ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Fondamento, presupposti e contenuto del diritto all’oblio oncologico. – 3. Il campo di applicazione dell’istituto: i contratti bancari, finanziari e assicurativi. – 4. (Segue). I procedimenti di adozione. – 5. (Segue). Altre ipotesi e fattispecie. – 6. Autorità e organismi competenti a vigilare sull’applicazione della legge sull’oblio oncologico. – 7. Osservazioni conclusive.
1. Introduzione.
Nei tempi più recenti, sono entrati nel vivo i lavori parlamentari che dovrebbero presto portare ad introdurre anche nel nostro ordinamento il (diritto al) c.d. oblio oncologico[1]. Si occupano dell’argomento, infatti, una nutrita serie di disegni di legge che sono stati presentati all’esame della Camera dei Deputati, quali: i d.d.l. n. 249, 413, 690 e 885, tutti di iniziativa parlamentare, sui quali è stato elaborato il Dossier del Servizio Studi della Camera n. 83 del 24 maggio 2023; gli ulteriori d.d.l. n. 744, 959 e 1013, sempre di iniziativa parlamentare; il d.d.l. n. 1066, presentato dal CNEL; da ultimo, i d.d.l. n. 1182 e 1200, ancora di iniziativa parlamentare.
In seno alla XII Commissione permanente per gli Affari sociali, i summenzionati disegni di legge sono poi confluiti in un testo unificato, adottato come testo base per la successiva discussione il 28 giugno del corrente anno.
Già conosciuto dai sistemi normativi di alcuni Paesi stranieri[2] e caldeggiato pure dalle istituzioni europee[3], il diritto all’oblio oncologico mira a scongiurare l’eventualità che quanti si possono considerare guariti da un cancro si vedano costretti a dichiarare e/o vedano direttamente indagata la loro pregressa condizione patologica – con conseguenti penalizzazioni e discriminazioni che saranno illustrate più avanti – in una serie di circostanze, quali per esempio l’accensione di un mutuo, la stipula di un’assicurazione, l’accesso ad una procedura di adozione, la partecipazione ad un concorso lavorativo, e così via, nelle quali viene in rilievo l’aspettativa di vita residua dell’individuo.
Come dimostrano recenti indagini, puntualmente richiamate dalle relazioni ai progetti di legge in esame, si tratta di un fenomeno di sempre più vasta portata e che necessita di essere affrontato in via normativa senza ulteriori differimenti. Se da un lato le diagnosi di tumore aumentano ogni anno, anche in virtù dell’invecchiamento della popolazione, dall’altro i progressi della medicina ormai consentono di portare ad uno stato di guarigione, che precisamente si concretizza quando le aspettative di vita del soggetto sono analoghe a quelle della popolazione dello stesso sesso e della stessa età, una quota assai significativa dei casi clinici trattati. Tale condizione, che in Italia riguarda una percentuale attualmente pari al 27 % dei malati, vale a dire circa un milione di persone, viene generalmente raggiunta trascorsi dieci anni dalla conclusione del trattamento della malattia, anche se tale lasso di tempo può allungarsi o accorciarsi in determinate situazioni cliniche.
2. Fondamento, presupposti e contenuto del diritto all’oblio oncologico.
In quanto l’istituto è diretto ad evitare l’ingiustificata discriminazione dei soggetti guariti dal cancro, il diritto all’oblio oncologico viene ricondotto dall’art. 1, comma 1°, del testo unificato all’attuazione di diverse previsioni costituzionali e sovranazionali riguardanti i diritti della persona, la tutela della vita familiare e la protezione dei consumatori: gli artt. 2, 3 e 32 della Carta costituzionale; gli artt. 7, 8, 21, 35 e 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Il successivo comma del medesimo articolo definisce, poi, il diritto in parola come «il diritto delle persone guarite da una patologia oncologica di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria pregressa condizione patologica» in presenza delle condizioni stabilite dalla legge.
Dalla lettura degli articoli successivi si evince, infatti, che presupposto fondamentale del riconoscimento del diritto de quo è il trascorrere di (almeno) dieci anni dalla conclusione del trattamento attivo della patologia, in assenza di recidive o ricadute. Tale periodo di tempo si riduce a cinque anni nel caso in cui la malattia sia insorta prima del compimento di un’età che il testo unificato identifica in diciotto anni, ma che alcuni dei progetti di legge in esso confluiti invece innalzavano a ventuno anni; e va pure osservato che, per designare i presupposti del dimezzarsi del periodo di tempo necessario a maturare il diritto all’oblio oncologico, alcuni dei d.d.l. in discorso facevano riferimento alla «diagnosi» della malattia, espressione che appare più precisa e definita di quella, ora fatta propria dal testo unificato, che invece menziona un meno facilmente identificabile momento di «insorgenza» del tumore[4]. Ad ogni modo, l’art. 5, comma 2°, del provvedimento opportunamente attribuisce a un successivo decreto del Ministro della salute il compito di eventualmente individuare le malattie oncologiche per le quali si applicano termini inferiori rispetto a quelli sopra menzionati.
Come subito vedremo, il contenuto del diritto in discorso è poi destinato a declinarsi differentemente a seconda dei diversi contesti in cui può trovare applicazione.
3. Il campo di applicazione dell’istituto: i contratti bancari, finanziari e assicurativi.
I servizi bancari, finanziari e assicurativi rappresentano un primo settore nel quale le persone guarite da una patologia oncologica corrono il forte rischio di essere penalizzate. A quanto consta è, infatti, assai frequente che tali soggetti, dopo avere su richiesta fornito informazioni circa la loro pregressa condizione patologica, si vedano negare l’apertura o il mantenimento di un’assicurazione sanitaria per malattia o di una polizza vita, oppure si vedano imporre oneri, garanzie accessorie e/o condizioni particolarmente gravose per accedere a servizi finanziari o bancari, a partire dall’accensione di mutui; e i due aspetti addirittura si incrociano quando, secondo una prassi commerciale notevolmente diffusa, l’accensione del mutuo viene subordinata alla sottoscrizione di una polizza assicurativa sulla vita, pena il rigetto della richiesta. In ambito assicurativo, tutto ciò è del resto avvalorato dalla disciplina delle dichiarazioni inesatte e delle reticenze dell’assicurato dettata dagli artt. 1892 e 1893 c.c., che in estrema sintesi consente all’assicuratore di interrompere il rapporto e rifiutare il pagamento dell’indennizzo all’ex-paziente oncologico che non abbia risposto in maniera completa ed esauriente alle domande rivolte dalla controparte prima della sottoscrizione della polizza[5].
Per mettere fine a questo fenomeno, l’art. 2 del testo unificato sull’oblio oncologico innanzitutto prevede che: a) all’ex-paziente oncologico, qui considerato nella sua veste di consumatore, non possono essere richieste informazioni relative alla sua patologia pregressa; b) di questa prerogativa egli deve essere adeguatamente informato, in sede precontrattuale così come in caso di rinnovo del contratto, da banche, istituti di credito, imprese assicurative e intermediari bancari e assicurativi con cui viene in contatto[6]; c) laddove siano state fornite, le informazioni in discorso non possono comunque essere impiegate nella valutazione del rischio dell’operazione o della solvibilità della persona alla quale si riferiscono[7]; d) a banche, istituti di credito, imprese assicurative e intermediari bancari e assicurativi è fatto divieto di richiedere l’effettuazione di visite mediche di controllo.
La violazione delle disposizioni testé menzionate è sanzionata con la nullità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ma operante soltanto a vantaggio del consumatore, secondo il noto paradigma della c.d. nullità di protezione. Appartiene a tale modello, inoltre, pure la previsione che circoscrive tale conseguenza alle sole clausole difformi dalle norme di tutela dell’ex-paziente oncologico (nonché di quelle connesse) e fa salvo il resto del contratto, conformemente alla tecnica della c.d. parzialità necessaria[8].
Un’ultima osservazione riguarda la sfera applicativa dell’oblio oncologico in ambito contrattuale, che come quasi tutti i progetti di legge in materia il testo unificato riferisce esclusivamente ai summenzionati servizi del settore bancario, finanziario e assicurativo. Non essendovi ragione di escludere che anche in ambiti diversi si possa presentare il rischio di discriminazioni e penalizzazioni degli ex-pazienti oncologici, appare invece preferibile la più ampia formulazione che era stata adottata dal d.d.l. n. 249, il quale, dopo avere richiamato i servizi di cui sopra, estendeva la tutela offerta dal nuovo istituto ad ogni altro tipo di contratto, anche esclusivamente tra privati, i termini e le condizioni del quale fossero suscettibili di essere influenzati, al momento della stipulazione del negozio o anche successivamente, dalle informazioni relative alla malattia pregressa dell’interessato.
4. (Segue). I procedimenti di adozione.
Un secondo ambito nel quale si manifesta l’esigenza di tutelare i soggetti guariti da un cancro contro ingiustificate penalizzazioni è quello delle procedure di adozione di minori.
Dev’essere al riguardo ricordato che, in sede di affidamento preadottivo, l’art. 22, commi 3° e 4°, l. 4 maggio 1983, n. 184 affida al Tribunale per i minorenni il compito di svolgere indagini riguardanti, tra le altre cose, le condizioni di salute dei richiedenti, facendo ricorso ai servizi socio-assistenziali degli enti locali nonché avvalendosi delle professionalità delle aziende sanitarie locali e ospedaliere; indagini, queste, funzionali alla valutazione dell’idoneità affettiva e della capacità dei coniugi di educare, istruire e mantenere l’adottando richiesta dall’art. 6, comma 2°, legge cit. Com’è facile immaginare, può allora accadere che la verifica circa la pregressa malattia oncologica di uno o entrambi i richiedenti, anche se superata da tempo, conduca l’autorità giudiziaria ad escludere la coppia dall’adozione per il timore di recidive e/o di una morte prematura.
In effetti, assumendo un punto di vista che privilegi la considerazione del superiore interesse del minore coinvolto[9], si potrebbe a prima vista pensare che l’adottando, già segnato dalle sofferenze dell’abbandono, debba essere affidato a genitori che siano i “migliori” possibili sotto ogni profilo e che l’idoneità psico-fisica degli aspiranti adottanti sia tra i requisiti da valutare in tal senso, con conseguente esclusione delle coppie affette da patologie in grado di mettere in pericolo la loro vita o comunque ridurne significativamente la qualità[10]. In dottrina e in giurisprudenza, peraltro, prevale la diversa opinione secondo cui le cattive condizioni di salute dei genitori non devono assumere valore discriminante a priori, ma vanno sempre considerate insieme alle risorse, alle motivazioni adottive e alle attitudini della coppia, che del resto potrebbe anche essere stata rafforzata e umanamente arricchita da esperienze negative sul piano della salute: malattie, invalidità e disabilità non sono, quindi, di per sé ostative all’adozione, ma lo diventano solo se e nella misura in cui escludano la capacità di assurgere al ruolo di genitori adottivi ai sensi dell’art. 6 della legge sull’adozione[11].
Si inserisce armoniosamente in questa tendenza, quindi, l’art. 3 del testo unificato in esame, il quale prevede di inserire nell’art. 22 della legge sull’adozione una nuova previsione che esclude le informazioni sulle patologie oncologiche, per le quali siano maturate le condizioni per il riconoscimento dell’oblio oncologico, dall’oggetto delle indagini sulla salute degli adottanti svolte dal Tribunale per i minorenni. Viene, inoltre, coerentemente previsto l’inserimento di un richiamo a tale disposizione nell’art. 29-bis legge cit., in tema di adozione di minori stranieri, nonché nell’art. 57 legge cit., in tema di adozione in casi particolari.
5. (Segue). Altre ipotesi e fattispecie.
Solamente alcuni dei progetti di legge sull’oblio oncologico si preoccupavano di considerare ambiti applicativi dell’istituto diversi e ulteriori rispetto a quelli finora menzionati. Tale più ampia prospettiva appare, peraltro, del tutto condivisibile, non essendovi ragioni per confinare la tutela offerta agli ex-pazienti oncologici solamente a determinati settori della vita di relazione, escludendone arbitrariamente altri.
Sotto questo punto di vista si giustifica, quindi, la previsione dell’art. 4, comma 1°, del testo unificato, alla stregua del quale è fatto divieto di richiedere informazioni concernenti patologie oncologiche per le quali è maturato il diritto all’oblio ai fini dell’accesso alle procedure concorsuali, quando nel loro ambito sia previsto l’accertamento di requisiti psicofisici o concernenti lo stato di salute dei candidati.
Un riferimento all’ambito lavorativo compare anche nel comma 2° dell’articolo in discorso, che in maniera assai più generica – verrebbe da dire, “programmatica” – del precedente stabilisce che, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da adottare di concerto con il Ministro della salute, «sono promosse specifiche politiche attive per assicurare, a ogni persona che sia stata affetta da una patologia oncologica, uguaglianza di opportunità nell’inserimento al lavoro e nella permanenza al lavoro, nella fruizione dei relativi servizi e nella riqualificazione dei percorsi di carriera e retributivi».
