
[51] La compatibilità tra discussione e trattazione scritta è stata fotografata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 73/2022 nel momento in cui ha evidenziato che tra le ragioni che avevano indotto il legislatore del 1990 ad assumere la trattazione scritta a regola generale della fase decisoria nel processo civile vi era la necessità di imprimere maggiore speditezza al processo e “la rilevata infrequenza dei casi in cui, nel previgente regime, le parti avevano mostrato un reale interesse alla discussione orale”. Sempre la Corte ha evidenziato che “la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa” (sentenza n. 141 del 1998).
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