ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I
“Perciò eleggiamo la Sicilia a nostra diletta fra le terre e la scegliemmo a residenza della nostra dimora, perché noi, cui irradia lo splendore del titolo di Cesare, non ci teniamo meno gloriosi di chiamarci uomo d’Apulia; e ci sentiamo, per dir così, pellegrini fuori della nostra casa, quando, chiamati ovunque nel mare tempestoso dell’Impero, veleggiamo lontano dalle corti e dai porti di Sicilia… Sempre trovammo unanimi i nostri coi vostri desideri, unanime sempre il vostro col nostro volere”.
Questo disse Federico II della Sicilia. La Sicilia era stata sempre la terra agognata dagli imperatori tedeschi, il paradiso sognato da tutti i Germani. Ciò che non era stato ottenuto con le guerre, un imperatore tedesco, Enrico VI, padre di Federico, lo aveva ottenuto con un matrimonio, quello con la normanna Costanza d’Altavilla. La terra che per Goethe era “la chiave di tutto” era, con le Puglie, la terra promessa di Federico II, che, quando ebbe visto la Sicilia di là dal mare disse, con la sua inclinazione al motto blasfemo, che Jehova certo non aveva conosciuto la Sicilia, la Puglia e la Terra Laboris, sennò non avrebbe avuto parole così alte di elogio per la terra promessa degli ebrei”.
Forse nessun siciliano amò la Sicilia come la amò il grande imperatore normanno-svevo. La Sicilia, che doveva intendersi per lui, politicamente, tutta l’Italia meridionale, comprese la Puglia, la Calabria e la Basilicata, era la terra promessa, i siciliani erano il suo popolo eletto, col quale si sentiva tutt’uno. Federico amava i siciliani come un padre ama i suoi figli, lo splendore della civiltà di Sicilia irradiava luce vivissima sul tempo e sulla storia. Come il Dio di Israele si era scelto un popolo nella moltitudine dei popoli così lui, l’Imperatore del Sacro Romano Impero, il Re dei re, aveva scelto come suo popolo eletto il popolo di Sicilia. Come Napoleone diceva di avere solo un’amante, la Francia, come Hitler diceva che era sposato con la Germania, così Federico II diceva di avere solo una passione, quella che lui chiamava “la pupilla dei miei occhi”, la Sicilia, “la terra che supera ogni dolcezza terrena”, “porto nel mare tempestoso, giardino di delizie nella foresta selvaggia”, che egli cercava sempre “colmo di nostalgia”. La Sicilia. Un amore sconfinato. Soprattutto perché vi visse un’infanzia felice. Nonostante le lotte accanite fra i suoi reggenti, nonostante alcuni anni di stenti, egli visse un’infanzia meravigliosa in Sicilia. Lo nutrirono le famiglie palermitane, a turno, secondo le loro possibilità. La Sicilia lo amava. A nove anni vagava solitario per i vicoli del mercato e i giardini di Palermo, sotto il monte Pellegrino, fra genti e popoli di tutte le razze e religioni, fra califfi e sultani, fra imam mussulmani e preti cristiani, e maestri ebrei, fra moschee e sinagoghe e cattedrali normanne, tra mosaici d’oro bizantini e colonne greche, e il nome di Allah inciso in ogni angolo della capitale. Come poteva fare crociate contro l’Oriente? Fra parchi popolati di animali esotici e castelli normanni, all’ombra degli ulivi o rinfrescato da fontane zampillanti che incantavano i poeti arabi, nelle piazze e nei mercati affollati dalla più varia e bella umanità, in mezzo a una babele di lingue che imparai ben presto, visse un’infanzia meravigliosa e coltivò un sogno diverso da quello di tutti gli altri figli di re: il sogno dello Stato universale. Un’educazione di strada ma meravigliosa. Federico non fu educato da preti dotti o nel silenzio di un convento, ma dal popolo. Arabi furono i suoi primi precettori, araba fu la sua prima lingua che egli sentì e parlò arabe le prime favole che ascoltò, arabo il mondo fantastico in cui visse nella sua prima infanzia, fiabe in cui parlavano cose e animali. Per il resto, egli fu il prodotto non di un maestro o di una scuola, ma della vita che lo costrinse a vivere nella strada. Suoi maestri furono le vie, le piazze, i mercati, le chiese e le moschee di Palermo, la cultura e la conoscenza del mondo. Oh, i giardini palermitani! Che mondo fantastico, cosmopolita, eclettico, fascinoso! Nel quale incontrava intellettuali e medici arabi, filosofi, astronomi, astrologi, scienziati. Lo affascinava non la religione ma il pensiero dell’Islam. Nel suo vagabondare trovò il senso della vita. Nel suo vagabondare fortificò anche il suo corpo. Si esercitò in tutte le attività diventando esperto e abile nell’uso delle armi, nell’esercizio dell’arco e dell’equitazione, nella scherma, nel maneggio, nell’amore per i cavalli e nella passione per la caccia. Appena dodicenne, faceva tutto questo sotto la memoria della storia di Roma e col sogno di un mondo nuovo. Sì, il più grande dei siciliani, l’unico siciliano che ebbe un sogno voleva creare l’uomo nuovo, e la Sicilia era il luogo perfetto per questo progetto, luogo d’incontro di mille culture e di mille civiltà, di grandi popoli. La Sicilia era il luogo adatto per creare l’uomo nuovo. Che sogno! Un grande impero internazionale, una nuova società, l’uomo nuovo. La Sicilia perse la sua grande occasione: dopo di me, il vuoto. La Spagna, l’arretratezza, l’inquisizione. Da qui doveva partire la fondazione dell’uomo nuovo. L’uomo nuovo: prodotto di razze e di culture, altro che razzismo! Non c’è solo il razzismo, non c’è solo Hitler, tra i Tedeschi. In quel tempo, forse solo Dante comprese la sua grandezza. Tutta la Divina Commedia è percorsa dalla storia del grande imperatore normanno-svevo, Federico II, Pier della Vigna, Manfredi, Costanza d’Altavilla, la Divina Commedia è un’apoteosi della dinastia sveva. Dante mette Manfredi, il grande figlio naturale di Federico II, nel Purgatorio, dunque in grazia di Dio, è il re “biondo, bello e di gentile aspetto”. E sua madre Costanza è “la gran Costanza”, l’”imperadrice”, e suo padre Enrico VI è il “secondo vento di Soave”, e lui è “l’ultima possanza”.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza.
Dante non poteva non mettere all’inferno lo Stupor Mundi, ma aveva esaltato il grande imperatore svevo anche nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Federico II è stato il più grande dei siciliani. Anzi, il più grande dei tedeschi. Anzi: il più grande degli europei. Perché Federico II ha creato uno Stato, ma soprattutto ha creato un popolo. Ha dato orgoglio e fierezza a una terra senza nome, unità di lingua, di fede, di storia, di diritto.
II
Gli arabi definirono Palermo la più superba metropoli del mondo. Palermo era una città meravigliosa al tempo di Federico II, con palazzi sontuosi e giardini ameni e profumati. Era la città delle Mille e una notte, con le sue cinquecento moschee e i suoi trecento minareti, più bella di Cordova e di tutte le altre città dell’Islam. Tutti amavano la Sicilia. Anche gli avi normanni di Federico II – che rispettarono comunque tutti i popoli - amarono disperatamente la Sicilia, non solo gli arabi e Ibn Hamdis.
Federico dunque amò disperatamente due terre, la Sicilia e le Puglie. La Sicilia era la sua terra promessa! La terra a cui si era affidato, a cui si era abbandonato, con cui era cresciuto. Come Napoleone – lo abbiamo detto - aveva una sola amante, la Francia, così lui ebbe una sola compagna: la Sicilia. Lui che ebbe ascendenti svevi, normanni, sassoni, francesi, figli in tutta Europa, forse venti, da altrettante donne, mogli giovani e anziane, amanti, e anche il figlio suo prediletto, Manfredi, dall’amatissima Bianca Lancia, lui ebbe un solo vero amore, il suo amore più grande, la Sicilia. Federico II scrisse poesie e parole d’amore solo per lei – “oh, pupilla dei suoi occhi è il suo regno del Sud, l’amabilità della sua terra supera ogni dolcezza terrena, porto nel mare tempestoso, giardino di delizie nella foresta selvaggia, che io bramo e cerco, colmo di nostalgia, quando sono sbattuto nel mare dell’impero”.
Federico II mise ordine in una terra preda dell’anarchia e del disordine - forse fu l’unica volta nella sua storia. Nella piccola Sicilia cozzavano fra di loro tutte le forze e il fior fiore delle potenze del tempo, scorrazzavano nei campi di Puglia e di Sicilia come forze primigenie devastanti e incontrollate tedeschi e francesi, siciliani e pugliesi, genovesi e pisani, saraceni, italici, papali, perfino spagnoli. Tutti volevano profittare della ricchezza della Sicilia a spese di un re infante. Impadronirsi del re, la parola d’ordine. Agnus inter lupos, passò di mano in mano fin quando l’età e il senno non li vinse. La Sicilia era il sogno dei Germani. Federico II ebbe nella testa solo la Sicilia, non la Germania: in questo, la politica del più grande papa del Medioevo, Innocenzo III, di tenere separate le due corone di Germania e di Sicilia per molto tempo, fu anche il suo obiettivo. Dal tempo del visigoto Alarico, il regno di Sicilia era per i tedeschi una terra da favola, un paradiso da conquistare. Tutti gli imperatori tedeschi cercarono di conquistarla, soprattutto gli Staufen, fino all’ultimo Corradino. Solo il nonno di Federico II, il Barbarossa, ci riuscì, facendo sposare suo padre Enrico VI con una normanna, Costanza d’Altavilla. La Sicilia era il lontano paese delle meraviglie, la terra dei Greci e dei Romani, della poesia, dell’arte, della cultura. La Sicilia era Taormina, la terra di Dedalo, era l’Etna, il mito di Vulcano, la leggenda di Sant’Agata, era Girgenti l’araba e la greca, Siracusa, Balaarm dei giardini profumati di aranci e limoni, la terra delle palme e dei datteri. E poi Napoli e le Puglie… La Sicilia era l’Eldorado dei sultani d’Oriente. Quando il padre di Federico II, Enrico VI, prese possesso della Sicilia, giunse al castello imperiale di Trifels, in Germania, una carovana di centocinquanta muli carichi d’oro, sete, gemme e oggetti preziosi.
I tedeschi amavano la Sicilia ma la Sicilia non amava i tedeschi. Perciò Federico fece di tutto per farsi amare dai siciliani. La Sicilia amava Costanza d’Altavilla e i normanni ma non i tedeschi. Anche la madre di Federico II, Costanza d’Altavilla, figlia del normanno Ruggero II re di Sicilia, odiava i tedeschi, di cui conosceva la violenza. Alla morte di suo padre, lei voleva che Federico fosse solo il figlio di Costanza d’Altavilla, regina di Sicilia. Certo, Federico non voleva essere solo tedesco, intendeva creare una monarchia universalistica fondata non sulla volontà di dominio di una razza sulle altre, come era nelle corde di suo padre Enrico VI, ma sulla collaborazione dei popoli, sulla pace e sull’amore. Suo padre, anche se per pochi anni, ebbe in mano l’intera Europa. Tutti gli Stati d’Europa erano suoi vassalli. Dalla Danimarca alla Borgogna, alla Castiglia. L’Italia tutta era assoggettata, trampolino di lancio per la conquista dell’intero bacino del Mediterraneo e per la restaurazione dell’Impero Romano dei Cesari. Tutto l’Oriente era suo tributario, i mussulmani, tutti i sultani e principi e re pagavano tributi. Enrico VI in pochi anni aveva messo in ginocchio il mondo intero. Ma lui voleva creare un impero universalistico con una politica aggressiva e violenta, dura, di una durezza però senza prospettiva futura. Il suo era un Impero fragile, non si poteva governare sempre col terrore.
