ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Non gode di buona stampa la riforma Cartabia del processo penale.
Tra i magistrati c’è chi ne aveva proposto l’immediata abrogazione già prima dell’entrata in vigore. Ma la sua demolizione è diventata ormai un luogo comune, una moda.
Dall’accademia vengono persino interpretazioni complottistiche delle effettive finalità della riforma.
A proposito della disciplina dei collegamenti a distanza si è sostenuto che la previsione del previo consenso delle parti quale condizione ordinaria di ammissibilità, sia solo una strategica e temporanea astuzia del legislatore, intenzionato in realtà a porre le premesse di una graduale evoluzione verso una giustizia stabilmente amministrata a mezzo di interfacce elettroniche, fino alla riduzione del contraddittorio a un confronto tra avatar.
Quanto alla previsione della videoregistrazione come modalità privilegiata di documentazione, si è sostenuto che gli obiettivi «malcelati o forse fin troppo palesi» del legislatore siano quelli di annientare la centralità del dibattimento come sede per la formazione della prova, quando si tratti di documentare atti delle indagini preliminari, o di attentare al principio di immediatezza, quando si tratti di acquisire prove formate in altro dibattimento o prima del mutamento della composizione del collegio giudicante. Sicché il rafforzamento delle garanzie sarebbe soltanto apparente; e si ipotizza addirittura un dolo del legislatore.
Anche prescindendo da questi eccessi, comunque, è generalizzata l’accusa di tradimento dei principi in nome del «pragmatismo efficientista» imposto dal PNRR: come se non fosse possibile, e dunque necessario, distinguere tra l’etica della giurisdizione e l’economia dell’organizzazione giudiziaria.
2. Questa ostilità spesso preconcetta verso la riforma si può spiegare solo movendo dalla distinzione tra politica e propaganda, che sono senza dubbio attivate entrambe da problemi reali: con la determinante differenza, però, che la politica propone soluzioni, la propaganda usa i problemi senza nemmeno affrontarli.
Un esempio può rendere icasticamente chiara questa distinzione.
L’immigrazione è ovviamente un problema grave e complesso. Ma allontanare le ONG dal canale di Sicilia significa usare il problema senza nemmeno affrontarlo.
Come ha scritto Massimo Donini, la riforma Cartabia propone appunto soluzioni, non si limita a usare i problemi, a differenza di quanto troppo spesso è accaduto in passato. E qualunque critica si possa muovere al disegno riformatore, l’interprete dovrebbe farsi carico della tenuta del sistema.
Il giurista non è un legislatore mancato; e non può rimanere intrappolato nel cantiere sempre aperto della propaganda. Anche quando non sia stato chiamato a far parte delle commissioni istituite per le riforme, ha il compito istituzionale di ricondurre a sistema persino norme discutibili.
Chi deve scrivere una sentenza o un ricorso, chi deve difendersi in un processo penale, attende da dottrina e giurisprudenza risposte sul significato delle norme, non rimpianti per ciò che non è stato, e sarebbe potuto essere, né immagini dal metaverso.
Occorrerebbe dunque ricostruire il sistema della riforma Cartabia per chiarire quali problemi ha inteso risolvere e in quale prospettiva, in modo da disporre di un’attendibile chiave di lettura delle diverse disposizioni.
3. Non v’è dubbio che seri problemi della nostra giustizia penale nascano in particolare da una crescente autoreferenzialità dei magistrati del pubblico ministero.
E’ l’obbligatorietà dell’azione penale che viene frequentemente esibita a giustificazione del plateale fallimento di alcune iniziative processuali, benché l’art. 112 cost. non imponga certo di prescindere da una valutazione del fondamento delle notizie di reato. Tuttavia questo approccio, inteso a giustificare iniziative inutili (se non dannose) in quanto “dovute”, trovava una sua legittimazione nell’art. 125 disp. att., che qualificava come non infondata la notizia di reato quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari fossero idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Abolito ora l’art. 125 disp. att., il nuovo testo dell’art. 408 comma 1 prevede che «quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione». Sicché la nuova formulazione non è più unilaterale, non è più attenta alla sola prospettiva del pubblico ministero; assume dichiaratamente la prospettiva del giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione secondo una regola di giudizio inevitabilmente orientata alla fase processuale, che presuppone invece l’esercizio dell’azione penale.
Il pubblico ministero è tenuto a chiedere l’archiviazione quando la condanna non sia il prevedibile esito del giudizio, esattamente come è tenuto a esercitare l’azione penale quando una condanna sia prevedibile. Sarebbe un azzardo l’esercizio dell’azione penale senza ragionevole prevedibilità della condanna; e un’identica regola di giudizio è dettata anche per il giudice dell’udienza preliminare, appunto perché questa udienza è destinata a fungere da «filtro delle imputazioni azzardate».
Vero è che secondo C. cost. n. 88/1991, richiamata poi anche da C. cost. n. 478/1993, «il principio di obbligatorietà dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis»; con la conseguenza che nei casi dubbi l'azione andrebbe esercitata e non omessa. Ma la finalità di evitare un processo superfluo, riconosciuta in entrambe le sentenze, presuppone che sia il legislatore ordinario a definire le condizioni dell’archiviazione, salva l’esclusione «dell’opposto principio di opportunità che consente alla pubblica accusa di agire o meno anche in base a valutazioni estranee alla fondatezza della 'notitia criminis'». E il legislatore impone oggi come criterio di giudizio la prevedibilità della condanna. Sicché occorre fare riferimento all’articolo 533 c.p.p., che della condanna definisce i presupposti, esigendo che venga pronunciata solo se «l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Il dubbio dunque, come non può giustificare la condanna, così non può giustificare né l’esercizio dell’azione penale né il decreto che dispone il giudizio, perché legittimamente il legislatore ordinario ha ora riposto in soffitta il favor actionis. Se ne facciano una ragione coloro che ancora lo considerano implicito nel principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale.
L'art. 112 Cost. non esige affatto che il pubblico ministero si determini in base a una regola di decisione diversa da quella prevista per il giudice. Al contrario, estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione, escludendo così che le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice.
Contrariamente a quanto si sostiene, dunque, l’art. 112 Cost. esclude che l’etica del pubblico ministero possa essere diversa dall’etica del giudice. Il principio di legalità vale per il pubblico ministero come vale per il giudice.
Nella giurisdizione l’argomentazione utilitaristica può giustificare solo la definizione della norma cui la decisione si proponga di essere conforme (utilitarismo della norma), non la singola decisione (utilitarismo dell’atto); e l’art. 112 Cost. estende questa logica anche alle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale.
Nel momento in cui assume le proprie determinazioni sull’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero deve “mettersi nei panni del giudice” che pronuncerebbe la sentenza: come qualsiasi attore, che promuova il giudizio, deve assumere la prospettiva del giudice per poter preconizzare l’accoglimento della sua domanda.
L’orizzonte del pubblico ministero non è più quello di una dignitosa partecipazione al giudizio, ma quello di una piena assunzione di responsabilità per il suo esito. E questo è certamente un formidabile contributo a superare la cultura autoreferenziale dell’accusa, benché la soluzione sembri contraddire la logica della separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, che pure la stessa riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario ha in qualche misura avallato, riducendo fino ai limiti della compatibilità costituzionale il possibile passaggio dall’una all’altra funzione.
Si è sostenuto, sulla base anche di un risalente parere del CSM, che questa nuova regola di giudizio sia incompatibile con i principi del processo accusatorio e con la centralità del dibattimento. Ma il principio del contraddittorio esige una centralità non statistica bensì metodologica del dibattimento. L’accusatorietà del sistema non dipende dal numero dei dibattimenti. Né l’immotivato decreto che dispone il giudizio potrebbe pesare in senso sfavorevole all’imputato sul convincimento di un giudice del dibattimento che partecipa direttamente alla formazione della prova. Mentre è ragionevole che non debba essere l’accusa a confidare su sviluppi dibattimentali eventualmente favorevoli.
Del resto anche nel processo nordamericano l'organo dell'accusa deve dimostrare nell'udienza preliminare che sussiste «una prova sufficiente a far sì che una persona "media" concluda che l'imputato sia colpevole del reato addebitatogli». E nel processo inglese il giudice, per disporre il rinvio a giudizio, deve accertare che vi sono «prove tali che, se non fossero inficiate o contraddette in dibattimento, una giuria potrebbe ragionevolmente condannare su di esse». Ma nessuno ne ha mai posto in discussione la compatibilità con i principi del processo accusatorio.
Certo, se si celebrassero moltissimi giudizi con metodo inquisitorio indipendentemente dalle scelte dell’imputato, si potrebbe a ragione parlare di tradimento dei principi del processo accusatorio. Ma se le indagini preliminari valgono a escludere che un qualsiasi giudizio sia aperto, significa solo che il pubblico ministero ha fatto bene il suo mestiere.
Com’è noto, l'art. 358 prevede che nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero deve compiere tutti gli atti necessari ai fini delle determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale (art. 326) e deve svolgere «altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini».
Questa norma, che attua una specifica direttiva della legge delega, aveva suscitato qualche riserva da parte di coloro che vi avevano visto il residuo di una concezione inquisitoria e paternalistica del ruolo del pubblico ministero. Altri la interpreta invece come un segno dell'esigenza di obbiettività e di imparzialità del pubblico ministero, ricollegabile all'art. 97 comma 1 della Costituzione.
Ma è sufficiente considerare come il dovere del pubblico ministero di acquisire tutti gli elementi necessari all'accertamento dei fatti, e quindi anche dell'eventuale innocenza della persona sottoposta alle indagini, derivi già autonomamente dalla prima parte dello stesso art. 358, laddove richiama l'art. 326. Se infatti lo scopo delle indagini preliminari è di consentire le determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale (art. 326), ne consegue che il pubblico ministero dovrà, comunque, accertare tutti i fatti necessari a verificare se la notizia di reato è «infondata», essendo noto che la conferma di un'ipotesi di accusa dipende principalmente dal fallimento dei tentativi di dimostrarne l'inattendibilità.
Sicché è del tutto ragionevole che la notizia di reato sia qualificata infondata quando non sia prevedibile una condanna.
4. In questa prospettiva sistematica si può comprendere perché la riforma ha introdotto controlli giurisdizionali sia sull’effettiva decorrenza dei termini delle indagini preliminari sia sulla tempestività della loro conclusione. Infatti, se il rispetto del termine di deposito degli atti delle indagini è garantito dal procuratore generale, vale a dire da un organo della stessa accusa, il rispetto del termine per le determinazioni del pubblico ministero è garantito dal giudice su eventuale iniziativa della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa. Sicché, fin dalla fase procedimentale, i parametri di riferimento del pubblico ministero dovranno essere quelli del giudice chiamato a valutarne l’azione, perché è stata finalmente eliminata quella sorta di extrafunzionalità ritagliata per il pubblico ministero dalla giurisprudenza sulla sindacabilità solo disciplinare delle scelte circa i tempi delle indagini preliminari.
Gli interventi del giudice nel corso delle indagini preliminari rimangono solo incidentali, ma il controllo sul rispetto dei tempi del procedimento è costante ed è aperto alle istanze degli interessati. È un controllo ab estrinseco, che non attiene ovviamente al merito delle strategie investigative del pubblico ministero, ma è destinato a garantirne la legalità attraverso un possibile sindacato sui tempi imposti dal legislatore.
5. Peraltro a una analoga finalità di responsabile esercizio delle funzioni di accusa può essere ricondotta anche la nuova disciplina dei criteri di priorità.
L’art. 3 bis disp. att. prevede che, «nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio».
Si tende così a rendere in qualche misura prevedibile e trasparente l’inevitabile discrezionalità di molte scelte del pubblico ministero, perché, nel predisporre il progetto organizzativo dell'ufficio in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il procuratore della Repubblica è tenuto a determinare «i criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell'ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell'utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili» (art. 1 comma 6, d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106). È ragionevole dubitare tuttavia che le indicazioni di carattere generali provenienti dal legislatore e dal C.S.M., come le stesse direttive del progetto organizzativo dell’ufficio, possano esprimere più che generici criteri di ragionevolezza, la cui applicazione concreta sarà comunque condizionata dai connotati della singola specifica notizia di reato. Sarebbe comunque auspicabile tuttavia che questa selezione non lasciasse nondimeno pendenti in un limbo indefinito le notizie di reato non prioritarie, in attesa della prescrizione dei reati ipotizzabili, ma comportasse più seriamente l’archiviazione delle notizie che non si prevede possano essere trattate in tempi ragionevoli, in modo da rendere possibile il sindacato del giudice sulle scelte pur sempre discrezionali del pubblico ministero e in eventuale via incidentale anche il sindacato della Corte costituzionale sulla legge che definisce i criteri generali di priorità.