6. Autorità e organismi competenti a vigilare sull’applicazione della legge sull’oblio oncologico.
Sostanzialmente tutti i d.d.l. sull’oblio oncologico prevedevano, infine, che dovesse essere affidato a una qualche autorità o ad un qualche organismo il compito di vigilare sull’applicazione della nuova legge. A tale riguardo, diversi progetti di legge contemplavano l’istituzione di un apposito organismo presso il Ministero della salute, con compiti anche consultivi e di promozione della conoscenza del nuovo istituto tra tutti i soggetti interessati.
Il d.d.l. n. 690, per esempio, prevedeva la costituzione di un «Garante per la tutela dei diritti delle persone guarite da patologie oncologiche», composto da persone di comprovate professionalità ed esperienza nelle materie regolate dalla nuova legge, con specifico riferimento alle patologie oncologiche. Nel d.d.l. n. 885 si menzionava una «Consulta per la parità di trattamento delle persone che sono state affette da patologie oncologiche», da rinnovare ogni quattro e anni e composta in modo da assicurare la presenza di rappresentanti delle autorità di vigilanza sui servizi bancari e assicurativi, della commissione per le adozioni internazionali, delle associazioni familiari a carattere nazionale e di persone di comprovata esperienza nelle materie regolate dalla nuova legge, con particolare riferimento alle patologie oncologiche. Ai sensi del d.d.l. n. 959, ancora, si sarebbe dovuto istituire una «Commissione per la tutela dei diritti delle persone guarite da malattie oncologiche», da rinnovare ogni tre anni, anche in questo caso composta da professionisti di comprovata esperienza nelle materie oggetto della nuova legge, sempre con particolare riferimento alle malattie oncologiche.
L’art. 5, comma 4°, del testo unificato ha tuttavia preferito adottare la meno ambiziosa soluzione, pure essa già avanzata da alcuni dei d.d.l. in esso confluiti, di affidare la vigilanza sull’applicazione della nuova disciplina in tema di oblio oncologico ad un’autorità già esistente, identificata nel Garante per la protezione dei dati personali.
7. Osservazioni conclusive.
Al di là delle imprecisioni e delle manchevolezze che caratterizzano il progetto di legge attualmente all’esame della Camera, la finalità di tutelare gli ex-pazienti oncologici dalle discriminazioni e dalle penalizzazioni che possono subire in conseguenza della loro condizione pregressa è pienamente condivisibile e senza dubbio merita di essere perseguita con un apposito intervento normativo.
Nel metterlo a punto, occorrerà sicuramente meditare con attenzione su diversi aspetti, due dei quali possono essere evidenziati in questa sede.
Da un primo punto di vista, è da chiedersi se la disciplina de qua possa andare incontro a censure di incostituzionalità, per violazione del principio di eguaglianza, per il fatto di riferirsi in via esclusiva alle sole malattie oncologiche. Tanto potrebbe accadere, in particolare, qualora si dovesse riscontrare che esistono anche altre patologie in grado di sollevare analoghe problematiche per coloro che ne sono guariti, salvo riuscire a rinvenire un fondamento razionale che giustifichi la scelta di riservare la protezione accordata dalla nuova legge solo agli individui che hanno superato un cancro.
Sotto un secondo profilo, è da riflettere sull’opportunità di (continuare ad) impiegare l’espressione «oblio oncologico», peraltro utilizzata con parsimonia dagli stessi disegni di legge presentati in materia, ma ora fatta propria nell’art. 1 del testo unificato[12]. Tale sintagma è senza dubbio efficace ed evocativo sul piano del linguaggio comune, ma dal punto di vista tecnico-giuridico appare piuttosto lontano dal modo in cui viene comunemente inteso il c.d. diritto all’oblio nella moderna società dell’informazione, quale strumento di tutela dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali, in primis quelli all’identità personale ed alla riservatezza, a fronte della circolazione di notizie risalenti nel tempo, rievocate e riproposte a distanza di anni, in assenza di un interesse pubblico che ne giustifichi ulteriormente la diffusione e la conoscenza[13]. D’altra parte, è anche vero che nell’oblio oncologico assume fondamentale importanza l’elemento sul quale si fonda pure il diritto all’oblio appena sopra menzionato, vale a dire «il fattore tempo», che tanto nell’uno quanto nell’altro caso «appare essenziale per ritenere superflui e quindi dimenticare dati o eventi non più utili per la persona o addirittura dannosi, anche se in passato veritieri»: sotto questo punto di vista, quindi, nella conformazione di entrambi gli istituti «ciò che appare determinante […] è la rappresentazione attuale di sé che richiede che siano rimossi o cancellati dati del passato che la possano offuscare, alterare, danneggiare, simulare»[14].
Volendo tracciare un parallelismo con la nota vicenda del «testamento biologico», si può forse auspicare che, come quell’espressione è stata via via accantonata con l’avvento della legge n. 219 del 2017 e della più corretta dicitura «disposizioni anticipate di trattamento» prescelta dal legislatore, il sintagma «oblio oncologico» sia impiegato per diffondere tra i consociati la conoscenza del futuro dettato normativo, ma con la promulgazione di quest’ultimo venga messo da parte in favore dell’espressione, in effetti utilizzata nell’intitolazione del testo unificato così come nella grande maggioranza dei d.d.l. in esso confluiti, di «disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche».
[1] In argomento v., sin d’ora, M. Mezzanotte, Brevi note in tema di diritto ad essere “medicalmente” dimenticato: il caso del diritto all’oblio oncologico, in Consultaonline (https://giurcost.org/), 21 giugno 2023, p. 486 ss.
[2] Segnatamente Francia, Portogallo, Belgio, Lussemburgo, Olanda e Romania. Per maggiori dettagli al riguardo, v. M. Mezzanotte, op. cit., p. 488 ss.
[3] Si veda, in particolare, la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2022 su rafforzare l’Europa nella lotta contro il cancro – Verso una strategia globale e coordinata (2020/2267(INI)), n. 125.
[4] Sottolinea la difficoltà di definire con precisione la categoria dei c.d. cancer survivors anche M. Mezzanotte, op. cit., p. 487.
[5] Più precisamente, ai sensi dell’art. 1892 c.c., l’assicuratore può chiedere l’annullamento del contratto laddove ricorrano tre requisiti: a) una dichiarazione inesatta o reticente dell’assicurato sulle circostanze relative al rischio; b) l’influenza di tale dichiarazione o reticenza sulla rappresentazione del rischio da parte dell’assicuratore e, quindi, sul suo consenso, nel senso che egli non lo avrebbe dato, o l’avrebbe dato a condizioni diverse, se avesse conosciuto in modo completo ed esatto le circostanze influenti sul rischio; c) il dolo o la colpa grave dell’assicurato nel rendere la dichiarazione inesatta o reticente. Nel caso, poi, in cui il contratto venga annullato, l’assicuratore ha comunque diritto, oltre ai premi scaduti, a quelli relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui ha chiesto l’annullamento e, in ogni caso, al premio convenuto per il primo anno. Laddove l’assicurato abbia reso una dichiarazione falsa o sia stato reticente senza dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 1893 c.c. l’assicuratore può invece recedere dal contratto con efficacia ex nunc, in tal modo rimanendo, anche in questo caso, a lui acquisiti i premi scaduti e quelli in corso al momento del recesso. Per maggiori dettagli sul punto e per il diritto dell’assicuratore di negare il pagamento dell’indennità, v. F. Peccenini, Assicurazione. Art. 1882-1932, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna, 2011, p. 58 ss.; A. Bracciodieta, Il contratto di assicurazione. Disposizioni generali. Artt. 1882-1903, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2012, p. 123 ss.
[6] I d.d.l. n. 413 e 1182 inoltre prevedevano l’inserimento, all’interno dell’art. 21 del Codice del consumo, di un nuovo comma 3-ter, ai sensi del quale era da considerare scorretta la pratica commerciale di una banca, di un istituto di credito, di un’impresa di assicurazione, di un intermediario assicurativo o di un intermediario finanziario che ometta di informare il consumatore in merito al suo diritto a non fornire informazioni relative alla sua pregressa malattia oncologica in presenza delle condizioni che consentono la maturazione del diritto all’oblio; era considerata altresì scorretta la pratica dei medesimi operatori che, trascorso il termine prescritto dalla legge, richiedano tali informazioni, ovvero che, sulla base di esse, si rifiutino di contrarre o applichino oneri, garanzie accessorie o altre condizioni contrattuali aggiuntive.
[7] Sul punto, i d.d.l. n. 744, 885 e 1013 soggiungevano, in maniera certamente non inopportuna, che nei casi considerati fossero da considerare inapplicabili gli artt. 1892 e 1893 c.c.
[8] V., ex multis, C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto, 3a ed., Milano, 2019, p. 579; M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in Tratt. contr. Roppo, IV, Rimedi, 1, 2a ed., Milano, 2023, p. 164; M. Girolami, voce Nullità di protezione, in Enc. dir., I tematici, I, Contratto, Milano, 2021, p. 712 ss. Con particolare riguardo al problema dell’integrazione del contratto del consumatore parzialmente nullo, v., poi, S. Gatti, Oltre la nullità (parziale) di protezione del contratto B2C: integrazione e restituzioni nella prospettiva di una tutela utile per il contraente debole, in Pers. e merc., 2022, p. 608 ss.
[9] In argomento v., per tutti, M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, Roma, 2021, reperibile al seguente link: https://www.editricesapienza.it/sites/default/files/5950_Bianca_Vol_Child_completo.pdf.
[10] Cfr. S. Matteini Chiari, Adozione. Nazionale, internazionale e affidamento a terzi, Milano, 2019, p. 201 s.
[11] Fra gli altri v., anche per i relativi riferimenti giurisprudenziali, C.M. Bianca, Disabilità e adozione, in Scritti in memoria di G. Cattaneo, I, Milano, 2002, p. 209 ss.; N. Cipriani, Le adozioni, in A. Cordiano - R. Senigaglia (a cura di), Diritto civile minorile, Napoli, 2022, p. 335; L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, in G. Collura - L. Lenti - M. Mantovani (a cura di), Filiazione, in Tratt. dir. fam. Zatti, 2a ed., Milano, 2012, p. 871; F.M. Scaramuzzino, Sub art. 6 legge 4 maggio 1983, n. 184, in Comm. dir. fam. Zaccaria, 4a ed., Milano, 2020, p. 1846.
[12] L’espressione era rinvenibile solamente nell’intitolazione del d.d.l. n. 1066 e nell’articolato dei d.d.l. n. 413 e 690. La utilizzava, inoltre, anche il d.d.l. n. 885, ma in maniera del tutto estemporanea nel dettare le attribuzioni della istituenda «Consulta per la parità di trattamento delle persone che sono state affette da patologie oncologiche».
[13] V., ex multis, V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, Milano, 2019.
[14] Le parole riportate tra virgolette nel testo sono di M. Bianca, Memoria ed oblio: due reali antagonisti?, in MediaLaws, 2019, p. 28 s.
Esiste in Giappone un sistema comune di formazione dei professionisti del diritto, ed in particolare per le tre professioni giuridiche (giudice, procuratore, avvocato). Le qualifiche per diventare magistrato e avvocato sono infatti le stesse. Più precisamente, è necessario (i) superare l’esame di abilitazione alla professione forense e (ii) completare una formazione giuridica.
(i) l’esame di abilitazione alla professione forense
Le qualifiche necessarie per accedere all’esame di abilitazione alla professione forense sono (i) un diploma di laurea specialistica in una facoltà di giurisprudenza (M2) o (ii) il superamento dell’esame preliminare. Negli ultimi anni, il tasso di riuscita all’esame di abilitazione alla professione forense sono stati di circa il 30% e il numero di candidati che hanno superato l’esame è di circa 1500. Per quanto attiene all’esame preliminare, non ci sono requisiti di ammissibilità, ma il tasso di riuscita è inferiore al 5% e il numero di candidati che lo hanno superato è inferiore a 500. Tuttavia, con tale sistema, la persona più giovane che abbia superato l’esame di abilitazione alla professione forense ha l’età di 20 anni.
(ii) la formazione giuridica
Coloro che superano l’esame di abilitazione alla professione di avvocato seguono una formazione giuridica di un anno per acquisire la pratica del diritto. Il cuore dell’insegnamento dell’apprendistato giuridico consiste nel trasmettere le conoscenze richieste per le funzioni che, rispettivamente, i tre professionisti del diritto saranno chiamati a svolgere, sotto la supervisione di professionisti che esercitano concretamente una attività giuridica, e nel sensibilizzare all’etica giuridica. Il contenuto specifico della formazione consiste in periodi di formazione e di insegnamento frontale presso quattro sedi: i tribunali (camere civili e penali), gli uffici di procura e gli studi di avvocati. Al termine della formazione giuridica, l’uditore è chiamato a superare delle prove d’esame finali, il cui tasso di riuscita è generalmente superiore al 95%.
