ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta. - 2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici. - 3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta.
Nelle ultime ore il programma di riforme del processo penale annunciato a più riprese dal Governo si è arricchito di un nuovo tassello: l’abolizione della norma che attribuisce al Giudice delle indagini preliminari la facoltà di ordinare al Pubblico Ministero, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, di formulare l’imputazione (articolo 409, 5° comma c.p.p.).
L’idea di un intervento così specifico - ed apparentemente interessante solo per i tecnici del processo penale - scaturisce, come già altre volte accaduto negli ultimi sei lustri, da una specifica ordinanza emessa da un magistrato in un procedimento che vede coinvolto un esponente politico del Governo in carica.
In particolare, al termine di un’indagine aperta a carico di un sottosegretario del Ministro della Giustizia, il Pubblico Ministero ha avanzato una richiesta di archiviazione, ritenendo insussistenti gli elementi del reato ipotizzato; il G.I.P., di contrario avviso, ha risposto emettendo un’ordinanza di “imputazione coatta”, ordinando cioè al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale nei confronti dell’indagato.
Alla notizia del provvedimento sono seguite immediate reazioni di “fonti” governative e del Ministero della Giustizia, seguite da interviste ad esponenti politici e consiglieri giuridici della maggioranza, che hanno preannunciato l’inserimento nella ormai prossima “riforma Nordio” dell’abolizione dell’istituto azionato dal G.I.P., ritenuto anomalo ed irrazionale.
In questa sede non è possibile (né, forse, interessante) fare riferimento al merito della vicenda processuale. Suscita tuttavia qualche riflessione l’impianto teorico a cui hanno fatto riferimento i fautori della paventata abolizione normativa, poiché dai loro ragionamenti sembra emergere una concezione del nostro processo penale ed in generale del sistema accusatorio inedita e a tratti sorprendente.
2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici
Per comprendere la ratio della nuova determinazione di espungere dal sistema processuale un istituto mai fino ad ora menzionato nelle decine di ipotesi di riforma che hanno costellato la travagliata vita del Codice di procedura penale, occorre in primo luogo vincere la naturale ritrosia degli operatori del diritto ad argomentare criticamente su documenti anonimi.
È infatti esercizio insolito, per chi è abituato a non poter fare alcun uso nel processo penale di qualsiasi scritto o dichiarazione anonima (art. 240 c.p.p.), quello di prendere a base di un ragionamento giuridico frasi non riferibili ad alcuno.
Nel caso di specie, tuttavia, i primi accenni critici all’imputazione coatta da cui evincere le ragioni della possibile sua abolizione nella prossima “riforma Nordio” sono contenuti in una nota che i quotidiani hanno riportato genericamente come “diffusa dal Ministero della Giustizia”.
Pur se non attribuibile con certezza direttamente al Ministro, questa nota contiene però un articolato ragionamento giuridico che non può essere ignorato in questa sede.
In quella che è stata la prima reazione “ufficiale” del Ministero della Giustizia sui fatti di cronaca prima ricordati si è affermato infatti, per spiegare le ragioni per cui l’istituto è “irrazionale” e dovrà essere abolito, che il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
Ad ulteriore dimostrazione dell’asserita irrazionalità dell’istituto è stato inoltre osservato che, nel processo conseguente all’esercizio dell’azione penale indotto dal GIP, “l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna, non farà altro che contraddire se stesso”.
L’assunto di base da cui il ragionamento parte è condivisibile: è fuor di dubbio che nel nostro sistema il Pubblico Ministero è l’unico organo deputato ad esercitare l’azione penale.
È proprio per non intaccare questa potestà esclusiva, del resto, che è previsto l’istituto dell’imputazione coatta: anche quando il GIP non ritiene di accogliere la richiesta di archiviazione ed è convinto che si debba procedere ad una verifica dibattimentale, non potrà mai sostituirsi al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma solo imporre a quest’ultimo di procedere in tal senso.
Potestà esclusiva non vuol dire però insindacabilità, sicché non si comprende quale sia il nesso tra l’affermare che il P.M. è l’unico ad avere il potere di esercizio dell’azione penale e il fatto che l’esercizio di questo potere non possa essere soggetto a controlli.
Peraltro, una conclusione del genere sarebbe del tutto eccentrica rispetto al nostro sistema processuale, in cui tutti gli atti delle indagini preliminari più importanti sono sottoposti al vaglio costante di un giudice terzo.
Non è forse superfluo ricordare che il cardine del nostro sistema processuale è il principio di separazione delle fasi (per il quale gli atti compiuti nelle indagini preliminari non costituiscono prova, salvo eccezioni, perché non assunti in contraddittorio davanti ad un giudice terzo).
Ebbene, uno dei corollari del predetto principio di separazione della fasi processuali è costituito dalla previsione del ruolo del giudice delle indagini preliminari, che, a norma dell’art. 328 c.p.p., “provvede sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato”, in alcuni casi previsti dalla legge.
In particolare, si tratta di tutti i casi in cui, durante le indagini preliminari e pur in assenza di prove (perché queste devono ancora essere formate) è consentita la compressione di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la proprietà privata (art. 42 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): in queste evenienze è previsto che intervenga un giudice terzo ed imparziale per verificare che la predetta compressione dei diritti sia necessaria e bilanciata da effettive esigenze di indagine.
È dunque previsto che non sia il Pubblico Ministero procedente ad emettere le ordinanze di custodia cautelare, i sequestri preventivi, i decreti di intercettazione ma un Giudice la cui potestà viene attivata in seguito a specifiche richieste del magistrato inquirente: anche questa previsione discende dunque dalla separazione della fasi e delle funzioni di cui si è detto.
In tutte le menzionate ipotesi è consentito all’indagato una sorta di diritto al contraddittorio (al limite, nelle forme dell’impugnazione), sebbene differito ad un momento successivo all’atto in relazione alla segretezza che di norma caratterizza la fase delle indagini preliminari.
Proprio come in tutte le fasi più delicate delle indagini preliminari è previsto l’intervento di un giudice ed una forma di contraddittorio compatibile con la segretezza delle indagini, a maggior ragione tale esigenza è avvertita per il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale.
È dunque connaturata al sistema processuale accusatorio ed alla divisione in fasi l’immanenza di un controllo giurisdizionale su tutti i momenti di particolare rilevanza nella fase precedente al dibattimento, in cui pur non essendosi ancora formalmente aperta la “contesa” tra accusa e difesa la persona sottoposta ad indagini può subire rilevanti conseguenze negative anche dalla semplice esistenza di un procedimento penale a suo carico.
Tra questi momenti, va sicuramente annoverata proprio la scelta del Pubblico Ministero di intraprendere - o non intraprendere - un processo pubblico e con accuse formalizzate a suo carico, che comporta l’assunzione della qualità di imputato e la sottoposizione ad un giudizio.
In merito, va ricordato che le determinazioni che il Pubblico Ministero può prendere all’esito delle indagini sono immancabilmente o l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Nel primo caso dunque, in ossequio ai principi esposti, il Pubblico Ministero non può direttamente determinare l’apertura di un processo a carico dell’imputato ma solo sollecitare il controllo del giudice terzo in contraddittorio tra le parti.
Come è evidente dunque, potestà esclusiva di esercitare l’azione penale non vuol dire assenza di controlli.
Per incidens, se per scelta legislativa – dettata da criteri di mera economica processuale - fino a poco tempo fa tale verifica era riservata ai procedimenti per reati più gravi (dove è prevista un’apposita fase, quella dell’udienza preliminare), con la riforma Cartabia il vaglio del giudice terzo sull’esercizio dell’azione penale è stato esteso a tutti i reati, poiché per quelli a citazione diretta è oggi stata introdotta l’udienza predibattimentale, che tra i suoi compiti più importanti ha proprio quello di affidare a un giudice terzo il vaglio sulla scelta del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.
Anche laddove il Pubblico Ministero ritenga che non vi siano i presupposti per processare l’imputato, tuttavia, non si può tenere aperto indefinitamente un procedimento penale che porta, per la sua stessa esistenza, conseguenze potenzialmente dannose per l'indagato: il procedimento penale deve dunque essere "archiviato", cioè inviato materialmente nell'archivio della Procura.
Il diritto dell'indagato di vedere la sua posizione definita e di non essere più considerato, a termini di legge, sottoposto ad indagini, costituisce dunque il fine principale a cui tende l'istituto dell'archiviazione.
Accanto a questo diritto vi è l'interesse dello Stato a sottoporre comunque a verifica l'operato del magistrato inquirente, che potrebbe -per colpa o addirittura dolosamente - evitare di esercitare l'azione penale pur in presenza dei presupposti per affrontare un processo.
Non va dimenticato infatti che l'azione penale è nel nostro ordinamento, per disposto costituzionale, obbligatoria (articolo 112 della Costituzione), il che implica tra l'altro che non sono consentite stasi o inerzie in tema di azione penale nè che si possa rinunciare alla stessa[1].
Pertanto, proprio come le determinazioni del Pubblico Ministero quando veste i panni della parte accusatrice sono sottoposte alla verifica da parte di un giudice terzo ed imparziale allo stesso modo anche la sua eventuale decisione di non esercitare l'azione penale deve essere sottoposta ad un vaglio da parte di un giudice.
Per questo motivo, l'archiviazione del procedimento è prevista come provvedimento finale di un procedimento articolato, eventualmente all'esito di un vero e proprio giudizio da svolgersi in camera di consiglio nelle forme disciplinate dall'articolo 127 del codice di procedura penale con la partecipazione delle parti.
Appare evidente che il controllo, per essere esercitato effettivamente e non ridursi ad una mera presa d’atto, deve implicare piena libertà da parte del giudice di determinarsi sia in senso conforme alle richieste del Pubblico Ministero (emettendo così un decreto di archiviazione) sia in senso difforme.
Quest’ultimo caso è disciplinato dai commi 4 e 5 dell’articolo 409 del codice di procedura penale, ove si prevede la possibilità per il GIP di non accogliere la richiesta di archiviazione e restituire il fascicolo al PM perché continui a svolgere indagini da lui individuate ed imposte o – se ritenga che non vi siano ulteriori indagini – perché eserciti l’azione penale.
Da quanto sopra descritto appare evidente che l’affermazione sopra riportata secondo cui il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” appare difficilmente applicabile al nostro sistema processuale.
Di più: essa sembra tradire l’idea di un Pubblico Ministero votato inevitabilmente all’accusa, incapace di mantenere l’equilibrio necessario a valutare con serenità la sussistenza di elementi di reato.
Solo così si spiega la sorpresa che trapela dietro l’ipotesi che un giudice possa spingersi, in questa valutazione, addirittura al di là della convinzione accusatoria di un pubblico ministero.
Anche questa ricostruzione del ruolo del Pubblico Ministero contrasta di fatto con il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e del nostro codice, che vuole invece nel magistrato inquirente un organo deputato a verificare la fondatezza delle notizie di reato ma nella piena libertà di autodeterminarsi e libero nei fini; sicché può ben verificarsi, ed appartiene anzi alla fisiologia del sistema, che egli arrivi al termine delle indagini preliminari e si determini per la richiesta di archiviazione anche in presenza di elementi che ad un altro magistrato (magari proprio il GIP che quella richiesta di archiviazione riceve) possono sembrare idonei al processo.
La stessa libertà dei fini che caratterizza l’azione del Pubblico Ministero nel corso delle indagini lo svincola dall’obbligo, pure paventato, di insistere nella sua idea, ben potendo invece egli – una volta esercitata l’azione penale su impulso del GIP – portare avanti con convinzione l’accusa e chiedere la condanna.