È infatti ragionevole sostenere che, scaduti i termini prescritti per le indagini, il pubblico ministero debba tempestivamente chiedere l’archiviazione, perché da un canto «gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca» (art. 408 comma 1), dall’altro canto i criteri di priorità precludono ulteriori indagini. E questa conclusione non contrasterebbe affatto con l’art. 112 Cost. (obbligatorietà dell’azione penale), perché a determinare l’archiviazione non sarebbe una valutazione di opportunità di quello specifico provvedimento, bensì l’applicazione della norma che preclude l’espletamento di indagini in difformità dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio. La decisione risponde dunque a un utilitarismo della norma non del singolo atto. E il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione sarà legittimato a due verifiche: che allo stato degli atti non sia davvero prevedibile una condanna; che i criteri di priorità precludano effettivamente l’espletamento di ulteriori indagini.
Questa ricostruzione del funzionamento dei criteri di priorità può così raccordarsi alla improcedibilità dell’azione penale per eccessiva durata dei giudizi di impugnazione, benché in questa sopravviva l’impropria sovrapposizione tra i temi della prescrizione del reato e della ragionevole durata del processo.
Sono certo incompatibili con la logica della durata ragionevole del processo infatti sia la previsione che la violazione dei termini massimi di durata non rileva, e dunque «la declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l'imputato chiede la prosecuzione del processo» anche oltre il prescritto termine (art. 344 bis comma 7); sia la previsione che l’improcedibilità per durata irragionevole del processo non opera per i delitti puniti con l'ergastolo, indipendentemente dalla complessità dell’accertamento (art. 344 bis comma 9). Tuttavia l’equilibrio politico così faticosamente raggiunto ha una sua pur residuale coerenza, perché nella disciplina della proroga del termine di durata dei giudizi di impugnazione si recupera in qualche misura la logica della durata ragionevole del processo, ancorata alla complessità del caso piuttosto che alla gravità del reato.
6. E’ dunque possibile una lettura coordinata dei nuovi art. 3 bis disp. att., 408 comma 1 e 344 bis c.p.p. che concili il pragmatismo efficientista della riforma con un’etica della giurisdizione fondata sui principi costituzionali.
Il filo conduttore della riforma, nella prospettiva qui esaminata, è dunque nella responsabilizzazione del pubblico ministero, in piena coerenza con l’impostazione originaria del codice del 1988, che impose l'alternatività tra esercizio dell'azione penale e richiesta di archiviazione, troncando un'antica disputa dottrinale. L’azione penale è la domanda rivolta dal pubblico ministero al giudice di decidere conformemente all'ipotesi di colpevolezza sintetizzata nell'imputazione, non è la richiesta di aprire comunque il processo indipendentemente da qualsiasi assunzione di responsabilità per il suo prevedibile esito.
Questa possibile ricostruzione del nuovo status assegnato al pubblico ministero dalla riforma Cartabia lascia comunque da chiarire se permanga l’esigenza della cosiddetta separazione delle carriere anche oltre il limite dell’unico passaggio da una funzione all’altra oggi ammesso nella vita professionale dei magistrati.
Per tornare all’esempio di esordio, occorre in conclusione domandarsi se oggi la prospettiva di allontanare il pubblico ministero dal giudice finisca per essere equiparabile all’allontanamento delle ONG dal canale di Sicilia.
Tuttavia non autorizzano alla fiducia talune preannunciate iniziative legislative, intese a eliminare l’appello contro le sentenza del giudice monocratico, mantenendolo solo contro le sentenze collegiali, nello stesso momento in cui si propone di sostituire un giudice collegiale al giudice monocratico per le decisioni cautelari che già prevedono il riesame da parte di un giudice collegiale.
La propaganda continua!
La Proposta di Direttiva UE in materia di regolazione dell’insolvenza, la terza in ordine di tempo dopo il Regolamento 848/2015 e la Direttiva restructuring 1023/2019, impatta sul quadro generale dell’insolvenza societaria con alcune norme mirate (sulla responsabilità degli amministratori) ed altre, in apparenza distinte perché relative ad istituti nuovi della liquidazione (per le microimprese), in realtà di possibile portata vastissima, data la coincidenza d’ingresso con presupposti soggettivi di assoluta maggioranza nella struttura economica degli imprenditori, non solo italiani. Il nuovo strumento, inoltre, imporrà un generale aggiornamento, negli ordinamenti degli Stati, sul modo con cui le disposizioni rispettivamente dettate per soggetti in situazione di insolvenza o di solo potenziale insolvenza sono state finora attuate[1].
Sommario: 1. Il contesto della proposta di Direttiva COM (2022) 702 del 7 dicembre 2022 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto in materia di insolvenza - 2. L’impatto della Proposta di Direttiva sul diritto societario della crisi e dell’insolvenza - 3.Gli obblighi e le responsabilità degli amministratori - 4. La tipizzazione della procedura concorsuale in presenza dell’insolvenza del soggetto collettivo - 5. Gli effetti indiretti della Proposta di direttiva sul diritto concorsuale societario dell’insolvenza: a) gli istituti opzionabili dalle società (segue) - 6. b) il trattamento dei soci e dei detentori di strumenti di capitale.
1. Il contesto della proposta di Direttiva COM (2022) 702 del 7 dicembre 2022 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto in materia di insolvenza
L’iniziativa, annunciata nel settembre del 2020, si propone di promuovere l’integrazione finanziaria ed economica dell’UE, riconoscendo che discipline statuali non armonizzate in materia di insolvenza sono ostacoli alla libera circolazione dei capitali e allontanano la integrazione dei mercati[2]. Obiettivi di dettaglio sono la certezza degli investimenti, la riduzione dei costi per quelli transfrontalieri, l’attrattiva incrementale del capitale di rischio per le imprese. Base di partenza è il convincimento che i diversi gradi di efficienza dei sistemi nazionali si scaricano di per sé in tempi lunghi di liquidazione, bassi livelli di recupero dei crediti, incertezza sui quadri giuridici nazionali, costi elevati di informazione.
La coerenza con altre disposizioni unionali si è posta in termini di completamento. Il regolamento UE 2015/848 è infatti attuazione della cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale posta dall’art. 81 TFUE[3], dunque con esso vengono essenzialmente regolati potenziali conflitti fra Stati in tema di apertura delle procedure d’insolvenza e di determinazione della legge applicabile, nonché riconoscimento ed esecuzione in tutto lo spazio UE delle decisioni adottate dagli organi giurisdizionali (e amministrativi) competenti, senza impatto diretto sugli ordinamenti domestici. La Direttiva 2019/1023 si occupa a sua volta di quadri di ristrutturazione preventiva (rispetto all’insolvenza), esdebitazione e misure di rafforzamento delle stesse procedure, cioè di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione[4]. L’iniziativa dell’UE con la Proposta, dunque la terza azione legislativa, mira espressamente a colmare un vuoto regolatorio, disciplinando cioè in modo più diretto e con principi uniformi – nel presupposto che non sia stato fatto prima – le procedure di insolvenza o, meglio, aspetti salienti dei rispettivi istituti nazionali. Detto altrimenti: dove tali istituti esistono già, s’imporranno su di essi le nuove disposizioni, dove mancano il conio domestico dovrà esordire applicando la direttiva. Quest’ultima, infatti, appare avviata ad applicarsi a situazioni con elementi sia di transnazionalità sia di diritto interno.
Le interferenze tra la Direttiva del 2019 e la Proposta oggetto di negoziato, nonostante la separazione programmatica, sono tuttavia endemiche e, ad oggi, problematizzano (per temporaneo difetto di coordinamento integrativo o soppressivo reciproco dei due testi) o non chiariscono importanti punti necessariamente strategici e necessari ad entrambi gli strumenti, come ad esempio la nozione di insolvenza. Così, la Direttiva 1023/2019 in parte la rimette ai sistemi adottati dagli Stati (come nelle definizioni, all’art.2 par. 2 lett. a), in altra parte, nella sostanza, ne fornisce una nozione originaria come negli artt. artt.17-18 (ove vengono protette dalle azioni di inefficacia o di responsabilità ovvero tutelate le priorità di pagamento dei finanziamenti nuovi e temporanei ovvero strumentali alla ristrutturazione quando sopravvenga l’insolvenza o anche quando essi siano concessi all’insolvente)[5].
A sua volta la Proposta non rimette in modo esplicito agli Stati la definizione di insolvenza, ma più disinvoltamente talora dà per presupposto che, trattandosi di un requisito alla base dell’apertura, esso continui ad essere rimesso nella fissazione agli ordinamenti nazionali: così, nell’art.23 sulla sospensione delle azioni esecutive individuali della fase preparatoria del pre-pack, il beneficio andrà previsto per chi si trovi in una situazione di probabile insolvenza o sia già insolvente conformemente al diritto nazionale. Altre volte il testo attuale riprende lo stesso lessico della Direttiva 1023/2019 ovvero detta espliciti rinvii all’uno o all’altro strumento comunitario: ad es. l’art.12, a chiusura del titolo II sulle azioni revocatorie e di inefficacia, salvaguarda gli art.17 e 18 della Direttiva 1023/2019 così accettando l’esenzione da revocatoria ivi prevista. Un esempio del secondo tipo è peraltro immanente al sistema, poiché con la Proposta e quanto alle revocatorie la efficacia di un’armonizzazione minima dipenderà dallo sblocco della potestà dei singoli Stati membri (prevista nel Reg. 848/2015) di precludere tali azioni di inefficacia ove si riferiscano ad un atto che, per il diritto nazionale, vi sarebbe esente, così però pregiudicando anche in futuro il funzionamento dell’intero titolo III della Proposta[6].
In altri casi ancora la Proposta inaugura una sua definizione, con parziale valore sistematico, come nell’art.38 con riguardo alla liquidazione delle microimprese, la cui insolvenza si dà quando esse generalmente non sono in grado di pagare i propri debiti alla scadenza. La precisazione, all’art.38 par.2 primo periodo, è però ambiguamente completata rimettendo agli Stati di definire le condizioni in presenza delle quali la microimpresa versi in tale situazione, prescrivendo che esse siano chiare, semplici e di facile riconoscibilità.
La scelta dello strumento normativo, ai sensi dell’art.114 TFUE[7], è stata così giustificata, superando l’atto giuridico della raccomandazione (ritenuto poco efficiente) ed escludendo il regolamento (per la sua rigidità, ostativa all’adattamento delle norme processuali interne), con il ricorso ad una direttiva di armonizzazione. Ciò significa, nei propositi della Commissione, prescrizioni minime valevoli per tutti, intervento in settori mirati dell’insolvenza (quelli a più forte impatto di accelerazione ed efficienza sulle procedure), possibilità di misure supplementari domestiche nuove o conservazione di assetti esistenti se, definito l’ambito di tutela individuato nella Proposta, gli stessi interessi vengono perseguiti anche con maggiore intensità.
Gli ambiti della Proposta, oltre le definizioni e l’oggetto, sono le azioni revocatorie o di inefficacia (titolo II, artt.4-12), il rintracciamento dei beni della massa fallimentare (e di terzi) utili alle azioni recuperatorie (titolo III, artt.13-18), la procedura di insolvenza del pre-pack (titolo IV, artt.19-35), gli obblighi degli amministratori (titolo V, artt.36-37), la liquidazione delle microimprese insolventi (titolo VI, artt.38-57), il comitato dei creditori (titolo VII, artt.58-67), le misure incentivanti la trasparenza delle procedure d’insolvenza nazionali (titolo VIII, art. 68) e le disposizioni finali (titolo IX, artt.-69-73).
2. L’impatto della Proposta di Direttiva sul diritto societario della crisi e dell’insolvenza
La Proposta affronta il comparto societario in due modi: uno, diretto e dedicato, in tema di responsabilità procedimentale e civilistica degli amministratori; l’altro, indiretto, per gli effetti a valle di un investimento normativo su figure d’interesse per il soggetto collettivo e dunque con impatto tanto più ricorrente quanto più diffusa sia questa la veste assunta dall’imprenditore destinatario dell’introduzione o innovazione di taluni istituti di diritto comune.