La nascita di Federico II fu anche la fortuna di Enrico VI. Il potere di Enrico VI era precario, mancava di unità. Lui ne era consapevole: troppe etnie, troppi ordinamenti nei territori dell’impero: la Germania era una monarchia elettiva, la Sicilia una monarchia ereditaria. Troppi cani sciolti tra i principi e duchi e feudatari. Concesse l’ereditarietà dei patrimoni ai Principi tedeschi e la libertà di scegliersi i successori ai Vescovi per avere un impero più forte. La nascita di Federico II fu benedetta: egli avrebbe continuato il suo progetto di collocare il Mezzogiorno d’Italia al centro del suo Impero e di fare della Sicilia un dominio personale.
Ma Federico II intendeva agire su altre basi, con altri metodi. Egli aveva sangue romano-germanico nelle vene - svevo-burgundo dal lato paterno, normanno-bassolorenese da quello materno. Questo già lo predisponeva a una universalità di spirito, in una capitale e in una terra dove si fondevano tutte le civiltà del mondo. Fece suoi lo spirito, le lingue, i riti, i costumi, l’umanità di infiniti mondi. Solo dalla Sicilia sarebbe potuto nascere un nuovo mondo.
Per questo, in seguito, storici e non solo storici considerarono Federico II il più grande degli europei. Perché diede il diritto. Dopo Giustiniano e il suo Corpus Iuris, realizzò la più grande - e unica - codificazione dell’epoca, che riscosse l’ammirazione del mondo intero. I suoi modelli furono Cesare, Augusto, Giustiniano. Unificò le leggi siciliane, poi emanò le Costituzioni di Melfi, che ebbero un’influenza enorme sulla formazione del diritto degli Stati assoluti d’Europa.
Il mondo, l’Europa, l’Italia, e al centro la Sicilia: era un sogno. Ma era un sogno che, secondo alcuni storici, si poteva realizzare. L’uomo che ha dato più lustro alla Sicilia, al Meridione d’Italia, all’Italia, all’Europa, l’uomo nuovo, il primo imperatore moderno, fu il primo che voleva unificare l’Italia. Sia sul piano legislativo che amministrativo, politico, e soprattutto sul piano linguistico, letterario, culturale. Forse era anche l’unico capace di poterlo fare, per intelligenza e energia; per genialità e intuito. L’Italia aveva tutte le risorse per diventare il più grande, il più cosmopolita Stato del mondo. Il più grande Stato del Medioevo. Il perno attorno al quale si sarebbe formata l’Europa Unita. Forse Federico era un precursore, aveva anticipato i tempi."
III
Certo, Federico era anche un uomo del Medioevo. Ma fu anche un titano, in un tempo di profondo cambiamento, dibattuto fra stato laico e integralismo cattolico, fra dogmatismo ed eresie e libero pensiero, fra superstizione e scienza nascente. Fu medievale e moderno. Medievale perché viveva nel tempo del mito dell’Impero e del potere universale che si scontrava col Papato, moderno perché aveva compreso che il futuro dell’uomo e della storia si sarebbe potuto realizzare con l’integrazione delle culture e delle razze, delle religioni e delle ideologie, attraverso l’universalità del sapere.
Un tedesco strano, straordinario. Che parlava nove lingue. Tutte meglio del tedesco. Che nella Magna Curia fondò la Scuola poetica siciliana, cui Dante riconobbe il primato nel poetare in lingua volgare e nella nascita del linguaggio poetico e letterario d’Italia. La letteratura italiana non sarebbe nata senza Federico II. Certamente, al centro del suo impero laico, al centro del mondo, era la Sicilia. Fu un’occasione persa, anche a causa dei comuni del Nord. I lombardi erano un grave ostacolo, non solo alla monarchia universale, ma anche alla nascita dell’Europa, dell’Italia, della stessa Germania.
Innocenzo IV - ma anche gli altri papi - ragionava in termini piccini. L’accerchiamento dei domini pontifici da parte dell’imperatore. I papi, secondo Federico, non capivano che i comuni lombardi erano contro la loro stessa pretesa di essere sovrani universali. Crociate contro l’Imperatore, scomuniche, non comprese nemmeno dagli stessi cristiani. Federico II combatteva contro il papa, contro i comuni, contro il suo stesso sangue, i tedeschi. Forse per questo era destinato alla sconfitta.
L’uomo che fondò la prima monarchia assoluta d’Occidente, una monarchia assoluta e illuminata, con cinquecento anni di anticipo; l’uomo che fu l’ultimo tedesco fondatore di Stati su suolo italiano: per la prima volta nella storia, tutti, l’Occidente cristiano e l’oriente musulmano, guardavano a quest’uomo come all’imperatore equilibrio del mondo. Egli fu l’ultimo grande imperatore, dopo di lui il nulla: finì l’ultimo sogno di una monarchia universale, e venne il tempo delle Nazioni e dei particolarismi, e con i particolarismi fu stroncato un sogno, il sogno di un’Europa unita, con i particolarismi, accadde quel che accade oggi, il mondo che va verso la rovina.
È evidente che un uomo come Federico II era anche odiato. Ci fu chi credette che egli fosse come il nuovo Messia, il nuovo San Pietro, il secondo Mosè, chi vide lui come il nuovo Messia, il puervirgiliano, il nuovo Augusto riformatore del mondo.
Ma ci fu anche chi pensava che fosse un convertito all’Islam. Per i suoi avversari era l’Anticristo, come si diceva allora, perché si accolse la leggenda che egli fosse nato dal rapporto peccaminoso di una smonacata di cinquant’anni con un frate, il suo cavalier servente, Fra Pacifico, prima poeta, poi coautore del Cantico di frate sole, compagno di Francesco d’Assisi. O che fosse, addirittura, figlio di un macellaio.
Lasciando perdere le fantasie e le dicerie dei guelfi, Costanza d’Altavilla diede alla luce Federico a Jesi in una tenda, pubblicamente, mostrando il suo seno ancora turgido di trentanovenne, anche se ebbe una sola gravidanza dopo nove anni.
Forse, fu anche per quelle dicerie che Federico II fu scomunicato più volte.
Ne collezionò tre, di scomuniche, il record per un imperatore. Ma Federico se ne impipava delle scomuniche, sapeva che l’Europa moderna e la collaborazione fra i popoli non potevano nascere dal particolarismo egoistico della Lega Lombarda e del Papato. Che sarebbero stati travolti da un’altra calamità, ben più perniciosa, la nascita delle grandi monarchie nazionali. Partiva anche scomunicato per le crociate, ma sapeva che il tempo delle crociate era finito. Per questo cercava accordi diplomatici coi sultani orientali e col Saladino. Egli stesso si incoronò Re di Gerusalemme, avendone diritto: del resto, non poteva combattere popoli che facevano parte del suo stesso Regno di Sicilia. Durante le sue assenze per le crociate, il papa e la Lega Lombarda, e anche i nobili tedeschi, ne approfittavano e devastavano il suo regno. Nonostante le sue concessioni e la restituzione – a questi ultimi - dei beni sottratti a monasteri e chiese.
Federico II creò un grande Stato. Con le Costituzioni di Melfi, una delle più grandi opere nella storia del diritto, con l’aiuto del suo fidato notaio Pier delle Vigne, creò lo Stato centralizzato, burocratico, moderno, con funzionari pagati dallo Stato, limitando il potere e i privilegi dei nobili e dei prelati, e migliorando la condizione sociale delle donne. Ridusse il potere dei feudatari locali, favorì la scuola medica salernitana. Con la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis, dovette concedere molto ai principi-vescovi, una forte autonomia economica e legislativa, ottenendo tuttavia un migliore controllo nella parte continentale dell’Impero. Abolì leggi feudali come l’ordalia, diviso in province l’impero per amministrare la giustizia, e fu il primo sovrano a introdurre interventi diretti statali nei processi economici.
Introdusse addirittura il monopolio del sale, creando il primo monopolio di Stato del Medioevo, affidandone direttamente la gestione alla Corona. I re normanni, invece, si erano limitati a mettere una tassa sul trasporto del sale. E in politica estera, lo ripetiamo, Federico II non guardava all’Oriente come al nemico dell’Occidente. Il Sultano d’Egitto era più vicino alla Sicilia della Germania, e la Sicilia doveva diventare centro di irradiazione della civiltà dell’Occidente e di unione tra i popoli.
Fu un grande legislatore. Fondò università, a Napoli creò la prima università statale e laica della storia dell’Occidente. Napoli divenne un grande centro intellettuale e culturale. Favorì la scienza e l’economia. L’algebra, la matematica, la filosofia, l’astrologia. La medicina. Con le Costituzioni di Melfi e l’attività legislativa, riorganizzò lo Stato, costruì città e castelli, edificò, innalzò monumenti, dimore sontuose, palazzi, abbazie. Fu un grande costruttore. Favorì il gotico nell’architettura con artisti e monaci cistercensi.
Non ci fu scienza o arte che non ricevette il suo aiuto. Fu un mecenate eclettico, immenso. Egli stesso fu poeta e scrittore, scienziato, scrisse un trattato di falconeria, De arte venandi cum avibus, L’arte della caccia con gli uccelli, che fece epoca e sensazione, nel tempo in cui la falconeria – che egli amò quasi quanto la Sicilia - non era un passatempo ma era una scienza.
Costruì a Palermo un meraviglioso zoo con splendidi animali esotici. Che cosa si vuole di più da un sovrano? Vivevano alla sua corte i più grandi uomini di cultura di tutti i tempi, matematici, filosofi, giuristi, letterati. Di tutti i popoli e di tutte le razze, greci, ebrei, arabi, normanni, svevi, francesi, catalani, castigliani. Furono tradotti i più grandi testi scientifici, culturali, filosofici, greci, arabi, ebraici.
Fu il fondatore della letteratura italiana. Creò, infatti, la più grande scuola poetica dell’epoca, la Scuola siciliana, che, ingentilendo il volgare siculo-pugliese con il più evoluto provenzale, influenzò fortemente, con la sua poetica, le tematiche cortesi e i suoi moduli espressivi, la Scuola toscana, e quindi Dante. Anch’egli avrebbe potuto avere un futuro di poeta – scrisse sonetti e canzoni – se non ne avesse avuto un altro, da imperatore. I suoi funzionari erano intellettuali di prim’ordine, a tutto tondo. Che ebbero, come lui, una sterminata sete di conoscenza.
IV
Federico II si muoveva come un sovrano universale, con al seguito baroni, soldati, dignitari, voleva apparire come una figura maestosa, imperiale. Ostentava potere e bellezza, voleva abbagliare, più di un papa, fra i contadini nei borghi meridionali in un tempo in cui l’uomo era nulla. Aveva con sé al seguito letterati, notai, ministri, burocrati, scrivani, filosofi, matematici, musici, ma anche ballerine di straordinaria bellezza, odalische, eunuchi, saltimbanchi, poeti, anche animali esotici, cammelli, cani da caccia, animali feroci, anche uomini in cerca di fortuna, perché no?, e avventurieri, guerrieri saraceni. Tutti, vedendolo, lo ammiravano, restavano a bocca aperta, i papi, gli altri re, rimanevano stupefatti da tanto splendore, intimoriti, sconcertati. Girava per le strade d’Europa con una corte sontuosa, era uno spettacolo inenarrabile che destava stupore, sfilava un lunghissimo corteo di cavalli saraceni purosangue, e al centro del corteo c’era lui, il divino, l’uomo eccezionale, l’uomo nuovo. In una carrozza, col suo eccezionale portamento, o in sella al suo splendido cavallo moro preferito, Dragone, vestito da cacciatore.
Federico VII Hohenstaufen di Svevia, Federico I di Sicilia, Federico II Imperatore del Sacro Romano Impero, re di Borgogna, re di Gerusalemme, re d'Italia e re di Germania, e soprattutto Re di Sicilia, duca di Puglia, principe di Capua, Stupor mundi, puer Apuliae; nipote di Federico I Barbarossa di Svevia, figlio di Enrico VI imperatore e di Costanza d’Altavilla regina di Sicilia, figlia di Ruggero II il Normanno: visse un curioso tempo di morte.