Tale ipotesi non vuol dire “contraddire se stesso” ma mantenere intatta fino al termine del processo la libertà dei fini, allo stesso modo in cui può accadere ed accade l’ipotesi contraria, di un PM che dopo avere chiesto il rinvio a giudizio di un imputato ne chieda poi al termine del processo l’assoluzione, dopo avere rivalutato in senso favorevole all’accusato gli elementi che in un primo momento gli erano sembrati idonei ad una prognosi di condanna.
3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
Ad arricchire ulteriormente il dibattito sull’abolizione dell’istituto in esame si sono successivamente aggiunte le dichiarazioni del consigliere Giuridico del Ministro della Giustizia, prof. Bartolomeo Romano, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’8 luglio ha dichiarato: “Una cosa è vigilare su cosa chiede il pubblico ministero in materia di libertà personale, altro è sostanzialmente sostituirsi a lui. E’ vero che la legge prevede l’imputazione coatta, ma dal mio punto di vista si tratta di una possibilità che contrasta con la natura stessa del processo accusatorio, come del resto la previsione che il PM faccia indagini a favore dell’indagato”.
Si tratta di dichiarazioni particolarmente interessanti perché provengono da fonte altamente qualificata e disvelano non solo un pensiero, del tutto simile a quelli esaminati in precedenza, sull’istituto dell’imputazione coatta ma anche sul sistema accusatorio.
La prima affermazione sembra voler limitare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero ad un potere di vigilanza che non sfoci in un potere di sostituzione: applicato alla richiesta di archiviazione – come chiarito dallo stesso Romano in un punto successivo della sua intervista – questo renderebbe ammissibile un’ordinanza con cui il G.I.P. suggerisca indagini al P.M. (istituto già previsto dall’articolo 409, 4° comma c.p.p.) ma non l’imputazione coatta.
Sul punto appare sufficiente richiamare quanto già detto in precedenza: con l’ordinanza che impone al PM di formulare l’imputazione il Giudice non si sostituisce al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma gli impone di rivedere le sue determinazioni, per contrastarne l’eventuale inazione o un uso (non legittimo) discrezionale della sua potestà esclusiva di esercitare l’azione penale.
Il controllo del giudice, ineliminabile per quanto detto, non potrebbe estrinsecarsi solo nella possibilità di suggerire indagini per il semplice motivo che non sempre ci sono indagini da suggerire.
A fronte di un’indagine completa e in cui sono presenti agli atti tutti gli elementi per instaurare un processo, cosa dovrebbe fare un GIP a fronte di una richiesta di archiviazione che ritiene errata? Suggerire nuove indagini anche se non servono? E se il PM, svolte le indagini prescritte, reiterasse la richiesta di archiviazione, come si eviterebbe lo stallo, e in definitiva quale sarebbe il rimedio all’inazione del Pubblico Ministero?
Ma l’affermazione che desta maggiori perplessità della ricostruzione del consigliere giuridico del Ministro riguarda l’asserita incompatibilità dell’imputazione coatta con il sistema accusatorio.
Probabilmente il mezzo utilizzato (intervista ad un quotidiano) non consentiva approfondimenti tecnici e la necessità di sintesi ha conferito alla frase un’assertività maggiore del voluto: tuttavia, non può non sorprendere l’idea che un istituto che prevede il controllo da parte di un giudice terzo, in contraddittorio paritetico tra le parti, di una richiesta di una di esse sia incompatibile con il sistema accusatorio, che sostanzialmente in questo consiste.
La sorpresa aumenta laddove il ragionamento prosegue con l’accostamento ad altro istituto ritenuto pure incompatibile con il sistema accusatorio: la norma che impone al Pubblico Ministero di svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (articolo 358 c.p.p.).
Giova ricordare che il nostro ordinamento assegna al Pubblico Ministero una funzione particolare, facendone un ibrido: egli è al contempo una parte processuale pura – portatore di una visione parziale, quella dell’accusa - ed un organo dello Stato, che rappresenta gli interessi collettivi della giustizia; per questo motivo è tenuto non solo alla ricerca degli elementi di accusa ma anche di quelli a favore dell’indagato.
Come detto in precedenza, il Pubblico Ministero è indifferente alle sorti del processo, contrariamente alle altre parti: in nessun caso egli è obbligato a chiedere il rinvio a giudizio o la condanna dell’imputato, né è titolare di un “mandato ad accusare” analogo e simmetrico al mandato difensivo, che gli imponga di sostenere le ragioni dell’accusa anche se non ne è convinto.
Al contrario, la sua funzione è di rappresentare in ogni fase l’interesse dello Stato ad un esito del procedimento penale conforme a giustizia, ciò che vuol dire sia individuare e chiedere la punizione i responsabili dei reati che sollecitare pronunce favorevoli alla persona indagata o imputata in mancanza delle condizioni per andare avanti.
Tali caratteristiche - libertà dei mezzi e indifferenza dei fini – non sono affatto in contrapposizione con il sistema accusatorio, che impone come pure si è rilevato la separazione delle fasi e la formazione della prova in contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo.
Il fatto che una delle parti sia libera nei fini e non vincolata ad accusare un imputato della cui innocenza è convinto aumenta il tasso di garantismo del processo.
Non si vede come lo svolgimento di indagini a favore dell’indagato possa dunque essere ritenuto elemento incompatibile con il sistema accusatorio, a meno di non considerare accusatorio un sistema in cui la pubblica accusa sia “costretta” a chiedere prima il rinvio a giudizio e poi la condanna dell’accusato, lasciando al solo giudice il compito di agire senza pregiudizi.
È paradossale poi che contemporaneamente ad un pubblico ministero ridotto ad accusatore non imparziale si auspichino minori controlli da parte del giudice, come avverrebbe nel caso dell’abolizione dell’imputazione coatta.
Un processo in cui l’accusatore agisce sempre e solo avendo di mira la condanna anche di un accusato che sa innocente e il giudice non ha sufficienti strumenti per limitarne gli eventuali abusi (che possono consistere, come si è visto, anche nell’esercitare l’azione penale a discrezione o scegliere di non esercitarla affatto, o per abbandonare l’accusa o per tenere un soggetto nella condizione di indagato eternamente e senza una verifica in contraddittorio) porterebbe ad un cospicuo arretramento delle garanzie ed al sostanziale tradimento del sistema accusatorio che si propugna di voler difendere.
[1] “Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale” (così Corte Cost 88/1991).
Sara Zinone, giovane magistrata (DM 3/2/17) dopo la prima sede, Lodi, era Sostituto a Piacenza dal 13.06.2022. E' morta a 36 anni, dopo una breve, incurabile malattia. Pubblichiamo il ricordo di Grazia Pradella, Procuratore di Piacenza.
Sara era una giovane donna, una giovane donna magistrato. Estroversa, brillante, parlava del suo essere pubblico ministero con passione, con profondo rispetto degli interessi chiamata a tutelare, mostrando tutta la tenacia e, nel contempo, la grande umiltà nell’affrontare un mestiere che sapeva essere difficile.
Fin dal nostro primo incontro ho colto in lei una grande generosità nei confronti delle esigenze dell’Ufficio: si è resa disponibile ad affrontare qualsiasi materia, anche diversa da quelle assegnate durante la precedente esperienza presso la Procura della Repubblica di Lodi, purché utile all’Ufficio. Sapendo che la gran parte dei sostituti e io avevamo una lunga anzianità di servizio, voleva soprattutto imparare , apprendere nuove tecniche d’indagine , fare tesoro delle esperienze altrui.
Aveva capito che essere “squadra”, soprattutto in Ufficio di piccole dimensioni e con un notevole carico di lavoro, era importante e con semplicità, simpatia ed intelligenza si è inserita con facilità e rapidamente nel nostro gruppo.
Sara aveva un marito, Franco, ed una famiglia molto orgogliosi di lei e con cui condivideva i sentimenti che nutriva per la propria professione. Circondata di amici un po’ sparsi per l’Italia, mi parlava delle tante cene, delle gite e delle risate con loro. Quando ho avuto l’occasione di incontrare il marito, la madre e le sue sorelle, mi sono resa conto che loro sapevano molto di me, dei magistrati di Piacenza, della sua attività perché Sara aveva raccontato loro quale era la nostra e la sua quotidianità.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Piacenza, dopo aver discusso delle indagine da delegare in un fascicolo che le avevo appena assegnato, giunta sulla porta, si è voltata verso di me e, con aria serena, mi ha detto che l’indomani mattina sarebbe arrivata un po’ più tardi in ufficio perché doveva sottoporsi ad un accertamento medico. Probabilmente la mia espressione mostrava preoccupazione e lei sorridendomi mai ha detto : “ capo (mi chiamava così per scherzo, con quall’accento marcatamente toscano che la connotava), poi torno in ufficio e scrivo la delega, non ti preoccupare, non sarà nulla…”. Quell’immagine di Sara mi è rimasta e mi rimarrà sempre impressa: quell’ottimismo è stato stroncato da quella terribile diagnosi che in meno di un anno l’ avrebbe portato via.
Eppure, nei primi mesi di cura Sara veniva in Ufficio appena le sue condizioni glielo consentivano; era rammaricata di non poter fare quanto avrebbe voluto, ma con una forza ed un coraggio sorprendenti continuava a fare come se di quella malattia non le importasse molto, tanto era sicura di guarire, per dare il “100 per cento” (sua espressione) di sé alla Procura.
Poi, a poco a poco le sue condizioni non le hanno più consentito di venire in ufficio, così ci scrivevamo tutti i giorni, anche più volte: lei mi parlava dei dolori insopportabili e delle terapie, ma soprattutto della sua ferma convinzione di tornare a lavorare. Si faceva portare i fascicoli a casa, per poter dare indicazioni alla P.G. e continuare così a lavorare; non voleva sentire ragioni, voleva continuare a dare una mano e basta.
Nell’ultimo messaggio che mi ha scritto , circa un mese fa, mi ha chiesto se poteva prendersi le ferie ad agosto ( era sicura di poter tornare); voleva fare un viaggio in Sicilia con Franco, per trovare parenti ed amici. E così io l’ho inserita nelle tabelle feriali in agosto.
Sapevamo entrambe che quel viaggio non ci sarebbe mai stato, ma Sara era così, ottimista e forte, tanto forte.
Da quel giorno, non ha più avuto le forze né per leggere, né per scrivere e si è pian piano allontanata da tutti. Notizie di lei mi erano date quotidianamente dal marito.
Così Sara se ne è andata senza che io o altri magistrati dell’Ufficio potessimo trasmetterle un po’ delle nostre esperienze; lei, invece, ci ha insegnato tanto, il coraggio nell’affrontare una terribile sorte e l’amore incondizionato per il suo mestiere di Pubblico Ministero.
Domani , io e tutti i colleghi saremo a Pistoia per dare un’ultima carezza a Sara , per farle sentire che è e sarà sempre una di noi.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Ordinamento spagnolo - 3. Ordinamento francese - 4. Ordinamento tedesco - 5. Ordinamento inglese.
1. Introduzione
Il dibattito che si sta sviluppando intorno alla prospettata abolizione del reato di abuso d’ufficio si arricchisce frequentemente di considerazioni relative alle soluzioni offerte in materia dal diritto straniero.
Le informazioni non sono sempre coincidenti.
Da un lato vi è chi afferma che gli abusi dei pubblici funzionari, diversi da quelli che integrano forme di concussione o di corruzione, sono puniti «ovunque», in Europa e fuori dall’Europa[1]. Si puntualizza altresì che il reato è presente in altri ordinamenti europei in versioni spesso meno precise[2].
Dall’altro lato si sostiene che vi sono ordinamenti europei (come quello francese) che, pur non conoscendo una fattispecie generale di abuso d’ufficio come l’art. 323 c.p., sanzionano l’attribuzione di un vantaggio ingiustificato mediante la violazione di una norma che abbia lo scopo di garantire l’accesso libero al mercato e l’uguaglianza tra gli operatori economici[3].