La riforma del sistema giudiziario
All’inizio dell’anno 2000 vi è stata in Giappone una riforma dell’ordinamento giudiziario. In origine, gli esami di abilitazione alla professione legale erano accessibili agli studenti a partire dal terzo anno di università, i quali potevano candidarsi a sostenerli un numero indeterminato di volte, a prescindere dal diploma di primo ciclo di cui erano in possesso, con un tasso di riuscita di circa il 5%. In risposta a questo debole tasso di riuscita, alla carenza di risorse umane diversificate nelle professioni giuridiche e alla già sottodimensionata popolazione dei professionisti del diritto, sono state istituite delle scuole di diritto per sostenere la formazione giuridica. Inizialmente, l’aspettativa era che il tasso di successo agli esami di abilitazione alla professione forense dopo l’ottenimento del diploma delle scuola di diritto si attestasse intorno al 70 o 80%, sebbene in pratica tali soglie non siano mai state raggiunte.
Reclutamento dei magistrati
In Giappone, i giudici ed i procuratori appartengono a due ordini professionali distinti e non vi sono possibilità di passaggi diretti dall’uno all’altro. Conseguentemente, il reclutamento è effettuato separatamente dalla Corte suprema per i giudici e dal Ministero della giustizia per i procuratori. Il reclutamento è di norma basato sui risultati degli esami di accesso alla professione forense, dalle attitudini e dalle performance emersi durante la formazione successiva e da altri fattori. Durante la formazione, gli stagisti possono anche essere invitati dagli insegnanti degli istituti di formazione.
In tal modo, circa 80 persone ogni anno diventano giudici (giudici aggiunti) o procuratori.
La formazione dei giudici dopo la nomina
I giudici giapponesi si distinguono in « giudici aggiunti » e « giudici »; i primi non possono pronunciarsi in maniera autonoma. Per diventare giudice, sono necessari almeno dieci anni di esperienza professionale, nel corso dei quali il giudice aggiunto apprende a redigere le sentenze e condurre il processo sotto la direzione di giudici di esperienza in un contesto collegiale. Esiste in ogni caso un’eccezione alla legge, che permette in effetti ai giudici aggiunti di ricoprire funzioni monocratiche già a partire dal sesto anno.
La nomina come giudice è soggetta alla valutazione del Comitato consultivo per la nomina dei giudici delle giurisdizioni inferiori, e la maggior parte di coloro che sono nominati giudici provengono dai ranghi dei giudici aggiunti, sebbene sia possibile la nomina anche tra gli avvocati.
L’Istituto di formazione giuridica è l’ente incaricato della formazione dei giudici. Sono previste delle formazioni specifiche in relazione all’anzianità di servizio e al settore di specializzazione. Inoltre, esiste una formazione in materia di insegnamento generale nonché possibilità di studiare la filosofia, la statistica, la contabilità e i sistemi giuridici stranieri.
E’ altresì necessario acquisire esperienze in ambiti professionali diversi rispetto alle funzioni giudicanti durante il periodo in cui si ricopre la carica di giudice aggiunto. A tal fine, i distacchi possono avvenire presso agenzie amministrative, uffici legislativi parlamentari, imprese private e studi di avvocati. In tal modo, il giudici ricevono una formazione che permette loro di acquisire diverse prospettive di valutazione.
I giudici sono destinati a svolgere le funzioni su tutto il territorio nazionale, e sono trasferiti ogni due o tre anni. In generale, tali trasferimento avvengono alternativamente nella regione di elezione e in altre regioni.
Formazione dei procuratori dopo la loro elezione.
I procuratori ricevono una formazione adeguata all’anzianità di servizio ed al settore di specializzazione. I primi cinque anni sono normalmente considerati come un periodo di formazione: durante tale periodo, i procuratori sono affiancati a colleghi di maggiore esperienza su dossier complessi in materie quali la corruzione, l’evasione fiscale e le frodi elettorali, occupandosi contestualmente in veste di titolare di affari in materia di delitti contro il patrimonio e contro la persona nonché in materia di droga.
[i] Nasa Isihii è giudice al Tribunale di Tokyo.
Questo contributo è stato redatto in lingua francese per Giustizia Insieme. Traduzione italiana di Sibilla Ottoni
Il livello culturale dei giuristi che svolgono attività giudiziaria e forense influenza direttamente la qualità ed efficienza del servizio giustizia. Il tema della formazione di magistrati e avvocati è quindi un tema di interesse pubblico, non sempre adeguatamente considerato dal legislatore nella ricerca di soluzioni alle problematiche del settore. Si assiste peraltro oggi a una divaricazione tra i due corpi della magistratura e dell’avvocatura che, sia essa reale o percepita, genera disfunzioni pratiche ed inquina il dibattito. La necessità di una cultura comune è da tempo e da tutti invocata, ma la costruzione di essa necessita di una formazione comune che mostra ancora profili di inadeguatezza. Un contributo al dibattito può essere dato portando l’attenzione alla fase di selezione di magistrati e avvocati, sul presupposto che percorsi formativi comuni possono essere efficacemente strutturati solo ove finalizzati a procedimenti selettivi omogenei.
Sommario: 1. Complessità della moderna scienza giuridica e formazione del giurista moderno - 2. La formazione del giurista forense come questione di interesse pubblico - 3. Cultura e formazione comune di magistrati e avvocati - 4. Formazione e selezione, un’endiadi - 5. Genesi di una divergenza e prospettive di convergenza.
1. Complessità della moderna scienza giuridica e formazione del giurista moderno
Il diritto, scienza sociale, evolve con la società, in ragione di spinte endogene ed esogene i cui effetti si combinano. Si tratta di fenomeni dalla complessa e variegata origine e dalle molteplici implicazioni cui ci si limita qui a fare cenno al solo fine di collocare concettualmente alcune considerazioni. Sotto un primo punto di vista, da decenni si assiste ad un’evoluzione del paradigma di legalità, attraverso lo stratificarsi verticale degli ordinamenti e conseguentemente delle fonti di diversa provenienza e rango; si passa così da un concetto di legalità formale ad uno di legalità sostanziale, in nome del quale la vincolatività del diritto positivo recede rispetto alla forza precettiva dei principi. Di tali principi si arricchiscono e moltiplicano le codificazioni, che contribuiscono dall’alto all’elaborazione teorica delle nuove generazioni di diritti che si vanno affermando, tutti potenzialmente in conflitto gli uni con gli altri se non altro per la endemica scarsità delle risorse destinate ad assicurarne sotto qualsiasi forma – anche quella minimale di azionabilità in giudizio – la tutela. A ciò si accompagna, in senso inverso, lo stratificarsi della normazione primaria e secondaria e la natura tecnica della disciplina settoriale, che risponde ad una società sempre più complessa in quanto a strutture sociali ed economiche, a possibilità di interazione ed a strumenti di comunicazione. La complessità tecnica dell’ordinamento (o degli ordinamenti) è poi ulteriormente enfatizzata dalla possibilità di accesso immediato, ma frammentato e parziale, alla normativa assicurato da sempre più evoluti strumenti informatici. Sempre più centrale è allora, per il giurista, la capacità di analisi e di sistematizzazione, anche oltre l’ambito strettamente giuridico, come impone l’interazione con altre sfere, precipuamente quella economica, ma anche quella geopolitica.
Tale evolversi dello scenario teorico ed operativo di riferimento ha quindi implicazioni inevitabili in materia di formazione giuridica, che così potrebbero riassumersi: l’ampliarsi e lo sfaccettarsi della regola a favore del principio porta con sé una maggior centralità – anche in termini politici – dell’attività interpretativa; l’ipertrofia normativa rende più difficoltosa l’attività di selezione dei fatti giuridicamente rilevanti. Il giurista è così chiamato a un duplice esercizio. Da un lato deve essere portatore di una cultura di ampio respiro e di strumenti intellettuali all’altezza della delicata ed accurata opera di bilanciamento che le nuove forme di interpretazione gli richiedono; dall’altro deve essere specialista, capace di destreggiarsi nell’ipertrofia normativa, padrone di abilità e tecniche che glie lo consentano.
La pur acquisita consapevolezza che scienza e tecnica sono componenti coessenziali all’attività giuridica[1], tuttavia, difficilmente trova adeguato riscontro nella proposta formativa universitaria e post universitaria, che sconta mancanze in un senso e nell’altro e comunque fatica a concentrarsi efficacemente sui rapporti tra le due componenti, ad operare una sintesi che pacifichi questa doppia anima, nella tendenza ad ispirarsi ad altri sistemi formativi enfatizzando alternativamente la componente culturale o quella professionalizzante, pur sempre avvertendo la necessaria, costante tensione verso il polo opposto e scontando quindi una qualche forma di incompiutezza[2].
2. La formazione del giurista forense come questione di interesse pubblico
Il tema della formazione giuridica nei termini così brevemente riassunti è stato variamente approcciato, specialmente in prospettiva di analisi delle riforme degli studi universitari in materia, al fine di un inquadramento in termini filosofici e politici del ruolo del giurista[3], del suo ruolo cioè di interprete delle regole che governano le interazioni sociali, dell’inconsapevole riflesso che la cultura giuridica di chi la detiene può avere sui rapporti di potere interni alla società stessa[4]. Nell’insieme, tali studi hanno ampiamente messo in guardia rispetto ai pericoli potenziali di uno scivolamento verso un sapere sempre più tecnico – in quanto tale inaccessibile per i soggetti le cui vite pure ne risultano dominate – e sempre meno attento ai profili filosofici, storici e sociologici che governano le interazioni tra quei soggetti.
Forse marginale rispetto all’ampiezza di tali riflessioni, ma comunque naturale corollario di esse, resta il tema della preparazione del giurista come strettamente connessa alla pubblica funzione cui egli è chiamato a partecipare, come tema cioè inerente il buon funzionamento del settore giustizia, l’efficace svolgersi dell’attività giudiziaria.
Da tale punto di vista, viene in rilievo specificamente la formazione del giurista operante in ambito giudiziario e forense, la cui eventuale inadeguatezza genera disfunzioni concrete, quotidianamente sperimentabili, che in ciò hanno la propria causa e che è infruttuoso tentare di correggere intervenendo su altri fattori. Al di là di più ampie considerazioni socio-culturali, è allora opportuno interrogarsi su un modello di formazione che metta il giurista in condizioni di operare agevolmente nell’attuale scenario ordinamentale, e contestualmente, conseguentemente, metta il sistema giustizia in condizioni di funzionare.
Sia in ambito universitario che in ambito post universitario (e, verrebbe da dire, anche nell’ambito della formazione permanente), può constatarsi una generalizzata scarsa attenzione culturale per il ruolo del formatore[5], nella migliore delle ipotesi selezionato in quanto esperto dei contenuti da veicolare e non invece perché consapevole ed attento alla funzione didattica in sé. Da ciò forse si ingenera l’insufficienza dell’offerta pubblica di preparazione alle professioni giudiziarie e forensi, surclassata da proposte private che, esse si, per essere accattivanti devono essere efficaci, e dove quindi la metodologia della formazione è necessariamente al centro della proposta. Il formatore pubblico dovrebbe porsi un analogo obiettivo di efficacia, interrogarsi primariamente sul perché i giuristi forensi debbano essere formati, e solo successivamente, conseguentemente, incentrarsi sulle metodologie formative più idonee. In altri termini, inquadrare il tema della formazione dei professionisti forensi come un tema inerente il buon funzionamento della giustizia (intesa come funzione pubblica e pubblico servizio) è punto di partenza per accendere sul tema una luce critica concreta, da porre all’attenzione degli attori istituzionali, e non soltanto della comunità giuridica in seno alla quale il dibattito si è principalmente sviluppato, restando in tal modo autoreferenziale.
Le tematiche e problematiche cui si è fatto cenno, nell’impatto che hanno sul funzionamento del sistema giudiziario, sono appunto comuni ai giuristi che quotidianamente vi partecipano svolgendo attività processuale, ossia magistrati e avvocati. La riflessione sulle sfide culturali che si pongono per tali soggetti non può quindi che essere compiuta in maniera unitaria. E invece il dibattito pubblico sul buon funzionamento della giustizia è ampiamente incentrato a migliorare le performance (brutta parola quanto mai calzante) della magistratura, attraverso proposte variegate, dalle accelerazioni che ci si illude di poter imporre con riforme del rito all’ausilio che sconsolatamente si richiede a collaboratori temporanei non selezionati né formati. Manca tuttavia una analoga attenzione alle performance dell’avvocatura, come se la qualità del servizio di difesa offerto ai cittadini, pure costituzionalizzato, non fosse questione di interesse pubblico per il solo fatto di essere affidato ad un corpo di professionisti privati. Identiche perplessità desta l’attenzione mediatica riservata alle valutazioni interne dei magistrati, cui non corrisponde un’analoga preoccupazione per la valutazione degli avvocati.