L’elemento di congiunzione delle due scelte, oltre la diversa tecnica normativa, può essere visualizzato in un’ottica di funzionalizzazione ad un campo di doveri cooperativi verso i grandi obiettivi della Proposta: accelerazione delle procedure di insolvenza, diminuzione dei costi, ottimizzazione del risultato distribuibile, semplificazione di alcuni mirati conflitti d’interesse.
Un ulteriore effetto indiretto del testo si connette poi alla attitudine della Proposta di completare il quadro regolatorio, così incidendo sugli altri due strumenti ed in particolare integrando aspetti ambigui della Direttiva 1023/2019. Il primo punto, posto dall’art.36 Proposta, impatta infatti in modo frontale sui quadri di ristrutturazione preventiva, per più ordini di ragioni: l’obbligo di chiedere l’apertura della procedura d’insolvenza, almeno programmaticamente, si giustappone - senza confondersi - agli strumenti di emersione anticipata della crisi o insolvenza, scolpendo in modo netto l’area di operatività, con tale precetto, delle rispettive discipline. La Proposta è tendenzialmente destinata a regolare l’insolvenza e così detta norme per la sua più sollecita organizzazione concorsuale, fissando un termine di 3 mesi dalla relativa conoscenza – storica o presumibile – per far iniziare la correlata procedura. La Direttiva 1023/2019, invece, viene per contrapposto confinata in una zona che il suo art.4 par.1 intitola, assieme alla prevenzione, a tutte quelle situazioni di mera probabilità di insolvenza, da affrontare per impedire la insolvenza e assicurare la sostenibilità economica dell’impresa. Se tale linea di demarcazione sarà destinata a consolidarsi, va ipotizzata una ragionevole riflessione urgente sulla compatibilità di tutti quegli istituti domestici che hanno applicato a soggetti già insolventi principi e tutele somministrati nella Direttiva del 2019 a soggetti non ancora insolventi.
3. Gli obblighi e le responsabilità degli amministratori
L’art.36 pone uno specifico obbligo di iniziativa a carico degli amministratori di un soggetto giuridico, locuzione ampia, che nel corrispondente provvisorio considerando evoca (seguendo le linee UNCITRAL) chi è incaricato di adottare o di fatto adotta o dovrebbe adottare decisioni fondamentali in merito alla gestione di un’impresa. Ne deriva che la disposizione, pur estendendosi anche a chi è titolare di un‘impresa monosoggettiva, nel campo delle organizzazioni economiche a struttura collettiva rinvia ad una nozione sostanziale di gestione: inclusiva, in prima approssimazione, di chi ricopre incarichi di conduzione e di assunzione delle scelte dell’impresa, cioè per suo conto, in suo nome, per investitura formale o anche in via di fatto. Lo stesso considerando si affretta a precisare che tutte le norme del titolo V sono norme minime di armonizzazione: i singoli Stati ben possono dunque conservare o implementare regimi di maggiore severità per quanto concerne tutti i segmenti che definiscono le complesse fonti di obbligazioni e responsabilità degli artt.36-37 Proposta. Ma, corrispondentemente, non potranno più arretrare le tutele, nel titolo V chiaramente individuate per la massa dei creditori (che aspira a formarsi nel più breve tempo possibile, data l’insolvenza conclamata) e tutti gli stakeholders (che da una gestione liquidatoria tempestiva possono conservare o non peggiorare l’interesse contrattuale o comunque la relazione con l’impresa).
È difficile ipotizzare se il plurale (amministratori) impiegato nella disposizione debba essere letto come l’indizio di un dovere di iniziativa così intenso da configurarsi altresì come obbligazione individuale, ove ci sia un organo plurimo o anche solo più cogestori dell’impresa o se invece sia compatibile con la Proposta dimostrare, da parte del singolo, di aver fatto tutto il possibile per provocare un atto collegiale o di maggioranza idoneo ad impegnare, con gli amministratori, la sorte del soggetto giuridico amministrato. Se un ordinamento lo prevedesse, l’ottica della armonizzazione minima probabilmente accetterebbe anche un dovere di azione individuale, presumibilmente declinabile in modo diretto, come la norma prescrive, cioè esercitando la legittimazione ove consentita. Se però un singolo Stato permetta la istanza giudiziale solo nelle forme in cui la volontà dell’organo collegiale sia per statuto o codice organizzata secondo un procedimento deliberativo o di raccolta qualificata dei consensi, diventa dubbio poter scriminare tali condotte omissive sol perché al riparo di una regola tecnica di manifestazione della funzione. Il precetto dell’art.36 è infatti saldamente ispirato, con l’emersione tempestiva dell’insolvenza, alla sua più pronta declinazione concorsuale, tanto volendo significare la presentazione al giudice di una richiesta di apertura della procedura al più entro tre mesi dalla conoscenza della decozione[8]. Si può tuttavia azzardare la compatibilità di un sistema che, senza scardinare le regole di formalizzazione della volontà di un organo amministrativo collegiale, canalizzi le conoscenze dell’insolvenza in un flusso di allerta diretto, se non al giudice, almeno ai soggetti titolari di un potere di iniziativa analogo, come ad esempio per l’Italia il pubblico ministero[9]. È invece in possibile rotta di collisione con il titolo V un contesto normativo che vincoli i singoli coamministratori o cogestori delle società ed enti collettivi ad omettere in modo assoluto la manifestazione verso l’autorità giudiziale della propria individuale conoscenza dell’insolvenza in nome della riservatezza della situazione patrimoniale e soprattutto finanziaria e dei relativi movimenti e valori reali[10].
Il principale dovere di iniziativa è, per l’amministratore, provocare dunque con propria richiesta l’apertura di una procedura di insolvenza in presenza di due condizioni: a) quando viene a conoscenza dell’insolvenza o quando è presumibile in via ragionevole che lo sia; b) entro tre mesi dalla citata conoscenza, storica o presunta. Per strutturare tale dovere è prospettabile che il legislatore nazionale declini attraverso esemplificazioni o casi tassativi le condizioni in presenza delle quali la conoscenza dell’insolvenza è presunta. Mentre per la conoscenza diretta, il rinvio è alla nozione domestica della stessa, apparendo meno esigibile che la Proposta tolleri una specificazione normativa di conoscenza della insolvenza, entrambe le situazioni soggettive, peraltro, ben potrebbero essere recepite come tali, cioè nella propria originaria costruzione sintattica, dal legislatore nazionale, prestandosi esse già come clausole generali a concretizzarsi nella giurisprudenza e grazie all’alimentazione dottrinale. D’altronde l’art.38 par.2 secondo periodo (in materia di insolvenza della microimpresa) dopo averla definita (al primo periodo del par.) devolve agli Stati la scrittura delle condizioni di incapacità in generale di pagare i debiti alla scadenza, con ciò dimostrando che ove una proposizione non rimandi ad una esplicazione ben può essere trasposta come tale nell’ordinamento concorsuale nazionale.
Ci si può interrogare sul significato del trimestre dato all’amministratore per attivarsi. Fermo che tale dilazione è fissata nel massimo, potendo perciò gli Stati anticiparla o comunque rendere più severi i presupposti da cui scaturisce l’obbligo di iniziativa (così l’art.37 par.2), la sua violazione di per sé non integra una responsabilità civile ipso jure, almeno non nell’ambito dell’art.37, che infatti la collega alla produzione di danni, dunque ad un nesso causale per cui il pregiudizio ai creditori sia stato determinato proprio dall’inosservanza del citato dovere, così che appare difficile eludere il primo precetto. La sua previsione, tuttavia, potrebbe assumere un doppio significato: irrigidire i margini temporali di manovra degli amministratori del soggetto insolvente rispetto alle iniziative concorsuali assumibili e rendere problematica la scelta rispetto a strumenti domestici alternativi alle procedure di insolvenza e però fondati proprio su tale presupposto, come in Italia – tra gli altri – dai tradizionali concordati preventivi e accordi di ristrutturazione dei debiti[11].
Si potrebbe sostenere che, entro il trimestre, l’amministratore ha ancora la facoltà di esperire altre soluzioni compositive o preventive rispetto ad una procedura d’insolvenza, ma con obbligo di ricorrere a quest’ultima ove la decozione non sia stata nel frattempo rimossa, cioè nei tre mesi dalla sua conoscenza. Analogamente, andrebbe affrontata la compatibilità di quelle procedure (come concordati preventivi, accordi di ristrutturazione, piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, concordato semplificato) che, ipoteticamente fondate sullo stato di insolvenza, siano allestite in funzione liquidatoria. Ma con ogni rischio di conflitto tra la chiara disposizione dell’art.37 Proposta (che collega i danni al mancato rispetto dell’obbligo) e la solo apparente tolleranza assoluta ed astratta dell’esaurimento del trimestre, cioè anche quando nel frattempo la insolvenza (già nota) si aggravi. In realtà, è sostenibile che, proprio in virtù della armonizzazione minima cui volge l’istituto, nessuna norma nazionale che sanzioni il ritardo dell’amministratore dal procedere d’iniziativa subirà deroghe in relazione alla previsione di detto trimestre, che funge piuttosto da limite temporale massimo per gli ordinamenti che ne siano privi o comunque da norma regolatrice dei casi dubbi circa lo scrutinio di tempestività o ritardo nell’agire.
4. La tipizzazione della procedura concorsuale in presenza dell’insolvenza del soggetto collettivo
Un altro significato che si potrebbe arguire dalle due disposizioni implica allora, più radicalmente, che, in presenza di insolvenza conclamata e nota o conoscibile, l’accesso ad altri istituti di regolazione concorsuale non diverrebbe più praticabile oltre il trimestre, dovendo promuoversi – come anticipato – proprio e solo l’apertura di una procedura di insolvenza.
Qui va probabilmente inaugurata una riflessione che conduca a riconoscere nelle procedure di insolvenza semplicemente quelle che si fondino su tale situazione oggettiva di elevata difficoltà o crisi, ma senza impedimenti a trovare nel modello concorsuale conseguentemente aperto la salvaguardia degli stessi valori (come la continuità aziendale) più ordinariamente perseguiti con i quadri di ristrutturazione preventiva. Ciò che muta nel profondo, con possibile alterazione dello strumentario italiano, è la consuetudine ad assegnare allo stesso debitore la prerogativa (potestativa) di accedere a soluzioni alternative a procedure d’insolvenza benché insolvente. Nell’ottica della separazione tra le due Direttive (1023/19 e Proposta) il titolo V sembra avere il significato di dissociare almeno parzialmente (e comunque oltre un certo e breve termine) il potere di condizionamento del debitore, se insolvente, dalla determinazione unilaterale del percorso concorsuale. Anche se l’affermazione, in realtà, suona innovativa solo per il nostro sistema, posto che nella stessa Proposta, con la procedura di pre-pack, il debitore insolvente può segnare egli stesso la sorte della liquidazione, così condizionandone non solo la nascita ma anche i contenuti[12]. E pur tuttavia non è dubbio che, come precisato dall’art.20 Proposta, si tratta di una procedura di insolvenza, anche ai sensi dell’elenco di cui al Regolamento 2015/848. Per converso, la liquidazione semplificata delle microimprese non può essere aperta se non per chi è insolvente, ai sensi dell’art.38 par.2[13].
5. Gli effetti indiretti della Proposta di direttiva sul diritto concorsuale societario dell’insolvenza: a) gli istituti opzionabili dalle società (segue)
Come anticipato, un parallelo impatto di sistema potrà scaturire sul diritto societario dell’insolvenza per effetto di altri istituti, per i quali sia ipotizzabile un coinvolgimento tipologico elettivo ovvero l’inserimento di qualche meccanismo di normazione speciale per gli ordinari attori delle relazioni proprie dei soggetti collettivi.
Una prima questione concerne le microimprese, per la cui insolvenza il titolo VI detta un regime di accesso privilegiato ad una procedura liquidatoria grandemente semplificata. La definizione di cui all’art.2 lett. j), mutuata in prima stesura dalla Raccomandazione del 6 maggio 2003/361/CE della Commissione, rinvia ad una proposizione descrittiva eccessivamente ampia, nella considerazione critica che osserva i sistemi economici fondati sulla diffusione del modello organizzativo, posto che l’art.2 par.3 dell’Allegato ha riguardo ad un’impresa che occupa meno di 10 persone e realizza un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di EUR[14]. La scelta di due parametri, pur valevoli congiuntamente, rischia invero di esercitare una forza attrattiva ingente, specie per la consuetudine di piccola occupazione di larga parte di operatori di filiere e distretti caratterizzanti l’economia di molti Paesi. Il dato è replicabile non solo per imprese a bassa valenza tecnologica ma anche per quelle a più forte processo innovativo di digitalizzazione o centrate su reti contrattuali prevalenti rispetto ad una più strutturale patrimonializzazione o base occupazionale diretta.