Fatale gli fu un avvelenamento di un traditore, i traditori si annidano dappertutto. Si avverò la profezia dell’astrologo di corte che sarebbe morto sub flore, ed egli, che evitò sempre Firenze, morì nella domus di Fiorentino di Puglia. Morì assolto dai suoi peccati e avvolto nel saio grigio dei Cistercensi. Per sua volontà le sue esequie dovevano avvenire senza pompa, ma Manfredi non fece mancare onori e gloria alle sue spoglie. Lasciò il cuore in Puglia e l’anima in Sicilia. La sua salma fu tumulata in Palermo da lui amata più di ogni cosa, nel sarcofago di porfido rosso dei suoi avi, accanto alla sua gloriosa ascendenza. Le genti videro in lui il Pantocratore, meraviglia del mondo. L’invitto, il sommo dei principi dell’orbe. L’ultimo imperatore dei Romani, che salì alle stelle e fu deificato. Il Signore della fine, l’uomo apparso alla fine del tempo nello splendore del fuoco. Videro in lui la forza attesa in eterno, il Messia, il sovrano del regno apollineo del sole vaticinato dalle Sibille. Tramontato è il sole del mondo che splende sopra le genti, disse suo figlio Manfredi; tramontato il sole della giustizia, colui che dava la pace. Con lui si chiuse un’epoca, l’Impero romano. Il Papa lo diceva sempre che l’Impero era finito e l’imperatore morto. Ignorava, però, di essere morto anche lui. Molti non credettero alla sua morte, lo vedevano nel cielo o in mare, a capo di migliaia di armati.
I tedeschi non lo amarono. I tedeschi videro in lui solo la dissoluzione nel nulla dell’Impero, l’immagine terribile dell’Anticristo sopra le nuvole, il fustigatore della Chiesa corrotta. I tedeschi gli attribuirono saggezza, maestà, nobiltà, splendore, ma, in realtà, non lo amarono. Sarebbe tornato per loro come restauratore dell’Impero romano della nazione germanica. Ma, in realtà, il popolo tedesco non lo comprese, né seppe realizzare le sue aspirazioni. Ora le sue ossa giacciono in un sepolcro di porfido rosso scuro, secondo la tradizione dei re normanno-svevi, accanto a sua madre Costanza d’Altavilla, a suo padre Enrico VI e a suo nonno Ruggero II. Insieme con la sua prima moglie Costanza II d’Aragona, con duchi, regine, re e imperatori. Hanno aperto la sua tomba due volte, per scoprire solo il mistero di una donna sconosciuta accanto a lui. Una delle sue quattro mogli accompagna la sua eternità. Non occorre cercare ancora misteri nella sua tomba.
Federico II aveva statura media, equilibrata, volto gentile, nobile. Era biondo, bello e ben fatto, con fronte serena e occhi brillanti, viso espressivo, animo ardente e ingegno pronto. Aveva portamento regale, maestoso, liberale, era amabile, pieno di grazia e di nobili aspirazioni. Federico II leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Solamente questo potrebbero trovare dentro lo spesso marmo di porfido rosso del suo sarcofago.
Dissero pure che era sanguigno, insofferente, talvolta collerico, con atteggiamenti a volte triviali, retaggio dei rozzi contatti e delle non raffinate amicizie dell’infanzia palermitana. Dissero tante altre cose. Che fu l’Anticristo, l’Apocalisse. No. Federico Ruggero Costantino II fu lo Stupor Mundi, il più grande sovrano illuminato, che dedicò la sua vita all’unificazione dei popoli e delle culture, attraverso la promozione dell’arte e delle lettere, nella terra che amò più di ogni altra cosa, la Sicilia. Egli fu il rinascimentale. Il moderno. Egli fu l’uomo nuovo, l’uomo totale. L’uomo che ebbe un sogno. Eppure dissero che non volle dare una patria al popolo tedesco. Che non volle fondare uno Stato tedesco. Come forse ancora credono le algide orde di turisti tedeschi che ogni giorno passano indifferenti davanti alla sua tomba, guardano distratti, e in silenzio se ne vanno.
Non è la prima volta che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, di cui sono titolare, sceglie di approfondire il tema della giustizia riparativa. Lo fa sulla scorta di un mandato legislativo specifico: l’art. 3, co. 1, lett. o) della legge 112 del 2011, istitutiva di questa Autorità, chiede di «diffondere la cultura della mediazione e degli altri istituti atti a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età». Il primo lavoro, che pure ha trovato uno spazio di presentazione su questa rivista, era dedicato agli aspetti procedurali, alle questioni riguardanti l’innesto nel sistema penale minorile.
Questa nuova indagine, che ci ha visto impegnati con il Ministero della giustizia e l’Istituto degli innocenti negli ultimi due anni, tenta di rispondere a domande diverse: a cosa serve la giustizia riparativa? Qual è il suo senso e significato? E in che cosa si sostanzia, in concreto? Ancora, chi sono oggi i soggetti che erogano in Italia servizi in questo campo?
Si tratta di quesiti che assumono una particolare rilevanza alla luce della recentissima riforma introdotta dalla già ministra Marta Cartabia, che con il D. Lgs. 150 del 2022 ha reso la giustizia riparativa un paradigma con il quale tutti gli operatori del diritto, e non, sono chiamati ora a confrontarsi.
L’Indagine nazionale, di natura qualitativa, è composta in tre parti: la prima raccoglie, con un andamento narrativo e corale, le testimonianze di ragazze e ragazzi autori e vittime di reato, di genitori e di operatori della giustizia minorile che raccontano sulla base della propria esperienza cosa ha portato nella loro vita la partecipazione a un programma di giustizia riparativa.
La seconda parte si incentra sulla rilevazione, sempre tramite gli strumenti propri della ricerca qualitativa, quali focus group e interviste, dei programmi di giustizia riparativa in uso oggi in Italia, con particolare attenzione a quelli diversi dalla mediazione penale.
Infine, la terza parte dell’indagine offre una panoramica sulla natura e le caratteristiche degli enti – pubblici e del privato sociale – che offrono servizi di giustizia riparativa sul suolo nazionale.
La pubblicazione – disponibile anche in versione digitale per favorirne una massima diffusione – ospita anche in appendice normativa la nuova disciplina organica della giustizia riparativa.
Accanto all’Indagine, sulla scorta delle testimonianze raccolte in particolare dalle ragazze e dai ragazzi, è stato altresì costruito il video: “Giustizia riparativa. Voci di un incontro”. La giustizia riparativa, infatti, la si può comprendere, prendere con sé, non tanto attraverso discorsi e presentazioni astratte, ma piuttosto attraverso le parole vive di chi l’ha attraversata. Per ragioni di privacy, le voci e le immagini del video non corrispondono a quelle dei reali testimoni, ma ogni frammento, ogni racconto costituisce un prezioso lascito delle persone che generosamente hanno condiviso la propria esperienza.
L’augurio è che entrambi tali lavori facilitino, nelle istituzioni così come nella cittadinanza in genere, quel cambio di passo culturale che la riforma Cartabia ha anticipato sul piano normativo. Ma, soprattutto, che la giustizia – anche con il contributo della giustizia riparativa – possa sempre più assolvere alla sua più alta missione di ricostruzione di legami sociali infranti e di cura della comunità.
Qui il link all’Indagine: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2023-10/giustizia-riparativa-indagine-2023.pdf.
Video prodotto nell’ambito dell’indagine, con le testimonianze di ragazze e ragazzi:
Sono particolarmente grato agli organizzatori del Convegno per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo importante dibattito[1] nel quale viene data voce ai componenti del Consiglio nelle diverse consiliature.
Spesso ho sentito dire – ed a mia volta ho avvalorato tale tesi – che ciascun Consiglio fa storia a sé.
Questa espressione sintetizza un dato di fatto inconfutabile, nel senso che ciascuna consiliatura, già solo per gli eventi che deve affrontare, ed in disparte la variabilità della sua composizione, agisce secondo dinamiche proprie.
Un’altra espressione ricorrente sintetizza un convincimento diffuso: i protagonisti di una stagione ritengono di avere vissuto momenti epocali ed irripetibili.
Anche questo è vero, almeno in parte: considerato il ruolo dell’ordine giudiziario, le funzioni di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza di esso attribuite al CSM, le molteplici scelte che l’organo di governo autonomo compie quotidianamente, è innegabile che ciascuna consiliatura incida profondamente sugli equilibri della magistratura e, spesso, anche sui rapporti tra questa e gli altri poteri dello Stato[2].
Nondimeno credo che la consiliatura 2006-2010, della quale ho fatto parte, davvero abbia vissuto un momento storico di particolarissimo rilievo.
È stato, quello, il Consiglio investito dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, introdotta dalla l.d. n. 150 del 2005 ed attuata con il d.lgs. n. 160 del 2006, a sua volta profondamente modificato dalla l. n. 111 del 2007.
Con la riforma vennero, ad esempio, introdotte le valutazioni di professionalità e con esse modificato il precedente sistema di progressione in carriera.
La legge n. 111 è del 30 luglio 2007 ed a me era stata attribuita la presidenza della Quarta commissione, competente in materia, proprio in quel periodo.
Ho il vivo ricordo di una estate trascorsa ad esaminare la normativa primaria e ad immaginare quella secondaria da introdurre. Quest’ultima doveva, in ossequio alle prescrizioni di legge, essere adottata entro 90 giorni. Non adempiere avrebbe significato paralizzare la progressione in carriera – e quella economica – dei magistrati; occorreva al contempo “creare” una disciplina per l’inquadramento nelle nuove classi valutative dei magistrati che avevano conseguito i precedenti “gradi” (magistrato di tribunale, di appello e così via); infine, occorreva introdurre una disciplina transitoria non potendo procedersi contestualmente alla valutazione di migliaia di magistrati[3].
Sempre in quegli anni intervenne la legge con cui si impediva ai magistrati di prima nomina di essere destinati alle funzioni requirenti, con conseguente collasso degli organici degli uffici del pubblico ministero e torsione dell’intero sistema. Pochi cenni per illustrare la questione.
È noto che, stante il principio dell’inamovibilità dei magistrati, l’unico trasferimento di ufficio possibile (salvo i casi di patologia: incompatibilità parentale o funzionale, irrogazione di gravi sanzioni disciplinari; altre rare e peculiari ipotesi di ricollocamento in ruolo) è l’assegnazione della sede ai magistrati al termine del tirocinio.
Precluso l’unico serbatoio di ingresso per così dire coattivo e non essendo possibile impedire i trasferimenti in uscita, su domanda, vi furono casi nei quali in alcuni uffici di piccole dimensioni rimase un solo magistrato (ricordo per tutti Gela)[4].
Ciò posto, le novità che cambiarono più radicalmente l’assetto ordinamentale della magistratura furono quelle in tema di incarichi direttivi e semidirettivi.
Il nuovo ordinamento giudiziario introdusse due fondamentali novità: 1) la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi; 2) i criteri per il conferimento dei medesimi.
A quest’ultimo riguardo, il legislatore, in sintesi, previde, da un lato, un assoluto ridimensionamento del parametro dell’anzianità, trasformato da criterio di selezione avente carattere prioritario (e nella prassi spesso di per sé decisivo) a mero requisito di legittimazione alla partecipazione al concorso, dall’altro, la contestuale valorizzazione, quanto alla scelta selettiva, dei parametri delle attitudini e del merito.
Si trattava di riforme condivisibili, la prima delle quali, la temporaneità, del resto, invocata dalla magistratura da lungo tempo.
Difatti, già nel 2002, il Consiglio aveva adottato un parere sulla riforma, nel quale tra l’altro si rimarcava come “la temporaneità degli incarichi direttivi è antica rivendicazione della magistratura, già presente nel progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario elaborato dall’Associazione nazionale magistrati nel lontano 1958. In particolare, nella temporaneità dei compiti di direzione di uffici giudiziari è stato individuato lo strumento per contrastare il formarsi di centri di potere, per riaffermare concretamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, per consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e la piena utilizzazione di nuove energie. In sintesi: l’ufficio direttivo come “incarico” e non più come “status” o come posizione gerarchica stabilmente acquisita e resa potenzialmente immutabile dal riconoscimento al magistrato che è a capo di un ufficio della prerogativa dell’inamovibilità posta a garanzia del magistrato che esercita attività giudiziaria”.