La mancanza di una adeguata selezione degli avvocati ha conseguenze pervasive in termini di deontologia e professionalità, evidenziate anche dall’interno[6] e comunque sperimentabili nel quotidiano delle aule di giustizia, con ricadute più evidenti in materia civile, dove una parte dell’avvocatura ha dismesso la fondamentale funzione di filtro, la capacità di selezionare le istanze fondate da quelle che palesemente non lo sono, la capacità di orientare le controversie bagatellari o seriali verso forme alternative di risoluzione, alimentando l’ipertrofia del contenzioso più di qualsiasi altro fattore. Al tempo stesso, la diffusa scarsa attenzione per la qualità della tecnica redazionale, tale da costringere il legislatore ad inserire richiami in tal senso nel codice di procedura[7], rischia di lasciare solo il giudicante nell’attività argomentativa aggravandone sensibilmente il lavoro. Il tema della formazione si appalesa allora, anche da tale punto di vista, come centrale.
3. Cultura e formazione comune di magistrati e avvocati
Nello svolgimento del processo il ruolo dell’avvocatura è in buona misura preminente rispetto a quello della magistratura. Ciò è evidentissimo in materia civile, dove il principio dispositivo ed il regime delle preclusioni rimettono alla difesa tecnica l’impostazione processuale della causa in termini sostanzialmente vincolanti per il giudicante.
E’ quindi fondamentale che l’avvocato, ancor più del magistrato, sia in condizioni di cogliere pienamente la complessità e delicatezza della propria funzione, ed abbia le risorse culturali e tecniche, ma anche umane, per svolgerla dignitosamente. Se unitaria è – deve essere – l’impronta culturale, unitaria deve – dovrebbe idealmente essere – la formazione. L’esigenza che si impone, in termini di interesse pubblico prima ancora che in termini di evoluzione culturale, è quindi non soltanto quella di una formazione di livello superiore e di contenuto complesso e composito per magistrati e avvocati, ma anche quella di una formazione comune, o quantomeno omogenea, di queste due categorie.
Il legislatore ha mostrato consapevolezza di questa esigenza laddove, nel concepire il concorso in magistratura come concorso di secondo livello a metà degli anni 2000[8] e nel prevedere tra i titoli di accesso al concorso quello di avvocato, ha contestualmente riconosciuto un ruolo centrale alle SSPL istituite con la legge 127/1997[9]. Sebbene la normativa, per come originariamente formulata, sembrava piuttosto volta a garantire un canale privilegiato di accesso ad una data categoria (e in quanto tale è stata censurata dalla Corte Costituzionale), non era sbagliata (e infatti fu avallata dalla Corte) l’idea che una certa esperienza nell’esercizio della professione forense potesse aver contribuito a sviluppare delle capacità funzionali all’esercizio dell’attività giurisdizionale[10]. Del resto, da entrambi i lati, si tratta di inquadrare la fattispecie concreta nelle astratte categorie giuridiche, individuando gli elementi costitutivi delle pretese, selezionando conseguentemente i fatti rilevanti, e poi argomentando.
L’idea di una comunicabilità tra i due settori poteva quindi significare riconoscimento della comunanza di implicazioni nello svolgimento dell’una e dell’altra, riconoscimento della contitolarità in capo alle due categorie della funzione di assicurare la tutela in giudizio dei diritti. Presupponeva, insomma, una cultura comune. E tale cultura comune era appunto resa possibile dalle scuole superiori, astrattamente idonee allo scopo, se si considera l’iniziale previsione di un percorso giudiziario-forense come specifico e distinto rispetto a quello notarile[11], la multidisciplinarietà del consiglio direttivo[12], l’obiettivo formativo volto allo sviluppo non solo di competenze ma anche di attitudini[13]. E infatti l’istituzione delle scuole fu inizialmente salutata con grande favore, anche e soprattutto in quanto queste erano pensate come strumenti di accrescimento culturale e solo indirettamente come strumento specificamente volto al superamento del concorso[14].
4. Formazione e selezione, un’endiadi
Il fallimento delle SSPL, il loro superamento di fatto attraverso il moltiplicarsi dei corsi privati per la preparazione del concorso in magistratura da un lato, delle scuole forensi[15] dall’altro, è invece purtroppo dovuto esattamente a ciò, ossia al fatto che le scuole superiori sono state impostate in continuità con la formazione universitaria, scontandone tutte le contraddizioni e insufficienze, dovute principalmente alla lentezza con cui tale modello faticosamente si rinnova e si adegua[16], e non sembrano invece essere strutturate in modo da preparare adeguatamente al superamento della prova concorsuale e dell’esame di stato. Né potrebbero proficuamente esserlo, ad oggi, a fronte di forme di selezione macroscopicamente diverse, e in ciò potrebbe forse individuarsi il germe di tale fallimento: se la matrice culturale e attitudinale della professione di avvocato e di quella di magistrato deve essere la stessa, non soltanto serve una formazione comune bensì, ancora di più, serve una selezione ispirata a principi comuni.
Unificare la formazione senza uniformare la selezione costituisce infatti una trappola concettuale; significa pensare i due momenti come autonomi l’uno dall’altro, quasi che per superare la prova selettiva servano attitudini e conoscenze diverse rispetto a quelle che poi serviranno per svolgere la funzione. Se ciò si verifica, se la selezione risponde a logiche sue proprie avulse da quelle che hanno ispirato la formazione, vuol dire che è la selezione a dover essere rivista, non essendo idonea a scegliere correttamente i candidati in base alle specifiche capacità richieste. Specularmente, a fronte di una selezione seria, l’insufficienza della formazione al suo superamento vuol dire che ad essere ripensata deve essere la formazione stessa. In ogni caso è parziale qualsiasi discorso sull’una che non consideri anche l’altra, posto peraltro che la scelta di un dato modello di selezione è elemento capace di per sé di provocare una evoluzione dell’offerta culturale sottesa, generandone la domanda.
Del resto, pensare ad una selezione comune o quantomeno omogenea di magistrati e avvocati non significa disconoscere le peculiarità delle due professioni in quanto non osta, e anzi suggerisce, l’ipotesi percorsi di perfezionamento e completamento della formazione differenziati che dovrebbero tuttavia essere, idealmente, successivi rispetto alla selezione stessa. Si pensi alla previsione normativa del periodo di tirocinio successivo al superamento del concorso in magistratura[17], rispetto al quale al momento dell’introduzione sono state sollevate perplessità, posto che che la reintroduzione di un momento di formazione successivo alla selezione palesava sfiducia nella capacità dei titoli di accesso di garantire idoneità allo svolgimento delle funzioni[18]. Questa previsione invece, a ben vedere, è pienamente coerente con la complessità della formazione e con la specificità delle funzioni giurisdizionali, sicché pare del tutto logico che i magistrati siano dapprima selezionati in ragione di requisiti culturali ed attitudinali nonché in ragione di capacità espositive ed argomentative, e solo successivamente siano formati allo svolgimento del mestiere, attraverso un percorso che è ancora, deve essere, di ulteriore eventuale selezione laddove emergano, in concreto, profili di inidoneità sfuggiti alla procedura concorsuale.
Identico discorso potrebbe e dovrebbe farsi per l’avvocatura. Si apprezza invece fortissima l’inversione logica implicita nell’attuale modello di selezione e formazione della classe forense, in cui gli aspiranti avvocati – tutti, senza alcun filtro – sono dapprima formati al concreto svolgimento del mestiere attraverso la pratica forense, e solo successivamente selezionati, ossia valutati in termini di idoneità culturale ed attitudinale nonché di concrete capacità redazionali ed argomentative.
5. Genesi di una divergenza e prospettive di convergenza
Una parte del mondo forense da sempre resiste a prospettive di riforma dell’esame di stato in senso di maggiore selettività[19], che peraltro gioverebbero in primis alla categoria, costretta ad operare in condizioni che sono state definite in sede parlamentare di “concorrenza sleale al ribasso”[20], determinatesi anche in conseguenza dell’omologazione della professione con la soppressione della figura del procuratore imposta per uniformarsi al modello europeo ed al principio di libera circolazione. Se quella distinzione tra un’avvocatura alta ed una bassa, determinata esclusivamente da ragioni anagrafiche, era certamente un’ipocrisia da svelare[21], non meno ipocrita è un modello di professione formalmente regolamentata attraverso la necessaria iscrizione ad un albo ma, di fatto, talmente aperta da determinare un’offerta di servizi legali sovrabbondante, il cui livello non può conseguentemente essere omogeneo e tantomeno elevato. Lo stesso Guido Alpa, presidente emerito del Cnf, in occasione di un convegno sul tema tenutosi alla Sapienza di Roma nel luglio 2022 ha affermato “261mila avvocati sono un problema di mercato, di comportamenti, a proposito di deontologia, e di collocazione nell’ambito dell’attività lavorativa”[22].
Alla base di tale problematica vi sono fattori complessi che nell’economia di questo saggio non possono essere adeguatamente approfonditi, come l’esistenza di interessi di ordine politico e di ordine previdenziale a mantenere un’ampia base demografica. Ad ogni modo, difettano attualmente i presupposti per una seria riflessione su una cultura comune dei giuristi forensi, le cui strade sono rese divergenti da due modelli di selezione lontani tra loro al punto da stentare talvolta le due categorie a riconoscersi come un’unica comunità intellettuale titolare della delicata funzione di attuazione giudiziale dei diritti, il che alimenta tensioni[23] capaci di ingenerare conseguenze concrete. Il dibattito sulla separazione delle carriere, ad esempio, almeno in parte può spiegarsi in termini di antagonismo, di rapporti vissuti come dispari, di reciproca inferiorità o superiorità, comunque di alterità culturale tra le due categorie. E, del resto, da un lato c’è un corpo selezionato in modo stringente (sebbene in forme che andrebbero sotto vari profili ripensate), costantemente valutato (sebbene con modalità ed esiti opinabili) e tendenzialmente individuato, nel bene e nel male, come attore unico dell’amministrazione della giustizia, da cui dipende l’equilibrio del settore e cui, più spesso, se ne imputano i disequilibri; dall’altro c’è un corpo estremamente numeroso, non soggetto a valutazioni se non a quelle fallaci del mercato, che ha al proprio interno una componente destinata a rimanere attrice secondaria della giustizia, collocata dal lato di chi ne subisce le disfunzioni anziché dal lato – scomodo – che le competerebbe, quello di chi contribuisce a crearle e ben potrebbe, quindi, contribuire a risolverle. Se così è, evidente è il rischio di elitarismo da parte della magistratura, il pericolo che taluni suoi esponenti possano sentirsi, per il solo fatto di aver superato un concorso, investiti di un ruolo sovraordinato – anziché semplicemente complementare, altro – rispetto a quello dell’avvocatura, la cui reazione è spesso di difesa corporativa[24] a dispetto di quella componente che per prima avverte e subisce le conseguenze di questa divaricazione[25].
In questo scenario, qualsiasi forma di comunicabilità diretta tra i due settori è difficilmente immaginabile[26], posto che l’idea dell’avvocato come soggetto già formato che deve solo impratichirsi su una nuova funzione, alla base di tante proposte di scorciatoia da riservarsi a detta categoria rispetto alla serietà della selezione concorsuale[27], è non soltanto fallace ma potenzialmente pericolosa, rischiando di trascinare a ribasso la selezione dei magistrati.
Le modalità di selezione ad entrambe le professioni sono state e sono anche attualmente oggetto di riflessioni nonché interessate da riforme[28]. Tali riflessioni e tali proposte normative non eludono la considerazione che una forma di preselezione sia funzionale alla serietà della procedura selettiva stessa, osteggiata da numeri eccessivi[29], né prescindono da considerazioni di ordine democratico quanto ad ampiezza ed eterogeneità della base di partecipazione[30]. Scontano tuttavia una grave mancanza, in quanto non sono contestuali né coordinate, e neppure sembrano tenere conto le une delle altre. Una riflessione sulla formazione intellettuale comune dei giuristi forensi chiama invece direttamente in causa le istituzioni pubbliche, ma anche quelle private, di corpo, e più in generale tutte le voci anche scientifiche e mediatiche del dibattito sulla giustizia, auspicando l’assunzione di una visione meno parziale, che non si concentri solo sull’equipaggio che svuota la nave con il secchio e guardi anche alle falle dello scafo che continua ad imbarcare acqua[31]. Recuperare una prospettiva unitaria in cui si pensi, sempre, a magistratura e avvocatura come a due parti che lavorano insieme è fondamentale per la costruzione di quella cultura comune della giurisdizione che, se deve nascere nelle università, deve poi vivere nelle aule di giustizia.