In un‘ottica di vantaggio per tali imprenditori, l’offerta di norme di semplificazione procedurale, contrazione dei costi e compressione delle fasi temporali di accertamento dei crediti e gestione degli attivi, dovrebbe peraltro essere salutata con favore. Guardando alle relazioni conflittuali con i creditori, per i sacrifici che possono subire, sono comprensibili in realtà gli interrogativi esprimibili già per la dimensione massiva che tale liquidazione potrebbe assumere, fino a diventare la procedura elettiva di interi sistemi. Che si tratti di una scelta di favor debitoris non si dubita troppo, come desumibile anche dalla generalizzazione che la procedura parrebbe destinata ad assumere, non potendo trovare ostacoli, ai sensi dell’art.38 par.3, nemmeno quando non ci sono attivi o essi non sono sufficienti a coprire i costi della liquidazione semplificata: il legislatore comunitario vuole dunque con forza la concorsualizzazione della insolvenza minore, anche a prescindere da uno scenario liquidatorio-distributivo effettivamente proficuo, nell’evidente prospettiva di liberazione di risorse che potrebbero al limite coincidere anche solo con gli apporti organizzativi dell’imprenditore più che con capitali investiti. Se la microimpresa è una società, a prescindere se di persone o di capitali, occorre infatti fare i conti con il risultato finale voluto, che è la esdebitazione[15]: essa è un obiettivo all’apparenza indefettibile ai sensi dell’art.56, al punto da risultare estesa anche a fondatori, proprietari e soci della microimpresa a responsabilità illimitata che siano personalmente responsabili dei debiti[16]. Viene dunque riproposta una visione di continuità dell’organizzazione-società, da proteggere anche nella prospettiva della più radicale liquidazione e nella perdurante scommessa che tale misura sia preferibile all’estinzione del soggetto. Appare allora evidente che, nell’intento della Proposta, è confermata un’idea di perpetuità dei soggetti collettivi, scommettendo sulla loro personalità o addirittura reputazione economica destinate a sopravvivere alla decozione. Di contro, parrebbero entrare in collisione gli ordinamenti nazionali che invece, optando per una valorizzazione maggiore della società-contratto, hanno invece investito di più sul legame relativo degli enti collettivi con l’impresa, fino ad indulgere ad un’opposta idea di impresa-iniziativa. Gli obiettivi della Commissione, pertanto, sembrano rafforzare il valore attribuibile all’organizzazione anche elementare dell’impresa, in un’ottica ottimistica che declina decisivamente l’esdebitazione routinaria a strumento più effettivo di ripartenza[17].
La procedura semplificata per le microimprese, va sottolineato, non è un’opzione lasciata agli Stati ma compone decisivamente il pacchetto dell’armonizzazione minima, divenendo pertanto scelta obbligata. Le rispettive norme fondamentali appaiono seguire l’obiettivo della celerità della liquidazione, della responsabilizzazione del debitore (non spossessato e cui di regola resta affidata l’amministrazione dei beni[18], salvo richiesta dei creditori e spesabilità dei costi per la massa ex art.39 par.1 lett. b), della complessiva semplificazione procedimentale (dalla richiesta, compilata su un modulo standard, art.41 par.3 fino alla formazione da parte del debitore stesso dell’elenco dei crediti, suscettibile di divenire lo stato passivo, in difetto di opposizioni o interventi dei creditori, art.45 par. 2 lett. c) e salvo i poteri dell’autorità investita della liquidazione o dell’eventuale amministratore di ammissione o diniego, art. 46 par.4), dell’accesso a sistemi di asta elettronica per la vendita dei beni (art.50).
Sulla vendita nella liquidazione semplificata, va qui segnalato che l’art.54 par.3 esplicitamente rimuove ogni limite alla possibile partecipazione ai sistemi di asta, tra gli interessati, anche degli azionisti o degli amministratori del debitore[19].
L’accesso all’esdebitazione, come anticipato, pone poi la questione del trattamento delle garanzie personali prestate per i debiti dell’impresa in liquidazione semplificata: nel presupposto che esse sono spesso richieste, per le esigenze aziendali, al fondatore (founder), al proprietario o detentore del capitale (owner) o comunque al socio (member) di una persona giuridica, l’art.57 detta la regola della relazione tra la procedura (di insolvenza o esecutiva individuale) a carico del garante e la liquidazione semplificata nei termini di coordinamento o consolidamento.
6. b) il trattamento dei soci e dei detentori di strumenti di capitale
Nella Proposta non ricorre una disciplina autonoma che inquadri ordinatamente diritti, prerogative di partecipazione, limiti in vario modo riconducibili allo statuto dei soci. Tuttavia, è possibile una riunificazione di differenti precetti che sembrano dettati per lo più dallo scrupolo di evitare un abuso di posizione rispetto ai terzi, per la vicinanza alle informazioni dell’impresa e alla sua gestione, dunque in un’ottica generalmente funzionale a risolvere conflitti. La conseguente scelta è tuttavia solo in parte quella di tutelare i terzi, in particolare la massa dei creditori, assicurando di più la Proposta, con alcuni congegni prudenziali, la fruttuosità della liquidazione, anche se coinvolgente come interessati le descritte figure.
Una preliminare definizione, quella di parti correlate (art.2 lett. q), trova per le persone giuridiche (legal entity) a sua volta quattro ulteriori distinzioni. Nel testo, la nozione è quella di parte strettamente correlata al debitore, con separata indicazione delle ricorrenze per le persone fisiche e nella comune accezione di persone con un accesso preferenziale ad informazioni non pubbliche sugli affari del debitore. Nello specifico, poi, si danno i) i membri degli organi di amministrazione, direzione o vigilanza del debitore; ii) i detentori di strumenti di capitale con una partecipazione di controllo; iii) le persone che svolgono funzioni analoghe alle prime del punto i); iv) le persone strettamente correlate alle prime tre categorie, rispetto a quelle specificate in relazione alle persone fisiche.
Inoltre, quando il debitore è persona fisica, la parte correlata include (come punto v) le persone giuridiche in cui, rispetto al debitore, anche parenti o conviventi o occupati nella stessa struttura abbiano accesso alle informazioni non pubbliche, compresi i consulenti.
La nozione di parti correlate emerge, nel sistema delle revocatorie delle preferences (atti satisfattivi o costitutivi di garanzia, colpiti per il periodo sospetto di tre mesi dalla domanda di apertura della procedura e con debitore insolvente o dopo tale richiesta), già all’art.6 par. 2 secondo periodo: per esse risulta presunta la conoscenza dell’incapacità del debitore di pagare i debiti scaduti o della richiesta di apertura della procedura di insolvenza (lett. b) par. 2 dell’art.6), dunque operando la condizione descritta in termini di facilitazione della prova in capo agli amministratori delle procedure d’insolvenza. La stessa presunzione è ripetuta all’art.8, par. 1, secondo periodo, per gli atti intenzionalmente pregiudizievoli per i creditori (intentional detrimental to creditors, per i quali vige un periodo sospetto molto più lungo, quattro anni nella prima stesura del testo, sempre rispetto all’iniziativa per aprire la procedura o dopo tale richiesta).
Ancora per le revocatorie, l’art.11 affronta la responsabilità di terzi, cioè dei successori della parte che ha beneficiato dell’atto giuridico colpito da detta azione: in caso di successori a titolo particolare, la conseguenza restitutoria è prevista se il terzo ha goduto di un acquisto a titolo gratuito o per corrispettivo manifestamente inadeguato oppure, alternativamente, era o sarebbe dovuto essere a conoscenza delle circostanze su cui si fonda l’azione revocatoria. Per questa seconda evenienza la responsabilità della parte correlata, cioè strettamente definita nella citata relazione questa volta con la parte che ha beneficiato in prima battuta dell’atto giuridico colpito dall’azione, può basarsi sulla conoscenza presunta, secondo l’art.11 par.2 secondo periodo che dichiara tale la circostanza psicologica della lett. b).
Nel sistema del pre-pack (titolo IV, artt.19-35), a sua volta, il richiamo al diritto societario della crisi trova alcuni elementi di specificità nelle disposizioni comuni alle due fasi (la preparazione e la liquidazione), precisamente in tema di tutela degli interessi dei creditori. La procedura, una delle innovazioni più avanzate della Proposta, promuove una fase preconcorsuale, a richiesta del debitore e con nomina di un commissario (monitor) che, per conto del giudice, segue ed aiuta il debitore (che resta nel possesso dei beni e nella gestione corrente, art.22 par.4) a trovare un acquirente adeguato per l’impresa (art. 19, debtor’s business or part thereof), durante ‘un primo tempo’ in cui vi è possibile protezione dalle azioni esecutive (art.23)[20]. Pervenuti alla raccolta di offerte, il pre-pack entra nella seconda fase (la liquidazione) confermando alla guida della procedura il commissario che diventa così amministratore (insolvency pratictioner) (art.25): se il giudice non autorizza la vendita all’acquirente proposto dal commissario, la procedura di insolvenza procede in modo ordinario disponendo un’asta pubblica, partendo però dall’offerta selezionata dal commissario (art.26). L’acquirente finale in questa procedura non subentra in debiti e passività (art.28), salvo suo consenso (anche su una parte dell’esposizione).
L’art.32 dedica alle parti strettamente correlate al debitore norme ad hoc per la vendita, secondo un principio di espressa possibilità di acquisizione dell’azienda o di sue parti, a date condizioni: piena informazione agli organi della relazione con il debitore, analoga disclosure verso le altre parti del processo di vendita, previsione di un tempo congruo per le seconde per organizzare la presentazione di un’offerta propria e alternativa. Se poi l’offerta della parte correlata resta l’unica, vanno disposte ulteriori misure di salvaguardia, incluso l’obbligo dell’organo concorsuale di respingere l’offerta se non soddisfa il miglior soddisfacimento dei creditori. Al netto di tali cautele, ciò che viene sdoganato è dunque un principio di favor per la circolazione aziendale, per effetto della ristrutturazione liquidatoria, sino a contemplare anche soggetti in conflitto d’interesse: sulla tradizionale preclusione all’acquisto prevale la vantaggiosità (per la massa) di un processo di vendita effettivamente trasparente e la verifica del best interest of creditors test. È allora immaginabile che il pre-pack possa essere utilizzato per operazioni di consolidamento dei debiti e di razionalizzazione produttiva fra soggetti societari non solo collegati o cooperanti contrattualmente ma a forte intersecazione per capitale, comunanza di gestione e investimenti, tali essendo le parti correlate. Posto che il pre-pack, a differenza della liquidazione semplificata, non ha limiti soggettivi o dimensionali verso il basso, il suo utilizzo appare potenzialmente largo, trascorrendo da ipotesi minori sino a conglomerati societari.
Un limite generale di applicazione si rinviene nell’art. 19 par. 2 ove è evocato il rispetto del diritto dell’Unione, dunque in primo luogo la nascente Direttiva e quella n. 1023/2019, potendo per ogni altro aspetto gli Stati organizzare la procedura secondo le proprie comuni procedure di liquidazione, se compatibili. Che però lo strumento possa essere utilizzato nelle ristrutturazioni interne ai gruppi è confermato dalle potenzialità che la fase di liquidazione assume, ai sensi dell’art.20 par.3, per la disapplicazione delle tutele occupazionali di cui alla Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001[21]: l’art.5 par.1 di questa lo consente a trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente, esattamente il caso del pre-pack.