Anche se con minore perentorietà, pure la seconda era auspicata ed invocata da molti settori della magistratura associata.
L’analisi della storia della mia consiliatura passa anche per la verifica della ricaduta di tale riforma.
Ebbene, la legge di riferimento[5] classificava gli uffici direttivi e semidirettivi, definiva gli indicatori dell’attitudine direttiva distinguendo i criteri attitudinali specifici in ragione delle diverse funzioni da conferire; infine, disciplinava i tramutamenti di funzione da giudicante a requirente e viceversa.
Si trattava di una normativa prima facie dettagliata e stringente, in grado quindi di contenere la discrezionalità dell’organo di governo autonomo, secondo l’evidente intenzione del legislatore: necessariamente, essa, tuttavia, affidava al Consiglio superiore della magistratura la specificazione di alcuni aspetti di assoluto rilievo, quali, ad esempio, gli indicatori per l’attitudine direttiva, peraltro da individuarsi d’intesa col Ministro della giustizia.
Il Consiglio, quindi, dovette in primo luogo, anche al riguardo, provvedere ad emanare una propria normativa secondaria. Si procedette per gradi: dapprima adattando le circolari consiliari previgenti ai princìpi dettati dalla riforma, successivamente smantellando il vecchio impianto e introducendo una normativa nuova e radicalmente diversa dalla precedente. Cito in proposito: una prima delibera del 21 novembre 2007, la risoluzione del 10 aprile 2008 in tema di individuazione degli indicatori di cui all’art. 11, comma 3, lett. D), d.lgs. n. 160 del 2006 (deliberazione assunta d’intesa con il Ministro della giustizia), poi la deliberazione del 30 aprile 2008 sul conferimento degli incarichi semidirettivi, settore fino a quel momento non modificato; ancora, la delibera del 24 luglio 2008 in tema di conferma per gli incarichi direttivi e semidirettivi, che costituiva l’altro aspetto di novità della riforma; la delibera del 4 febbraio 2010, con la quale veniva eliminato il sistema dei punteggi per il conferimento degli incarichi semidirettivi; infine, la delibera del 30 luglio 2010, di emanazione di un testo unico sulla dirigenza giudiziaria, significativamente adottata allo scadere della consiliatura della quale ho fatto parte, quale suggello conclusivo al percorso riformatore.
Quale l’effetto complessivo delle risoluzioni generali adottate e della concreta declinazione delle nuove regole nelle singole delibere di attribuzione di specifici incarichi? Indiscutibilmente, il radicale ridimensionamento del criterio dell’anzianità e la valorizzazione assoluta di quelli delle attitudini e del merito.
Quale fu la reazione della magistratura in un primo tempo? Direi la sofferta accettazione di questa vera e propria rivoluzione.
Ricordo, nella diversità delle reazioni individuali, una costante: quando un magistrato, risultato soccombente nella procedura comparativa, apprendeva della nomina di un collega più anziano nel ruolo, accettava la decisione come equa; quando, al contrario, un soccombente si vedeva “scavalcato” (questo il termine sovente utilizzato) da un prescelto più giovane, immediatamente si chiedeva in cosa avesse, a giudizio del Consiglio, demeritato.
Era questo un portato della sopravvivenza culturale del parametro dell’anzianità senza demerito, per decenni adottato dal Consiglio superiore della magistratura e scomparso con la riforma.
Tali reazioni, di sostanziale accettazione dell’operato del Consiglio, ben presto mutarono.
Questo per una ragione molto semplice: la temporaneità determinò un aumento delle procedure per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, anche per effetto dell’assenza di previsioni transitorie che interrompessero con gradualità gli incarichi ultraottennali in essere.
Tutto ciò si tradusse nel fatto che dal settembre 2007 al luglio 2009 vennero conferiti oltre 670 incarichi, numero grossomodo equivalente a quello degli interi conferimenti della consiliatura precedente (2002-2006).
Dal settembre 2009 al luglio 2010, furono conferiti altri 320 incarichi, per un totale di quasi mille incarichi attribuiti secondo le nuove regole.
Un numero così elevato di conferimenti comportò, fisiologicamente, l’impossibilità di utilizzare parametri valutativi sempre ineccepibili o, comunque, sempre percepibili dalla comunità dei magistrati come immutabili nella concreta applicazione. Tanto più, occorre dirlo, che, se errori nelle scelte concrete vi sono stati, essi vanno ascritti all’intero circuito del governo autonomo, sia centrale, sia periferico[6].
Il parametro dell’anzianità, che pure spesso aveva dato cattiva prova di sé (rivelandosi la scelta concreta operata, alla luce dei fatti, non la migliore; e davvero non vi è bisogno di citare i casi più evocativi, a tutti noti), aveva nondimeno il pregio di fondarsi su un dato certo (il famoso ruolo di anzianità in magistratura). I criteri delle attitudini e del merito, destinati a sostituirlo, invece, oltre ad essere in sé per qualche verso opinabili e comunque non immediatamente incontrovertibili come il primo, necessitavano di essere concretamente declinati in modo serio e rigoroso, ancorandoli a precisi dati fattuali.
A tanto non erano pronti, forse ancor più dell’organo di governo autonomo centrale, gli organi periferici, da decenni “abituati” alla redazione di pareri tanto generalmente elogiativi, quanto spesso disancorati da un’armonica e complessiva valutazione delle concrete esperienze lavorative. Ciò comportò che specie la nostra consiliatura si trovò a compiere scelte, in taluni specifici concorsi, tra candidati tutti valutati come eccezionali, al medesimo livello.
Di qui il risultato: in una comunità di diecimila persone, si provvide a nominare mille Capi con criteri che apparvero altamente discrezionali.
Il tempo concesso non mi consente di meglio esplicitare, dunque mi limito a descrivere la generale linea di tendenza.
Di fronte a questo fenomeno, percependo i primi scricchiolii del sistema, in punto di credibilità dell’organo destinato a tutelare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura, ho pensato e detto (in quegli anni e, invero, anche successivamente) che avremmo dovuto adottare un criterio di discrezionalità “variabile”: per gli incarichi direttivi più è grande, importante e peculiare (in ragione, per esempio, della sua collocazione in un territorio affetto da pervasive forme di criminalità mafiosa) un ufficio, maggiore è la discrezionalità esercitabile alla stregua dei parametri delle attitudini e del merito; per gli incarichi semidirettivi, più è di modeste dimensioni un ufficio, minore deve essere il ricorso alla discrezionalità, al limite anche ricorrendo al parametro (ormai residuale) dell’anzianità.
Tutto ciò per una evidente ragione, che esplicito esemplificando e riferendomi alla mia esperienza dell’epoca, nella quale, come consigliere, avevo modo di ascoltare l’opinione di tanti colleghi: quando si trattava di scegliere il dirigente di una importante Procura distrettuale, era generalmente condiviso il fatto che il prescelto potesse-dovesse vantare una proficua esperienza in materia di criminalità organizzata, per ciò prevalendo sul candidato che tale esperienza avesse in grado minore, benché più anziano; quando, invece, si trattava di nominare un presidente di sezione che, di fatto, in ragione delle ridotte dimensioni dell’ufficio, fungeva sostanzialmente da presidente di un collegio, con limitati compiti organizzativi, ben più arduo era far comprendere ai colleghi come su una maggiore anzianità, spesso considerevole, avessero prevalso le doti organizzative, ritenute più spiccate, di un magistrato con minore anzianità.
E ancora una volta semplificando e scusandomi per il doverlo fare, se in un concorso x viene prescelto il decimo in ordine di ruolo, anche il (potenziale) decimo in un altro concorso nutre legittime aspirazioni e, dunque, prima di tutto, propone domanda o più domande per posti diversi.
Per questo, nella mia consiliatura, ci trovammo non solo a coprire mille posti ma, inoltre, a scrutinare centinaia di domande.
Sono queste le basi, a mio avviso, di un fenomeno iniziato da quella riforma e culminato, poco più di un decennio dopo, nella situazione descritta da un altro degli odierni relatori, il consigliere Cascini, in un drammatico plenum presieduto dal Capo dello Stato il 21 giugno 2019, nel quale tra l’altro fu convalidata l’elezione dei subentranti Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Disse Cascini: “nel 2006 è stata approvata una riforma dell’ordinamento giudiziario con la quale è stato eliminato il peso dell’anzianità nella scelta dei dirigenti, che ha implicato una pericolosa trasformazione del rapporto dei magistrati con la carriera … tale mutamento si è andato a saldare con la trasformazione dei metodi di raccolta del consenso accentuandone gli aspetti deteriori di cura degli interessi particolari”.
Molte altre concause vi sono, ovviamente, ma credo che quella descritta sia la causa prima della cd. degenerazione del correntismo.
Ne è derivata una generale perdita di credibilità - e di consenso, circa le concrete modalità del suo agire - dell’Istituzione.
Se, quando viene nominato un magistrato ad un incarico direttivo, tutti gli altri concorrenti dubitano della maggiore idoneità del prescelto e, al contempo, ascrivono al correntismo il torto che assumono subito, la credibilità dell’organo di governo autonomo è minata alle fondamenta.
Né la stessa può esser recuperata dai consiglieri pervenendo a scelte unanimemente condivise all’interno del Consiglio, poiché, come è stato da altri sottolineato, se tutte le componenti associative sono concordi su una opzione si potrà sostenere che l’accordo è frutto del deteriore correntismo; al contrario, se tale condivisione non si realizza, il risultato viene ascritto alle divisioni tra i gruppi, vissute a loro volta come contingenti scontri e spaccature tra componenti interessate soltanto a prevalere.
Quali rimedi?
Una riforma della composizione del Consiglio (pure da taluni invocata) che, ferma restando la necessaria maggioranza di togati, consenta di contenere il peso delle spinte deteriori del correntismo e, al contempo, salvaguardi le necessarie diversità culturali, è destinata, in definitiva, a risolversi in una ennesima riforma della legge elettorale e si è potuto constatare, ripetutamente, come nessun positivo esito abbiano dato le precedenti.
Deve, dunque, agirsi soprattutto sui criteri di attribuzione degli incarichi direttivi, che costituiscono il vero punto controverso dell’agire del Consiglio superiore della magistratura; quello, in altri termini, sottoposto a più aspre e generalizzate critiche.
Nell’impossibilità di esaminare in questa sede tutti i possibili rimedi, inclusi quelli strutturali, mi limito ad enunciare quello di più immediata applicazione: bisogna agire sui criteri e gli indicatori delle attitudini direttive.
Il discorso in questione mi consente di chiarire un possibile equivoco: l’avere sottolineato i mali derivati dalla riforma con la quale è stato ridimensionato il peso dell’anzianità non significa che io invochi un ritorno al passato.
Come è stato giustamente, da tempo e da più parti, evidenziato, in passato il profilo del buon dirigente era identificabile in quello del magistrato indipendente e capace professionalmente, con ciò riferendosi essenzialmente alla sua qualità di “bravo giurista”, estensore di impeccabili provvedimenti.
Quel modello, tuttavia, si era imposto in un’epoca connotata da modalità di lavoro meno complesse delle attuali, da una domanda di giustizia estremamente meno diffusa di quella odierna, con la conseguenza che era al tempo valida, mentre oggi non lo è più, almeno non sempre, l’equazione tra “buon magistrato” e “buon dirigente”, con conseguente necessario prevalere della maggiore esperienza professionale.
L’epoca attuale, invece, fa registrare una mutazione delle forme e delle modalità di gestione degli uffici giudiziari, i quali, anche in ragione delle loro accresciute dimensioni (conseguenti a varie riforme) risultano essere strutture complesse, necessitanti anche del ricorso a risorse tecnologiche evolute.
L’ottimizzazione e la gestione delle risorse, spesso insufficienti, impongono al dirigente il possesso di doti organizzative elevate, tali da consentire di rendere un effettivo servizio ai cittadini.
Occorre, dunque, che il Consiglio, individuato il modello di magistrato dirigente, si doti di regole chiare e funzionali allo scopo, e che esse siano applicate immancabilmente.
Naturalmente, ribadisco che è mia convinzione che tali regole possano esser diversamente declinate per i semidirettivi, avuto riguardo alla minore decisività delle doti manageriali richieste a questi ultimi[7].