[1] Per tutti, su questi temi si faccia riferimento alla emblematica distinzione tra fare e saper fare di F. Carnelutti, Clinica del diritto, in «Rivista di diritto processuale civile», (1935), I, 169, o al discorso sulla coessenzialità di scienza (orientata verso il conoscere) e tecnica (che opera sulla base del conoscere) nelle riflessioni di S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, in Id., Grammatica e diritto, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 103-147.
[2] G. Resta, Quale formazione per quale giurista, in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, a cura di Beatrice Pasciuta e Luca Loschiavo, Roma Tre Press, 2018).
[3] Tra le opere più compiute in materia può farsi riferimento al progetto finanziato dal CNR su L’educazione giuridica di Alessandro Giuliani e Nicola Picardi, sfociato in una pluralità di pubblicazioni tra gli anni ’70 e gli anni ’90 (su cui si veda F. Treggiari, L’educazione al diritto, in Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, a cura di F. Cerrone– G. Repetto, Giuffrè, Milano 2012, pp. 827-844) nonché all’Osservatorio sulla formazione giuridica di Vincenzo Cerulli Irelli e Orlando Roselli, che ha prodotto numerose pubblicazioni raccolte in una collana (Collana per l’osservatorio sulla formazione giuridica, a cura di V. Cerulli-Irelli, O. Roselli, ESI, Napoli 2005-2007). Su queste ed altre, anche più recenti, iniziative, si è scritto che “Ciò che accomuna queste iniziative – tra loro evidentemente diversissime – è lo sguardo rivolto all’interno: i giuristi guardano sé stessi e riflettono su sé stessi” (B. Pasciuta, Le ragioni di una riflessione, in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, cit.).
[4] Una ricostruzione degli studi, anche stranieri, che si sono focalizzati su tali profili si trova in M. R. Marella, Per un’introduzione allo studio del diritto: costruire le competenze di base, e G. Resta, Quale formazione per quale giurista entrambi in La formazione del giurista, contributi a una riflessione, cit.).
[5] Cfr. ancora G. Resta, cit., che richiama e fa proprie le posizioni di Calamandrei, fortemente critiche verso un ambiente accademico che relega la didattica a un ruolo secondario rispetto a quello di elaborazione scientifica, citando P. Calamandrei, Troppi avvocati (1921), ora in Id., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. II, Napoli 1966, pp. 65 ss., 144
[6] Per tutti, ha posto il problema Guido Alpa in occasione di un recente convegno all’Università la Sapienza di Roma sul tema della formazione della classe forense, di cui si citerà un passaggio nel prosieguo di questo studio.
[7] Si guardi al nuovo art. 164, co. 4 e al nuovo art. 167, co. 1 c.p.c., in base ai quali i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda e le relative difese e contestazioni devono essere esposti e svolte «in modo chiaro e specifico», così come tutti gli atti del processo «sono redatti «in modo chiaro e sintetico» ai sensi del nuovo ultimo periodo del co. 1 dell’art. 121 c.p.c. Il difetto di sinteticità, ai sensi del co. 6 dell’art. 46 disp. att. c.p.c., non determina la nullità dell’atto «ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo». Si sofferma su questi profili F. Cossignani, Riforma Cartabia. Le modifiche al primo grado del processo di cognizione ordinario, in questa Rivista, sottolineando la differenza tra atti caratterizzati da “un alto grado di pedanteria e, ancora di più, qualora la pedanteria tracimi, come talvolta accade nei testi prolissi, in argomentazioni inutilmente arzigogolate, se non addirittura contraddittorie, ovvero in narrazione di fatti irrilevanti”, da censurare ai sensi delle norme richiamate, e “semplice sviluppo di una pluralità di argomentazioni concorrenti e/o l’allegazione di una lunga serie di fatti secondari utili a rafforzare le proprie tesi”, valutazione inevitabilmente casistica rispetto alla quale desta perplessità la previsione di un potere del Ministro di definire con decreto «i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti», come previsto dal nuovo art. 46, co. 5, disp. att. c.p.c.
[8] L. 25 luglio 2005, n. 150, art. 2, comma 1, lett. b); d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160, art. 2, confermato da l. 24 ottobre 2006, n. 269, e l. 30 luglio 2007, n. 111.
[9] Che, ai commi 113 e il 114 , ha delegato il governo all'emanazione di decreti legislativi per la disciplina dell'accesso alla magistratura, nonché per la formazione di notai e avvocati , da cui è originato il d.lgs. 17 novembre del 1997, n. 328
[10] P. Carluccio; R. Finocchi Ghersi, in Giornale Dir. Amm., 2011, 1, 75, e G. Di Chiara, in Dir. Pen. e Processo, 2010, 11, 1285, note a Corte cost. Sent., 15 ottobre 2010, n. 296, nota a Corte cost. Sent., 15 ottobre 2010, n. 296, con cui la Corte ha censurato l’irragionevolezza della scelta legislativa di limitare la possibilità di presentarsi al concorso agli iscritti agli albi che non abbiano riportato sanzioni disciplinari, non essendo il requisito di iscrizione di per sé idoneo a testimoniare il possesso di determinati requisiti, in quanto requisito esclusivamente formale, ben diverso dall’anzianità di iscrizione inizialmente ipotizzata, e discriminatorio rispetto ai soggetti titolari della mera abilitazione da avvocato ma, per qualsiasi ragione, non iscritti o cancellati, ed ha in tal senso riscontrato profili di contrasto con gli artt. 3, 51 e 104, comma 1, Cost.
[11] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, art. 7
[12] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, art. 5 “Il consiglio direttivo”, che ai sensi del successivo art. 6 programma le attività didattiche, “è composto di dodici membri, di cui sei professori universitari di discipline giuridiche ed economiche designati dal consiglio della facoltà di giurisprudenza; due magistrati ordinari, due avvocati e due notai scelti dal consiglio della facoltà di giurisprudenza, nell'ambito di tre rose di quattro nominativi formulate rispettivamente dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio nazionale forense e dal Consiglio nazionale del notariato” programma le attività didattiche (art. 6)
[13] D.m. 21 novembre 1999, n. 537, all. 1.
[14] G. Diotallevi, Il Regolamento Istitutivo Delle Scuole Forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800, sottolinea che le SSPL, nonostante il numero chiuso abbia indirettamente un effetto preselettivo rispetto ai partecipanti al concorso (finanche di dubbia costituzionalità), non costituiscono un segmento della procedura concorsuale, bensì assicurano che l’accesso al concorso stesso sia riservato a titolari di un titolo di studio superiore,. Ne fa quindi un tema culturale, accogliendo con favore il fatto che “finalmente” non tutto sia rimesso alla formazione iniziale e permanente del CSM.
[15] Si tratta delle scuole curate dagli ordini professionali (art. 29, comma 1, lett. c della l. 31 dicembre 2012, n. 247; art. 3 del D.P.R. 101/1990).
[16] Il fenomeno è fatto ampiamente fatto oggetto di riflessione. Sul punto, per tutti, oltre agli altri lavori già citati in nota si rinvia al contributo di A. Costanzo, Spunti per una nuova formazione comune per le professioni legali, in questa Rivista, ed alla bibliografia ivi citata.
[17] L. 24 ottobre 2006, n. 269, artt. 18 e ss.
[18] G. Finocchiaro, L'accesso in magistratura nella nuova legge italiana sull'ordinamento giudiziario, in Riv. dir. proc. 2009, 1491 e ss., e Dei tirocini formativi e dell'"ufficio per il processo", in Riv. dir.proc. 2015, 4-5, 961 e ss.
[19] A. Dondi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800, ricorda che contestualmente all’emanazione della legge Bassanini bis fu un presentato un d.d.l. (disegno Mirone) volto a strutturare l’esame di stato analogamente al concorso in magistratura, proposta seguita da un referendum tra i praticanti volto a manifestare il proprio dissenso. G. Diotallevi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi – Commento, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 7, 800 cita invece di iniziative che, per evitare le disparità di trattamento operate nei vari distretti tra i concorrenti all'esame di avvocato, tenderebbero ad escludere completamente la necessità di un concorso per l'abilitazione all'esercizio della professione forense.
[20] Tale è definita la condizione del mercato nel settore nella relazione di accompagnamento al d.d.l. Zanettin, n. 179/2022, avente ad oggetto “Modifiche alla legge 31 dicembre 2012, n.247, in materia di accesso alla professione forense”.
[21] E che invece il d.d.l. appena citato mira in certa misura a ripristinare, ipotizzando una differenziazione tra figure operanti in ambito forense.
[22] Riporta le dichiarazioni di Alpa F. Spasiano, Formare legali e giudici, Cnf e Scuola dell’avvocatura indicano il futuro, in www.ildubbio.news. Interessante anche il discorso di A. Dondi, Il regolamento istitutivo delle scuole forensi, cit., che pure si sofferma sulla correlazione tra numeri e qualità (di formazione, di servizio reso, di condizioni di esercizio), e prospetta il numero chiuso in giurisprudenza come parziale soluzione. Interessanti anche le osservazioni relative al codice deontologico forense italiano del 1997, cui mancherebbe secondo l’autore lo spessore normativo para-procedurale presente nei modelli di altri ordinamenti, fra tutti quello statunitense.
[23] Tra le tante dichiarazioni dai toni conflittuali, si vedano quelle del direttore della rivista online Il Dubbio, che nell’ambito del dibattito di cui si darà conto nella nota che segue si riferisce alla magistratura – laddove questa osa prendere parola riguardo alle condizioni dell’avvocatura in Italia – come al “nemico che ascolta”. Ne dà atto F. Spasiano, La mia provocazione a difesa del ruolo e del prestigio dell’Avvocatura, in www.ildubbio.news.
[24] In tal senso va l’atteggiamento di quell’avvocatura che si concentra sugli interessi della categoria – o, indifferentemente, di chi ambisce ad entrarvi – più che agli interessi dell’utenza, che a quella categoria si rivolge. Emblematico è l’intervento dell’avv. Vincenzo Di Maggio, riportato da F. Spasiano, Formare legali e giudici, Cnf e Scuola dell’avvocatura indicano il futuro, cit., per cui “non posso non convenire con chi colpevolizza la governance rivelatasi incapace di dare risposte convincenti o a interpretare le esigenze dei giovani e, a volte, addirittura frustrarne le aspirazioni in nome di una selezione che ha, al contrario, provocato una voragine, per esempio, nel fabbisogno statale dei medici”. L’incongruità del riferimento alla professione medica, che ha problemi inversi rispetto all’avvocatura in termini di quantità di professionisti sul mercato, svela l’ipocrisia di un discorso che attacca la selezione in quanto tale, non sussistendo alcuna ragione per doverla temere se non in quanto “frustrante” per le aspettative dei giovani praticanti. Col forte rischio di frustrazione, tuttavia, delle legittime aspettative dell’utenza (incolpevole e priva di strumenti di discernimento) che a dei professionisti non selezionati si rivolge per la soluzione dei propri problemi. In ciò si apprezza, in effetti, un punto di contatto molto forte con la professione medica, che impone di preferire sempre le esigenze della selezione su qualsiasi altra.
[25] Emblematico il dibattito sulla ri-abilitazione svoltosi nel 2021 in seno alla comunità forense sulla rivista online il Dubbio, ben riassunto nello scambio tra un avvocato, Corrado Carrubba, e il direttore Davide Varì, che allo sfogo e alla provocazione del primo (“continuo a ritenere che il numero dei professionisti operanti oggi in Italia sia almeno eccessivo […] il tema esiste. Ed esistono gli effetti deteriori che cagiona o che contribuisce a cagionare. […] Vogliamo tutti, anziani e giovani, garantire la qualità dell’Avvocatura? Ha diritto una persona ad essere certa di affidare i propri diritti, talvolta la propria vita, alla difesa di un soggetto selezionato che abbia, non solo che abbia avuto in passato, adeguata capacità ed esperienza? Se è si, come credo fermamente e so di essere in buona compagnia, allora troviamo e potenziamo mezzi e strumenti: abilitazione rigorosa all’esito di un vero e proprio percorso selettivo magari condiviso con i futuri magistrati, formazione professionale permanente seria, obbligatoria, verificabile (ad esempio non comprendo perché dopo 25 anni di professione si debba esserne esenti), vigilanza attenta e continua degli Ordini sugli iscritti anche sotto il profilo deontologico, un rinnovato ruolo di impulso, proposta, orgogliosa difesa del ruolo e prestigio dell’Avvocatura”) ha risposto lapidariamente “non possiamo far finta che fuori da queste stanze vi sia chi pensa di sfruttare la discussione dialettica tra avvocati in modo pretestuoso. Basti dare un’occhiata all’articolo di ieri di Piercamillo Davigo il quale, in modo ossessivo, torna a ripetere che il problema della giustizia è dato dall’eccessivo numero di avvocati.”. Riporta questo scambio F. Spasiano, La mia provocazione a difesa del ruolo e del prestigio dell’Avvocatura, cit.