Tutte queste affermazioni sono, almeno in parte, condivisibili, ma il quadro generale merita di essere arricchito, tenendo conto di un dato preliminare. È assai complesso riuscire a ricostruire con chiarezza le scelte di criminalizzazione effettuate in materia in altri ordinamenti perché gli abusi di funzione posti in essere dai pubblici funzionari sono riconducibili a diverse fattispecie.
Come è stato puntualizzato, «tali e tante sono le valutazioni in ordine agli strumenti di tutela che ogni singolo legislatore può ritenere adeguati per contrastare abusi nella pubblica funzione; come del resto dimostra la varietà di risposte che, in materia, si registra nei diversi ordinamenti»[4].
Questa affermazione è stata resa anche al fine di evidenziare come l’illegittimità di una scelta abrogativa non possa farsi convincentemente discendere da obblighi internazionali specificamente vincolanti.
A tale riguardo si può ulteriormente precisare che la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, aperta alla firma a Mérida dal 9 all’11 dicembre del 2003 e ratificata in Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116, non pare sancire un vincolo assoluto di criminalizzazione per l’“abuso di funzioni”, con scopo di vantaggio.
Basti osservare che l’art. 19 della Convenzione richiede soltanto agli Stati contraenti di “considerare” l’adozione della fattispecie di “abuse of functions” (shall consider adopting) e non di introdurla inderogabilmente, come viene richiesto per reati quali la corruzione (shall adopt)[5].
Allo stato, quindi, l’obbligo di criminalizzazione non sussiste nemmeno. Nel prossimo futuro, però, la situazione potrebbe cambiare. Potrebbe essere approvata infatti la Direttiva – ad oggi solo Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio presentata dalla Commissione il 3 maggio 2023 – che contiene un obbligo di criminalizzazione dell’abuso di funzioni, commesso intenzionalmente dal pubblico ufficiale (art. 11) con dolo specifico di vantaggio[6].
È in un contesto normativo arricchito da tale disposizione, allora, che l’affermazione in merito alla pluralità di risposte che si registra nei diversi ordinamenti assumerebbe un’importanza ancora più decisiva, imponendo al legislatore italiano un’attenta considerazione delle opzioni in campo.
Uno sguardo anche rapido alla disciplina di altri ordinamenti vicini al nostro ci mostra effettivamente come la criminalizzazione delle condotte illegali dei pubblici funzionari che siano variamente connotate da favoritismo o prevaricazione sia frequente, anche se prevale la significativa scelta (esclusiva o concorrente con la previsione di una fattispecie generale) di articolare l’incriminazione in una serie di fattispecie più circoscritte, relative al compimento di determinati atti.
Vediamo quindi di offrire qualche spunto che l’esperienza comparata ci sollecita.
2. Ordinamento spagnolo
Il codice penale spagnolo del 1995 ha innovato profondamente la materia dei delitti dei pubblici funzionari, disciplinati nel titolo XIX del libro II. Essi non sono più incentrati sulla fedeltà alla funzione, quanto piuttosto sulla diversa concezione per la quale la funzione pubblica è posta al servizio della cittadinanza[7].
Il reato che ricorda più da vicino l’abuso d’ufficio italiano è senza dubbio il delitto di prevaricación administrativa (art. 404), che punisce l’autorità o il funzionario pubblico che, consapevole della sua ingiustizia, adotti una decisione (resolución) arbitraria in un affare amministrativo. Per decisione si intende un atto che implichi una dichiarazione di volontà a contenuto decisorio, che incida sui diritti degli amministrati e sulla collettività in generale[8]. Il bene tutelato è quello dell’assoggettamento alla legge delle decisioni della P.A. L’arbitrarietà si coglie tuttavia soltanto se vi è una contrarietà con le norme amministrative così palese, che non esista alcuna via di interpretazione razionale delle stesse che sia in grado di supportare la decisione.
Non è sufficiente un semplice contrasto con il diritto positivo[9], ma è necessario che la decisione si collochi fuori dall’ordinamento giuridico[10] e che sia sorretta da criteri utilitaristici: l’atto cerca volutamente un risultato iniquo[11]. L’ingiustizia può coincidere con l’oggettiva contraddittorietà al diritto; l’arbitrarietà, invece, richiede qualcosa di più: la carenza di ogni fondamento di razionalità[12].
Una delle nozioni più discusse nell’ambito dell’esperienza giuridica italiana formatasi in merito all’abuso d’ufficio è quella di sviamento di potere, consistente in ogni forma di strumentalizzazione dell’azione amministrativa per finalità estranee a quelle fissate dalla legge. Nonostante le critiche che sono state rivolte da una parte della dottrina contro la possibilità di identificare l’abuso con lo sviamento – che ha l’effetto di estendere in misura ben poco controllabile la sfera di intervento dell’interprete[13] –, la giurisprudenza ci dimostra che nemmeno la riforma, intervenuta nel 2020, è riuscita nell’intento di superarla integralmente[14].
Proprio a tale riguardo, è utile ricordare che anche in Spagna, nell’accertamento del reato non mancano aperture alla nozione di sviamento di potere, e quindi ad un’indagine sullo scopo per cui l’atto è stato emesso, che deve essere diverso da quello tipico[15]. Anche in questo contesto, così, l’individuazione degli scopi sottesi alla norma attributiva del potere finisce per essere rimessa al giudice penale, con evidenti profili di criticità in termini di osservanza del principio di tassatività.
A differenza del reato di prevaricazione contenuto nel codice precedente, questo delitto si configura solo in forma dolosa. L’ipotesi speciale che riguarda i magistrati – e che si consuma quando viene pronunciata consapevolmente una sentenza o una decisione ingiusta – può essere invece sia dolosa (art. 446) che colposa (art. 447)[16].
I reati in qualche misura riconducibili al nostro abuso d’ufficio, che sono stati tipizzati nell’ordinamento spagnolo, non si riducono alla fattispecie di prevaricazione. Nell’articolo 405 è disciplinata un’ipotesi particolare di favoritismo, che concerne l’attribuzione di un incarico pubblico ad un soggetto che è privo dei requisiti stabiliti legalmente e che viene punito (art. 406) insieme al pubblico funzionario.
Tra le altre ipotesi più specifiche di abuso si possono ricordare: il traffico di influenze del pubblico funzionario (art. 428), la malversazione (art. 432), caratterizzata dal danno patrimoniale alla P.A., i delitti di frode e tassazioni illecite (artt. 436-437), gli abusi commessi nella negoziazione dei contratti o in altri affari e quelli consistenti nell’esercizio di attività incompatibili con la funzione (art. 439, art. 441). L’art. 441, in particolare, sanziona la condotta del funzionario che svolge attività professionale o di consulenza in una materia nella quale deve intervenire o è intervenuto in ragione del suo ufficio.
La definizione di un gruppo così composito di reati rende davvero difficile individuare la normativa applicabile nel caso concreto, nelle ipotesi, quasi inevitabili, di concorso di norme[17].
Come è stato lucidamente evidenziato poco dopo l’introduzione del nuovo codice, però, se, in questo quadro molto complesso, la prevaricación administrativa poteva rischiare di essere relegata ad un ruolo residuale, perché viene compressa dalle ipotesi più diversificate che incidono sullo stesso contenuto di disvalore[18], essa costituisce ancora una fattispecie centrale. L’ampiezza della sua formulazione, del resto, può contribuire al suo successo[19].
3. Ordinamento francese
L’ordinamento francese affianca ad una fattispecie più generale di pericolo, e a una di danno, delle fattispecie specifiche[20].
La fattispecie generale di “scacco alla legge” (art. 432-1 c.p. - Échec à l’exécution de la loi) è una fattispecie di pericolo – molto discussa per la sua scarsa precisione, ma, in questo caso, poco applicata – che incrimina la condotta di chi, nell’esercizio delle sue funzioni, prende misure atte, per l’appunto, a “mettere sotto scacco l’esecuzione della legge”: condotta non meglio determinata ed espressiva di un abuso di autorità contro la P.A., comprensiva per esempio delle ipotesi di cessazione illecita dell’esercizio di funzioni pubbliche[21]. La pena è molto più alta (non più 5 anni di pena detentiva e 75.000 Euro di pena pecuniaria, ma il doppio), se le condotte conseguono l’effetto di mettere sotto scacco l’esecuzione della legge: si integra il reato di cui all’art. 432-2 c.p. La prima sezione del capo secondo (contenente gli “attentati all’amministrazione commessi da persone esercenti una pubblica funzione”), titolo terzo, libro quarto del codice penale – sezione dedicata agli abusi d’autorità diretti contro l’amministrazione – si conclude con la fattispecie con cui si incrimina il pubblico agente, che continua ad operare nonostante sia stato informato della cessazione delle sue funzioni (art. 432-3).
Nella sezione dedicata agli abusi d’autorità diretti contro i privati (sezione seconda) troviamo alcune fattispecie particolari, che in Italia sono in gran parte riconducibili a reati comuni aggravati dalla qualifica. Esse includono abusi di autorità contro la libertà individuale – avvicinabili in questo caso ai reati di cui agli artt. 606-609 c.p. –, contro l’inviolabilità del domicilio e la segretezza della corrispondenza. L’abuso consistente in atti di discriminazione commessi dal pubblico funzionario, che si sostanzia nel rifiutare il riconoscimento di un diritto accordato dalla legge o nell’ostacolare l’esercizio di una qualsiasi attività economica per ragioni discriminatorie (art. 432-7), costituisce senza dubbio la fattispecie più interessante.
Infine, nell’ambito dei reati concernenti violazioni dei doveri di probità (terza sezione), insieme alla corruzione e al traffico di influenze, vi è l’art. 432-12, la presa illegale d’interessi, che evoca il nostro vecchio interesse privato in atti d’ufficio (Prise illégale d’intérêts). La sua formulazione si caratterizza per una certa complessità: “prendere, ricevere o mantenere, direttamente o indirettamente, un interesse che possa compromettere la sua imparzialità, la sua indipendenza o oggettività in un affare o in un’operazione in cui il pubblico funzionario ha al momento del fatto l’incarico di assicurare la sorveglianza, l’amministrazione, la liquidazione o il pagamento”. Il reato è estremamente dettagliato nel delimitare il tipo e prevede delle eccezioni all’integrazione del reato, che si verificano, per esempio, quando il sindaco di un comune con al massimo 3.500 abitanti acquista il bene del comune stesso per lo sviluppo della propria attività professionale (il prezzo però non può essere inferiore al valore stimato dal servizio dei beni demaniali e l’atto deve essere autorizzato da una delibera motivata del consiglio comunale).
Il reato – non diversamente da quello di “scacco alla legge” – non ha mancato di suscitare l’attenzione degli interpreti per la sua scarsa tassatività e, anche in questo caso, pare applicato raramente[22]. Come autorevole dottrina ha ben precisato, la norma si fonda sulla violazione di un obbligo di astensione, ed è giustificata sulla base della considerazione per la quale il pubblico agente, se partecipa alla stipula di un contratto o al compimento di un atto in presenza di un interesse personale, deve prima dimettersi, in quanto la corretta gestione del pubblico interesse presuppone l’incompatibilità tra affari privati e P.A.[23] In difetto, egli è tentato di fare innanzitutto il proprio interesse[24].
Non è un caso che nel 2021 – anche in accoglimento delle osservazioni contenute nel Rapporto annuale del 24 maggio 2018 dell’Haute autorité pour la transparence de la vie publique – il precedente ancor più generico riferimento, contenuto nella norma, a “qualsiasi interesse” sia stato sostituito dal legislatore francese con quello all’“interesse che possa compromettere la sua imparzialità, la sua indipendenza o oggettività”. La riforma ha permesso di circoscrivere il campo applicativo del reato, ma non ha inciso sulla sua struttura.