Occorre, anche e soprattutto, che il circuito del governo autonomo decentrato, compia uno sforzo analogo in tema di individuazione, nei casi concreti, delle capacità che imprescindibilmente deve possedere un buon dirigente[8].
Occorre, infine, che gli amministrati, cioè tutti i magistrati, accettino l’idea che l’amministrazione della giurisdizione, come ogni attività amministrativa, è caratterizzata da un ineliminabile (per quante regole si possano dettare) margine di discrezionalità tecnica.
È comprensibile che taluni, nel complesso quadro descritto, possano ritenere che l’istituzione non ha sinora dato buona prova di sé e che tale circostanza non consente di nutrire speranza in un positivo cambiamento.
Sennonché, fermo restando che l’amministrazione della giustizia, chiunque la eserciti, non si sottrae ad un margine di necessaria discrezionalità, invocherei, a difesa del Consiglio, il concetto evocato da Winston Churchill a sostegno delle forme democratiche di governo: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Ecco, coloro che, non senza qualche ragione, sottolineano difetti e limiti del Consiglio, dovrebbero por mente, come tutti noi, alle passate forme di governo della magistratura, quando i direttivi venivano nominati dal Ministro di grazia e giustizia e, in concreto, individuati da funzionari governativi.
(Intervento di Alfredo Pompeo Viola nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra).
[1] Il testo che segue è la versione estesa dell’intervento orale. Il compendio di note contiene una esplicazione delle riflessioni svolte nella sede convegnistica, che avrebbe appesantito l’esposizione.
[2] Il Consiglio, difatti, in ogni sua delibera, attua scelte di governo della magistratura, che per loro natura implicano valutazioni che determinano gli assetti dell’ordine giudiziario. Non è questa la sede per discutere funditus se ti tratti di valutazioni tecnico - discrezionali di natura meramente amministrativa, sia pure “alta” o se esse abbiano contenuto politico, ovviamente inteso il termine in senso lato. E’ tuttavia opportuno chiarire, a mero titolo esemplificativo, e senza fare ricorso al facile richiamo ai pareri sui provvedimenti normativi (potere pure previsto dalla legge n. 195 del 1958), che le decisioni in ordine alla c.d. mobilità orizzontale, nel caso in cui l’organico effettivo sia inferiore alla dotazione organica prevista dalla legge, hanno comunque un impatto considerevole sull’assetto degli uffici giudiziari: in questo senso, sono scelte di “politica della magistratura” quelle connesse al numero dei posti da bandire, agli uffici presso i quali bandirli, alle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio, all’impostazione generale nei confronti dei collocamenti fuori ruolo. Tali scelte, a loro volta, influenzano i rapporti con gli altri poteri dello Stato in maniera fisiologica; ancora, a mero titolo esemplificativo, ove il Consiglio, nell’adottare le indicate scelte, rilevi situazioni che rendano necessario un intervento legislativo, ai sensi della citata legge n. 195 del 1958, ha il potere di intervenire con risoluzioni e proposte al Ministro della giustizia.
[3] Quello appena indicato è uno degli ulteriori classici e fisiologici esempi di attività “politica”, sia pure non in senso stretto, del Consiglio, chiamato dal legislatore ad adottare la normativa di rango secondario in una determinata materia. Con riguardo alle valutazioni di professionalità, lo sforzo del Consiglio è stato notevole, non tanto e non solo con riguardo al rigoroso rispetto dei tempi imposti dalla legge, ma soprattutto con riguardo all’obiettivo di dare vita a un corpus normativo solido e coerente, che ha resistito nel tempo. Le frequenti critiche che ad esso vengono rivolte non attengono all’astratta disciplina, ma alle modalità con le quali le disposizioni vengono applicate alle singole pratiche; modalità applicative che, peraltro, connotano in maniera peculiare ciascuna consiliatura, definendone il complessivo orientamento.
[4] A tal proposito, la consiliatura della quale mi onoro di aver fatto parte adottò una precisa e ferma linea, impegnandosi con tutti gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento per evitare la c.d. “desertificazione” delle Procure e nel contempo mitigare gli effetti sul principio di inamovibilità derivanti dalla prima legge sui trasferimenti d’ufficio a sede disagiata, tanto vero che la suindicata previsione divenne oggetto di successive modifiche normative volte a consentire l’assegnazione dei MOT anche agli uffici requirenti.
[5] Il d.lgs. 160 del 2006, come modificato dalla l. 111 del 2007.
[6] Rectius: durante quella eccezionale stagione, da un lato il numero elevatissimo di pratiche trattate e dall’altro l’assoluta novità della disciplina applicata ha portato alla percezione di una non uniforme e coerente applicazione delle regole. In realtà, il Consiglio in ogni sua delibera ha fatto applicazione delle regole date, ma il margine di necessaria discrezionalità tecnica, il fisiologico annullamento di talune delibere ad opera del giudice amministrativo (numero comunque percentualmente scarso rispetto alla mole di delibere adottate e impugnate), l’altrettanto fisiologico margine di errore hanno portato alla convinzione della opinabilità delle scelte adottate dal Consiglio, opinabilità accentuata dalla resistenza al cambiamento rispetto alla tranquillizzante soluzione dell’anzianità senza demerito e dalla evoluzione che il sistema delle nomine e delle carriere ha avuto nel tempo (come si spiegherà più oltre).
[7] È pertanto necessario individuare con chiarezza il profilo professionale necessario all’esercizio da un lato delle funzioni direttive e dall’altro delle funzioni semidirettive, nel bilanciamento delle attitudini organizzative e delle capacità più strettamente giuridico professionali, laddove le prime devono essere particolarmente accentuate nel caso della direzione di uffici di grandi dimensioni, mentre le seconde dovrebbero – come già accennato – prevalere nelle funzioni semidirettive, dove maggiormente necessaria appare la propensione al coordinamento delle attività, anche e soprattutto con riguardo alla coerenza degli orientamenti giurisprudenziali.
[8] In senso più ampio, è assolutamente necessario che i pareri resi dagli organi di governo autonomo decentrato garantiscano degli strumenti realmente efficaci a descrivere la figura professionale dei magistrati che aspirano a un determinato incarico, uscendo dalla logica della standardizzazione dei pareri, in maniera tale da mettere il Consiglio nelle condizioni di esercitare la propria discrezionalità tecnica in maniera consapevole e, soprattutto, efficace per gli uffici. Solo in questo modo sarà possibile superare la visione del Consiglio come “nominificio” e allo stesso tempo evitare di confinare tale organo nei ristretti margini di una tecnicalità puramente amministrativa che ne snaturerebbe la natura di organo di rilievo costituzionale.
Sommario: 1. Le coordinate della quaestio iuris - 2. Il conflitto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione - 3. La parola alle Sezioni Unite?
1. Le coordinate della quaestio iuris
Punto di partenza di queste concise riflessioni è il dato normativo: l’art. 442, co. 2°, c.p.p. prevede che «In caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto».
Detta differenza nel regime premiale connesso all’accesso al giudizio abbreviato fu introdotta dall’art. 1, co. 44°, della L. 23 giugno 2017, n. 103, che mirava a renderlo più appetibile di quanto non fosse stato sino ad allora con la riduzione omogenea di un terzo per tutte le tipologie di reato, nella prospettiva di alleggerire il carico di lavoro della macchina giudiziaria anche in funzione di prevenzione generale, dato che quest’ultima beneficia, com’è ovvio, della rapida definizione dei processi[1].
La giurisprudenza di legittimità ha da subito valorizzato gli effetti sostanziali della disposizione, di natura indubbiamente processuale, riconoscendone la retroattività ai sensi dell’art. 2, co. 4°, c.p., con il solo limite dell’irrevocabilità della condanna[2].
Per completare l’inquadramento normativo, va ricordato che, nella medesima ottica di favorire l’accesso al giudizio abbreviato, di recente l’art. 674 c.p.p. è stato interpolato dall’art. 24, lett. c), del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha inserito nell’art. 442 c.p.p. il co. 2°-bis, a mente del quale «quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione». Correlativamente, peraltro, l’art. 39, co. 1°, lett. b) del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha modificato l’art. 676, co. 1°, c.p.p. per stabilire che la diminuente esecutiva[3] si applica de plano ai sensi dell’art. 667, co. 4°, c.p.p., salva l’eventuale opposizione davanti allo stesso giudice, che allora procede nelle forme dell’art. 127 c.p.p.[4].
Quanto, poi, al formante giurisprudenziale, occorre sinteticamente evidenziare che le Sezioni Unite Penali hanno avuto modo di precisare che:
a) la riduzione derivante dal rito abbreviato opera rispetto alla pena quantificata in concreto, all’esito del giudizio di prevalenza o di equivalenza tra le eventuali circostanze aggravanti e attenuanti (testualmente, «tenendo conto di tutte le circostanze») e al lume dei parametri indicati dall’art. 133 c.p., nonché dopo gli aumenti operati per la continuazione ai sensi dell’art. 81, co. 2°, c.p., come si evince dall’implicito richiamo operato dall'art. 442, co. 2°, c.p.p. all’art. 533, co. 2°, c.p.p.[5]
Al riguardo va, in particolare rimarcato che l’ordine che il giudice deve seguire nelle operazioni di calcolo della pena, nel quale la diminuente del rito è successiva a tutte le altre, è funzionale ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti per continuazione al fine di determinare una pena complessiva[6];
b) in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve quindi calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, tenuto conto del tenore dell’art. 533, co. 2°, c.p.p. e anche al fine di consentire di verificare se abbia rispettato il precetto posto dal co. 3° dell’art. 81 c.p. E ciò, sul presupposto che il reato continuato non è un ente unitario[7];
c) il cumulo giuridico, infatti, si scioglie quando ciò è più favorevole per l’imputato[8], ad esempio ai fini di prescrizione[9], indulto[10], estinzione delle misure cautelari personali[11], sostituzione delle pene detentive brevi, benefici penitenziari[12];
d) la riduzione della metà deve avere luogo persino quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale, poiché l’art. 442, co. 2°, c.p.p. scolpisce un obbligo tassativo e inderogabile «al quale il giudice non può sottrarsi, spettando correlativamente all'imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge» [grassetto e sottolineatura aggiunti dallo scrivente, n.d.r.].
Ciò trova conferma nell’art. 438, co. 6°-ter, c.p.p., che prevede che il giudice del dibattimento è tenuto ad applicare la riduzione in questione laddove all’esito dello stesso ritenga erronea la declaratoria di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi del precedente co. 1°-bis[13].
2. Il conflitto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Tanto premesso, occorre prendere atto che la giurisprudenza della Suprema Corte si è divaricata in due orientamenti (anche con pronunce rese dalla medesima Sezione) circa il quantum della riduzione di pena in caso condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato e avente ad oggetto delitti e contravvenzioni avvinti dal vincolo della continuazione (ma analoghe considerazioni dovrebbero valere pure per il concorso formale), evenienza alquanto ricorrente nella prassi (si pensi alle rapine o alle resistenze a pubblico ufficiale perpetrate con strumenti atti ad offendere portati fuori dall’abitazione).
Per un primo indirizzo, l’art. 442, co. 2°, c.p.p., come novellato dalla L. 23 maggio 2017, n. 103, impone di operare la diminuzione processuale distintamente: sulla pena base e sugli aumenti disposti per i delitti nella misura di un terzo, mentre gli incrementi sanzionatori concernenti le contravvenzioni vanno ridotti della metà[14].
Questi, in sintesi, gli argomenti addotti a sostegno:
Per il secondo orientamento, viceversa, la riduzione prevista dall’art. 442, co. 2°, c.p.p., opera nella misura di un terzo prevista per i delitti anche per le contravvenzioni ad essi avvinte dal vincolo della continuazione (o in concorso formale), sulla scorta dei seguenti argomenti:
3. La parola alle Sezioni Unite?
L’innegabile spaesamento che le dicotomiche prese di posizione della giurisprudenza di legittimità generano nel giudice di merito e, ancor prima, nell’imputato chiamato a valutare se optare per il rito suggerisce che la questione affrontata in queste pagine è tutt’altro che secondaria e merita l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., anche al fine di evitare che siano incentivate impugnazioni mosse dalla speranza che il decisore d’appello segua l’orientamento più favorevole.