[26] Sebbene vi siano state numerose iniziative normative che, nel tempo, hanno variamente modulato profili di contatto tra le due professioni, soprattutto nella fase di formazione. A titolo esemplificativo, l’art. 41, lett. b), comma 6, l. 31 dicembre 2012, n. 247, già prevedeva che il tirocinio forense potesse essere svolto per un anno presso un ufficio giudiziario; l’art. 73, d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (“decreto del fare”), ha introdotto il tirocinio presso gli uffici giudiziari riservato ai neolaureati in possesso di determinati requisiti di merito, inizialmente previsto come titolo per l’accesso al concorso con previsione espunta in sede di conversione (l. 9 agosto 2013, n. 98), nonché previsto come un anno di pratica forense o un anno di SSPL, come titolo di preferenza nei concorsi pubblici, come titolo di accesso alla carica di giudice di pace; il tirocinio è stato poi ridisciplinato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni in l. 11 agosto 2014, n. 114
[27] Tale sembra ad esempio essere la prospettiva in cui fu presentato il disegno di legge d’iniziativa governativa del 22 marzo 2000, in materia di aumento dell’organico della magistratura di mille unità e di riforma della disciplina del concorso, in cui era prevista, tra l’altro, una forma di reclutamento riservato per il 10% dei posti ad avvocati con almeno 5 anni di esercizio della professione, da selezionarsi sulla base di tre prove scritte ed anonime. Tale d.d.l. mirava ad introdurre un sistema di reclutamento parallelo, da un lato gli uditori giudiziari selezionati mediante il concorso, dall’altro i magistrati di tribunale, selezionati tra gli avvocati mediante l’introducenda selezione. La relazione al d.d.l. parla di una “opportunità di ventilazione esterna”, ispirata al modello francese, che presenta tuttavia con il nostro differenze tali da rendere inopportuna qualsiasi importazione acritica di istituti. Ancor più estrema la proposta di un concorso straordinario per mille magistrati da reclutarsi esclusivamente nei ranghi dell’avvocatura (proposta di legge n. 6851 A.C. XIII, Bonito, Carboni, Cesetti; Finocchiaro Fidelbo, Leoni, Lucidi, Olivieri, Parrelli, Siniscalchi). Dà atto di queste iniziative G. Diotallevi, Il Regolamento Istitutivo Delle Scuole Forensi, cit.
[28] La riforma del concorso in magistratura di cui alla legge n. 71/2022 («Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura») sarà approfondita in un prossimo autonomo contributo su questa Rivista. Si faccia intanto riferimento a D. Mercadante, La riforma dell'ordinamento giudiziario e il concorso in magistratura: progressi, dubbi, questioni aperte, in Questione Giustizia. Quanto alla riforma dell’esame da avvocato, si fa riferimento al d.d.l. Zanettin, di riforma della legge professionale forense e delle modalità di accesso alla professione, attualmente in Commissione Giustizia, la cui relazione di accompagnamento contiene soltanto un fugace riferimento ai “valori costituzionali che sono alla base della professione forense e della giurisdizione”.
[29] Sulla inidoneità della preselezione a ridurre i numeri e quindi rendere più celere la selezione, sul presupposto che risposte idonee a far fronte a questa esigenza sarebbero legittime purché efficaci, si è concentrata la giurisprudenza amministrativa, massicciamente adita a seguito dell’esperienza concorsuale che prevedeva lo svolgimento di una prova preselettiva (per tutte, v. C. Stato, ad. plen., 20 dicembre 1999). Il CSM ha enfatizzato il ruolo delle SSM proprio rispetto alla funzione di filtro (CSM delibera del 27 gennaio 2000).
[30] Temi che pure sono stati segnalati dalla dottrina. Si veda R. Caponi, La formazione postlaurea nelle professioni legali: situazione attuale e prospettive, in Foro Italiano, 2006, vol. 129 n. 11, 369 ss, che individua le due principali criticità del nostro sistema nella difficoltà di sostentamento dei giovani laureati in giurisprudenza (tema che in altri sistemi, quale quello tedesco, è in carico alle finanze pubbliche) e nella difficoltà di trovare una pratica forense realmente formativa.
[31] Sia consentito rinviare, per ulteriori considerazioni nello stesso senso che in parte esulano dall’oggetto di questo scritto, al mio Giustizia civile e ingiustizie, in questa Rivista.
*Relazione al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione”
Indice: 1. Il giudice amministrativo di fronte alla dissoluzione del provvedimento e del procedimento amministrativo. - 2. L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito. - 3. L’esaurimento del potere a prescindere dal carattere vincolato della decisione e la sostituzione nella cura discrezionale dell’interesse pubblico. Orientamenti della giurisprudenza. - 4. Osservazioni conclusive.
1. Il giudice amministrativo di fronte alla dissoluzione del provvedimento e del procedimento amministrativo.
Oggi come oggi, (quello del) “giudicare” è certamente un mestiere difficile.
Ovviamente lo è sempre stato, perlomeno da quando ha assunto le forme di un giudizio umano razionale e ha dismesso quelle del vaticinio sacerdotale di una volontà divina, di una giustizia divina. La perfezione, com’è noto, non è di questo mondo. L’errore è insito nella natura e nelle attività umane e anche la giustizia umana è fallace. Anzi. Qualsiasi sistema di giustizia dà per scontato che lo sia, nonostante la competenza, l’impegno e lo zelo che il giudice possa avere e impiegare nella decisione di una causa. E’ infatti immanente in qualsiasi sistema la previsione di mezzi d’impugnazione, cosa inconcepibile se si postulasse che una sentenza non possa essere sbagliata, ingiusta. Ma questo rientra nella fisiologia del sistema, anche perché il giudizio del giudice deve necessariamente maturare nell’ambito di un perimetro di conoscenza e di un arco temporale limitati. L’attività del giudice, volta ad accertare la verità tra contrapposte ricostruzioni della stessa, non può durare all’infinito, ma deve necessariamente svolgersi tra un momento iniziale e uno finale, ben definiti (la domanda e la pronuncia). L’accertamento della verità è stretto da questi confini perché deve necessariamente esserci un momento conclusivo dell’attività di accertamento e di assunzione della decisione. Res judicata pro veritate habetur. Non è la verità assoluta, ma qualcosa che ci va il più vicino possibile. Nessuno può mai garantire che, in assoluto, non ci siano errori nel giudizio.
Oggi come oggi, si è però molto arricchita, direi a dismisura, la complessità degli ordinamenti giuridici e, con essa, la comprensibilità e la governabilità dei medesimi. Il sistema delle fonti troppo spesso sfugge ormai alla sovranità e alla regolazione statuale e l’inserimento in un sistema sovranazionale multi livello rende ormai instabili persino le stesse decisioni rese dagli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza. Per altro verso, lo stesso Stato sempre più spesso crea, moltiplica e diversifica al suo interno le fonti, aumentando la confusione e l’incertezza e sempre più spesso legifera – come dire - in progress, pregiudicando la stabilità e la conoscibilità delle norme effettivamente applicabili ad un caso di specie (le leggi di “semplificazione” sono un vero e proprio paradosso). Non mi pare si possa cioè seriamente dubitare che il paesaggio giuridico odierno nel quale si muovono giudici e giuristi, soprattutto quello italiano, sia più difficile perché è più complesso e che ciò renda oggettivamente più difficile il mestiere del giudice.
Ma questo vale per qualsiasi giudice del nostro ordinamento nazionale.
Se veniamo al “nostro” Giudice amministrativo, il discorso assume una complessità senz’altro maggiore in ragione di diverse peculiarità che si rendono immediatamente evidenti.
Il quadro della complessità e della conseguente difficoltà di decidere si arricchisce, nel caso del Giudice amministrativo, di un ulteriore elemento di complicazione destinato ad operare come un vero e proprio fattore destabilizzante.
La dissoluzione ovvero la tendenziale scomparsa della decisione amministrativa.
Si tratta di una tendenza in atto ormai da tempo.
La frantumazione del potere decisionale e la moltiplicazione delle competenze derivate da spinte autonomistiche e pseudo federaliste; il riposizionamento della linea di confine tra pubblico e privato derivato da politiche di liberalizzazione e dal principio di sussidiarietà; la complessità e la lungaggine dei tempi del procedimento amministrativo da osservare per giungere ad una decisione; la “paura della firma” ingenerata dal timore d’incorrere in responsabilità per decisioni da assumere in contesti normativi oscuri e contraddittori; l’ulteriore fattore di confusione derivante dal crescente se non ormai abituale impiego dello strumento del commissariamento (per consentire, alla stessa amministrazione che sarebbe ordinariamente competente, di provvedere “in deroga a qualsiasi altra disposizione vigente”) o dalla teorizzazione della necessità di abbandonare modelli autoritativi per impiegare forme di diritto cd “gentile” (per persuadere i destinatari dell’utilità e bontà dell’attività dei pubblici poteri) per cercare di recuperare garanzie di risultato dell’azione amministrativa; sono tutti fattori che hanno portato alla decostruzione della categoria tradizionale del procedimento amministrativo e alla scomparsa della decisione amministrativa provvedimentale. La decisione amministrativa destinata a produrre gli effetti giuridici costitutivi modificativi o estintivi di un rapporto di diritto pubblico ormai sempre più spesso non viene assunta al termine di un procedimento amministrativo concepito come sequenza di atti preparatori tra loro legati da un rapporto di necessaria presupposizione, tale da consentirne la successiva verifica sotto il profilo della logicità e della validità giuridica.
Sempre più spesso il modello procedimentale è completamente abbandonato imputando direttamente al soggetto interessato la produzione degli effetti giuridici e le conseguenti responsabilità. L’impiego del modello dell’autodichiarazione del soggetto interessato non è più limitato ad atti meramente preparatori ma si estende alla fase costitutiva degli effetti del rapporto giuridico. DIA, SCIA, CILA e via dicendo.
Le misure di semplificazione procedimentale consentono di provvedere prescindendo dall’acquisizione dell’assenso e delle valutazioni delle amministrazioni portatrici di un interesse diverso da quello primario. Il già complesso istituto del silenzio si è arricchito delle figure del silenzio non impediente (art.16 l. 241) e del silenzio assenso tra PA. (art. 17 bis, l. 241) e il silenzio assenso da eccezione è divenuto regola generale (art.20, l.241).
Per altro verso, è divenuto ormai abituale l’impiego dell’atto avente forza di legge per provvedere alla cura concreta di interessi pubblici specifici e determinati allorquando vi sia la volontà politica di raggiungere un certo risultato. Non si è più di fronte al problema teorico tradizionale di ammettere o meno la possibilità che, in via eccezionale, possa aversi una legge – provvedimento. Siamo di fronte a un dato di sistema che dimostra come, dopo l’illusione di aver separato la politica dall’amministrazione distinguendo tra attività d’indirizzo e di gestione, la politica si è riappropriata dell’amministrazione degli interessi concreti spostandola al più elevato livello dell’esercizio di funzione legislativa. Il che, paradossalmente, ne garantisce peraltro l’immunità in quanto le decisioni si ammantano della forma legislativa e non amministrativa.
Insomma, nel terzo millennio la cura in concreto dell’interesse pubblico, in un numero sempre crescente di casi, ipotesi e situazioni, non passa più per l’attività amministrativa. O perché l’Amministrazione non è in grado di decidere; o perché evita di decidere in quanto timorosa delle responsabilità conseguenti alla decisione; o perchè la decisione si consuma già tutta al livello legislativo.
2. L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito.
Lo scenario che abbiamo oggi di fronte, contraddistinto dalla dissoluzione o evanescenza della decisione amministrativa, intesa come atto conclusivo dell’esercizio di una data funzione amministrativa, in gran parte dei casi priva il giudice amministrativo del termine di riferimento certo del suo operato e lo costringe in un certo senso a reinventarsi.
Ma, si dirà, qual è il problema ? oggetto del giudizio amministrativo ormai non è più l’atto, la sua mera legittimità, ma il rapporto sottostante; e il giudizio ha ormai ad oggetto la pretesa che, in nome del principio di effettività, il giudice amministrativo è tenuto ad assicurare se l’attore ha ragione. Tanto più che, dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, i suoi poteri non sono più limitati e ha tutti i mezzi per poterlo fare, sia cognitori che decisori; ivi compresa la possibilità di condannare al rilascio del provvedimento richiesto (art. 34, co. 1, lett. C c.p.a.) e, volendo, di indicare le misure attuative del giudicato e di nominare il commissario ad acta già in sede di cognizione (art. 34, lett. E c.p.a.).