Anche l’art.33, a sua volta, può interessare il tema societario perché, nel proteggere i finanziatori, non introduce limiti ai rimborsi anche di priorità per la particolare categoria dei soci che eventualmente abbiano sovvenzionato l’impresa con finanziamenti temporanei (par. a), b) e c) o intermedi (lett. d), dunque al pari di terzi estranei. La necessità dei primi è collegata (solo implicitamente) al successo del progetto, rimettendo a commissario o amministratore (dunque ad entrambe le fasi) curare che l’indebitamento avvenga al minor costo possibile (lett. a); la lettera b) assicura il pagamento prioritario (prededuzione) nell’ambito di successive procedure d’insolvenza (dunque nell’implicito presupposto che il pre-pack non decolli dalla prima alla seconda fase o si arresti ancora all’inizio); la lettera c) prefigura il rafforzamento della posizione del finanziatore mediante apposite garanzie sul ricavato della vendita. L’interferenza allora, in termini di trattamento concorsuale del credito di rimborso, delle distinzioni fra finanziatori-terzi e finanziatori-soci ben potrebbe collocarsi essenzialmente nel sistema delle revocatorie, come esemplificato nelle preferences dell’art.6, per quanto già detto della presunzione di conoscenza dell’insolvenza e ove l’atto sia nel trimestre anteriore alla richiesta o successivo ad essa. Il pre-pack, infatti, costituisce a tutti gli effetti – come premesso - una procedura d’insolvenza (art.20 par.1)
D’interesse, infine, la nozione di finanziamenti intermedi (in realtà sottotipo di interim financing) che per la lettera d) del par.1 art.33 sono ipotizzati quali provenienti dagli offerenti interessati, ammessi in compensazione del prezzo dell’azienda in caso di aggiudicazione in loro favore. In questi casi, infatti, il credito di rimborso che tali finanziatori-acquirenti debbono ricevere può essere scomputato così da generare compensazione a favore del creditore-acquirente, se però i crediti siano significativamente inferiori al valore di mercato dell’impresa (credit bidding). L’art. 33 al par.2 vieta tuttavia la costituzione di diritti di prelazione diretta agli stessi offerenti, cioè ove essi già sono autori del finanziamento e al contempo si propongano per l’acquisto aziendale.
Un particolare ambito di tutela, in termini di contraddittorio prodromico all’autorizzazione o all’esecuzione della vendita è assicurato, nel medesimo contesto della considerazione riservata ai creditori, altresì ai detentori di strumenti di capitale dell’impresa del debitore (les détenteurs de capital de l’entreprise du débiteur; holders of equity of the debtor’s business): anch’essi hanno diritto di essere sentiti dal giudice (art.34 par.1). Sono però stabilite delle deroghe a tale principio: in particolare, se gli aventi diritto non riceverebbero nulla dalla liquidazione (lett. a) par.2) gli Stati possono escluderli dal contraddittorio preventivo.
[1] Tratto dalla relazione tenuta in Catania 9-10 giugno 2023 (convegno OCI, Osservatorio sulle crisi d’impresa, Il nuovo diritto societario della crisi).
[2] Sin dall’inizio del secondo decennio vi era stata un’iniziativa specifica in ambito UE con la Risoluzione del Parlamento europeo del 15 novembre 2011 sulle raccomandazioni alla Commissione sulle procedure d'insolvenza nel contesto del diritto societario dell'UE (2011/2006(INI))
[3] L'Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l'adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
[4] Le norme minime di armonizzazione della direttiva (UE) 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva si applicano solo alle imprese che non sono ancora insolventi e perseguono l'obiettivo di evitare le procedure di insolvenza per le imprese di cui è ancora possibile ripristinare la sostenibilità economica. Esse non si occupano della situazione in cui un'impresa diventa insolvente e deve essere sottoposta a una procedura di insolvenza. (Relazione alla proposta di Dir. Insolvency III, § 1.2.)
[5] Definito all’art.17 par.3 Dir. 1023/2019 quale debitore divenuto incapace di pagare i propri debiti alla scadenza, con replica all’art.18 par.3 che parimenti facoltizza gli Stati ad escludere dall’esonero dalle azioni di inefficacia e di responsabilità del terzo le operazioni connesse alla ristrutturazione effettuate dopo che il debitore sia incorso in detta incapacità.
[6] La immunità sovrana dalle revocatorie può essere superata pertanto solo se si inciderà sull’art.16 Reg. 2015/848 ai sensi del quale, quanto agli atti pregiudizievoli, è stabilito che l'art.7, par 2, lett. m) (che rimette alla legge dello Stato di apertura le disposizioni relative alla nullità, all'annullamento o all'inopponibilità degli atti pregiudizievoli per la massa dei creditori), non si applica quando chi ha beneficiato di un atto pregiudizievole per la massa dei creditori prova che: a) l'atto è soggetto alla legge di uno Stato contraente diverso dallo Stato di apertura, e b) la legge di tale Stato membro non consente, nella fattispecie, di impugnare tale atto con alcun mezzo. La frequenza con cui clausole contrattuali dispongono l’applicazione di una legge di riferimento che blinda il rapporto negoziale e le sue conseguenze in caso di insolvenza transnazionale di una delle parti è all’origine della previsione citata: l’esigenza di superamento o chiarificazione si raccorda alle finalità della Proposta di scongiurare ulteriori fenomeni di forum shopping e rafforzare una lex concursus unionale, a tutto vantaggio della gestione efficace delle procedure di insolvenza.
[7] Al comma 1: Salvo che i trattati non dispongano diversamente, si applicano le disposizioni seguenti per la realizzazione degli obiettivi dell'articolo 26. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno.
[8] La citata Risoluzione del Parlamento UE proponeva di aprire una procedura di insolvenza nei confronti di debitori che siano persone fisiche, persone giuridiche o associazioni non riconosciute; le procedure ... siano avviate tempestivamente in modo da consentire il salvataggio di un'impresa in difficoltà; ... obbligo del debitore di presentare istanza di fallimento, la procedura deve essere aperta in un lasso di tempo compreso fra uno e due mesi dalla cessazione dei pagamenti, a meno che il giudice non abbia già avviato un procedimento preliminare ovvero abbia adottato opportuni provvedimenti a tutela dell'attivo e a condizione che gli attivi siano sufficienti a coprire i costi della procedura di insolvenza; gli Stati membri sono tenuti a stabilire norme che introducano la responsabilità del debitore in caso di mancata o inadeguata domanda e a prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive (All., Parte 1.1.).
[9] Si può ipotizzare l’attualità del rinvio all’ampia latitudine soggettiva dell’iniziativa di accesso di cui all’art.37 co. 2 CCII, dunque agli organi e autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e vigilanza sull’impresa.
[10] Entra in zona di osservazione, in apparenza, ogni istituto che valorizzi le cause di esonero da responsabilità per il singolo amministratore che abbia fatto constatare, all’interno della società, il suo dissenso rispetto ad atti ovvero, come qui rileva, omissioni dell’organo (cfr. l’art.2392 c.c.); la prospettiva da cui muove la Proposta pare infatti superare il catalogo dei limiti alla responsabilità ed estendersi ad un dovere di iniziativa, se non di azione, verso l’autorità giudiziaria.
[11] Prevedibilmente, comunque, la prevista cogenza in direttiva orienterà anche il dibattito interno sui potenziali conflitti d’interesse o abusi nei rapporti tra soci ed amministratori ove i secondi assumano l’iniziativa ai sensi dell’art.120-bis CCII.
[12] L’art.23, in realtà, facoltizza alle richieste di misure protettive anche chi, durante la fase di preparazione, sia in una situazione di probabile insolvenza, un’ambiguità problematica del testo proposto, specie per il rapporto con il titolo V e tutte le premesse che descrivono il pre-pack quale procedura di liquidazione dedicata all’insolvente.
[13] L’art.42 par.1 lett. b) lo elenca tra i casi in cui l’apertura può dal giudice essere rifiutata, ma l’apparente discrezionalità parrebbe invero solo regolare il perimetro dell’istituto, in una nozione di inammissibilità, ove si osservino le altre circostanze (difetto di microimpresa, incompetenza dell’autorità adita, mancanza di giurisdizione dello Stato in cui è stata presentata).
[14] I primi due par. definiscono le PMI e la piccola impresa, come assets e soglie finanziarie integranti le tre categorie: 1. La categoria delle microimprese delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR. 2. Nella categoria delle PMI si definisce piccola impresa un'impresa che occupa meno di 50 persone e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di EUR.
[15] Entrano allora in zona critica o comunque di innovativo coordinamento, in apparenza, le disposizioni (come nel CCII gli artt.233-234) che segnano uno scenario di cancellazione delle società dal registro delle imprese all’esito della chiusura della procedura.
[16] Il rinvio è addirittura in blocco all’intero titolo III della Direttiva 1023/2019 (artt.20-24).
[17] Appare infatti evidente il raccordo con il titolo III della Direttiva 1023/2019, in particolare gli impegni assunti agli artt.20, 22.
[18] Lo scenario potrebbe prevedere: il pieno controllo di beni e gestione; la nomina di un amministratore, con trasferimento dei poteri e della stessa liquidazione, anche parzialmente; la perdita integrale di controllo e gestione, senza nomina di un amministratore e dunque la centralità delle approvazioni dell’autorità competente (art.43 par.4).
[19] La formula dell’art. 54 par.3 impegna gli Stati a che tali persone siano ‘autorizzate’, nozione tuttavia residualmente compatibile sia con la mancanza di barriere all’ingresso alle piattaforme di asta, sia con atti che, di volta in volta, rimuovano il limite e dunque frapponendo considerazioni di esclusione in ipotesi prevalenti.
[20] Il rinvio è espresso agli artt.6 e 7 della Direttiva 1023/2019, è strumentale all’efficacia del progetto e, singolarmente, accomuna la sorte dell’insolvente a quella di chi si trovi anche solo in una situazione di probabile insolvenza.
[21] Come noto la tendenziale automatica traslazione del rapporto di lavoro in capo al cessionario aziendale è fissata dagli artt. 3 e 4 Dir. 2001/23/CE che rispettivamente stabiliscono che diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario e che il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario.
1. Premessa
Mi è stato chiesto di scrivere quest’articolo (per la rivista giustiziainsieme.it) non nella mia veste professionale di magistrato o, più in generale, di studioso del diritto, ma in relazione alle pubblicazioni relative a raccolte di mie poesie.
Infatti, nel corso del 2021 ho pubblicato due raccolte: Oblio (edizioni La Bussola, Roma), che include anche poesie scritte in gioventù, e Lenzuola bianche (edizioni La Bussola, Roma), raccolte che sono state presentate in un pubblico incontro il 6 ottobre 2022 presso la Biblioteca del Comune di Caserta.
Da ultimo, nel 2023, ho pubblicato una terza raccolta di poesie dal titolo Sogni brevi (edita da Pendragon, Bologna) presentata a Capua il 19 maggio 2023 su invito del prof. Domenico Proietti dell'Università della Campania "Luigi Vanvitelli"[i] nell’ambito della diciottesima edizione di Capua il luogo della lingua Festival[ii].
Già il termine “poesia” riferito a queste pubblicazioni richiede una doverosa precisazione. È evidente che attribuire o riconoscere, a determinati scritti, la qualificazione di essi come “poesie” è un’operazione che sfugge all’autore: solo alla critica letteraria e al pubblico, cui tali versi sono destinati (grazie alle aspettative dell’editore), compete infatti il giudizio circa la natura o meglio lo spessore “poetico” di essi. E questa precisazione vale tanto più nel mio caso di scrittore che invade un campo non proprio, diverso essendo il mio mestiere di magistrato.
Insomma, sentire parlare di me come “poeta” è qualcosa che (senza falsa modestia) in fondo mi imbarazza, nel dovuto rispetto cioè di coloro che, appartenendo al mondo letterario, hanno dedicato la propria esistenza alla letteratura e, segnatamente, alla poesia.
Ma proprio la mia estraneità al mondo letterario e in particolare la mia professione di magistrato sono gli elementi che hanno incuriosito, fin dal primo incontro del 6 ottobre 2022, il prof. Proietti, che ha posto il tema delle possibili connessioni tra l’attività del magistrato e l’attività del “poeta”.
In effetti nel primo incontro del 6 ottobre 2022, alla domanda del prof. Proietti al riguardo, ho quasi negato che vi fosse un legame tra i due mondi (quello professionale e quello della mia poesia), basandomi sulla mera constatazione del fatto che ho cominciato a scrivere versi quando ero adolescente, e quindi prima degli studi di legge e, poi, dell’ingresso in magistratura.
E tuttavia in vista del successivo incontro del 19 maggio 2023 ho riflettuto sul tema, arrivando a dare una risposta più articolata sulle possibili connessioni tra attività di magistrato e attività di scrittore di versi.
2. Il piano linguistico
La funzione del magistrato è quella di interprete della legge, da applicare al caso concreto. L’interpretazione della legge, o anche di un negozio giuridico, è quindi attività propria del magistrato, la quale necessariamente gli impone di analizzare il significato proprio delle parole (interpretazione testuale) al fine di definire un istituto giuridico o una fattispecie ovvero per distinguere un caso da un altro (interpretazione logica).