Ed invero, le pronunce vagliate nel precedente paragrafo menzionano espressamente quelle espressive della contrapposta interpretazione, di talché appare senz’altro superata la soglia dell’ordinario svolgimento di una riflessione giurisprudenziale in progressivo affinamento, giacché le relative posizioni ermeneutiche si sono sedimentate nel corso di un quadriennio e non ne è prevedibile un’ulteriore evoluzione[24].
E ciò, sebbene di recente la Sesta Sezione della Cassazione Penale abbia concluso in senso diametralmente opposto, negando, però, in modo tautologico un contrasto che affiora nitidamente dalle argomentazioni spese per confutare quelle impiegate dalla tesi opposta[25].
Al riguardo va ricordato che, come ha statuito anche la Corte E.D.U., in ogni sistema giudiziario insorgono contrasti giurisprudenziali tra giudici di merito, ma il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolverli; se in seno ad essa si sviluppano orientamenti divergenti, invece, ne risulta minato il principio della sicurezza giuridica e si riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, entrambi componenti fondamentali dello Stato di diritto[26].
Ciò detto, a parere dello scrivente la soluzione preferibile è quella che impone di modulare la riduzione di pena sulla natura del reato, per i condivisibili argomenti portati a suffragio dall’orientamento che la sostiene (invero, apparentemente maggioritario), nonché per queste ulteriori considerazioni:
I) di fatto, la tesi contraria si risolve in una disapplicazione del dettato dell’art. 442, co. 2°, c.p.p. in un numero assai rilevante di casi, producendo ricadute sfavorevoli sul piano processuale che stridono con la portata mitigatoria del trattamento sanzionatorio derivante dal cumulo giuridico, depotenziato sul versante processuale senza una plausibile ragione;
II) l’incentivo all’accesso al giudizio abbreviato potrebbe essere almeno in parte fiaccato dalla prospettiva di fruire di uno sconto ridotto dalla metà a un terzo, anche perché si riverbera proporzionalmente pure sulla decurtazione di un sesto di cui al co. 2°-bis dell’art. 442 c.p.p., a discapito della finalità deflattiva perseguita dalla L. n. 103 del 2017 e dal D. Lgs. n. 150 del 2022;
III) il diritto dell’imputato a vedersi decurtata la pena nella esatta (e automatica) dimensione prevista dalla Legge, anche oltre il limite edittale inferiore, non può essere conculcato in via interpretativa dal giudice, tanto meno adducendo apoditticamente che il trattamento più favorevole sarebbe ingiustificato, giacché esso deriva da un’espressa disposizione del codice di rito (quella di cui si discute)[27];
IV) l’unificazione quoad poenam disciplinata dagli artt. 76 e 81 c.p. opera sul piano sostanziale, cioè in una fase logicamente e giuridicamente antecedente nella determinazione della pena rispetto a quella in cui interviene la riduzione processuale di cui si discute;
V) non appare decisivo il dettato dell’art. 533, co. 2°, c.p.p., giacché non contiene alcun riferimento esplicito a una pena necessariamente unitaria, ma rinvia soltanto alla disciplina dettata dai suddetti articoli del c.p.;
VI) soprattutto, l’art. 76 c.p. concerne le pene unificate nell’ambito del cumulo materiale disciplinato dal richiamato art. 73 c.p. e non già di quello – ontologicamente differente[28] – giuridico, normato dal successivo art. 81 c.p., bipartizione che peraltro si riflette anche sulla disciplina processuale della fase esecutiva, dettata rispettivamente dagli art. 663 e 671 c.p.p.
L’unitarietà ad ogni effetto giuridico della pena non si presta dunque a essere esportata nell’ambito della continuazione o del concorso formale dei reati, tant’è vero che che le Sezioni Unite nel noto caso Giglia[29] hanno statuito che il criterio dell’incremento sanzionatorio “per moltiplicazione” dettato dall’art. 81 c.p. si atteggia soltanto nel caso di pene di specie diversa (reclusione – arresto o multa – ammenda) come quello dettato dall’art. 76, co. 2°, c.p. (testualmente, è «in linea» con la predetta previsione), al fine di spiegare in che modo esso operi con un apprezzabile sforzo di coerenza sistematica;
VII) coerentemente, lo scioglimento del vincolo della continuazione (o del concorso formale) è fisiologico allorquando è favorevole, come nel caso di specie, perché la porzione di pena inflitta, in aumento, per la/e contravvenzione/i satellite resta autonoma anche a tal fine (e perciò deve essere specificamente indicata), per quanto amalgamata (anche previa conversione ai sensi dell’art. 135 c.p.) a quella del delitto che fissa la pena base, sulla scorta dei criteri dettati dalle Sezioni Unite Giglia[30].
[1] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 maggio 1991, n. 7707, in C.E.D. Cass., Volpe, in mot., che richiama sul punto la Legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (art. 2, direttiva 53) e la relazione al progetto preliminare.
[2] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. IV, 15 novembre 2023, n. 49506, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. Un., 31 marzo 2022, n. 47182, in C.E.D. Cass., Savini, 12 mot. dir.; Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578 (dep. 26 febbraio 2021), in C.E.D. Cass., Aquistapace, non mass. sul punto, 2 mot. dir.; Sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 5034, in C.E.D. Cass., Rv. 275218 – 01; Sez. IV, 15 dicembre 2017, n. 832 (dep. 11 gennaio 2018), in C.E.D. Cass., Rv. 271752 – 01.
Anche le pronunce della Corte Costituzionale depongono nello stesso senso; si vedano Corte Cost. 3 luglio 2013, n. 210 e 3 dicembre 2020, n. 260.
Sul carattere processuale della riduzione dettata dall’art. 442, co. 2°, c.p.p. cfr. anche Cass. Pen.: Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, in C.E.D. Cass., Cesarano, non mass. sul punto, 4 mot. dir.; Sez. Un., 21 maggio 1991, n. 7707, in C.E.D. Cass., Rv. 187851 – 01, Volpe.
[3] V. Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della L. 27 settembre 2021, n. 134.
[4] Cfr. Rel. Mass. Cass. n. 2/2023, 5 gennaio 2023, pp. 119 – 120, dove si precisa che l’eventuale ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del Giudice dell’Esecuzione di accoglimento o di rigetto della richiesta di riduzione di un sesto deve essere riqualificato come opposizione.
Per V. Maffeo, Efficienza e deflazione processuale nella riforma dei procedimenti speciali (legge n. 134 del 2021 e d.lg. n. 150 del 2022), in Cass. Pen., 2023, 1, pp. 32 e ss. si tratta di una larvata minaccia di perdere il premio processuale in caso di impugnazione.
[5] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, cit., non mass. sul punto, 5.2 mot. dir.; Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 45583, in C.E.D. Cass., Rv. 237692 – 01, P.M. in proc. Volpe.
[6] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, cit., non mass. sul punto, 5.2 mot. dir. In dottrina, A. Conz, Il concorso applicativo delle norme penali sostanziali e processuali, in Dir. Pen. Proc., 2008, p. 1405
[7] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 2021, n. 47127, in C.E.D. Cass., Rv. 282269 – 01, Pizzone, in particolare 6.3 mot. dir., ma già: Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, in C.E.D. Cass., Rv. 273750 – 01, Giglia; Sez. Un., 28 febbraio 2013, n. 25939, in C.E.D. Cass., Rv. 255347 – 01, Ciabotti, non mass. sul punto; Sez. Un., 21 aprile 1995, n. 7930, in C.E.D. Cass., Rv. 201549 – 01, Zouine.
[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 2021, n. 47127, cit., non mass. sul punto, 5 mot. dir.; Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 22471, in C.E.D. Cass., Rv. 263717 – 01, Sebbar, non mass. sul punto, 11.1 mot. dir.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 gennaio 1996, n. 2780, in C.E.D. Cass., Panigoni, Rv. 203977 – 01.
[10] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 gennaio 1996, n. 2780, in C.E.D. Cass., Panigoni, Rv. 203976 – 01.
[11] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 26 marzo 2009, n. 25956, in C.E.D. Cass., Rv. 243588 – 01, Vitale; Sez. Un., 26 febbraio 1997, n. 1, in C.E.D. Cass., Rv. 207939 – 01, Mammoliti.
[12] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14, in C.E.D. Cass., Rv. 214355 – 01, Ronga.
[13] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578 (dep. 26 febbraio 2021), in C.E.D. Cass., Acquistapace, non mass. sul punto, 7 mot. dir.
[14] Limitandosi a richiamare le sole pronunce non oggetto di massimazione ufficiale più recenti cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. V, 29 novembre 2023, n. 1168 (dep. 10 gennaio 2024), in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, in C.E.D. Cass., Rv. 285023 – 01, nonché in latribuna.it, 31 luglio 2023, con osservazioni di V. De Gioia; Sez. I, 6 luglio 2023, n. 36361, in C.E.D. Cass., non mass., 4 mot. dir.; Sez. I, 24 maggio 2019, n. 39087, in C.E.D. Cass., Rv. 276869 – 01; Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, in C.E.D. Cass., Rv. 275772 – 01.
[15] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.; Sez. I, 24 maggio 2019, n. 39087, cit., 3.2 mot. dir.; Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, cit., 1.3 mot. dir.
[16] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.
[17] V. Cass. Pen., Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, cit., 1.2 mot. dir.
[18] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.
[19] Anche in questo caso, il campo viene circoscritto alle pronunce non oggetto di massimazione ufficiale più recenti. Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. II, 17 gennaio 2023, n. 40079, in C.E.D. Cass., non mass., 2.7 mot. dir.; Sez. II, 13 settembre 2023, n. 38440, in C.E.D. Cass., non mass., 1.1 mot. dir.; Sez. II, 17 gennaio 2023, n. 40079, in C.E.D. Cass., Rv. 285218 – 01; Sez. VI, 7 novembre 2022, n. 48834, in C.E.D. Cass., Rv. 284076 – 01; Sez. III, 6 luglio 2021, n. 41755, in C.E.D. Cass., Rv. 282670 – 01.
[20] Anche in C.E.D. Cass., Rv. 273751 – 01.
[21] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.2 mot. dir., rifacendosi a Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 45583, cit.
[22] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.3 mot. dir.
[23] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.4 mot. dir.
[24] Sui presupposti per rimettere una questione alle Sezioni Unite cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. V, 25 gennaio 2023, n. 12540, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. III, 1° dicembre 2022, n. 552 (dep. 11 gennaio 2023), in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. IV, 23 maggio 2019, n. 39766, in C.E.D. Cass., Rv. 277559 – 02.
[25] V. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 1 mot. dir.
[26] Tra le altre, Corte E.D.U., 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10). Sul punto, e più in generale sulla funzione nomofilattica, di recente E. Lupo, Il giudizio interpretativo tra norma scritta e diritto effettivo, in giustiziainsieme.it, 28 dicembre 2023.
[27] V. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.3 e 2.4 mot. dir., che sul punto pare incorrere nella petizione di principio che imputa all’orientamento avverso.
[28] Sulle origini storiche della differenza tra cumulo materiale e giuridico, nella manualistica v. G. Marinucci - E. Dolcini - G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2019, p. 580; quanto ai motivi ispiratori della riforma del 1974, G. Fiandaca - E. Musco, Diritto Penale. Parte generale, Bologna, 2014, pp. 702 – 703, che peraltro a pp. 699 – 700 dubitano che il concorso materiale costituisca autonomo istituto di diritto penale sostanziale e non già mera disciplina dell’unificazione in via esecutiva delle sanzioni applicabili al soggetto.
[29] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, cit., in particolare 6.1. mot. dir.
[30] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, cit., in particolare 6.1. e 6.2 mot. dir.
Annullamento in autotutela del permesso di costruire, legittimo affidamento del privato e responsabilità dell’Ente comunale (nota a Cons. di Stato, 17 novembre 2023, n. 9879)
di Silia Gardini
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda oggetto di controversia – 2. Note sulla tutela dell’affidamento del privato in relazione a un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione – 3. (segue) Affidamento, colpa e responsabilità – 4. La decisione del Consiglio di Stato.