Nel dicembre 2021, invece, il reato di presa illegale di interessi è stato introdotto anche per coloro che esercitano una funzione giurisdizionale e sono chiamati ad assumere una decisione (art. 432-12-1).
L’ultima fattispecie francese che può essere ricordata, riformata nel 2016, è il delitto di “attentato alla libertà d’accesso e all’uguaglianza dei candidati dentro i mercati pubblici e i contratti di concessione” (art. 432-14 c.p.), che consiste nell’agire “per procurare o tentare di procurare profitto ingiusto a terzi mediante violazione di disposizioni legislative o regolamentari aventi per oggetto di garantire la libertà d’accesso e l’uguaglianza dei candidati negli appalti pubblici e nei contratti di concessione”. Questa fattispecie è interessante soprattutto per una ragione: anche se si basa sulla violazione di norme di legge o di regolamento – in ciò ricordando l’art. 323 c.p. italiano prima della riforma del 2020 – è caratterizzata da un ambito applicativo delimitato e non aperto, come il nostro abuso d’ufficio, alle regole dei più diversi comparti regolativi[25].
4. Ordinamento tedesco
Un orizzonte normativo ben diverso è quello che si apre analizzando l’ordinamento tedesco, che ha rinunciato ad una previsione generale di abuso d’ufficio, per limitare la tutela a determinate condotte abusive e, più in particolare, a quelle commesse mediante decisioni ingiuste pronunciate dai giudici e dagli arbitri.
Per queste ipotesi sussiste il § 339 StGB (Rechtsbeugung - “Perversione o abuso del diritto”), che tuttavia si applica raramente proprio nel caso in cui vi sia una violazione “oggettiva”[26], manifesta e consapevole di una norma giuridica – sia di diritto sostanziale che di diritto processuale[27] – oppure una falsificazione dei fatti nella decisione di una causa. Più letteralmente, il reato si configura quando, nella trattazione o nella decisione di una controversia giudiziaria o di un procedimento arbitrale, il giudice, altro funzionario o arbitro si sia reso colpevole di una «perversione del diritto», a vantaggio o a svantaggio di una delle parti[28].
La norma, che tutela la fiducia nella validità dell’ordinamento contro gli attacchi interni di chi dovrebbe essere chiamato a far rispettare la legge e quindi, almeno indirettamente, dell’interesse ad un operato imparziale e indipendente della magistratura[29], viene applicata raramente. Molte incertezze derivano dal fatto che si constata che il diritto sta diventando progressivamente meno prevedibile[30].
La fattispecie corrispondente delineata per gli organi d’accusa (§ 344 - Verfolgung Unschuldiger – “Persecuzione di persone innocenti”) pone problemi di coordinamento con il § 339 e, anche per questo, non gode di miglior fortuna.
Per completare il quadro è necessario ricordare infine che in Germania esiste una norma di ampia portata, il § 266 StGB (Untreue – “Infedeltà”), che si sostanzia in un abuso di fiducia[31], ma che ha una chiara declinazione patrimonialistica. Come nei settori privati in cui sussiste un obbligo analogo di gestione del patrimonio altrui che richiede lealtà[32], qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abusi dei poteri, che gli sono stati conferiti, di disporre del patrimonio della P.A. o di obbligare altri, oppure violi i doveri di curare gli interessi patrimoniali della pubblica amministrazione su di lui incombenti, arrecando pregiudizio economico alla P.A., si può configurare una responsabilità penale per “infedeltà”.
È questo un delitto contro il patrimonio che ha conosciuto un’esistenza contrastata ed un’esperienza interpretativa poco lineare[33].
Se vogliamo quindi trarre un’indicazione dall’esperienza tedesca, essa si può cogliere, in negativo, nella possibilità di fare a meno di una fattispecie generale di abuso d’ufficio.
Come la dottrina ha ben illustrato, nel caso in cui, per esempio, in Germania venga rilasciata una concessione ad edificare in assenza dei requisiti di legge, ci si trova in presenza di un provvedimento illegittimo sul piano amministrativo e il funzionario può andare incontro a conseguenze disciplinari, ma non a conseguenze penali[34], a prescindere dal fine perseguito.
Una fattispecie generale di abuso d’ufficio manca nel mondo tedesco fin dal codice penale prussiano del 1851, e quindi da prima dell’unificazione della Germania. La ragione principale viene colta nella necessità di evitare di ricorrere ad una formulazione poco precisa[35] e, quindi, di evitare un’eccessiva ingerenza della magistratura nell’operato della P.A.; un’ingerenza che una disposizione dai confini incerti renderebbe possibile.
5. Ordinamento inglese
Concludiamo questa breve rassegna con l’esame dell’esperienza inglese, nel cui contesto si discute dal 2011 della riforma del Misconduct in Public Office Offence, un delitto di common law caratterizzato da requisiti strutturali di matrice giurisprudenziale piuttosto indeterminati.
La giurisprudenza ha costruito infatti la fattispecie intorno a cinque requisiti strutturali: la qualifica di pubblico ufficiale dell’agente; la condotta abusiva posta in essere durante l’esercizio delle funzioni; la consapevolezza di abusare delle proprie funzioni; l’intensità della violazione, ossia dell’abuso, che deve essere tale da provocare la perdita di fiducia nella funzione pubblica esercitata e l’assenza di cause di giustificazioni o scusanti[36].
Nel dicembre del 2020 è stata pubblicata la relazione finale della Commissione di Riforma (Law Reform Commission)[37], dove è stata messa in luce l’inaccettabile vaghezza dei presupposti del reato. Il fulcro della sua offensività è rinvenuto nella difformità del comportamento del pubblico ufficiale rispetto a quello atteso[38], ma molti dubbi sorgono in merito al livello di gravità che deve connotare la condotta e il grado di colpevolezza affinché si realizzi “an abuse of the public’s trust in the office holder”[39].
La Commissione ha quindi elaborato tre diverse proposte di riforma, riprese nelle raccomandazioni finali.
La prima prevede l’abrogazione della fattispecie, con l’estensione di reati affini a copertura delle zone grigie lasciate scoperte. La Commissione ha tuttavia subito dichiarato di non considerarla preferibile, scegliendo di apprestare una tutela rafforzata alla pubblica funzione.
La seconda proposta riguarda l’introduzione di una forma di abuso (breach of duty offence) integrabile dai soli pubblici ufficiali ai quali sono affidati doveri di prevenire la morte o altri gravi offese, poteri di coercizione o arresto (o altri poteri di limitazione della libertà personale) oppure facoltà e poteri in favore di persone vulnerabili; è un abuso, questo, che riguarda le funzioni, i poteri o le mansioni strettamente funzionali alla prevenzione del danno o del pericolo e che richiede che si verifichi come risultato la morte, un danno fisico o psichico, un sequestro di persona o un arresto arbitrario, un grave danno all’ordine pubblico e alla sicurezza, un grave danno all’amministrazione della giustizia.
Infine, la terza proposta delinea una forma grave di abuso di funzioni o di poteri del pubblico ufficiale che svolge il suo ufficio per ottenere un vantaggio personale o a favore di un terzo o per arrecare un danno a quest’ultimo (corruption in public office offence)[40].
Dopo ampia consultazione pubblica la Commissione ha quindi suggerito di sostituire la common law offence con due statutory offences, i cui requisiti siano ben cristallizzati nella legge.
Sono state prescelte le due ipotesi di abuso d’ufficio disegnate nella seconda e nella terza proposta, con la specificazione dei potenziali autori di reato attraverso il ricorso ad un’ampia elencazione casistica. Rispetto alle proposte iniziali sopra ricordate, nelle raccomandazioni sono stati precisati meglio i requisiti della terza ipotesi, chiedendo che l’abuso apparisse tale agli occhi di una persona ragionevole e che si riflettesse sul piano soggettivo e proponendo che il pubblico ufficiale andasse esente da responsabilità nell’ipotesi in cui provasse di aver agito nell’interesse pubblico. Quando alla seconda ipotesi, invece, essa è stata limitata in misura sensibile rispetto alla proposta iniziale. È stata circoscritta agli abusi commessi dai pubblici ufficiali che avessero l’obbligo, discendente unicamente dalla funzione che esercitavano, di prevenire la morte o altre gravi offese personali, sempre che il bene tutelato venisse offeso o, almeno, messo in pericolo.
La riforma non è stata ancora introdotta, in Inghilterra. Anche nell’ordinamento inglese emerge tuttavia chiaramente come il problema centrale sia sempre quello di riuscire a definire con precisione la condotta di abuso per restituire certezza e serenità agli amministratori pubblici.
Un problema generale, che – lasciando da parte il modello tedesco che ha fatto una scelta radicale – negli ordinamenti analizzati ha trovato risposte spesso poco convincenti sul fronte della tassatività/determinatezza, soprattutto quando le fattispecie non sono davvero circoscritte a specifici comparti regolativi.
[1] G.L. Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema pen., 19 maggio 2023.
[2] M. Donini, Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso d’ufficio, in Sistema pen., 23 giugno 2023.
[3] C. Pagella, L’abuso d’ufficio nella giurisprudenza massimata della Cassazione: un’indagine statistico-criminologica su 500 decisioni, in Sistema pen., 17 giugno 2023.
[4] Così V. Manes, Contestazioni in eccesso e la fine dell’abuso d’ufficio, Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2023.
[5] Si riporta, per completezza, il testo dell’art. 19 – Abuse of functions: «Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity». Nello stesso senso, con riferimento tuttavia al reato di traffico di influenze, V. Mongillo, Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano: crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sistema pen., 2 novembre 2022.
[6] Art.11 – Abuse of functions: «Member States shall take the necessary measures to ensure that the following conduct is punishable as a criminal offence, when committed intentionally: 1. the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party».
[7] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 86. Per un approfondimento in materia poi – con riferimento sia all’ordinamento spagnolo che agli altri ordinamenti qui considerati – sia consentito rinviare a E. Mattevi, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Napoli, 2002, 304 ss.
[8] V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, in Dir. pen. proc., 1998, 1442, nt. 5; C.D. Delgado Sancho, Responsabilidad penal de políticos y funcionarios públicos, a Coruña, 2019, 47; E. Hava García, Los delitos de prevaricación, Cizur Menor, 2019, 52.
[9] J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, Valencia, II ed., 1997, 67. Cfr. anche A. Tesauro, Violazione di legge ed abuso d’ufficio. Tra diritto penale e diritto amministrativo, Torino, 2002, 279 s.
[10] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 88.
[11] M. López Benítez, Desviación de poder y prevaricación administrativa: diferencias y entrecruzamientos, in Documentaciòn Administrativa, 2018, n. 5, 177.
[12] J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, cit., 68.
[13] Come è stato efficacemente precisato: «la dottrina non è ancora riuscita a formare uno studioso di tanto acume […] da compilare, con precisione, un elenco delle leggi che indicano espressamente il fine che ognuna di loro persegue». Così S. Perongini, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione, Torino, 2020, 152. Cfr. altresì A. Tesauro, La riforma dell’art. 323 c.p. al collaudo della Cassazione, in Foro it., II, 1998, 267.
[14] Cfr. Cass., 9 dicembre 2020, n. 442, in CED Cassazione penale 2021. Per un’analisi della sentenza cfr. C. Pagella, La Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, in https://www.sistemape- nale.it/it/scheda/cassazione-2021-442-cassazione-abuso-ufficio-abolitio-criminis-de- creto-semplificazioni (19 maggio 2021).
[15] M. López Benítez, Desviación de poder y prevaricación administrativa: diferencias y entrecruzamientos, cit., 177. Cfr. anche J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, cit., 71.