È dunque evidente come un’attività professionale di questo tipo, svolta in concreto per lunghi anni, possa acuire l’abitudine alla precisione del linguaggio da usare, diventare un habitus mentale (o più genericamente culturale) che, evidentemente, non può non influenzare ambiti diversi da quelli prettamente giuridici o professionali. Invero in una decisione non si può usare un termine per un altro (non sono equivalenti “proprietà” e “possesso”, “furto” e “rapina”, e così via).
Se dunque l’esercizio della professione di magistrato può aver affinato l’attenzione alla parola usata e quindi la precisione logica e linguistica, nella ricerca cioè del termine che meglio rappresenti una fattispecie sottoposta al suo esame, è difficile pensare che ciò, specie in una poesia che vuole essere evocativa, non abbia influito sull’esattezza della parola o dell’aggettivo che meglio esprima in versi un’emozione o anche una situazione, che sia o no metafora di un sentimento provato e da comunicare.
3. Il piano dell’espressione
La letteratura (prosa o poesia) esprime “storie” o comunque “momenti” (emozioni) di vita vissuta o immaginata come reale.
In oltre quarant’anni di esercizio delle funzioni di magistrato, nel settore penale e nel settore civile, ho conosciuto migliaia di vicende umane, sia pure nella loro patologia (tanto da richiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria) o comunque nella loro (spesso contrastante) rappresentazione o ricostruzione (essendo come giudice chiamato a decidere sulle stesse, nella ricerca della verità o comunque della soluzione più “giusta”). Si trattava di vicende, come ho detto, spesso traumatiche, di sofferenza o di morte.
Come negare una qualche influenza di tali vicende nelle poesie che ho scritto, le più dolenti o drammatiche?
Penso agli incidenti sul lavoro, alle perizie psicologiche o di psichiatria infantile in tema di affidamento di minori, alle interdizioni o inabilitazioni, a sofferte separazioni o divorzio di coniugi, alla valutazione dei danni alla persona nelle cause di accertamento delle responsabilità (civile o penale), alle autopsie (nei casi di omicidio o di decesso per malattie professionali o più in generale per colpa) … e così via.
Ecco, quindi, un secondo punto di contatto (quello che si esprime sul piano dell’espressione o dei contenuti, cioè delle “storie” o dei “momenti” evocati nelle poesie) tra l’essere magistrato e l’essere “poeta”.
4. Il ruolo sociale
Può esservi infine un terzo punto di contatto, più profondo o di non immediata percezione, tra l’attività giudiziaria e la letteratura, e quindi la poesia.
In tutte le funzioni da me svolte come magistrato, nell’applicazione della legge ho sempre cercato di interpretare la singola norma alla luce dei principi affermati nella Costituzione, e quindi nell’ambito dei valori che tali principi esprimono: eguaglianza, tutela dei diritti e dei legami familiari, protezione del cittadino dall’arroganza del potere, ecc.
Quanto all’attività di poeta, chi ha approfondito il tema del ruolo svolto dalla letteratura (e quindi, in essa, dalla poesia) nel contesto sociale in un determinato momento storico, dall’antica Grecia fino ai giorni nostri, è giunto ad affermare, con riferimento ovviamente ai grandi Autori, come la letteratura abbia assunto il ruolo di indicare alla società del loro tempo valori da affermare e perseguire.[iii]
Come ho scritto nella mia introduzione a Sogni brevi e come ha notato il prof. Tiozzo nella prefazione (intitolata Una riapertura alla vita), in quest’ultima opera (Sogni brevi) è più chiara in me, sia pure con il senno di poi, la percezione che i miei versi non siano solo come una fotografia di un momento della mia esistenza, ma che essi possano essere letti come la riaffermazione o anche la mera indicazione di valori da difendere o da portare avanti.
In effetti, l’ispirazione di alcuni versi, in modo più esplicito rispetto alle precedenti raccolte, mi ha spinto a toccare temi sociali, problematici se non tragici, così facendo, anche solo rilevando che c’è un problema, la mia poesia in tal caso ha, in fondo, finito con l’indicare al lettore quei nobili valori di eguaglianza, di rispetto degli altri e della natura e dell’ambiente. Anche i versi più semplici, relativi ad emozioni nei rapporti familiari, non sono forse l’affermazione dell’importanza di tali legami? Oppure, il rispetto dell’altro non si esprime anche con il semplice saluto (si vedano i versi sotto il titolo “Il saluto”)? Un semplice saluto non indica un valore apposto all’arroganza, alla supponenza cui spesso veniamo in contatto?
Ed allora ecco il legame (profondo) che ha unito o unisce l’attività di magistrato, da me svolta nel corso di tanti anni nell’affermazione dei valori e dei principi costituzionali, a quella del “poeta”, là dove essa – non importa se in modo consapevole o meno da parte dell’autore - esprima i più alti valori che dovrebbero guidare la società civile nel rispetto di ciascuno e della vita umana.
[i] Domenico Proietti, professore associato di Linguistica italiana, Dipartimento di lettere e beni culturali dell'Università della Campania "Luigi Vanvitelli".
[ii] All’incontro ha partecipato anche Daniela Carmosino, Ricercatrice T.D.A. e docente di Critica letteraria e letterature comparate presso il Dipartimento di lettere e beni culturali (DiLBeC)), Università della Campania "Luigi Vanvitelli", Santa Maria Capua Vetere (CE), nonché l’attore Bernardo Casertano, che ha letto e interpretato alcune poesie tratte dalla raccolta Sogni brevi.
[iii] Si veda l’illuminante saggio di Umberto Apice, Una musa per temi. Diritto e processi in letteratura, edito da Lastoria, 2022, Vignate – MI.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il parere di compatibilità paesaggistica nella disciplina dell’art. 146 l. 42/2004 - 2.1. (segue) Natura e funzione del parere. Il punto del Consiglio di Stato - 3. Sindacabilità delle valutazioni espresse nel procedimento autorizzativo - 3.1. (segue) il punto del Consiglio di Stato.
1. Premessa.
La pronuncia in commento offre un quadro di sintesi delle questioni che vengono in rilievo nell’ambito del complesso procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, come disciplinato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio [1].
La vicenda trae origine dal progetto presentato da una società agricola al Comune di Capestrano per la realizzazione di una struttura di produzione e trasformazione vitivinicola. Il Comune, in prima battuta, esprimeva parere favorevole sotto il profilo paesaggistico e trasmetteva lo stesso alla Soprintendenza, la quale - dopo aver richiesto e ottenuto l’attivazione del tavolo al Direttore Generale - esprimeva parere negativo ed a questo seguiva poi il diniego definitivo al rilascio del permesso di costruire.
Gli atti venivano impugnati dinanzi al Tar Abruzzo n. 365/2020 che, accertando la legittimità dell’operato delle amministrazioni coinvolte, lo respingeva. Il Consiglio di Stato, investito della questione confermava le statuizioni del Tar, richiamando principi ormai pacificamente riconosciuti dalla giurisprudenza.
In particolare, nella decisione in commento il Consiglio di Stato rinvia alla casistica relativa: al silenzio assenso, al parere tardivo, all’ambito delle valutazioni da parte della Soprintendenza (limitatamente agli aspetti paesaggistici e archeologici), ai rapporti coi titoli edilizi, alla tutela delle identità tradizionali e culturali delle popolazioni locali [2].
Delineando, così, un quadro generale della disciplina e della giurisprudenza afferenti il procedimento di autorizzazione paesaggistica, la sentenza offre interessanti spunti di riflessione, tra gli altri, sulla natura e valenza del parere espresso dalla Soprintendenza, sulla discrezionalità che contraddistingue l’esercizio dei suoi poteri in tale ambito e sulla conseguente sindacabilità di detti poteri e più in generale degli atti che afferiscono la tutela ambientale.
Ed è proprio su tale aspetto che nel presente scritto ci si concentrerà, tentando di delineare, seppur sinteticamente, la disciplina del procedimento autorizzativo con particolare riguardo alla natura e funzione del parere di compatibilità paesaggistica e alla sua sindacabilità in sede giudiziale, attraverso i richiami operati dal Consiglio di Stato e gli arresti della giurisprudenza precedente, alla quale la pronuncia in commento mostra di conformarsi.
2. Il parere di compatibilità paesaggistica nella disciplina dell’art. 146 l. 42/2004.
Il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, nel disciplinare il procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, stabilisce - all’art. 146, comma 5 - che “sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”, specificando che tale parere, reso all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte secondo quanto disposto dalla normativa di riferimento, nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di 45 giorni decorrente dalla ricezione degli atti.
Al fine di delineare l’oggetto di valutazione sul quale la Soprintendenza deve esprimere parere il legislatore, al comma 8 del Codice, chiarisce che questo è limitato alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all’articolo 140, comma 2.
Si tratta, dunque, di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale.
L’amministrazione procedente non può disattenderlo, salva l’ipotesi in cui risulti che il parere sia stato reso sulla base di atti o fatti palesemente erronei o travisati, quindi, è stato notato come, in buona sostanza, l’atto autorizzativo venga deciso sostanzialmente nel suo contenuto dalla Soprintendenza ma formalmente imputato all’ente subdelegato, solitamente il Comune [3].
Al comma 9 si afferma che “decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”[4].
2.1 (segue) Natura e funzione del parere. Il punto del Consiglio di Stato.
La Soprintendenza, nell’ambito del procedimento autorizzativo in analisi, svolge una funzione consultiva. È lo stesso legislatore a definire il parere di compatibilità paesaggistica “obbligatorio non vincolante”.
Come è noto, l’attività consultiva della pubblica amministrazione, che si caratterizza per l’essere esercitata da organi amministrativi cui è stata attribuita la relativa funzione di rendere consulenza ad altri organi o enti pubblici [5], ha valenza eminentemente preparatoria della decisione finale [6].
In ragione di ciò, generalmente l’atto consultivo consegue ad una espressa richiesta da parte dell’organo decidente, connotandosi così quale «attività su impulso, che non si mette in moto da sola» [7].
Questo particolare tipo di attività amministrativa si concretizza con l’adozione di pareri [8] che ne costituiscono il proprium [9].
Essendone la manifestazione concreta i pareri sono caratterizzati dalle medesime peculiarità proprie dell’attività consultiva, ovvero sono resi in sede endoprocedimentale, su richiesta, hanno natura preparatoria ed, in linea generale, sono carenti di autonomia funzionale [10] e quindi non direttamente lesivi.
I pareri sono generalmente classificati [11] dal punto di vista dell’oggetto in pareri di legittimità, di opportunità e tecnici; del regime giuridico in relazione alla loro acquisizione in obbligatori e facoltativi [12]; dell’efficacia in: conformi, quando l’organo di amministrazione attiva ha il dovere di richiederli, potendo però decidere se provvedere o meno, ma se sceglie di provvedere deve farlo uniformandosi al contenuto del parere; vincolanti, ovvero i parere obbligatori cui l’amministrazione decidente deve uniformarsi, a meno di motivarne l’illegittimità; semivincolanti, ovvero quando l’organo di amministrazione attiva può adottare un provvedimento difforme solo in una determinata direzione o con un determinato procedimento [13].
Il parere di compatibilità paesaggistica rientra, come è agevole comprendere, tra i pareri a contenuto tecnico, in ragione della specificità della materia su cui deve esprimersi. Ed è qualificato dallo stesso legislatore obbligatorio non vincolante.
La sua acquisizione è prescritta dalla legge a pena di illegittimità del provvedimento finale. Una volta ottenuto il parere, la pubblica amministrazione che ha dovuto richiederlo può essere o meno costretta a conformarsi al contenuto dell’atto consultivo, anche se la possibilità di discostarsene costituisce – invero - un’eccezione, infatti, in tal caso l’ente sarà tenuto a motivare in ordine alle ragioni che hanno determinato la decisione non conforme. Nello specifico, il parere di cui sopra rientra tra quelli non vincolanti, il che significa – come detto – che non vincola l’amministrazione alla decisione conforme.
La giurisprudenza ha sottolineato più volte che, con l’entrata in vigore nel 2010 dell’art. 146 cit., la Soprintendenza esercita, non più un sindacato di legittimità ex post sulla autorizzazione già rilasciata dalla regione o dall’ente delegato, con il correlativo potere di annullamento, ma un potere che consente di effettuare ex ante valutazioni di merito amministrativo, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico [14]. Per tale via, la sua funzione, benché consultiva, assume valenza, in sostanza, di tipo co-decisionale regionale e statale della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela [15].
Nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato, richiamando un orientamento consolidato ed in linea con le definizioni generali proprie dell’attività consultiva della pubblica amministrazione, ci dice che il parere in questione costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti ed attività preordinata al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica (o del suo diniego) e che le valutazioni in esso espresse sono finalizzate all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o di diniego di autorizzazione paesaggistica.
In merito alla sua efficacia, i Giudici di Palazzo Spada specificano che, nell’ipotesi di decorso del termine stabilito dalla legge senza che la Soprintendenza abbia espresso il parere di che trattasi, non può escludersi in radice la possibilità per l’organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, fermo restando che, nei casi in cui vi sia stato il superamento del termine, il parere perde il suo carattere di vincolatività e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale [16].
3. Sindacabilità delle valutazione espresse nel procedimento autorizzativo.
L’attività consultiva che svolge la Soprintendenza nell’ambito del procedimento autorizzativo, si caratterizza per essere - come del resto tutta l’attività consultiva della pubblica amministrazione - ausiliaria rispetto ad altre attività amministrative volte all’assunzione di decisioni [17].
Nel caso specifico, come detto, si tratta valutazioni tecniche che incidono sul principio, oggi costituzionalmente garantito in modo espresso, della tutela ambientale. Dunque, la sua funzione, che - come in tutti gli altri casi in cui si esprimono organi consultivi - è strumentale a salvaguardare la qualità delle decisioni amministrative [18], assume nel procedimento autorizzativo una pregnanza particolare, soprattutto con riguardo al bilanciamento degli interessi in gioco.
Si è già detto che, nel procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la Soprintendenza effettua ex antevalutazioni di “merito amministrativo”, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico. Si tratta, pertanto, di un giudizio connotato da un'ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l'applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie dei vari settori scientifici di riferimento [19].
In generale l’attività tecnico discrezionale è stata considerata come un’attività di valutazione della sussistenza in concreto dell'interesse pubblico tutelato dalla norma, che si traduce in una valutazione sul merito dell'azione amministrativa o cui si correlano situazioni soggettive tutelate come interessi legittimi [20].
L'apprezzamento così compiuto dall’amministrazione competente è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l'aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell'amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile [21].
Del resto, non sarebbe ammissibile la surrogazione delle valutazioni tecniche spettanti alle amministrazioni preposte alla tutela dell'ambiente, del patrimonio paesaggistico e territoriale, nonché della salute dei cittadini [22].
3.1. (segue) il punto del Consiglio di Stato.
Nella decisione in commento il Consiglio di Stato ribadisce che la Soprintendenza esercita un potere discrezionale nell’elaborazione del parere di compatibilità paesaggistica, che non può dunque essere sindacato nel merito.
Nell’affermare questo principio, i Giudici colgono l’occasione per rammentare che nel caso di valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (e quindi nelle ipotesi in cui i poteri dell’amministrazione siano caratterizzati dalla c.d. «discrezionalità tecnica»), difettando parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice “non ‘deduce’ ma ‘valuta’” se la decisione pubblica rientri o meno nella gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto.
Per tale via, concludono che, ove l’interessato non ottemperi all’onere di mettere in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica della valutazione amministrativa e si fronteggino, quindi, opinioni divergenti parimenti plausibili, il giudice dovrà far prevalere la posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente ad adottare la decisione collettiva, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.
Nell’affermare ciò, il Consiglio di Stato richiama il contenuto di una sua recente pronuncia [23], nell’ambito della quale viene affermato che la necessità del bilanciamento degli interessi in gioco diviene maggiore quando confligge l’interesse alla tutela dell’ambiente con quello alla tutela del paesaggio, soprattutto in ragione del fatto che, ad oggi, non può più essere sottovalutato che il nuovo testo dell’art. 9 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, depone nel senso della maggiore, e non minore, tutela dei valori ambientali e paesaggistici nell’ottica della salvaguardia delle generazioni future e dello sviluppo sostenibile.
In particolare, è stato anche in precedenza affermato che alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. L’intervento progettato, infatti, viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto [24].
A confutazione di qualunque dubbio possa sorgere in merito al suddetto orientamento che afferma, allo stato, una sorta di prevalenza dell’opinione dell’amministrazione nel caso in cui venga in rilievo la materia della tutela ambientale è lo stesso Giudice a specificare che “non si tratta di garantire all’Amministrazione un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo), ma di dare seguito, sul piano del processo, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione”.
[1] Per un inquadramento generale della materia si veda: Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, 1161 ss.; P. Marzaro, La “cura” ovvero “l’Amministrazione del paesaggio”: livelli, poteri e rapporti tra Enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. giur. urb., 2008, 4, 416 ss.; G. Mastronardo, Valore del paesaggio, in A. Angiuli, V. Caputi Iambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, 344 ss.;
[2] Cons. Stato, sez. IV, n. 563 del 2022, n. 181 del 2022, n. 941 del 2021, n. 4765 del 2020, n. 3170 del 2020. Nello specifico sulla questione del silenzio assenso si veda da ultimo: S. SPERANZA, “Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022)”, in giustiziainsieme.it, Diritto e Processo Amministrativo, 3.11.2022; precedente: G. DELLE CAVE, Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990 (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640), in giustiziainsieme.it, Diritto e processo amministrativo, 06.07.2021.
[3] A. Berlucchi, Il parere tardivo espresso dalla soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici ex art. 146 d. lgs. n. 2004/42: spunti di riflessione, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 130 ss.
[4] Articolo così modificato dal D.L. 133/2014, c.d. “Sblocca Italia”. La versione antecedente prevedeva la possibilità per l’amministrazione competente di indire una conferenza di servizi che avrebbe dovuto pronunciarsi nel termine “perentorio” di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, l’amministrazione competente provvedeva sulla domanda di autorizzazione.
[5] Si veda in tal senso, per tutti, V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2018, 335.
[6] In questo senso si esprime, a proposito dei pareri, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, I, 63919.
[7] C. Barbati, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002, 20 ss.
[8] Per una ricostruzione storica della categoria dei pareri: Sandulli, Il procedimento, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di S. Cassese, Milano, II, 2000, 1015 ss; A. Travi, voce Parere nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 615 ss.
[9] M. Occhiena, N. Posteraro, “Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva”, ne “Il diritto dell’economia» issn 1123-3036, anno 65, n. 100 (3 2019), pp. 27-62.
[10] Su questo aspetto si veda A. Corsaro, L’attività consultiva e le valutazioni tecniche, in Le nuove regole dell’azione amministrativa. Atti del Convegno di Catania dell’11-12 novembre 2005, Catania, 2006, 113 e ss.
[11] M. Occhiena, N. Posteraro, “Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva op. cit.
[12] Classificazione espressamente contemplata dal legislatore ai primi due commi dell’art. 16, legge 241/1990,come modificati dall’art. 8, della legge 18 giugno 2009, n. 69
[13] P. Virga, Diritto amministrativo. 2. Atti e ricorsi, Milano, 1999, 29. Invero a tale categoria, abrogata dalla l. 69/2009, veniva ricondotta sono l’ipotesi di cui all’art. 14, comma 1, d.p.r. 24 novembre 1971, n. 1199, relativa al parere del Consiglio di Stato nel procedimento di decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, che poteva essere disatteso mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri.
[14] cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2019, n. 3870.
[15] In tal senso Cons. Stato, sez. VI, 04 giugno 2015, n. 2751, in Riv. giur. ed., 2015, 4, 768 ss.
[16] in linea con questo principio il Consiglio di Stato richiama giurisprudenza precedente: ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, n. 2136 del 27 aprile 2015; n. 4927 del 28 ottobre 2015; in termini da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2021, n. 941
[17] D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2005, 193
[18] V. Parisio, La funzione consultiva nella dinamica procedimentale, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, 804. In giurisprudenza, così si esprimono, tra gli altri: T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 giugno 2015 n. 1261, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 2 febbraio 2011, n. 224, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 marzo 2011 n. 440 e T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 20 giugno 2009 n. 448
[19] In proposito si veda G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, in Aedon.it, n. 3, 2016, issn 1127-1345
[20] In questo senso F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. Amm., 2008, pag. 791.
[21] T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, 24 dicembre 2007 n. 398
[22] Tar Calabria - Catanzaro, 05 settembre 2022 n. 1497.
[23] CdS sez VI 23.09.2022 n. 8167. Per un’analisi critica si veda: G. Severini e P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione, in giustiziainsieme.it, 22 settembre 2021.
[24] In questo senso già Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640.
Riportiamo l’intervento del professore Roberto Romboli a introduzione delle sedute di stage presso il Consiglio Superiore della Magistratura da parte dei magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 23.11.2022. Lo stage si è svolto dal 15 al 19 maggio scorso. Nell’attuale composizione del CSM il professor Romboli è direttore dell’Ufficio studi e documentazione nonché componente della Sesta commissione.
1. È con grande piacere che saluto tutte e tutti i partecipanti a questo primo seminario, organizzato dal Consiglio superiore della magistratura e dalla Scuola superiore della magistratura per i Mot nominati con dm 23 novembre 2022, ai quali do il benvenuto nella sede del Consiglio.
Gli interventi che seguiranno avranno un oggetto assai ampio e riguarderanno in particolare struttura, funzioni e attività internazionale del Csm, mobilità e valutazioni di professionalità, le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti, i programmi di gestione e di organizzazione degli uffici requirenti, le incompatibilità e gli incarichi extragiudiziari ed infine la responsabilità disciplinare.
Il mio intervento si limiterà quindi ad una introduzione sul significato ed il ruolo attribuito all’organo che vi ospita, con qualche valutazione conclusiva sull’attualità.
Nella classica distinzione tra le costituzioni-bilancio e le costituzioni-programma, la nostra appartiene senza dubbio alle seconde nel senso che intende segnare una chiara rottura con il passato e specificamente che il ventennio appena concluso, attraverso l’affermazione di principi e valori nuovi, per molti aspetti opposti a quelli che avevano caratterizzato il regime precedente e con la precisa intenzione di segnare una discontinuità con lo stesso.
Per questo appaiono del tutto prive di significato, sotto l’aspetto storico ed interpretativo, le recenti polemiche circa la presenza o meno nel testo della Costituzione della parola “antifascismo”.
La volontà di evitare il possibile ripetersi della precedente esperienza consigliò ai nostri costituenti di porre nella Costituzione tutta una serie di istituti di garanzia, nuovi rispetto all’ordinamento passato.
Innanzi tutto, a seguito del risultato del referendum istituzionale del 1946 a favore della repubblica, la figura del Presidente della repubblica, situata al di fuori dei tre tradizionali poteri dello Stato a tutela di un ordinato equilibrio tra gli stessi, nonché la Corte costituzionale, quale giudice della conformità delle leggi e degli atti con forza di legge alla Costituzione e quindi quale garanzia della rigidità della stessa ed ancora il Consiglio superiore della magistratura, istituito per garantire i valori di autonomia, indipendenza ed imparzialità dei magistrati.
Se è vero che un organo con lo stesso nome era già stato previsto con la legge Orlando del 1907 è altresì vero che si trattava di un soggetto con composizione e funzioni assolutamente diverse e quindi il Consiglio previsto dalla Costituzione repubblicana può senza dubbio essere considerato un organo “nuovo” nel senso anzidetto.
Essendo chiara ed evidente la ragione della previsione del Presidente della repubblica, nonché della Corte costituzionale, potremmo chiederci quale sia la ragione della istituzione del Csm.
Questa deve essere collegata al diverso modo di concepire il ruolo della magistratura, non più soggetta all’indirizzo ed alla vigilanza del potere politico, ma appunto quale soggetto di garanzia per i diritti dei cittadini e per il rispetto della legge anche da parte della politica e dei soggetti esercenti il potere (una delle conseguenze del passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale).
Da ciò ne discende logicamente una diversa collocazione della magistratura nel sistema istituzionale, sia sotto l’aspetto strutturale che sotto quello funzionale, rispetto a quella realizzatasi nel periodo precedente e formalizzata nell’ordinamento giudiziario del 1941, non a caso ritenuto contrario ai “nuovi” principi costituzionali dalla VII disposizione transitoria che chiede al legislatore ordinario di approvare una “nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione”.