1. Inquadramento della vicenda oggetto di controversia
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha avuto modo di esprimersi in merito alla configurabilità di una responsabilità in capo all’amministrazione comunale a seguito dell’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire rivelatosi illegittimo.
Nel caso di specie, con il permesso di costruire era stata autorizzata l’installazione di un manufatto prefabbricato in legno su un’area confinante con un tratto autostradale, in violazione del vincolo di inedificabilità sussistente nella fascia di rispetto stradale. Tale vincolo non era stato evidenziato in sede di asseverazione dell’intervento (da parte del progettista incaricato dai privati richiedenti) e lo stesso Ente comunale non ne aveva rilevato la presenza nel corso dell’istruttoria, omettendo altresì di richiedere il prescritto parere della Società Autostrade per l’Italia (ASPI). Peraltro, anche gli strumenti urbanistici – in particolare, gli elaborati allegati al Piano generale del traffico urbano (PGTU) – vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire non risultavano aggiornati, poiché classificavano il tratto autostradale interessato come strada extraurbana di tipo B, anziché come autostrada di tipo A.
Soltanto a seguito dell’espressa opposizione di ASPI, alla quale i privati – dopo aver ricevuto un controllo ispettivo – avevano avanzato istanza di parere in sanatoria, il Comune aveva disposto l’annullamento in autotutela del titolo e, contestualmente, ordinato la demolizione dell’opera abusiva e il ripristino dello stato dei luoghi.
L’annullamento posto in essere dal Comune era giustificato dal fatto che – come costantemente ribadito dalla giurisprudenza di merito – il vincolo di inedificabilità sussistente nella fascia di rispetto stradale ha carattere inderogabile. Esso, infatti, prescinde dalla stessa programmazione urbanistica e risulta correlato alla superiore necessità di mantenere la via libera da ostacoli materiali che potrebbero determinare pregiudizio alla sicurezza del traffico e delle persone, nonché all’esigenza di assicurare, nel tempo, la manutenzione e l’ampliamento delle strade. L’effetto che ne discende è, così, quello della inedificabilità assoluta e della insanabilità dei manufatti eventualmente realizzati nell’ambito della c.d. “fascia di rispetto”, «indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera (…) e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale»[i].
Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, investito della vicenda in primo grado, aveva dunque correttamente rilevato l’infondatezza della domanda di annullamento presentata dai privati avverso il provvedimento demolitorio di secondo grado, qualificando l’agire comunale, in assenza di ulteriori vizi procedimentali, come pienamente legittimo[ii]. Il T.A.R. bolognese si era, però, pronunciato negativamente anche con riferimento alla domanda risarcitoria proposta in via subordinata, dichiarandola inammissibile.
Dirimente, in tale direzione, era stata considerata la colpa dei ricorrenti.
Infatti, sebbene il Comune non avesse né rilevato autonomamente la presenza del vincolo, né provveduto ad acquisire il parere dell’Ente gestore della strada, l’asseverazione del progettista in ordine alla conformità del manufatto alla normativa edilizia e urbanistica in vigore allegata alla richiesta di permesso di costruire (comprendente, nello specifico, anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione) aveva – ad avviso del Collegio – fuorviato l’agire dell’Amministrazione comunale, contribuendo irrimediabilmente al deficit istruttorio e violando il principio di leale collaborazione posto in capo alla parte privata.
Da qui il “depotenziamento” della pretesa risarcitoria avanzata, tale da impedire ab origine la configurazione di un danno “ingiusto” in capo ai privati[iii].
Il Consiglio di Stato, investito in appello della controversia, è pervenuto a conclusioni diverse, riformando parzialmente la sentenza di primo grafo alla luce dell’iter argomentativo che sarà esaminato nei paragrafi successivi.
2. Note sulla tutela dell’affidamento del privato in relazione a un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione
Dall’analisi della pronuncia in commento emerge la necessità di approfondire il tema della “tutelabilità” dell’affidamento del cittadino rispetto a un provvedimento amministrativo di cui venga successivamente dichiarata l’illegittimità e – di riflesso – della possibilità di configurare, in tali casi, una responsabilità in capo all’amministrazione.
Com’è noto, l’affidamento è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta o nell’esistenza di una situazione, apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata[iv] ovvero nella correttezza del comportamento altrui (caso, quest’ultimo, in cui trova diffusa applicazione il principio di buona fede[v]).
Nell’ambito dei rapporti di diritto amministrativo, il tema della tutela dell’affidamento assume rilevanza con riferimento al convincimento del privato sulla legittimità (e, dunque, stabilità) degli atti e dei provvedimenti della P.A. e, più in generale, sulla correttezza del suo operato, in virtù del quale può configurarsi una situazione giuridica soggettiva autonomamente tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno[vi]. L’affidamento viene, infatti, definito dal Consiglio di Stato come «principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività»[vii]. In tali casi, «(…) è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità […]»[viii].
È bene evidenziare che, in tale contesto, le regole di legittimità e quelle di correttezza operano su piani differenti: mentre l’uno è relativo alla validità degli atti amministrativi, l’altro prescinde dai vizi intrinseci del provvedimento e riflette la responsabilità dell’amministrazione per la violazione del principio di buona fede[ix]. In quest’ultimo caso, dunque, l’interesse materiale che si riconnette alla tutela dell’affidamento del privato risulta tutelabile in via risarcitoria non soltanto laddove la pretesa sia sorretta da legittime ragioni di diritto (che potrebbero essere “assorbite” dalla pronuncia sui vizi del provvedimento), bensì ogni qual volta l’amministrazione, con il proprio comportamento, susciti una ragionevole aspettativa all’ottenimento e al mantenimento del bene della vita, a prescindere dal fatto che esso sia effettivamente dovuto[x].
L’affidamento può sussistere ed essere risarcibile e, al contempo, l’interesse finale che si collega alla stessa situazione di affidamento potrebbe risultare (legittimamente) non soddisfatto. In altre parole, la lesione dell’aspettativa del privato può essere rilevante anche con riferimento all’affidamento su atti e provvedimenti di cui, attraverso un intervento – giurisdizionale o amministrativo – sia stata rilevata poi l’illegittimità e, dunque, disposto l’annullamento. In tale direzione, come autorevolmente rilevato in dottrina, «il fatto che il principio di buona fede si traduca nella tutela degli effetti di un atto invalido non è fenomeno abnorme, ma, al contrario, perfettamente conforme alla vettorialità dell’intero ordinamento giuridico»[xi].
Ben si comprende, allora, come dall’esercizio legittimo del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento invalido possa emergere il dovere di ristorare il pregiudizio economico patito dal cittadino. Invero, la disciplina dell’annullamento d’ufficio, contenuta nell’art. 21-nonies della legge sul procedimento, è comunemente considerata espressione diretta del principio di tutela dell’affidamento del privato[xii], che si presenta come un vero e proprio “limite” (tradotto dal legislatore, nelle fattispecie espressamente previste, nel termine temporale dei dodici mesi) all’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione[xiii]. Ai nostri fini, come rilevato in dottrina[xiv], risulta necesario distinguere la figura dell’affidamento legittimo da quella dell’affidamento incolpevole di matrice civilistica, che fa capo al principio di buona fede. Poiché l’annullamento d’ufficio può intervenire legittimamente solo qualora le ragioni caducatorie prevalgano su quelle della conservazione della situazione esistente, la tutela del legittimo affidamento assume natura preventiva e dipende dal “peso” che assume l’interesse alla conservazione dello stato di fatto prodotto dal provvedimento rispetto all’interesse opposto al ripristino della legalità violata.
Diversamente, l’affidamento incolpevole emerge successivamente all’annullamento del provvedimento favorevole, laddove – in presenza di particolari circostanze idonee a giustificare l’affidamento nella conservazione della situazione giuridica acquisita – emerga la necessità di offrire protezione contro le conseguenze dannose derivanti da una fiducia mal riposta. La tutela, in questo caso, non è volta a ristorare il bene della vita perduto in conseguenza dell’annullamento del provvedimento, ma a risarcire il convincimento ragionevole che esso spettasse. Proprio in tale contesto si configura la responsabilità civile dell’amministrazione per il danno da affidamento[xv], connesso ai doveri di buona fede e correttezza.
La giurisprudenza ha inquadrato i limiti all’ammissibilità del risarcimento facendo leva principalmente sulla “bilateralità” dei principi di correttezza e buona fede[xvi], responsabilizzando dunque il privato nell’ottica della più proficua collaborazione alla formazione della decisione amministrativa che emerge, in particolare, dall’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, a norma del quale: “(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.
L’elemento soggettivo del privato è considerato, dunque, elemento costitutivo dell’affidamento tutelabile in via risarcitoria.
3. (segue) Affidamento, colpa e responsabilità
Le coordinate ermeneutiche fornite dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ci dicono che l’affidamento, ai fini della tutela risarcitoria, «deve essere ragionevole, id est incolpevole»[xvii] e che deve avere alla base (anche ai fini del radicamento della giurisdizione amministrativa) una situazione di apparenza creata dall’Amministrazione o con il provvedimento, oppure con il comportamento correlato all’esercizio del potere.
L’assenza di colpa non dovrebbe, tuttavia, tradursi nell’assenza di qualsivoglia apporto del soggetto privato alla formazione della decisione amministrativa.
Assodato che, al fine della migliore estrinsecazione del potere pubblico, il procedimento necessiti del contributo di soggetti diversi dall’Amministrazione, nelle forme previste dalla legge n. 241/1990, rimane tuttavia necessario non dimenticare che l’unica titolare della cura dell’interesse pubblico è l’Amministrazione. L’introduzione degli istituti partecipativi e la più recente positivizzazione dei doveri di correttezza e buona fede in ambito procedimentale, pur avendo notevole rilevanza e meritando la più attenta valorizzazione, non fanno venir meno il carattere unilaterale del provvedimento amministrativo e soprattutto la sua inerenza all’esercizio di un potere correlato a finalità istituzionali tipizzate per legge, di cui l’Amministrazione è e resta unica responsabile. Così, nell’ambito dei procedimenti volti al rilascio di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del privato, l’interessato – a prescindere dall’aspettativa da esso vantata – potrà conseguire il provvedimento favorevole solo laddove l’Amministrazione lo ritenga, a ragione o torto, conforme al primario interesse pubblico.
Il T.A.R. Emilia-Romagna, investito in primo grado della vicenda contenziosa oggetto della pronuncia annotata, aveva assunto un orientamento restrittivo con riguardo alla possibilità di riconoscere la responsabilità dell’Amministrazione nella formazione dell’atto illegittimo (e alla conseguente configurabilità di un danno ingiusto), centralizzando invece l’attenzione sulla c.d. “autoresponsabilità” del privato[xviii], che aveva contribuito alla predisposizione di un provvedimento contra legem.
Sebbene la necessità di modulazione del principio di buona fede con quello di autoresponsabilità sia un dato non contestabile, almeno in relazione a quelli che il Consiglio di Stato ha definito come “oneri minimi di cooperazione”[xix],una interpretazione estrema in tale direzione – che consideri qualsivoglia contributo del privato all’emanazione dell’atto (poi dichiarato illegittimo) come elemento escludente – finirebbe per negare tout-court il ricorso alla tutela risarcitoria, dal momento che in tutti i procedimenti autorizzatori il privato titolare dell’interesse pretensivo mantiene un ruolo attivo rilevante, a partire dal momento della presentazione dell’istanza. È, dunque, necessario individuare il limite oltre il quale le azioni del privato assumano i connotati di una consapevolezza idonea ad escludere la configurazione di un affidamento incolpevole.
Della questione si è di recente occupata, come sopra ricordato, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che – con le sentenze del 29 novembre 2021, n. 19 e n. 20 – ha avuto modo di chiarire in presenza di quali condizioni, a fronte dell’annullamento di un provvedimento accrescitivo rivelatosi illegittimo, possa sorgere in capo al privato un affidamento giuridicamente rilevante e risarcibile[xx].