[16] C.D. Delgado Sancho, Responsabilidad penal de políticos y funcionarios públicos, cit., 72 ss.
[17] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 90; V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, cit., 1445.
[18] V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, cit., 1441.
[19] Cfr. E. Hava García, Los delitos de prevaricación, cit., 29.
[20] Per l’analisi delle fattispecie si è fatto riferimento soprattutto a S. Corioland, Responsabilité pénale des personnes publiques, Paris, 2019, 34 ss.
[21] A. Tesauro, Violazione di legge ed abuso d’ufficio. Tra diritto penale e diritto amministrativo, cit., 281.
[22] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 81 s. G.L. Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, cit., par. 9, ritiene invece che la fattispecie sia priva dei contorni vaghi dell’art. 324 c.p. italiano, sbrigativamente abrogato nel 1990.
[23] S. Seminara, L’art. 323 c.p. e le ipotesi di riforma, in D. Sorace (a cura di), Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, Padova, 1998, 522.
[24] Così anche S. Corioland, Responsabilité pénale des personnes publiques , cit., 111.
[25] Cfr. A. Di Martino, Abuso d’ufficio, in A. Bondi, A. di Martino, G. Fornasari, Reati contro la pubblica amministrazione, II ed. riv. agg., Torino, 2008, 272 s.
[26] Come rileva T. Fischer, Strafgesetzbuch mit Nebengesetzen, München, 68° Aufl., 2021, 2544, essendo la teoria soggettiva ormai superata, non ha rilievo la mera convinzione soggettiva dell’autore di decidere in contraddizione con la legge applicabile. G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, in A. Schönke, H. Schröder (Hrsg.), Strafgesetzbuch. Kommentar, München, Verlag C.H. Beck, 30° Aufl., 2019, 3255 ricordano invece che non mancano aperture verso una lettura soggettivistica dell’atto distorsivo, inteso come deviazione del giudice dalla propria convinzione giuridica. R. Kern, Die Rechtsbeugung durch Verletzung formellen Rechts, München, 2010, 162 condivide una teoria oggettiva lievemente modificata, che richiede che la norma giuridica sia applicata in modo irragionevole.
[27] Come è evidenziato in U. Kindhäuser, E. Hilgendorf, Strafgesetzbuch. Lehr- und Praxiskommentar, Baden-Baden, 9° Aufl., 2022, 1405 s., la violazione procedurale deve poter riflettersi sulla decisione, a favore o sfavore di una delle parti. La norma violata deve appartenere all’ordinamento giuridico positivo: C. Freund, Rechtsbeugung durch Verletzung übergesetzlichen Rechts, Berlin, 2006, 74 ss., 260.
[28] Il reato è sanzionato con la pena detentiva da 1 a 5 anni: § 339 StGB: «Ein Richter, ein anderer Amtsträger oder ein Schiedsrichter, welcher sich bei der Leitung oder Entscheidung einer Rechtssache zugunsten oder zum Nachteil einer Partei einer Beugung des Rechts schuldig macht, wird mit Freiheitsstrafe von einem Jahr bis zu fünf Jahren bestraft». («Il giudice, un altro pubblico ufficiale o un arbitro che, nel trattare o decidere una controversia, si rende colpevole di una perversione del diritto a vantaggio o a svantaggio di una delle parti è punito con la pena detentiva da uno a cinque anni» trad. nostra) Cfr. G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, cit., 3251 ss.; U. Kindhäuser, E. Hilgendorf, Strafgesetzbuch. Lehr- und Praxiskommentar, cit., 1404; R. Rengier, Strafrecht. Besonderer Teil II. Delikte gegen die Person und die Allgemeinheit, Verlag C.H. Beck, München, 22° Aufl., 2021, 603 ss.
[29] R. Rengier, Strafrecht. Besonderer Teil II. Delikte gegen die Person und die Allgemeinheit, cit., 604 parla, innanzitutto, di tutela dell’amministrazione della giustizia.
[30] G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, cit., 3256. Cfr. R. Kern, Die Rechtsbeugung durch Verletzung formellen Rechts, cit., 164. Sul punto si sofferma anche A. Manna, Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 1201 ss.
[31] § 266 StGB: «Wer die ihm durch Gesetz, behördlichen Auftrag oder Rechtsgeschäft eingeräumte Befugnis, über fremdes Vermögen zu verfügen oder einen anderen zu verpflichten, mißbraucht oder die ihm kraft Gesetzes, behördlichen Auftrags, Rechtsgeschäfts oder eines Treueverhältnisses obliegende Pflicht, fremde Vermögensinteressen wahrzunehmen, verletzt und dadurch dem, dessen Vermögensinteressen er zu betreuen hat, Nachteil zufügt, wird mit Freiheitsstrafe bis zu fünf Jahren oder mit Geldstrafe bestraft» («Chiunque abusa del potere di disporre di un patrimonio altrui o di obbligare un terzo, conferitogli per legge, per ordine dell’autorità o per negozio giuridico, ovvero viola l’obbligo di curare interessi patrimoniali altrui, del quale è investito in forza di legge, di un ordine dell’autorità, di un negozio giuridico o di un rapporto fiduciario, arrecando con ciò pregiudizio a colui del quale deve curare gli interessi patrimoniali, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria» trad. nostra). Cfr. U. Kindhäuser, M. Böse, Strafrecht. Besonderer Teil II. Straftaten gegen Vermögensrechte, Baden-Baden, 11° Aufl., 2021, 327 ss.
[32] J. Eisele, Strafrecht. Besonderer Teil II. Eigentumsdelikte un Vermögensdelikte, Stuttgart, 6° Aufl., 2021, 309 sottolinea che il reato può essere commesso da chi ha un obbligo di gestione del patrimonio.
[33] L. Foffani, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, cit., 237. A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 123 ritiene che la norma vada inevitabilmente incontro a problemi di costituzionalità.
[34] Questo esempio è offerto da K. Alten, Amtsmißbrauch. Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu Artikel 323 des italienischen Strafgesetzbuchs, Göttingen, 2012, 299 s., operando un confronto tra la disciplina tedesca e quella italiana.
[35] K. Alten, Amtsmißbrauch. Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu Artikel 323 des italienischen Strafgesetzbuchs, cit., 382. L’Autore ricorda che il codice penale prussiano del 1851 ha influenzato da vicino il primo codice penale della Germania unificata, quello del 1871 (p. 445).
[36] Cfr. P. Humpherson, Paper on the English and Welsh Common Law Offence of Misconduct in Public Office, in A.R. Castaldo (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, 88 ss.
[37] Cfr. la relazione della Law Commission, anche in sintesi, con le raccomandazioni finali del 4 dicembre 2020, su https://www.lawcom.gov.uk/project/misconduct-in-public-office/#:~:text=The%20offence%20requires%20that%3A%20a,without%20reasonable%20excuse%20or%20justification. Cfr., per un’analisi, F. Coppola, Spazi applicativi vecchi e nuovi per la fattispecie di abuso d’ufficio riformata. Cenni comparativi con l’ordinamento inglese, in A.R. Castaldo, M. Naddeo (a cura di), La riforma dell’abuso d’ufficio, Torino, 2021, 137 ss.
[38] F. Coppola, Abuso d’ufficio: appunti per una possibile riforma dai lavori della Law Commission sulla common law offence of Misconduct in Public Office, in Archivio Penale, 2, 2020 (18 giugno 2020), 6.
[39] V. Scalia, La corruzione: a never ending story. Strumenti di contrasto e modelli di tipizzazione nel panorama comparato e sovrannazionale, Torino, 2020, 438.
[40] Cfr. F. Coppola, Abuso d’ufficio: appunti per una possibile riforma dai lavori della Law Commission sulla common law offence of Misconduct in Public Office, cit., 10 ss.
Sommario: 1. L’origine della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati in sede penale. Il costante riferimento alla disciplina di sequestro e confisca di prevenzione. - 2. La disciplina previgente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019. - 3. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 14/2019 (in vigore dal 15 luglio 2022). 4. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 150/2022 (in vigore dal 30 dicembre 2022). - 5. La vendita dei beni confiscati (modifica dell’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p.), cenni essenziali. - 6. Lo schema proposto.
1. L’origine della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati in sede penale. Il costante riferimento alla disciplina di sequestro e confisca di prevenzione.
Per collocare la vigente disciplina, è opportuna una ricostruzione della complessa evoluzione della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati contenuta nelle diverse versioni introdotte nel tempo dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[1]
Il riferimento costante alla regolamentazione in sede penale è rappresentato dalla disciplina in materia di sequestro e confisca di prevenzione che costituisce la regolamentazione più risalente e di maggiore applicazione pratica, che ha sempre costituito un riferimento nella materia penale che progressivamente l’ha adottata, fino alla quasi sostanziale parificazione intervenuta col d.lgs. n. 14/2019 e, poi, col d.lgs. n. 150/2022.
È noto che l’amministrazione giudiziaria del sequestro e della confisca di prevenzione ha trovato una coerenza normativa col d.lgs. n. 159/2011, cd. Codice antimafia, che, al Libro I, ha disciplinato in modo coordinato numerosi temi la cui disciplina è reciprocamente influenzata:
a) l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati (Titolo III, Capi I e II);
b) la tutela dei diversi terzi coinvolti dal sequestro e dalla confisca (Titolo IV, Capi I e II);
c) l’amministrazione e destinazione dei beni definitivamente confiscati (Titolo IV, Capo III);
d) i rapporti con le procedure concorsuali (Titolo IV, Capo III).
Le caratteristiche del sistema delineato dal d.lgs. n. 159/2011 e succ. mod., all’interno delle quali si disciplina coerentemente l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, possono essere così sintetizzate:
– l’amministrazione dei beni sequestrati nel corso del procedimento di cognizione finalizzato alla confisca (svolto dall’esecuzione del sequestro alla confisca definitiva) è regolamentata (artt. 21 e da 34 a 43 d.lgs. n. 159/2011), coerentemente con gli effetti della confisca, ivi compresa la tutela di ogni tipologia di terzo; l’amministrazione giudiziaria, fino alla confisca di secondo grado, è diretta dal giudice delegato, nominato dal tribunale tra i componenti del collegio che ha disposto il sequestro, coadiuvato dall’amministratore giudiziario; successivamente interviene l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata che precedentemente è titolare di meri compiti di ausilio al giudice delegato;
– la devoluzione del bene confiscato, privo di oneri e pesi (art. 45 d.lgs. cit.), comporta la risoluzione all’interno del procedimento di prevenzione di tutte le vicende relative al bene acquisito dallo Stato al fine di depurarlo di qualsiasi problematica e semplificarne la destinazione, in primo luogo attraverso la tutela dei terzi coinvolti a vario titolo dal sequestro e dalla confisca;
– la sorte dei contratti in corso e delle azioni esecutive individuali e collettive (fallimento) è regolamentata prevedendo: 1) la prosecuzione di alcune tipologie di contratti attraverso un apposito procedimento (artt. 56 d.lgs. cit.); 2) la sospensione delle azioni esecutive e la loro estinzione all’esito della confisca derivante dalla tutela attribuita ai terzi nell’ambito del procedimento di prevenzione (art. 55 d.lgs. cit.); 3) la prevalenza del sequestro di prevenzione per i beni assoggettati a fallimento (dichiarato prima o dopo il sequestro), con soddisfacimento dei creditori nel procedimento di prevenzione nel rispetto delle disposizioni previste per la tutela dei terzi (art. 63 ss. d.lgs. cit.);
– il pagamento delle somme dovute ai terzi avviene al termine di un apposito procedimento nel corso del quale trovano tutela i crediti sorti prima del sequestro previo accertamento di determinati presupposti e con determinati limiti (artt. 52 ss. d.lgs. cit.). Se necessario i beni confiscati sono venduti per soddisfare i creditori (art. 57 ss. d.lgs. cit.), pagati (dall’Agenzia Nazionale) secondo un ordine simile a quello previsto dalla legge fallimentare (art. 61 comma 2 d.lgs. cit.).