In parte ciò è ovviamente vero, ma occorre intendersi su alcuni snodi fondamentali prima di trarre conclusioni troppo affrettate.
Uno di questi passa proprio per la distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito; distinzione troppo spesso e troppo sbrigativamente ritenuta quasi un mero retaggio storico sulla base dell’assunto, appena ricordato, che quella amministrativa sarebbe ormai sempre e comunque una giurisdizione piena, una full jurisdiction, non più astretta dai limiti tradizionalmente propri del giudizio di legittimità.
E sul punto bisogna intendersi bene, perché una cosa è assumere, correttamente, che il giudizio di legittimità, dopo le storiche sentenze della Corte costituzionale sull’istruttoria e l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, non ha più i limiti di cognizione che l’hanno contraddistinto in passato e consente al giudice di accedere pienamente ai fatti di causa; altra assumere che la cognizione sia estesa al merito anche nella giurisdizione di legittimità e che anche i poteri decisori (leggi : sostitutivi) siano gli stessi, sì da poter ritenere, erroneamente, che non vi sia più motivo per mantenere la distinzione.
Affermare che la distinzione sia venuta meno è affermazione eccessivamente disinvolta e sbrigativa.
Certamente alcuni tratti distintivi sono venuti meno: non c’è più differenza circa i mezzi istruttori ammissibili; la sostituzione è possibile se l’attività è vincolata e priva di profili di discrezionalità. Ma la distinzione è mantenuta nel codice del processo amministrativo, così come è conservata la configurazione della giurisdizione di merito come una giurisdizione eccezionale, esercitabile solo nei casi in cui è espressamente prevista.
Sono due indicazioni estremamente chiare, dalle quali un’interpretazione scientificamente corretta del sistema non può prescindere.
E’ dunque il caso di riflettere sul perchè, sin dall’origine, la giurisdizione di merito è stata concepita come eccezionale, praticabile cioè nei soli casi espressamente previsti dal legislatore e non in via generale. La ragione è nel fatto che essa postula e implica la possibilità di completa sostituzione del giudice all’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico, nella scelta della soluzione più giusta per il caso concreto. E il carattere eccezionale vale di per sé solo a sottolineare, anche a voler prescindere dai principi generali dell’Ordinamento, che la piena sostituzione del giudice, anche se amministrativo, all’amministrazione, in linea di principio è vietata. E’ l’elasticità del principio della separazione dei poteri che ne consente la sua modulazione: al giudice ordinario è vietato annullare gli atti amministrativi; cosa che è invece consentita al giudice amministrativo riposizionando tuttavia il confine sulla linea del divieto di sostituzione piena, ammessa solo eccezionalmente.
Ammettere che, in casi eccezionali, il giudice amministrativo possa sostituirsi pienamente all’amministrazione, implica infatti necessariamente ammettere anche che il giudice debba poter conoscere e ponderare direttamente gli interessi coinvolti nell’azione amministrativa per stabilirne l’assetto ritenuto più giusto nel caso concreto ed adottare la decisione in luogo dell’amministrazione inadempiente. Non è un caso che il caso più importante di giurisdizione estesa al merito sia rappresentato dal giudizio di ottemperanza, che non corrisponde ad un’unica ben determinata materia, ma individua qualsiasi ipotesi in cui vi sia stato un precedente accertamento giudiziale della illegittimità dell’azione amministrativa e l’amministrazione insista nel tenere una condotta non conforme a legge. Il persistere dell’inadempimento, successivamente all’accertamento giurisdizionale della sua sussistenza, giustifica l’intervento sostitutivo pieno del giudice.
Se sono queste le ragioni che, in breve, spiegano il carattere eccezionale della giurisdizione di merito, è evidente che esse non sono minimamente scalfite dal fatto che, per accertare la sussistenza di un vizio di legittimità dell’azione amministrativa, il giudice possa avvalersi a tal fine, anche nella giurisdizione generale di legittimità, di qualsiasi mezzo di prova previsto dal codice di procedura civile, ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento. E (non sono scalfite) nemmeno dal fatto che, anche nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, il giudice possa comunque condannare al rilascio del provvedimento richiesto, poiché, per definizione, stante l’esplicito richiamo dell’art. 34, lett C c.p.a. ai limiti di cui all’art 31, 3 co. c.p.a., questa ipotesi non è formulata in termini generali, ma suppone, per poter essere praticata, che non vi siano margini di scelta discrezionale e che residui unicamente un’attività vincolata. Così come non può assumere rilevanza la possibilità di indicare sin dal momento della cognizione le misure attuative del giudicato (art. 34, lett. E c.p.a.) perché la decisione da eseguire rappresenta comunque un prius rispetto alla misura attuativa che può e deve muoversi nel rispetto e nei limiti della prima (in tal senso la disposizione viene correttamente applicata ad esempio dalla recente pronuncia Cons Stato Sez. Sesta 12 5 2023 n. 4800, in un caso in cui, accolta la domanda di condanna al pagamento di una somma di danaro, vengono subito definiti tempi e modalità del pagamento e nominato il commissario ad acta.
Il fatto che in sede di giurisdizionale di legittimità non vi siano più limitazioni dei mezzi istruttori ammissibili, così come il fatto che sia possibile condannare al rilascio del provvedimento richiesto se l’attività si presenta interamente vincolata, non sembrano dunque offrire spunti interpretativi tali da consentire di stravolgere il fondamentale criterio interpretativo derivante dal sistema, che mantiene ferma la distinzione e le attribuisce un preciso significato: “nell’esercizio di tale giurisdizione (di merito) il giudice può sostituirsi all’amministrazione”.
La posizione del legislatore e del codice del processo amministrativo è dunque molto chiara: il confine tra giurisdizione di legittimità e di merito esiste ed è volto a differenziare il potere decisorio in relazione all’affare trattato (sostituzione piena dell’amministrazione e conseguente venir meno anche della limitazione della cognizione ai soli profili di legittimità).
A fronte di ciò, lo story telling giuridico più in voga, valorizzando oltre misura spunti esegetici offerti da disposizioni in realtà saldamente ancorate al ricorrere di ben precisi presupposti, sembrerebbe ritenere la distinzione obsoleta e ormai superata.
3. L’esaurimento del potere a prescindere dal carattere vincolato della decisione e la sostituzione nella cura discrezionale dell’interesse pubblico. Orientamenti della giurisprudenza.
3.1. Fatte queste premesse, direi che l’interrogativo che ci siamo posti pone una domanda la cui risposta appare tutt’altro che scontata.
Come si sta dunque reinventando il giudice amministrativo del terzo millennio a fronte della dissoluzione delle categorie del procedimento e della decisione provvedimentale?
La tentazione di assumere (sia ben chiaro: per puro spirito di servizio nei confronti della Nazione) un ruolo di supplenza, per colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione della decisione amministrativa è dietro l’angolo; e con essa la tentazione di estendere tale ruolo anche alle ipotesi in cui l’attività provvedimentale, come dire, esiste e resiste, nel convincimento che l’inefficienza amministrativa sia ormai endemica.
La più significativa emersione di questa tendenza è data dalla teorizzazione del principio del c.d.one shot, più o meno temperato. In nome del principio di effettività, si assume in tesi che, a seguito della sentenza, l’amministrazione conservi il potere di provvedere una sola volta o due al massimo, forse tre; dopo di che esso si esaurisce, legittimando il pieno intervento sostitutivo del giudice all’amministrazione. A prescindere dal fatto che la “cosa giudicata” o anche il solo accertamento recato dalla sentenza esecutiva lasci o meno ancora spazi di scelta sul modo di provvedere. Cosa che, ovviamente, è appena il caso di sottolineare, è possibile unicamente se si postula l’avvenuta scomparsa del confine tra giurisdizione d legittimità e di merito
La teorizzazione è intelligente e le intenzioni sono sicuramente encomiabili perché, come ho già sottolineato, il ruolo di supplenza è assunto generosamente e responsabilmente dal giudice amministrativo nell’interesse della Nazione. Ma credo sia nondimeno doveroso interrogarsi sulle conseguenze che ciò produce sul sistema, di giustizia e non solo.
Vediamo il caso forse più noto che continua comunque a rimanere punto di riferimento obbligato (Cons. Stato, Sez. Sesta, 25 febbraio 2019 n. 1321). La vicenda è nota: abilitazione scientifica nazionale più volte negata ad un candidato, da tre diverse commissioni, con diverse motivazioni. Di fronte all’ultimo diniego, il giudice amministrativo esclude che via sia un contrasto con il giudicato, ma ritiene che l’amministrazione abbia ormai comunque perso, esaurito il potere di negare l’abilitazione. Secondo il giudice, dopo l’intervento del “fatto” del giudicato, l’ulteriore diniego non è più una cosa razionalmente credibile ed è indicativo di una condotta capziosa, equivoca e contraddittoria. Nell’esercizio dell’ordinaria giurisdizione di legittimità (non di merito, essendo pacifico non trattarsi di materia di ottemperanza al giudicato) e senza che il ricorrente nemmeno lo avesse chiesto (al di fuori quindi del principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), il giudice si sostituisce quindi al giudizio della commissione (rectius: di tre commissioni) e ordina il rilascio dell’abilitazione
La domanda che mi faccio e pongo a tutti è la seguente: la pronuncia rappresenta il naturale epilogo delle premesse in precedenza ricordate? è cioè il naturale epilogo del fatto che il giudice amministrativo possa oggi conoscere pienamente dei fatti di causa e che possa condannare al rilascio del provvedimento richiesto?
Direi proprio di no. E questo è il punto.
Non ricorre alcuna delle premesse che potrebbero essere invocate per giustificare la scomparsa della distinzione. La pronuncia non dice che l’Amministrazione ha perso il potere di provvedere diversamente perché si era in presenza di un’attività ormai interamente vincolata. Dice che l’ha perso e basta, perché ha provveduto dopo il “fatto” del giudicato.
Ma allora il giudice, si dirà, avrà almeno provveduto dopo aver svolto un’adeguata istruttoria nel corso della quale avrà sicuramente operato un accesso diretto ai fatti di causa? Non si sarà cioè limitato a verificare sufficienza e logicità del giudizio espresso dall’amministrazione, ma avrà letto, esaminato e valutato in prima persona o a mezzo di consulenti tecnici titoli e pubblicazioni presentate dal candidato. Niente di tutto questo. Il giudice ordina il rilascio dell’abilitazione senza aver letto e valutato i contributi scientifici del ricorrente. Ritiene cioè irragionevole il giudizio della commissione, ma non fornisce anche una diversa motivazione sul perché i titoli dovrebbero esser ritenuti tali da giustificare un giudizio di piena maturità scientifica del candidato. O meglio: ritiene irragionevole che si possa avere ancora “fiducia” nelle commissioni di concorso.
Detto per inciso, oggi saremmo peraltro fuori anche dalla possibilità di applicazione del sopravvenuto art. 10 bis l. 241, perché si tratta di un concorso pubblico.
il punto, comunque, non è tanto di stabilire se la decisione sia tecnicamente o intrinsecamente errata in diritto, Sotto questo profilo, è noto, l’ingegneria giuridica del Consiglio di Stato forse non ha eguali. Il problema è un altro. E cioè se sia giusto oppure no che il giudizio di tre diverse commissioni di concorso, formulato da ben quindici professori universitari di ruolo di prima fascia estratti a sorte, possa essere sostituito senza aver previamente fatto la stessa istruttoria fatta dalle tre commissioni (senza aver cioè previamente valutato titoli e pubblicazioni secondo le vigenti disposizioni normative) per giungere ad una diversa conclusione.
Ammesso e non concesso che, al di fuori della giurisdizione di merito, sostituzione piena possa esserci, presupposto necessario perché ciò possa avvenire è che il nuovo giudizio venga formulato e che venga formulato dopo aver rinnovato l’istruttoria con piena conoscenza dei fatti già valutati dall’amministrazione.
3.2. Questo credo sia il vero punto nodale da affrontare. E cioè se la sostituzione nelle valutazioni di merito o tecnico discrezionali possa essere giustificata sulla base di un mero giudizio di ragionevolezza, di persuasività della motivazione; ovvero se si possa sostituire interamente la decisione senza aver rinnovato completamente l’attività istruttoria necessaria con accesso pieno e diretto ai fatti.
Personalmente lo escludo, ma direi che in ogni caso dovrebbero essere ben ponderate le conseguenze se questo metodo viene applicato nell’ordinario svolgersi della giurisdizione generale di legittimità.