Punto di partenza è l’accostamento – ormai pacifico per la giurisprudenza amministrativa maggioritaria – della responsabilità della P.A. per illegittimo esercizio della funzione, sia pure con talune particolarità, all’art. 2043 c.c. Quando l’atto è illegittimo, l’elemento soggettivo della colpa previsto dallo schema di responsabilità aquiliana si intende presunto, ma (trattandosi di una presunzione semplice) rimane superabile dall’Amministrazione con la prova contraria dell’errore scusabile[xxi]. In particolare, per il danno da lesione dell’affidamento su un provvedimento favorevole poi annullato, la colpa dell’amministrazione può essere esclusa o attenuata avendo riguardo all’evidenza dell’illegittimità del provvedimento, tale da far ritenere che il privato potesse facilmente esserne consapevole. Sul punto l’Adunanza plenaria ha, infatti, affermato che «la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole (…) postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento»[xxii].
Dunque, affinché possano configurarsi i presupposti per la tutela risarcitoria, non è richiesto il mancato apporto del privato alla costruzione di una decisione amministrativa poi rivelatasi illegittima, ipotesi non contemplabile nella realtà procedimentale; è tuttavia necessario che la causa di illegittimità o irregolarità (che ha, poi, condotto all’annullamento del provvedimento) non sia nota o, comunque, non sia conoscibile e comprensibile in base all’ordinaria diligenza da parte del privato.
4. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, come sopra accennato, ha ribaltato parzialmente la decisione assunta in primo grado dal T.A.R. Emilia-Romagna. L’importanza della pronuncia sta nel riconoscimento della corresponsabilità dell’amministrazione e, ancor di più, nella ammissione della tutela risarcitoria (seppur parziale) in presenza di un concorso di colpa espressamente riconosciuto in capo al privato.
Ad avviso del Collegio di Palazzo Spada, il Tribunale, dopo aver correttamente rilevato la “obiettiva negligenza degli uffici” nel non avvedersi del vincolo gravante sull’area degli appellanti, non aveva tratto dalle proprie affermazioni le dovute conseguenze sul piano giuridico. L’attenzione era stata, infatti, focalizzata esclusivamente sulla corresponsabilità dei privati nell’indurre in errore l’Ente comunale circa l’esistenza del vincolo medesimo, stabilendo che «la disattenzione [del Comune] avrebbe potuto essere rimediata con la puntuale indicazione dell’esistenza del vincolo»[xxiii].
In verità, lo stesso Comune non avrebbe dovuto ignorare l’esistenza del vincolo, dal momento che la vicenda era stata oggetto di una delibera di Giunta del 2010 (due anni prima del rilascio del permesso di costruire, del 2012), con la quale era stata rilevato che il tratto autostradale interessato era qualificato negli strumenti urbanistici come strada “Extraurbana principale” di tipo “B” (come tale non soggetta ad alcuna fascia di rispetto all’interno del centro abitato), anziché come “Autostrada”, di tipo “A”. Con la medesima delibera di Giunta era stato, dunque, stabilito di intervenire al fine di modificare gli elaborati allegati al Piano generale del traffico urbano (PGTU). La correzione era stata, tuttavia, realizzata soltanto nel 2014, dunque successivamente al rilascio del permesso di costruire ai ricorrenti.
Proprio tali circostanze di fatto, secondo il Consiglio di Stato, hanno determinato l’inescusabilità dell’errore commesso dall’Amministrazione in sede istruttoria, al punto tale da integrare l’elemento psicologico della colpa ai fini del risarcimento del danno. Nella sentenza viene richiamato, a riguardo, l’orientamento precedentemente espresso dallo stesso Giudice, alla luce del quale l’elemento psicologico della colpa della P.A. può essere individuato – oltreché nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione – anche in negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la stessa amministrazione[xxiv].
La responsabilità del Comune non assorbe, tuttavia, quella del privato.
I giudici di Palazzo Spada hanno, infatti, evidenziato come la presenza negli atti del procedimento dell’erronea asseverazione del progettista in ordine alla conformità del manufatto alla normativa edilizio-urbanistica in vigore (comprendente, nello specifico, anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione), pur non essendo sufficiente ad escludere sic et simpliciter la risarcibilità del danno, determina l’estensione della colpa anche in capo al privato. In casi del genere, salvo che sia provata la mala fede o il dolo del proprietario o del progettista, non può parlarsi di “falsità” della rappresentazione dello stato dei luoghi, ma si configura un concorso di colpa al quale né il Comune, né il privato possono sottrarsi.
Emerge, in sostanza, un’ipotesi di corresponsabilità: la colpa del privato non riduce quella del Comune e non vale ex se a giustificare la negazione della tutela risarcitoria; tuttavia, l’evidente concorso colposo non consente di ammettere una tutela piena, ma richiama l’applicazione dell’art. 1227, comma 1 del Codice civile, in base al quale: “[s]e il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”. Si tratta di un principio che – come puntualizzato dalla sentenza annotata – è stato ripreso e sviluppato dall’art. 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo, attraverso la precisazione secondo cui “[n]el determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti”.
Le argomentazioni del Consiglio di Stato si rifanno, in parte, ad un orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione. La Suprema Corte – in un’analoga circostanza di commistione di responsabilità tra comune e beneficiario di un permesso di costruire (poi annullato) – ha, infatti, ritenuto configurata l’ipotesi del “fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso”, applicando anche in quel caso la disposizione dell’art. 1227 c.c., comma 1, che impone la diminuzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa ascrivibile al danneggiato[xxv].
La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato appare di pieno bilanciamento del ruolo delle “parti” del rapporto procedimentale: poiché la condotta della parte privata e quella del Comune avevano avuto, nel caso di specie, la medesima incidenza causale nel determinare il rilascio del titolo edilizio illegittimo, l’amministrazione è stata condannata ex art. 1227, comma 1 c.c. a risarcire soltanto per metà il danno subito dai ricorrenti. Coerentemente, il Consiglio di Stato ha, poi, escluso dal computo del quantum del risarcimento – ex art. 1227, comma 2, c.c. (a mente del quale “[i]l risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”) – tutte le spese sostenute dai ricorrenti successivamente alla presa di coscienza dell’esistenza del vincolo autostradale (momento che è stato fatto coincidere con la richiesta del parere in sanatoria ad ASPI da parte degli stessi).
[i] Cfr., ex multis, T.A.R. Sicilia, Catania, 14 aprile 2023, n. 1271, Cons. di Stato, Sez. II, 22 luglio 2020, n. 1415, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della Strada e nel Regolamento di esecuzione. L’ampiezza delle fasce è infatti specificamente disciplinata dal D. Lgs. n. 285/92 (artt. 16, 17 e 18) e dal D.P.R. n. 495/92 (artt. 26, 27 e 28), che pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30 metri all’interno di essi.
[ii] «La pacifica sussistenza di un interesse pubblico di spessore e la distanza ravvicinata dell’esercizio dell’autotutela giustificano di per sé l’adozione del provvedimento di annullamento». Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iii] «Se il Comune non ha provveduto ad acquisire il prescritto parere dell’Ente gestore della strada, tuttavia la redazione della domanda del titolo edilizio è risultata fuorviante, non avendo il progettista dato conto dell’esistenza del vincolo. Certamente le planimetrie prodotte “fotografavano” l’esatto stato dei luoghi, come evidenziato dai ricorrenti, ma il progettista ha attestato la conformità dell’intervento alla normativa edilizia, urbanistica e di sicurezza vigenti: a pag. 14 ha barrato – in luogo dell’appropriata casella “esistono i seguenti altri vincoli” quella immediatamente successiva “NON sono presenti vincoli”, così come non ha compilato il campo di cui al paragrafo 8 “Altri pareri o atti di assenso dovuti per l’intervento in oggetto”. La rappresentazione grafica è sfuggita per un’obiettiva negligenza degli uffici, ma la disattenzione avrebbe potuto essere rimediata con la puntuale indicazione dell’esistenza del vincolo, per cui il privato ha “contribuito” al deficit istruttorio in violazione del principio di leale collaborazione». Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 1.5, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] Si discorre, in tale ipotesi, della c.d. apparenza del diritto. Cfr., R. Sacco, voce Apparenza, in Digesto disc. civ., I, Torino, 1987, 353 ss.; Id., voce Affidamento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 661 ss.
[v] Nelle relazioni che riguardano soggetti non legati da vincoli contrattuali, come sono le relazioni di potere tra privato e pubblica amministrazione, gli obblighi di correttezza e buona fede sono riconducibili alla clausola generale dell’art. 2043 c.c, che sancisce la responsabilità civile di chi cagiona ad altri un danno ingiusto.
[vi] Di tutela dell’affidamento nel rapporto amministrativo si parla in contesti diversi, non di rado con generico riferimento alla ratio protettiva del privato che ispira talune disposizioni di legge o che ne orienta l’interpretazione; altre volte prospettando la mancata considerazione per le attese del privato come vizio nell’esercizio del potere discrezionale. Non è possibile, in tale sede, inquadrare pienamente un tema così ampio e complesso. Si rinvia, per un approfondimento, alla ricostruzione di F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. proc. amm., 3/2018, 823 ss.
[vii] Cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011.
[viii] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 19, in www.giustizia-amministrativa.it.
[ix] Cfr., F. Manganaro, Dal rifiuto di provvedimento al dovere di provvedere: la tutela dell’affidamento, in Itinerari interrotti. Il pensiero di Franco Ledda e di Antonio Romano Tassone per una ricostruzione del diritto amministrativo, a cura di L. Giani e A. Police, Napoli, 2017, 121 ss. Sul tema cfr., amplius, F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995.
[x] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20, in www.giustizia-amministrativa.it. Viene, dunque, in considerazione un danno che oggettivamente prescinde da valutazioni sul corretto esercizio del potere pubblico, «fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto non dipende dalla natura privatistica o pubblicistica del soggetto che ne è responsabile, atteso che anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare nell’esercizio dell’attività amministrativa principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza» (cfr., Cass. Sez. un., Ord. 23 marzo 2011, n. 6594).
[xi] Cfr., F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano 2001, 105.
[xii] In tali casi viene in rilievo la nozione civilistica di affidamento nel senso di fiducia nell’altrui correttezza: cfr., Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, punto 11.1, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xiii] Sul tema, cfr., M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[xiv] Cfr., F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 823 ss.
[xv] Ibidem.
[xvi] Il carattere della bilateralità del dovere di buona fede nel rapporto tra cittadino e amministrazione è stato rilevato, ben prima del consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali, da F. Saitta, Del dovere del cittadino di informare la pubblica amministrazione e delle sue possibili implicazioni, I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione. Atti del Convegno di Copanello, 25-26 giugno 2004, a cura di F. Manganaro e A. Romano Tassone, Torino, 2005, 111 ss.
[xvii] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xviii] Il principio di autoresponsabilità, di matrice privatistica, si connette al principio generale secondo cui ciascuno è responsabile delle proprie azioni ed omissioni, delle quali deve assumere il rischio. Cfr., P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 85 ss.
[xix] Cfr., Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014 n. 9, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xx] Per un esame approfondito delle importanti questioni sottoposte alla cognizione della Plenaria, che in questa sede possono essere solamente accennate, si rinvia a C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. Stato, Sez. II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013), in questa Rivista, 2021; G. Capra, La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato (Nota a margine dell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria n. 3701 del 2021), in questa Rivista, 2021; C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20), in questa Rivista, 2021; M. Baldari, Ultimi approdi in materia di responsabilità precontrattuale della p.a. (Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 21), in questa Rivista, 2022.
[xxi] Cfr., Cons. Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, spec. punto 3 di diritto. Sul tema si vedano le note di E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in questa Rivista, 2021 e M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in questa Rivista, 2021, nonché A. Palmieri, R. Pardolesi, La responsabilità civile della pubblica amministrazione: così è se vi pare (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7), in Foro it., 2021, 406 ss.
[xxii] Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 19, punto 21 e n. 20, punto 26, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxiii] Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 1.5, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxiv] Cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5409; Id., 4 febbraio 2020, n. 909, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxv] Cfr., Cass. Civ., Sez. I, 28 febbraio 2017, n. 5063.
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