ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’impugnazione del bando da parte dell’impresa che non partecipa alla gara: dalla legittimazione al ricorso all’onere della prova. Nota a T.A.R. Campania – Salerno, sez. I, n. 1344 del 12 giugno 2023
di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. La vicenda processuale. – 2. La legittimazione all’impugnazione del bando di gara in capo a soggetti non partecipanti alla gara: le basi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. – 3. Il regime d’impugnazione delle clausole attinenti la formulazione dell’offerta che ne rendono impossibile la presentazione: l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018. – 4. Brevi considerazioni critiche sull’impiego dello strumento probatorio della verificazione nei giudizi di impugnazione dei bandi provocati da imprese non partecipanti alle gare.
1. La vicenda processuale
La sentenza n. 1344 del 2023 del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sezione I di Salerno, rilancia l’attenzione, con orientamento spiccatamente aperturista, sul tradizionale tema della legittimazione a ricorrere, nelle gare ad evidenza pubblica, in capo agli operatori economici che non abbiamo partecipato alla relativa procedura di scelta del contraente.
La vicenda riguarda l’impugnazione di un bando/disciplinare relativo alla “Procedura aperta per l’affidamento del Servizio di gestione integrata dei rifiuti e spazzamento del Comune di Castellabate”, da parte di un operatore economico non partecipante alla gara ma interessato a presentare domanda di partecipazione alla stessa. Il ricorso si fonda sull’assunto secondo cui le previsioni contenute nei documenti di gara prevederebbero, a carico degli operatori privati, attività antieconomiche e sottocosto, così alterando la dinamica concorrenziale e la regola della più ampia partecipazione alla competizione.
Sospesi con ordinanza i provvedimenti impugnati, il collegio campano ha disposto l’espletamento della verificazione, al fine di analizzare le relazioni di stima dei costi sulla scorta delle quali è stato redatto il bando/disciplinare e di valutare le lamentate anomalie per ciascuna voce determinante l’importo a base di gara per come descritte nel ricorso, tra cui: - la sottostima del costo del personale; - la sottostima del costo degli automezzi; - il costo annuo delle attrezzature da installare presso il centro di raccolta. In particolare, l’ordinanza ha disposto che il verificatore dovesse accertare se i costi fossero sottostimati al punto da impedire all’operatore di formulare un’offerta economicamente sostenibile, seria, congrua ed attendibile.
La relazione conclusiva delle operazioni di verificazione ha riscontrato “alcune criticità nella documentazione progettuale oggetto di verificazione”, con riferimento particolare: ai “costi in ammortamento” considerati nel bando per gli automezzi e valutati come diversi rispetto ai costi ottenuti a seguito dell’analisi di mercato svolta in maniera autonoma e indipendente nell’ambito della verificazione; alla stima del costo del personale non aggiornato alla più recente contrattazione collettiva per i servizi ambientali; al costo per l’acquisto delle attrezzature da installare nel centro di raccolta.
Per l’effetto, il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati nel punto relativo ai riferiti costi, ferma la conclusione della relazione di verificazione, che evidenziava uno scarto rilevante (nella misura del 10,38%) tra i costi individuati nella lex specialis e i costi effettivi e reali a carico dell’aggiudicatario, tale da comportare la circostanza che l’operatore economico non fosse stato messo in condizione di presentare un’offerta congrua, seria e non antieconomica, con conseguente “danno alla concorrenza e alla massima partecipazione alle gare”.
2. La legittimazione all’impugnazione del bando di gara in capo a soggetti non partecipanti alla gara: le basi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
In punto di legittimazione all’azione del ricorrente non partecipante alla procedura di gara, ma semplicemente interessato alla partecipazione alla medesima, la sentenza in commento si colloca esplicitamente nel solco degli indirizzi giurisprudenziali nel tempo consolidatisi nella giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
È una traiettoria che ha ormai dei precisi punti fermi e che origina dalla sentenza n. 1 del 2003, transita per le decisioni n. 4 del 2011 e n. 11 del 2014, per approdare alla sentenza n. 4 del 2018 del supremo collegio. Ed è una traiettoria che, com’è noto, muove dalla considerazione della partecipazione alla procedura di gara come presupposto di qualificazione e differenziazione dell’interesse ad impugnare, in quanto elemento idoneo a collocare l’operatore economico in posizione giuridica differenziata rispetto alle altre imprese presenti sul mercato, radicando, in capo all’impresa, un interesse legittimo che le consenta di provocare il sindacato di legittimità sulle clausole della lex specialis. Si tratta di una linea ermeneutica animata anche da intenti di deflazione del contenzioso ([1]) ma non scevra da rischi, sia sul piano della garanzia di effettività della tutela giurisdizionale e della compressione del diritto costituzionale di difesa (ex articolo art 24 Cost.), quanto nella prospettiva del rispetto dei principi del diritto europeo in materia di contratti pubblici, a partire dalla considerazione del canone comunitario della massima concorrenza, lungo una traccia più volte rivendicata dalla giurisprudenza sovranazionale ([2]).