Riguardo all’aspetto strutturale il riferimento riguarda il necessario superamento della struttura gerarchica della magistratura e quindi della distinzione tra “capi degli uffici” e “magistrati in sottordine”, espresso chiaramente dall’art. 107, 4° comma, Cost. (“i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”) a favore della definizione, utilizzata dalla Corte costituzionale a proposito dei conflitti tra poteri dello Stato, di una magistratura come “potere diffuso”. Ogni magistrato, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, può ritenersi espressivo del potere giudiziario e quindi legittimato ad essere parte attiva o passiva di un conflitto tra poteri.
Sotto l’aspetto funzionale una vera rivoluzione, per la posizione istituzionale e l’attività interpretativa del giudice, è rappresentata dalla realizzazione di un sistema di giustizia costituzionale, che assegna al giudice un ruolo di fondamentale importanza, dal momento che, specie nei primi anni di funzionamento, l’accesso alla Corte costituzionale si riduce al giudizio in via incidentale.
Il funzionamento e l’efficacia del controllo di costituzionalità delle leggi passa quindi inevitabilmente dalla sensibilità dei giudici ai nuovi valori costituzionali.
Viene di conseguenza integrato il fondamentale principio di soggezione del giudice alla legge, nel senso che lo stesso vale solamente a condizione che la legge sia rispettosa dei principi costituzionali, in quanto, in caso contrario, il giudice è legittimato a non applicare la legge ed a chiedere l’intervento chiarificatore della Corte costituzionale.
La previsione di una fonte superiore, organizzata soprattutto per principi anziché per regole, determina un inevitabile ampliamento dei poteri interpretativi del giudice e di conseguenza della possibilità di incidere sulla decisione.
Per questo la necessità di garantire la sua autonomia e indipendenza soprattutto ed in particolare dal potere politico e dagli indirizzi della maggioranza governativa di turno (la c.d. indipendenza esterna), nonché da indebite influenze che possano derivare dalla stessa magistratura (la c.d. indipendenza interna).
2. Il carattere di costituzione-programma comporta di necessità che alla entrata in vigore della stessa deve seguire una fase di attuazione, in quanto al momento grandissima parte delle previsioni costituzionali, come istituti o come principi, non esistono o debbono essere realizzati.
La fase storica che segue il 1948 è stata definita, come noto, del “congelamento costituzionale” ad indicare una certa ritrosia della maggioranza “centrista” a dare attuazione ad alcune previsioni della Carta costituzionale (attraverso quello che Piero Calamandrei chiamerà l’“ostruzionismo di maggioranza”).
Ciò ha riguardato anche il Consiglio superiore della magistratura, attuato come sapete dopo dieci anni. La legge del 1958 ebbe dunque il merito di dare attuazione alle previsioni costituzionali, anche se lo fece in una maniera che potremmo definire assai prudente o timida per l’autonomia e indipendenza della magistratura.
Impossibile entrare nei particolari del testo originario della legge, ma credo che valga molto bene a dare un’idea di quanto appena detto la previsione contenuta nell’art. 11 della stessa, il quale subordinava alla richiesta del ministro della giustizia qualsiasi deliberazione del Csm nelle materie ad esso assegnate.
Questa norma è stata, dopo cinque anni dall’entrata in vigore della legge, dichiarata incostituzionale in quanto ritenuta concretizzare una “lesione della autonomia del medesimo [Csm], in contrasto perciò con i precetti della Costituzione” (sent. n. 168 del 1963).
L’importanza che il Costituente ha inteso riconoscere al Consiglio superiore della magistratura pare del resto testimoniata dal fatto che dei dieci articoli del titolo IV, sezione I, della Costituzione, ben cinque di essi fanno riferimento a tale organo (artt. 104, 105, 106, 107, 110).
Se ci chiediamo quale sia stato il ruolo che il Csm ha svolto dal 1958 ad oggi per la realizzazione dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura, credo che nessuno potrebbe disconoscere l’importanza e l’apporto decisivo derivante dall’azione del Consiglio per la realizzazione di quella che è stata ritenuta la magistratura più autonoma ed indipendente d’Europa e per il raggiungimento di certi risultati per la tutela dei diritti ed il rispetto delle regole da parte di soggetti politici, attraverso indagini un tempo assolutamente inimmaginabili.
Il Consiglio è caratterizzato, come noto, da una composizione mista, due terzi magistrati eletti da magistrati ed un terzo di “laici” eletti dal parlamento in seduta comune.
La composizione “togata” e i criteri da seguire per la elezione hanno determinato un inevitabile collegamento con l’associazionismo all’interno della magistratura e la conseguente – del tutto legittima – creazione delle c.d. correnti, espressione del pluralismo culturale ed anche del diverso modo di intendere da parte dei magistrati il ruolo della giurisdizione (ricordo a voi, giovani magistrati, l’importanza del Congresso di Gardone del 1965 e delle tesi approvate al termine del medesimo).
Conseguente il succedersi di diverse leggi elettorali fino a quella attualmente vigente, tutte espressione di una determinata volontà politica.
In estrema sintesi la legge 195/1958 si fondava su un sistema di tipo maggioritario puro a collegio uninominale ed a turno unico e poteva ritenersi espressiva di una visione riduttiva del Csm e di una concezione piramidale della magistratura; la legge 1198/1967 prevedeva invece una doppia consultazione, la prima delle quali con la funzione simile alle primarie, alla quale seguiva poi una votazione con sistema maggioritario secco in collegi uninominali; il paradossale risultato delle elezioni del 1972 nelle quali una sola corrente ottenne tutti i seggi disponibili, determinò l’approvazione di una nuova legge (la 695/1975) la quale determinò un cambiamento radicale attraverso la introduzione di un sistema proporzionale a liste concorrenti che portava alla luce il ruolo esercitato dalla Anm e dalle correnti; la successiva legge 74/1990 si pose nella logica di limitare il peso delle correnti attraverso alcune modifiche alla legge del 1975; il mancato raggiungimento della suddetta finalità condusse alla approvazione della legge 44/2002, votata in un clima di forte contrapposizione fra la magistratura ed il governo Berlusconi, la quale pure non riuscì ad ottenere lo scopo che si era prefisso. Si giunge così alla legge attualmente in vigore, certamente a tutti nota.
3. Molti e diversi tra loro i problemi emersi in questi anni di funzionamento del Csm, tali quindi da non potersi ricordare neppure per sintesi, potendo solo fare qualche esempio, del resto credo abbastanza noto.
Così il tema della natura (assoluta o relativa) della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e della sua compatibilità con la c.d. funzione paranormativa ed integrativa del Csm.
Di sicura rilevanza, stante la finalità sopra richiamata del Consiglio, le relazioni tra quest’ultimo ed il ministro della giustizia, che ha visto contrapporsi una lettura riduttiva ed un’altra estensiva delle funzioni che la Costituzione assegna al primo (“assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”) (art. 105). Al ministro della giustizia è invece riconosciuta la competenza in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (art. 110).
A fronte della sicura spettanza ai due summenzionati soggetti delle competenze specificamente indicate, il problema maggiormente discusso è stato quello di individuare la competenza dell’uno o dell’altro nelle materie rientranti in quella che è stata definita la “zona grigia”, cioè collocabili fuori da quelle esplicitamente indicate, procedendo ad attribuire quella che potremmo chiamare la “competenza residuale”.
Per questo, accanto ad una lettura estensiva e finalistica dell’art. 105 (secondo cui spetta al Csm qualsiasi iniziativa e attività tendente a garantire l’autonomia e indipendenza della magistratura), è stata presentata anche una interpretazione riduttiva, che si è espressa attraverso il riconoscimento al Consiglio delle sole funzioni ad esso espressamente assegnate, da ritenersi quindi tassative.
La Corte costituzionale, in varie occasioni, ha escluso una lettura riduttiva delle competenze dell’uno o dell’altro (specie del ministro della giustizia), sostenendo che dalle disposizioni costituzionali non deriva una netta separazione di compiti e che se l’autonomia del Csm esclude ogni intervento del potere esecutivo nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, non esclude che fra i due organi, nel rispetto delle competenze a ciascuno attribuite, possa sussistere un rapporto di collaborazione.
La Corte ha fatto applicazione di questo principio nei due casi, assai conosciuti, del conflitto di attribuzione tra il ministro della giustizia ed il Csm in ordine al “concerto” per la nomina degli uffici direttivi.
Il Giudice costituzionale, nel definire il controverso significato del termine “concerto”, ha infatti escluso le due tesi estreme – che si tratti cioè di parere necessario, ma non vincolante o di un necessario accordo tra le parti – ed ha ritenuto che il “concerto” implichi non tanto un vincolo di risultato, bensì di metodo che i due soggetti costituzionali in questione debbono seguire per giungere legittimamente al conferimento di uffici direttivi. In maniera estremamente specifica e concreta la Corte ha sostenuto che il confronto deve risultare “serio, approfondito, esauriente e costruttivo”, deve articolarsi “nello schema proposta-risposta, replica-controreplica” e le parti “non possono dar luogo ad atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati” (sentt. n. 379/1992 e n. 380/2003).
4. Stante il ruolo assolutamente centrale svolto in questi anni dal Csm, non può stupire che qualsiasi riforma relativa alla magistratura, sia stata essa prospettata a livello di revisione costituzionale oppure di legislazione ordinaria, abbia sempre in qualche misura coinvolto il Consiglio superiore.
Anche in questo caso supera certamente i limiti di questa introduzione il ripercorrere, seppure in maniera sommaria, le molte ipotesi di riforma, più o meno recenti.
Gli ultimi interventi normativi sono, almeno in parte, caratterizzati dalla volontà di superare la “degenerazione correntizia” all’interno del Csm, resasi evidente (per quanto certo già prima non sconosciuta) dal tristemente noto “caso Palamara”.
Le vicende ad esso connesse hanno portato all’attenzione generale un comportamento certamente deprecabile dei rapporti tra le correnti, con spartizione dei posti a vantaggio ora dell’una ora dell’altra e con implicazioni anche di personaggi politicamente attivi.
Certamente il caso Palamara ha prodotto un effetto molto grave per la credibilità della magistratura la quale, a differenza degli organi rappresentativi, fonda la propria legittimazione proprio sulla fiducia dei cittadini nella giustizia.
Mentre questi ultimi trovano la legittimazione del loro operato nel rapporto di rappresentanza che viene a determinarsi a seguito del voto dei cittadini e sono quindi politicamente responsabili nei loro confronti, il magistrato non è eletto e non trova quindi la propria legittimazione nella volontà popolare e non deve pertanto attenersi alla stessa, essendo al contrario subordinato solamente alla legge.
La legge, anche se non condivisa, si rispetta in quanto votata dalla maggioranza dei nostri rappresentanti, al contrario una sentenza, anche se non condivisa, la si rispetta a condizione che provenga da un soggetto autonomo, indipendente, imparziale e professionalmente preparato.
Per questo tutto ciò che va ad incidere sulla fiducia e credibilità dell’attività giurisdizionale determina un danno enorme alla giustizia, alla legittimazione dell’azione del giudice ed alla accettazione delle sue decisioni.
Il caso Palamara nella sua indubbia rilevanza deve portare a riflettere – e non sembra che sempre ciò accada – sul tema più generale dei rapporti tra l’attività ed il ruolo del Csm ed il mondo della politica, e sugli effetti derivanti di una possibile, eccessiva, “politicizzazione” del primo.
La presenza dei membri “laici” ha inteso, come noto, evitare la separatezza ed autoreferenzialità che avrebbe potuto caratterizzare un organo composto da soli magistrati, mentre il sistema elettorale dei membri “togati” ha comportato comunque una organizzazione per dare una rappresentatività – che non si pone in contrasto con la funzione di garanzia – al pluralismo presente nella magistratura.
L’aspetto più pericoloso ritengo sia rappresentato dalla vicinanza dei membri “togati” alla politica, se non addirittura alla maggioranza politica di turno. Questo infatti realizzerebbe una sorta di corto circuito per un organo la cui principale finalità è quella di garantire la indipendenza “esterna” della magistratura, vale a dire principalmente dall’indirizzo politico e dal governo in particolare.
Esperienze vicine come quella spagnola, la cui Costituzione – approvata nel 1978 – si è ispirata chiaramente alla nostra nel prevedere il Consejo general del poder judicial, mostrano come la politicizzazione dell’organo di c.d. autogoverno della magistratura determina un effetto disastroso sul ruolo del medesimo, non a caso collocato in Spagna dall’opinione pubblica e pure dagli specialisti ed addetti ai lavori tra le istituzioni di minor prestigio e considerazione fra quelle previste dalla Costituzione.
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