Interpretazioni giurisprudenziali e interventi normativi hanno progressivamente esteso, in tutto o in parte, le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 alle diverse tipologie di sequestri e confische penali.
Va sottolineato che l’estensione della disciplina del Codice Antimafia dovrebbe tenere conto che il sistema delineato presenta una sua coerenza che impone il coordinamento della regolamentazioni dei diversi sub procedimenti che si affiancano al procedimento (di cognizione) finalizzato alla confisca:
a) amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati;
b) tutela dei terzi, anche nell’ambito delle procedure esecutive individuali e collettive (o fallimentari);
c) gestione e destinazione dei beni confiscati.
Solo tenendo conto costantemente del coordinamento di questi tre segmenti procedurali la disciplina può assumere coerenza, tenendo conto, peraltro, delle specificità e delle funzioni delle singole tipologie di confisca[2].
2. La disciplina previgente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019.
La regolamentazione dell’amministrazione dei beni sequestrati nel procedimento penale, contenuta nell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., inserito con la l. n. 94/2009, più volte modificata, con rilevanti problematiche interpretative, si può così sintetizzarsi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 sulla crisi d’impresa (15 luglio 2022):
a) per il sequestro (preventivo) – impeditivo o finalizzato a ogni tipologia di confisca – il giudice che lo dispone nomina un amministratore giudiziario qualora «sia necessario assicurare l’amministrazione» (artt. 104-bis comma 1 e 1-bis disp. att. c.p.p.);
b) per il sequestro funzionale alla confisca allargata (o estesa o per sproporzione) prevista dall’art. 240-bis c.p. (e dalle norme di leggi speciali che espressamente a questo articolo rinviano[3]) o adottati per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 in materia di amministrazione dei beni sequestrati, tutela dei terzi e destinazione dei beni confiscati (art. 104-bis, comma 1-quater, disp. att. c.p.p. e art. 110, comma 1, lett. c ed e, d.lgs. n. 159/2011);
c) per il sequestro funzionale a forme di confisca diverse dalla confisca allargata[4]:
c/1) per l’amministrazione dei beni sequestrati, si applicano le disposizioni previste dal d.lgs. n. 159/2011 (art. 104-bis, comma 1-bis secondo periodo); i compiti del giudice delegato sono svolti dal giudice che ha disposto il sequestro (e ha nominato l’amministratore giudiziario), salvo che si tratti di organo collegiale, nel qual caso questo organo nomina il giudice delegato tra i componenti del collegio (art. 104-bis commi 1-bis e 1-ter, disp. att. c.p.p.);
c/2) per la tutela dei terzi, vi sono incertezze sull’operatività delle disposizioni del d.lgs. n. 159/2011;
c/3) per i rapporti con le procedure concorsuali, si esclude l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 e la regolamentazione si rinviene nei principi posti da una risalente sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un, 12.2.2014, Focarelli );
c/4) per la destinazione dei beni confiscati, si esclude l’applicabilità delle norme del d.lgs. n. 159/2011 e, dunque, la competenza dell’Agenzia nazionale[5], trovando applicazione le disposizione degli artt. da 86 a 88 disp. att. c.p.p. o la regolamentazione di leggi speciali.
Va aggiunto che:
– per il sequestro funzionale a ogni tipologia di confisca, si prevede la citazione, nel processo di cognizione, dei terzi titolari di diritti reali o personali di godimento su beni in sequestro, senza alcuna distinzione (art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att. c.p.p.)[6];
– per la confisca senza condanna di cui all’art. 578-bis c.p.p., si prevede l’applicabilità delle disposizioni in materia di confisca allargata e di citazione dei terzi esposte supra, lett. b) e d) (art. 104-bis comma 1-sexies disp. att. c.p.p.).
3. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 14/2019 (in vigore dal 15 luglio 2022).
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 (15 luglio 2022), la disciplina muta considerevolmente:
a) i rapporti col sequestro preventivo previsto dall’art. 321 c.p.p. finalizzato a ogni forma di confisca penale sono regolati attraverso un rinvio generale alle disposizioni dell’intero Titolo IV del Libro I d.lgs. n. 159/2011 (art. 317 d.lgs. n. 14/2019) e, dunque, con la prevalenza della misura reale penale. La liquidazione giudiziale prevale, invece, sul sequestro impeditivo previsto dall’art. 321 comma 1 c.p.p. (art. 318 d.lgs. n. 14/2019);
b) l’art. 373 d.lgs. n. 14/2019 riscrive i commi 1-bis e 1-quater dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. per coordinarli con la nuova disciplina introdotta dal citato art. 317, per cui:
– nel caso di sequestro impeditivo, si applicano le sole disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 «nella parte in cui recano la disciplina della nomina e revoca dell’amministratore, dei compiti, degli obblighi dello stesso e della gestione dei beni». Condivisibilmente non trovano ingresso le disposizioni in materia di tutela dei terzi e destinazione dei beni definitivamente confiscati in quanto gli effetti del sequestro impeditivo cessano con la sentenza definitiva se non è trasformato in sequestro preventivo finalizzato alla confisca (art. 323 c.p.p.). La liquidazione giudiziale prevale (art. 318 d.lgs. n. 14/2019);
– nell’ipotesi di sequestro finalizzato alla confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. (e delle norme di leggi speciali che espressamente a questo articolo rinviano) o adottati per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati e di esecuzione del sequestro (intero Titolo III del libro I, artt. da 35 a 51-bis)[7], nonché dell’intero Titolo IV (tutela dei terzi e rapporti col fallimento, ora liquidazione giudiziale (art. 104-bis comma 1-quater disp. att. c.p.p.). Dunque, si prevede espressamente anche il rinvio alle disposizioni sulla prevalenza del fallimento (ora liquidazione giudiziale) di cui agli artt. 63 e 64 d.lgs. n. 159/2011;
– in presenza di sequestro finalizzato a ogni forma di confisca diversa da quelle supra lett. b), oltre alle disposizioni in materia di amministrazione dei beni sequestrati (come previsto dall’art. 104-bis comma 1-bis, primo periodo, al pari del sequestro impeditivo)[8], si applicano le disposizioni del Libro I, Titolo IV del d.lgs. n. 159/2011 in materia di tutela dei terzi e rapporti con la procedura di liquidazione giudiziaria. Sono escluse, dunque, le sole disposizioni in materia di destinazione dei beni confiscati (competenza dell’Agenzia nazionale e operatività degli art. 86 ss. disp. att. c.p.p.).
Si pone il tema della disciplina intertemporale, potendo ritenersi che almeno le nuove disposizioni relative ai rapporti con la liquidazione giudiziale si applichino solo ai procedimenti avviati dopo l’entrata in vigore della riforma, in considerazione della disciplina organica della crisi e dell’insolvenza dell’impresa individuale o collettiva contenuta nel decreto legislativo e di quanto disposto dall’art. 390 d.lgs. n. 14/2019. Per le altre disposizioni, trattandosi di norme processuali e procedimentali, in assenza di disposizioni transitorie, si può ritenere che operi il criterio generale indicato nel principio tempus regit actum, sempre che non siano esauriti gli effetti e, dunque, concluso il procedimento[9].
4. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 150/2022 (in vigore dal 30 dicembre 2022).
Il d.lgs. n. 150/2022, apporta limitate modifiche alla rubrica e ad alcuni commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. in materia di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e dei beni confiscati.
La relazione illustrativa precisa «Le norme contenute nell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. continuano a disciplinare l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo, conformemente alla ratio della direttiva di cui alla lett. b) dell’art. 1, comma 14, della legge delega. La soluzione prescelta determina anche un coordinamento con la disciplina dei commi 1-bis e 1-quater dell’art. 104-bis modificata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrata in vigore il 15 luglio 2022, senza necessità di ulteriori modifiche».
Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2022 ai singoli commi (e alla rubrica) dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., però, alla luce del dato testuale e dell’evoluzione normativa ricordata assumono un più ampio rilievo perché dirette a regolamentare non solo, come avviene oggi, l’amministrazione dei beni sequestrati, ma anche l’amministrazione dei beni confiscati, dalla definitività della pronuncia fino alla loro destinazione, colmando così una lacuna che ha comportato rilevanti incertezze applicative.
Le modifiche al comma 1 dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[10] consentono di riferire la nomina dell’amministratore giudiziario (non solo al sequestro ma) anche a ogni ipotesi in cui dopo la definitività della confisca sia necessario nominare un amministratore giudiziario per la gestione del bene. Dunque, in ogni caso in cui occorra iniziare o proseguire la gestione dei beni dopo la confisca definitiva l’amministratore giudiziario potrà essere nominato dal giudice dell’esecuzione che dirigerà l’amministrazione giudiziaria fino alla definitiva destinazione, anche con la vendita prevista dall’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p., colmando la criticità oggi presente. Viene, così, data soluzione al tema della gestione dei beni appresi dopo la confisca definitiva (diversa da quella disposta ai sensi dell’art. 240-bis c.p. e 51 comma 3-bis c.p.p. per i quali interviene l’Agenzia nazionale), per i quali mancava un’espressa regolamentazione, con le conseguenti incertezze in ordine alla competenza sui provvedimenti da adottare (generalmente individuata nel giudice dell’esecuzione) e sulla concreta gestione fino alla destinazione definitiva, non essendo espressamente prevista la nomina di un amministratore giudiziario[11].
La modifica al comma 1-bis dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[12], con l’inserimento, ancora una volta, del termine confisca, conferma l’interpretazione proposta con riferimento all’analoga modifica del comma 1 esaminata: l’amministratore giudiziario nominato in esecuzione della confisca definitiva applicherà le disposizioni in materia di amministrazione dei beni previste dal d.lgs. n. 159/2011[13].
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., con la soppressione dell’ultimo periodo «Restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno», che trovava applicazione solo per la confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p., va posta in relazione con l’estensione del suo contenuto a ogni ipotesi di confisca in forza dell’integrale sostituzione del comma 1-sexies dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.
La modifica del comma 1-sexies dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., secondo cui «Le disposizioni dei commi 1-quater e 1-quinquies si applicano anche nel caso indicato dall’articolo 578-bis del codice:
– fa venire meno un’ingiustificata disparità di trattamento, estendendo opportunamente la prevalenza dei diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno in ogni ipotesi di confisca, prima prevista (dal soppresso comma 1-quater da ultimo citato) sola per la confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p;
– estende testualmente alla confisca prevista dall’art. 578-bis c.p.p. (decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione) l’intera regolamentazione contenuta nei precedenti commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. e non i soli commi 1-quater e 1-quinquies in precedenza richiamati, così operando una più corretta regolamentazione.
Infine, si modifica la rubrica attuale («Amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo e a sequestro e confisca in casi particolari. Tutela dei terzi nel giudizio.») che diviene: «Amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e confisca. Tutela dei terzi nel giudizio.». Si conferma l’interpretazione che si è proposta in ordine all’inserimento della confisca ai commi 1 e 1-bis e, dunque, all’applicabilità delle disposizioni in materia di amministrazione giudiziaria (e tutela dei terzi) anche nel caso di esecuzione di confisca non preceduta da sequestro.
In ordine alle questioni di diritto intertemporale, si ritiene che trattandosi di norme processuali e procedimentali, in assenza di norme transitorie operi il principio tempus regit actum, sempre che non siano esauriti gli effetti e, dunque, conclusa la relativa fase[14], pur con inevitabili difficoltà applicative.