Nel leading case citato, il Consiglio di Stato rilascia l’abilitazione scientifica nazionale senza aver letto e valutato le pubblicazioni presentate dal ricorrente. L’accesso pieno, immediato e diretto ai fatti, anche mediante CTU, non si consuma. E siamo in presenza di una ponderata e ponderosa sentenza di merito resa nei confronti di un interesse pretensivo.
Ma pensiamo anche a quello che può avvenire nei confronti di provvedimenti ablatori, specie quando la lite viene definita con effetti irreversibili già nel giudizio cautelare, senza riformare il provvedimento amministrativo ma sostituendo comunque l’amministrazione nel giudizio discrezionale, prestando un ossequio di pura facciata alla discrezionalità amministrativa. Due casi di recente attualità mi paiono sotto questo profilo emblematici: la partita di calcio Napoli - Eintracht Frankfurt e quello dell’orsa JJ4. Partita di Champions League: per motivi di ordine pubblico, in considerazione dei gravi disordini scoppiati nell’incontro di andata e ritenuta sussistente una situazione di grave pericolo, l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la vendita dei biglietti ai residenti in Germania; il TAR ritiene che il provvedimento non sia motivato in maniera rigorosa e che la misura sia sproporzionata e che, conseguentemente, il pericolo per la sicurezza pubblica, prospettato solo genericamente, è in realtà insussistente. Il divieto viene rimosso, i tifosi tedeschi acquistano i biglietti, vengono a Napoli e il centro della città viene messo a ferro e fuoco dagli scontri tra le tifoserie.
Nei boschi del Trentino si aggirano orsi importati dalla vicina Slovenia in attuazione di appositi programmi di ripopolamento finanziati dalla Unione europea. Uno di questi JJ4, com’è purtroppo noto alle cronache, ha recentemente ucciso un runner che si allenava nel bosco. Era già la seconda volta che JJ4 uccideva qualcuno in quelle aree. Per tutelare la sicurezza e l’incolumità degli abitanti e dei frequentatori delle aree prossime alla zona dell’incidente, la Provincia autonoma ordina l’abbattimento dell’orsa JJ4. Il provvedimento viene sospeso dal GA assumendo che sicurezza e incolumità possano essere tutelate diversamente.
Si potrebbe ricordare che secondo Alberto Romano, il giudizio cautelare dovrebbe in realtà essere ritenuto un’ipotesi di giurisdizione di merito. Ma rimane il fatto, che è quanto mi preme sottolineare, che il giudizio viene sostituito senza svolgimento di un’analoga o più approfondita istruttoria diretta sui fatti, sempre e solo sulla base della ritenuta irragionevolezza o non persuasività della motivazione dell’amministrazione.
Per tornare a provvedimenti decisori aventi forma e contenuto di sentenza, mi limito a ricordare un altro solo precedente, non solo perché espresso al livello più alto della giurisdizione amministrativa, ma anche perché anch’esso sicuramente emblematico: le Adunanze plenarie “balneari”, nn. 17 e 18 del 2021. Si tratta di pronunce assolutamente raffinate sotto il profilo della scienza giuridica, che mostrano tuttavia chiaramente come nell’occasione il giudice amministrativo, più che decidere una causa, abbia ritenuto doveroso accollarsi l’onere di colmare un vuoto decisionale generato, prima ancora che dall’amministrazione, dallo stesso legislatore. Lo sforzo è compiuto generosamente e in maniera encomiabile, ma gli istituti giuridici, processuali e non, impiegati nel ragionamento subiscono quasi tutti una forzatura o una torsione innaturale per raggiungere lo scopo prefisso di trovare una giusta soluzione al problema lasciato aperto dall’inerzia del legislatore e dell’amministrazione. A cominciare dalla dichiarazione d’inammissibilità di tutti gli interventi, produttiva dell’effetto di limitare il contraddittorio alle sole parti principali del giudizio a quo, laddove la questione di massima di particolare importanza, sollevata d’ufficio con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, derivava proprio dalla considerazione “degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori”. Si potrebbe proseguire con la dichiarazione, da nessuna delle parti in causa mai richiesta nei giudizi pendenti, dei criteri che dovranno essere seguiti dal legislatore nel provvedere al riordino della materia, sia sotto il profilo della disciplina del rapporto concessorio, che dei criteri di selezione dei futuri concessionari e delle relative procedure. E si potrebbe continuare ancora con la falsa disapplicazione, ma in realtà piena sostituzione del legislatore nello stabilire al 2023 la possibile durata massima di proroga delle concessioni. E ancora con i principi affermati in tema di modulazione degli effetti dell’annullamento, in tema di demanio e interesse transfrontaliero, in tema di autotutela e in tema di giudicato e jus superveniens. Il ruolo di supplenza svolto per colmare il vuoto decisionale finisce con l’allontanare il giudice dal processo e dalle sue regole
4. Osservazioni conclusive.
In conclusione, direi che è innegabile l’emersione di una linea di tendenza del Giudice amministrativo a sostituirsi pienamente all’Amministrazione, anche al di fuori dei casi di giurisdizione di merito, giudizio di ottemperanza in primis, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità.
Due osservazioni al riguardo.
La prima è che ciò avviene sotto la spinta dell’intrecciarsi delle teorizzazioni della giurisdizione amministrativa in termini di full jurisdiction con un malinteso principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Sotto il profilo della full jurisdiction, ho già ampiamente sottolineato come la presunzione che il giudice amministrativo abbia oggi una giurisdizione piena o non legittima la scomparsa della distinzione. La sostituzione è possibile quando è possibile, non come regola generale; e dovrebbe in ogni caso essere consentita non sulla base della mera esistenza della possibilità di avere un pieno accesso ai fatti per cui è causa, ma sul presupposto che ciò avvenga effettivamente. Senza adeguata istruttoria, senza una diretta e immediata conoscenza dei fatti, la sostituzione, fondata unicamente su valutazioni di irragionevolezza o non persuasività della motivazione, non ha ragion d’essere e rischia di essere un rimedio peggiore del male.
E anche sul principio di effettività ci si dovrebbe intendere meglio. Il principio vuole che il processo faccia conseguire all’attore che ha ragione tutto e proprio quello che le norme di diritto sostanziale che egli assume violate gli garantiscono. Non trasforma per ciò solo il processo in una fonte di beni non garantiti da norme di diritto sostanziale. Chi partecipa ad una procedura di gara o a un concorso pubblico non ha diritto di vincerlo e l’ordinamento protegge il suo interesse a concorrere senza subire discriminazioni ingiustificate. Invocare il principio di effettività per autorizzare il giudice ad adottare la decisione che gli ritenga più giusta secondo le circostanze del caso di specie, a prescindere dall’utilità garantita dalle norme che si assumono violate, implica infatti negare il carattere strumentale del processo. Ma su questo punto, dal momento che in ultima analisi toccherebbe la natura e la consistenza dell’interesse legittimo, potrebbero aprirsi discussioni infinite, incomprimibili nello spazio delle presenti osservazioni conclusive. Mi limito solo a sottolineare un dato che può essere pacifico; e cioè che il giudice amministrativo giudica delle liti in cui la realizzazione all’aspirazione alla conservazione o all’ottenimento di un dato bene della vita è condizionata dal previo esercizio di potestà pubblicistiche che sono attribuite per la cura di interessi pubblici, superindividuali.
La seconda osservazione muove dalla domanda che mi sono costantemente posto durante tutta l’elaborazione del presente scritto: ma vale la pena rimuovere il confine? Penso ovviamente di no. Forse soprattutto perché penso che la conservazione salvaguardi non solo l’amministrazione, ma lo stesso processo amministrativo.
L’analisi svolta ha mostrato che tra le conseguenze della dissoluzione della linea di confine tra giurisdizione di legittimità e di merito v’è infatti in primo luogo quella per cui il giudice amministrativo viene sempre più risucchiato in un ruolo di supplenza dell’amministrazione e che ciò rischia di compromettere le garanzie e le certezze che un sistema di diritto processuale deve invece mantenere saldamente ferme. Ciò che forse più mi preme sottolineare al riguardo è che il mantenimento della distinzione deve esser quindi letto non solo in funzione di garanzia di una riserva di amministrazione, ma anche in funzione di garanzia dell’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. La piena sostituzione dell’amministrazione, anche al di fuori del momento dell’ottemperanza, porta con sé il rischio che il modello processuale e le certezze che esso deve offrire vengano progressivamente e quasi inavvertitamente abbandonati e finiscano con lo scivolare nuovamente su archetipi paracontenziosi tipici di un’amministratore di ultima istanza.
Auspico ovviamente che ciò non debba mai avvenire e il mio auspicio trova conforto nelle parole del Presidente Maruotti che, nella Relazione tenuta in apertura del corrente anno giudiziario, ha più volte sottolineato l’importanza del fatto che il giudice amministrativo sia percepito come arbitro imparziale proprio perché la sua ragion d’essere, nello Stato di diritto, è di rappresentare il baluardo della legalità e della legittimità dei provvedimenti amministrativi.
Cominciamo da un’ovvietà: le novità contenute nel recente progetto di riforma della giustizia possono essere opinabili, taluna anche molto opinabile, ma tutte rispettabili: né sorprende, né preoccupa, pertanto, tenuto conto della rilevanza dei valori in gioco, che il confronto sia serrato, talvolta acceso. Siamo ancora nella fisiologia della dialettica in uno Stato di diritto. Ciò che preoccupa, è il fatto che il dibattito pubblico registri, per dirla con un felice neologismo coniato da Giovanni Giudici, uno sbinariamento inquietante. Infatti, una novità normativa poco convincente potrà alla prova della realtà o della mutata sensibilità politica essere cambiata; un dibattito pubblico “malato”, invece, costituisce un’allarmante “extrasistole” democratica, che sarebbe pericoloso sottovalutare perché alla lunga potrebbe condurre ad altre patologie “circolatorie”, e nei casi più gravi, ad un infarto democratico.
Lo “sbinariamento” si è registrato quando il ministro Nordio ha parlato di indebita interferenza da parte dell’ANM, il cui presidente aveva espresso “critiche severissime” nei confronti delle scelte governative. In questa sede non interessa naturalmente il merito delle critiche, ma la delegittimazione al confronto sentenziata dal Ministro, secondo cui soltanto il CSM avrebbe titolo ad essere eventualmente suo dirimpettaio dialettico sul tema. La sortita ministeriale proprio non convince.
Non convince quando pretende di togliere la parola all’associazionismo giudiziario. Basti ricordare che il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE), nel recente parere n.25 (2022) dedicato alla “libertà di espressione dei giudici”, insiste proprio sulla valorizzazione del ruolo svolto dalle libere associazioni dei magistrati nel dibattito pubblico in materia di giustizia.
Non convince là dove parla di interferenza. Compie un’interferenza chi esercita il potere conferitogli per ostacolare il legittimo esercizio di un altro potere, non chi, come singolo o come portavoce di una associazione, si avvale del diritto di critica. Altra cosa sarebbe se il magistrato o una componente associativa della magistratura minacciasse gravi conseguenze ove fosse varata una certa norma in corso di approvazione da parte del Parlamento. Fu un’interferenza, ad esempio, quella dei magistrati del pool di Milano quando, nel 1994, minacciarono di andarsene in caso di approvazione del decreto Biondi. Sull’opposto versante, allorquando il Ministro sottolinea criticamente un uso distorto delle intercettazioni da parte della magistratura inquirente o l’eccessivo numero di errori giudiziari esprime legittimamente una sua opinione; quando invece esercita - come avvenuto di recente - il suo potere di iniziativa disciplinare nei confronti di magistrati responsabili di una decisione da lui non condivisa (non condivisione che era libero di esprimere e di motivare), compie un’interferenza sull’esercizio della giurisdizione.
Insomma, interferenza è uso di un potere per condizionarne un altro, non già manifestazione del proprio pensiero, anche fortemente dissenziente.
Non si condivide, infatti, l’idea del Ministro secondo cui «Il magistrato non può criticare le leggi come il politico non può criticare le sentenze» per «un principio elementare della divisione dei poteri»: svolgere una fondamentale funzione dello Stato non può privare il cittadino del diritto-dovere di manifestare il proprio pensiero.
Il dibattito pubblico è il respiro della democrazia e ha bisogno di tutte le voci e di tutte le idee. Va da sé, o dovrebbe andar da sé, che più alte sono le funzioni ricoperte, più fortemente raccomandabile risulta il senso della misura: è un elementare dovere di rispetto delle istituzioni. Vogliamo allora confidare che passate espressioni scompostamente al di fuori del vocabolario istituzionale provenienti da figure apicali della politica (“sentenza vergognosa” ,“la magistratura è il cancro di questo Paese”, il “CSM è roba da manette”, è stata un’azione giudiziaria “criminale”, “magistrati, vergogna! dovete andare in galera”) abbiano incontrato almeno la silenziosa disapprovazione del Ministro.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.