5. La vendita dei beni confiscati (modifica dell’art. 86 disp. att. c.p.p.), cenni essenziali.
La disciplina dell’esecuzione della confisca è contenuta negli artt. 86 ss. disp. att. c.p.p. Gli artt. 86-bis, 86-ter e 88 disp. att. c.p.p. prevedono specifiche destinazioni, mentre l’art. 86 disp. att. c.p.p. affronta il tema di carattere generale della «Vendita e distruzione delle cose confiscate».
Il comma 1 dell’art. 86, nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2022, prevedeva: «La cancelleria provvede alla vendita delle cose di cui è stata ordinata la confisca, salvo che per esse sia prevista una specifica destinazione.». La disposizione risale all’introduzione del codice di rito del 1989, quando non esistevano le forme di confisca allargata, per equivalente e (in parte) obbligatorie, con la conseguente scarsa applicabilità in generale e, comunque solo per beni determinati costituiti, di norma, da veicoli o beni mobili.
Una specifica destinazione (e regolamentazione dell’amministrazione dei beni confiscati definitivamente), perciò con conseguente inapplicabilità del citato art. 86 disp. att. c.p.p., era (ed è) prevista (oltre che da leggi speciali) per l’Agenzia nazionale per la destinazione dei beni definitivamente confiscati all’esito del procedimento di prevenzione nonché nel caso di confisca allargata o estesa oggi prevista dall’articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché alle confische per delitti previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (cfr. Supra)
Di conseguenza, si riteneva applicabile l’art. 86 disp att. c.p.p. per l’esecuzione di ogni forma di confisca diversa da quelle ora richiamate, con difficoltà delle cancellerie del giudice dell’esecuzione e formazione di prassi operative diverse su cui non è necessario soffermarsi alla luce della nuova normativa.
Nessuna regolamentazione era prevista per l’amministrazione dei beni dalla definitività della confisca definitiva alla sua esecuzione, con la destinazione e/o vendita del bene[15].
L’art. 41 lett. i n. 1 d.lgs. n. 150/2022, modifica l’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p., aggiungendo un secondo periodo secondo cui «Il compimento delle operazioni di vendita può essere delegato a un istituto all’uopo autorizzato o a uno dei professionisti indicati negli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile, con le modalità ivi previste, in quanto compatibili».
Dunque, per la liquidazione dei beni definitivamente confiscati nell’ambito di processi penali per reati per i quali non si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 (o di altre leggi speciali), si conferma l’applicabilità della disciplina dell’art. 86 disp. att. c.p.p. e si consente alle cancellerie penali di delegare le operazioni di vendita con le modalità prevista dagli articoli 534-bis e 591-bis c.p.c.
6. Lo schema proposto.
In considerazione della complessità della disciplina e delle difficoltà applicative si propone e allega uno schema della disciplina applicabile ai sequestri penali (finalizzati alla confisca, impeditivo, probatorio e conservativo) in ordine:
a) all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria competente alla nomina dell’amministratore o del custode;
b) all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria competente alla direzione dell’amministrazione/custodia;
c) alle disposizioni applicabili nell’amministrazione o nella custodia;
d) alle disposizioni applicabili per la tutela dei terzi e nei rapporti con le azioni esecutive, fallimento/liquidazione giudiziale;
e) alle disposizioni applicabili al termine del procedimento (con o senza confisca) sulla destinazione dei beni.
Lo schema si propone di sintetizza la disciplina applicabile, senza pretesa di esaustività e nel tentativo di offrire uno strumento di immediata lettura di una normativa oggetto di plurime modifiche e di continue evoluzioni interpretative come esposto in precedenza.
Per mera comodità in nota sono riportati richiami normativi e giurisprudenziali essenziali e sintetiche valutazioni, ove opportuno.
Lo schema non contempla numerose ipotesi particolari che si possono verificare, a partire dal regime transitorio relativo alle modifiche apportate dalla l. n. 161/2017, dal d.lgs. n. 14/2019 e dal d.lgs. n. 150/2022, regime talvolta solo delineato in linea molto generale occorrendo plurime specificazioni e approfondimenti.
La difficoltà di schematizzare una disciplina complessa può comportare imprecisioni che potranno essere segnalate per aggiornamenti successivi, facendosi sempre riferimento nello schema alla data dell’aggiornamento.
[1] Il presente articolo prende spunto da precedenti scritti: F. menditto, La riforma penale (l. n. 134/2021): le disposizioni in materia di sequestro e confisca dello schema di decreto delegato presentato dal governo, in Sist. pen., 14.9.2022; Id, L’amministrazione giudiziale dei beni sequestrati e confiscati. L’esecuzione della confisca, Milano, 2023, in Riforma Cartabia, La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo-M. Donini – E.M. Mancuso- G. Varraso.
L’articolo costituisce l’occasione per un’ulteriore riflessione dopo l’approfondimento del Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura del 15 al 17 maggio 202 su L’amministrazione dei beni: dal sequestro alla definitività della confisca, nelle misure di prevenzione e nel processo penale e per presentare l’allegato Schema, predisposto con finalità eminentemente pratiche.
[2] Si pensi, ad esempio alle diversità tra confisca allargata, che interviene sull’intero patrimonio sproporzionato rispetto al reddito dichiarato di cui il condannato non può giustificare la legittima provenienza, e confisca per equivalente che riguarda singoli beni di origine lecita acquisiti in sostituzione dei beni di origine illecita non rinvenuti.
[3] Si tratta degli artt. 85-bis d. P.R. n. 309/1990 (stupefacenti) e 301, comma 5-bis, d.P.R. n. 43/1973 (contrabbando), originariamente presenti nell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, conv. con la l. n. 356/1992, poi inseriti nelle leggi speciali dal d.lgs. n. 21/2018); nonché dell’art. 12-ter d.lgs. n. 74/2000 (reati tributari), introdotto dal d.l. n. 124/2019, conv. con la l. n. 157/2019.
[4] Confisca facoltativa di cui all’art. 240 comma 1 c.p., confisca obbligatoria prevista dall’art. 240 comma 2 c.p. e da numerose leggi speciali, confisca per equivalente prevista da alcuni delitti del codice penale e di leggi speciali.
[5] Cass., sez. III, 12.12.2019, Marchio, in Ced cass., n. 279462.
[6] La disposizione è stata inserita dal d.lgs. n. 21/2018, pur se trattavasi di delega meramente ricognitivo della preesistente regolamentazione contenuta nell’art. 12-sexies comma 4-quinquies d.l. n. 306/1992, conv. con la l. n. 356/1992, che si riferiva alla sola confisca allargata.
[7] Per un mero difetto di coordinamento alcuni dubbi possono sorgere quando, nei diversi commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., si fa riferimento, con diverse terminologie, alla disposizioni sulla nomina dell’amministratore giudiziario e sull’amministrazione giudiziaria previste dal d.lgs. n. 159/2011. Infatti:
- ai sensi del comma 1: «1. In tutti i casi in cui il sequestro preventivo o la confisca abbiano per oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l'amministrazione, …. l'autorità giudiziaria nomina un amministratore giudiziario scelto nell'Albo di cui all'articolo 35 del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni…..»;
- ai sensi del comma 1-bis «1-bis. Si applicano le disposizioni di cui al Libro I, titolo III, del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni nella parte in cui recano la disciplina della nomina e revoca dell'amministratore, dei compiti, degli obblighi dello stesso e della gestione dei beni… »;
- ai sensi del comma 1-quater: «1-quater. Ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall'articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice, si applicano le disposizioni del titolo IV del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Si applicano inoltre le disposizioni previste dal medesimo decreto legislativo in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati e di esecuzione del sequestro. In tali casi l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l'autorità giudiziaria nell'amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, fino al provvedimento di confisca emesso dalla corte di appello e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159».
Orbene, il costante riferimento al d.lgs. n. 159/2011, anche ove non è esplicitato il riferimento al Libro I, titolo III, e la stretta interconnessione tra tale titolo e il Titolo IV, oggi espressamente richiamato, rendono evidente che quando si menzionano nomina dell’amministratore e gestione dei beni ai sensi del Codice Antimafia, il rinvio deve ritenersi unitario a tutte le disposizioni previste dal citato Titolo III:
- Capo I, L’amministrazione dei beni sequestrati, artt. da 35 a 39;
- Capo II, La gestione dei beni sequestrati e confiscati, artt. 40 a 43 (tutti relativi ai beni sequestrati) e 44, limitatamente alla parte in cui si riferisce ai beni sequestrati;
- Capo IV, Regime fiscale dei beni sequestrati e confiscati, artt. da 50 a 51-bis, esclusa la parte i cui si riferiscono ai beni confiscati.
Resta escluso, con evidenza, il Capo III relativo alla destinazione dei beni confiscati (articoli da 45 a 49) richiamato espressamente dal legislatore quando vuole riferirsi a tali disposizioni anche menzionando la competenza dell’agenzia nazionale (art. 104-bis, comma 1-quater).
[8] Cfr. nota precedente.
[9] Cfr. Corte cost., ord. 8.9.2016, n. 107; Cass., sez. un., 17.7.2014, Pinna, in Cass. pen., 2015, 534; Cass., sez. II, 12.2.2021, Macrì, in Ced cass. n. 280724; Cass., sez. IV, 29.3.2018, Nesturi, in Ced cass. n. 272746.
[10] Le parole: «Nel caso» sono sostituite dalle seguenti: «In tutti i casi»; la parola: «abbia» è sostituita dalle seguenti: «o la confisca abbiano» (art. 41 lett. l) n. 1 d.lgs. n. 150/2022.
[11] Cfr. Cass., sez. I, 3.10.2020, Synergo Consorzio Nazionale, in Ced cass., n. 279736. Solo per la gestione dei beni immobili si poteva fare riferimento all’art. 65 d.lgs. 300/1999, come da interpretazione autentica ex art. 3, comma 18, d.l. 95/2012, conv. con l n. 135/2012, con la competenza dell’Agenzia del Demanio.
[12] Le parole: «Quando il sequestro è disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice», sono sostituite dalle seguenti: «In caso di sequestro disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice o di confisca» (art. 41 lett. l, n. 2 d.lgs. n. 150/2022).
[13] Inoltre, troveranno applicazione le norme ivi previste per la tutela dei terzi e nei rapporti col fallimento ovvero con la liquidazione giudiziaria.
[14] Cfr. nota 9.
[15] In tal senso, in motivazione, Cass., sez. I, 3.10.2020, Synergo Consorzio Nazionale, cit. Come ricordato, per la gestione dei beni immobili si poteva individuare la competenza dell’Agenzia del Demanio.
Recensione di Salvatore Natoli a Maria Martello, Una giustizia alta e altra
Se ti ricordi…che tuo fratello
ha qualcosa contro di te,
lascia il tuo dono davanti all’altare,
va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello
e poi torna ad offrire il tuo dono
(Mt. 5, 23)
Neppure Dio può perdonare, se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato, se, in breve, lo spirito della pace non faccia aggio sul demone della lite. E dico dia/bolus proprio perché è colui che divide e fomenta la divisione. Ora, nel passo evangelico a farsi mediatore è Gesù indicando come ai fini della riconciliazione non basta una soluzione meramente rituale - al posto dell’altare potremmo metterci il tribunale - bensì relazionale. Tale via può essere percorsa solo se si animati da un vero spirito di conversione. Nessuna riconciliazione è, infatti, possibile se i soggetti in causa non si assumono la responsabilità dei loro atti. Ma, nel versetto appena citato c’è un particolare che merita d’essere messo in evidenza; il testo dice: se tuo fratello ha qualcosa contro te…. Domanda? Cosa ho fatto perché dovrebbe avercela con me? E, allora: dipende da me, gli ho apportato, pur non volendolo, danno; o magari è lui a nutrire astio contro di me per pregiudizio. Di certo vi è stata una lacerazione; ma da cosa è stata causata? Non c’è altro modo per capirlo che chiarirsi. In questo punto il tratto più rilevante del versetto è, sì, l’intimazione alla riconciliazione, ma senza aspettare chi debba fare la prima mossa senza tergiversare: appunto va prima a riconciliarti. È un criterio deciso che, certo, comporta l’assunzione di responsabilità dei propri atti - evitando lo scarica barile delle pratiche rituali - ma in questo caso vuol dire qualcosa di più: esige spontaneità, una piena volontà di pace quella che non calcola, ma anticipa.
La Martello riprende, a suo modo, questo schema cristico assumendo a figura esemplare di mediatore, Francesco d’Assisi, tra tutti quello che più si è modellato su Cristo. Nota, infatti, che nell’episodio del lupo di Gubbio San Francesco ha svolto “una vera azione di mediazione, ben scandita nelle sue parti:
*la scelta di una figura terza tra due parti in conflitto;
*l’ascolto separato delle due parti
*il riconoscimento dei ruoli vittima-persecutore;
*la responsabilizzazione del persecutore;
*la scoperta della vera motivazione;
*l’accordo separato
*il patto.[1]
E conclude sottolineando che “l’unica umanissima via” per risolvere i conflitti e cercarne le profonde reali ragioni”[2].
Perché vi sia riconciliazione è necessario accertare i torti, esibire le reciproche ragioni, ma soprattutto avere una vera intenzione di riconciliazione. Ciò vuol dire mettere in conto – come dice Manzoni - che ragione e torto non si possono mai dividere con un taglio netto. Questo è, certo, vero, ma è anche vero che non può essere un modo facile di scansarsi: d’intuito è, infatti inaccettabile il noto verso della canzone “chi avuto avuto avuto/chi ha dato ha dato ha dato/ scurdammoci u passato…Se la cosa fosse così semplice non sarebbe necessaria alcuna mediazione. D’altra parte, se è vero che ragione e torto non si possono divedere con un taglio netto non bisogna trascurare che nella realtà la partizione è di raro simmetrica: in breve le vittime esistono. Se il parlarsi è, dunque, preliminare al riconciliarsi la cosa nei fatti non è facile perché gli uomini sono naturalmente mossi dalle passioni e in particolare in stato di conflitto non è affatto spontaneo reprimere l’astio; anzi ognuno tende a far valere le proprie ragioni e - specie se colpevole - tende d’istinto a dissimulare la colpa o a ridimensionarla o a renderne in qualche modo l’altro corresponsabile. Capita in tutte le liti, immaginarsi nei delitti, nelle vite estinte, danni irrisarcibili. Peraltro nel conflitto le posizioni tendono ad irrigidirsi e per questo a spegnere l’odio, a sciogliere il risentimento, a vincere il pregiudizio sono necessarie figure di mediazione che abbiano un effetto fluidificante cosa che può avvenire solo se i mediatori hanno la sensibilità e lo stile di fare assumere all’uno il punto di vista dell’altro. Cosa tutt’altro che semplice e non a caso la Martello parla di miracolo. Ora la mediazione può fare, certo miracoli, ma – scrive - “richiede un impegno costante e una formazione continua proprio perché non è l’attesa passiva di un intervento dall’alto, ma la costruzione graduale di una nuova mentalità, di un nuovo atteggiamento, prima di fronte a se stessi e poi di fronte agli altri, a tutti gli altri, nel mondo”. [3]
Se si vuole pervenire ad una riconciliazione bisogna, dunque, predisporre un terreno adeguato e a questo non basta la semplice procedura dei tribunali; sono necessarie figure capaci di mettere in relazione le parti sia prima del processo che durante il processo e ancor più a sentenza emessa. Un accordo preliminare può evitare di andare a processo; infatti - nota la Martello – “nel profondo di ogni litigante si annida sempre la speranza che ci sia un modo per far sparire i conflitti e che si eviti di far diventare contenziosi da delegare ad avvocati e giudici”[4]. Bene fino a che si tratta di liti, più difficile se di delitti; in questo caso l’azione mediatrice può agire lungo la durata del processo evitando il radicalizzarsi dello scontro, che il legittimo risentimento lo amplifichi. Questo lungi dal negare l’effettività del fatto, evidenzia la complessità delle situazioni che presiedono alla genesi degli atti umani. E non tanto per giustificarli, ma, caso mai, per rendere al colpevole più comprensibile la sanzione – nel caso gli fosse comminata - e come tale accettabile; nella vittima faciliterebbe la remissione del risentimento con beneficio di ambedue le parti. Su questo ha ragione la Martello quando sostiene che per pervenire a questo non sono sufficienti le semplici procedure, ma bisogna toccare le sensibilità, portare alla luce il non detto, fare emergere gli aspetti umani della vicenda.
Messa in questi termini, la mediazione gioca un ruolo particolarmente importante a sentenza emessa e dovrebbe indirizzare le politiche carcerarie: tocca, infatti, al mediatore accompagnare i soggetti in un cammino di trasformazione. Cosa più che mai impegnativa perché significa condurre gli individui a formulare un giudizio il più possibile obbiettivo su sé stessi: passo decisivo per permettere loro, a pena inflitta, di non subirla passivamente. Nessuna pena è un bene in sé – quand’anche giusta – ma trae senso se fa maturare nel soggetto un sentimento di emendazione. Se non induce a questo altro non sarebbe che un mascherato spirito di vendetta o una velata voglia di crudeltà. Nel diritto questo è da tempo acquisito, ma lo è meno nel fatto almeno se si guarda alle disfunzioni presenti nell’amministrazione della giustizia. Oggi – rileva la Martello – “assistiamo a procedimenti giudiziari – specie civili – inammissibilmente lunghi, e non sempre a causa del rispetto dei principi di garanzia, mentre – su un altro piano – le carceri scoppiano per sovraffollamento; inoltre le finalità di rieducazione e riabilitazione sono contraddette dai dati sull’incidenza della recidiva”[5]. Ora, le disfunzioni si possono pur sempre eliminare – è una questione d’organizzazione - ma importante è che muti la logica della giustizia, che passi da una concezione retributiva a quella riparativa: passiva la prima, attiva la seconda perché rende i soggetti titolari del loro cambiamento. Per la verità, questa è una mutazione già ampiamente in atto nel delitto penale.
Nietzsche è notoriamente un pensatore pericoloso, ma ha l’occhio lungo quando scrive che il sentimento dell’obbligazione personale... ha avuto origine nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui per la prima volta si contrappose persona a persona…Fissare i prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha occupato il primissimo pensiero degli uomini in misura tale da costituire, in un certo senso un pensiero”.[6] E’ vero: col tempo questo modo di pensare è divenuto un’abitudine. Ora, che il sentimento dell’obbligazione abbia quest’origine è tutto da discutere, ma di sicuro l’adozione di una logica unicamente risarcitoria finisce di fatto a ribadire la contrapposizione senza sanare il conflitto, né indurre il colpevole al cambiamento. Ci si limita a comminare la pena, il cui limite si mostra con particolare chiarezza innanzi a danni irrisarcibili – ad esempio, un omicidio - che nessuna pena può mai sanare. Come si può parlare di retribuzione a fronte dell’irrisarcibile? Né, d’altra parte si può dire che la pena come tale migliori l’individuo. Molte possono essere le definizioni di pena e delle sue funzioni, ma di sicuro non è essa che suscita il sentimento di colpa anzi come già notava Nietzsche “tra delinquenti e galeotti l’autentico rimorso è qualcosa di estremamente raro… e su ciò convengono tutti gli osservatori (evidentemente si riferisce a quelli della sua epoca) coscienziosi, che in molti casi esprimono un giudizio del genere molto malvolentieri e contro i loro più intimi desideri. Calcolando in grande la pena rende duri, freddi”[7]…e non è da sottovalutare che il delinquente proprio dalle procedure giudiziarie ed esecutive stesse “è impedito dall’avvertire come riprovevole in sé il suo atto, la natura della sua azione; poiché vede commettere e poi approvare, commettere con buona coscienza, esattamente le stesse cose al servizio della giustizia: spionaggi, raggiri, corruzione…”[8] Queste cose – e l’abbiamo visto - capitano anche oggi. In tutto ciò, le pene di certo non apportano alcun beneficio alla società.
Ora, se una logica risarcitoria a favore della vittima – per quel che si può - può ritenersi legittima e doverosa, non è di per sé sufficiente al recupero del colpevole alla società. Proprio in questo punto il lavoro del mediatore diviene decisivo perché proprio a partire dall’incontro con la vittima il colpevole può cogliere in vivo il danno inflitto, immedesimarsi con essa e muovere sulla via del ravvedimento. Peraltro non bisogna dimenticare che il colpevole può essere, a suo modo, anche vittima e che non ha altro modo di riparare se non impegnarsi a beneficio di tutti. Infatti, ogni colpa è di dritto o di rovescio sociale e, a ben considerare, questo non è che un modo laico di intendere il peccato originale.
In questo quadro, la mediazione tende a qualcosa di più che alla conciliazione: non si limita a sanare la lite - in base e reciproche convenienze - ma tende a individuare le ragioni scatenanti il conflitto – individuali sociali-; mira alla pacificazione che vuol dire accettazione dell’altro ed insieme dei propri limiti il cui disconoscimento o ignoranza è matrice di ogni prevaricazione. Certo, il conflitto non si risolve in questo, ma può, al contrario, rivelarsi fecondo perché mai potremmo guadagnare la misura di noi stessi se non mettendoci in gioco e nel reciproco confronto. Viviamo nei conflitti e di conflitti che ci istruiscono su di noi – cosa possiamo – e insieme ci consentono di esplorare la realtà di noi più grande. Ora, se la tentazione dell’oltre è motivo di sviluppo, non lo è la voglia incondizionata di affermazione: questa trasforma il conflitto in reciproca prevaricazione e finisce per evocare e legittimare la sanzione. Per evitare questo bisogna apprendere a governare i conflitti ed è in questo che opera il mediatore. Posta la cosa in questi termini, l’ambito del mediatore non si limita allo spazio del diritto e del processo, ma si estende a tutta la vita sociale; dovrebbe, perciò, avere una funzione determinante nei processi di formazione perché nella vita i conflitti sono direttamente proporzionali ai problemi. Questo si ricava con chiarezza dal sottotitolo del saggio della Martello: “la mediazione nella nostra vita e nei tribunali”. In effetti si tratta di produrre una mutazione di mentalità, si tratta – scrive la Martello – “di una metodologia sia per trovare le soluzioni sia per sanare il vero conflitto relazionale rafforzando la dignità di ciascuno confliggente…Questa impostazione facilita l’esercizio dello spirito critico, il coraggio della verità, la consapevolezza degli accadimenti della vita, la valorizzazione della propria dignità di esseri umani”[9] Non si tratta solo di un intervento meramente tecnico, ma – scrive la Martello - di un passo filosofico “idoneo a dare diritto di parola alle urgenze più radicali e dense di significato che sono alla base di ogni azione e anche di ogni situazione di conflitto”.[10]
Questo saggio - come si vede - non solo offre un contributo importante per gli operatori del diritto – e della mediazione sociale in generale - ma è buona guida per tutti, per meglio leggere e affrontare i conflitti che attraversano la società contemporanea.
[1] M. MARTELLO, Una giustizia altra e alta. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali, Paoline Editoriale Libri 2022, pp. 48-49
[2] Cfr., ibid. p. 50
[3] Id.
[4] Ibid., p. 57
[5] Ibid., p. 27
[6] F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Rizzoli, Milano 1997, pp. 109-110,
[7] ibid.,p.122
[8] ibid., p. 123 ( corsivo nostro )
[9] M. MARTELLO, ibid., p. 129
[10] Ivi
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