Nella sentenza dell’Adunanza plenaria del 2003, sia chiaro, il tema della legittimazione processuale attiva avverso il bando di gara non è affrontato in termini espliciti e diretti. Quella decisione si riferisce infatti, tra i vari profili che intercetta, alla questione della “esatta delimitazione dell’ambito oggettivo dell’onere di immediata impugnazione dal bando di gara o di concorso”. Posta la natura del bando quale atto generale, la questione è risolta dal Supremo Collegio in continuità con l’indirizzo giurisprudenziale risalente secondo cui i bandi di gara e di concorso vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi a identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato. Alla base del ragionamento il collegamento tra lesione della situazione giuridica e interesse all’impugnazione, per cui: di regola, a fronte di una clausola illegittima del bando, il partecipante alla procedura non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, in quanto ancora ignaro della lesione concreta ed attuale della propria situazione soggettiva; eppure, a titolo di eccezione, qualora una clausola illegittima impedisca alla radice la partecipazione alla procedura di gara, la stessa appare idonea a produrre una lesione immediata, diretta ed attuale, nella situazione soggettiva dell’interessato, radicando, per l’effetto, un interesse immediato alla impugnazione.
Per questa via, l’Adunanza Plenaria del 2003 avalla quegli orientamenti giurisprudenziali che affermavano l’onere dell’immediata impugnativa delle clausole del bando che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alle gare, posto che la relativa lesività “non si manifesta e non opera per la prima volta con l’aggiudicazione, bensì nel momento anteriore nel quale tali requisiti sono stati assunti come regole per l’amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 2002, n. 1747)”.
Il ragionamento della Plenaria del 2003 riguarda dunque la questione del tempo dell’impugnazione del bando e si muove, in ogni caso, sul tradizionale terreno della necessaria partecipazione alla gara come elemento di legittimazione all’impugnativa delle relative clausole. Si tratta però di una traiettoria speculativa che non può non avere effetti anche sul differente tema della legittimazione al ricorso, posto che “di regola, la lesione non si produce che con l’atto applicativo (di esclusione, di diniego di aggiudicazione): ed è allora, di regola, evidentemente necessaria la partecipazione; in via di eccezione la lesione si produce immediatamente per la presenza di clausole che precludono la partecipazione: ma in questi casi non è allora, altrettanto evidentemente, necessaria (oltre che in alcun modo utile) la partecipazione” ([3]). È una traccia interpretativa praticata, in quei settori della giurisprudenza inclini ad ammettere l’impugnativa del bando ad opera di imprese non partecipanti in tutti quei casi in cui la lex specialis concretizzi, per l’appunto, una lesività immediata sul piano della mera partecipazione alla procedura ([4]).
Orientamenti aperturisti dei quali successivamente terrà conto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4 del 2011. Il collegio, nell’ambito di una decisione che pur concentrava il relativo focus sulla questione sull’ordine delle trattazioni tra ricorso principale e incidentale, ha infatti affrontato anche il tema dell’onere di presentazione della domanda come presupposto legittimante del ricorso, proponendo un’impostazione di tipo evolutivo.
Il punto di partenza del ragionamento della Plenaria del 2011 è dato infatti dalla constatazione dell’evoluzione dell’ordinamento processuale amministrativo nel senso del progressivo ampliamento della legittimazione al ricorso. Una prospettiva che incontra terreno fertile anche nel campo delle controversie relative all’affidamento dei contratti pubblici, laddove l’esigenza di tutela della concorrenza ha permesso, all’elaborazione giurisprudenziale, di declinare ipotesi ulteriori di legittimazione al ricorso, slegate dalla partecipazione ad una determinata procedura. Nondimeno, si legge nella decisione, “la portata di questo allargamento della legittimazione non è affatto indiscriminata e generalizzata, correlandosi, anzi, a puntuali presupposti normativi e a rigorose fattispecie”.
Tali fattispecie sono pertanto puntualmente individuate dal supremo collegio e si snodano lungo tre direzioni: la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura; la legittimazione dell’operatore economico “di settore”, che intende contestare un “affidamento diretto” o senza gara; la legittimazione dell’operatore che manifesta l’intenzione di impugnare una clausola del bando “escludente”, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione. Si tratta di deroghe che non mettono in discussione la regola generale della necessaria sussistenza di un interesse sostanziale qualificato e differenziato del ricorrente, perché in ciascuno dei casi segnalati è ravvisabile una qualificazione soggettiva di chi agisce in giudizio che vale a differenziarne la condizione dalla mera situazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara.
3. Il regime d’impugnazione delle clausole attinenti la formulazione dell’offerta che ne rendono impossibile la presentazione: l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018.
L’autorevole indirizzo dell’Adunanza Plenaria è stato successivamente confermato, dal medesimo collegio, nella sentenza n. 9 del 25 febbraio 2014 ([5]), quindi ulteriormente esplicitato nella sentenza n. 4 del 26 aprile del 2018 ([6]).
La decisione del 2018 fa propri gli approdi delle sentenze del 2003 ([7]), del 2011 e del 2014 per ribadire, sia alla luce dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale nazionale ([8]) quanto in considerazione degli input del diritto europeo ([9]), l’eccezione alla regola-base del difetto di legittimazione attiva per il concorrente non partecipante, in relazione alle prospettate, tassative ipotesi: I) contestazione in radice dell’indizione della gara; II) contestazione dell’affidamento diretto disposto in luogo di gara; III) impugnazione diretta di clausole del bando immediatamente escludenti.
Sotto quest’ultimo profilo, l’Adunanza plenaria definisce come “escludenti”, quelle clausole che “con assoluta certezza … precludano l’utile partecipazione” dell’operatore economico. In questo novero, l’Adunanza Plenaria fa rientrare sia le clausole afferenti ai requisiti soggettivi quanto quelle “attinenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta”. È una definizione di carattere generale che la stessa sentenza ulteriormente dettaglia nel momento in cui passa in rassegna, sulla base degli indirizzi giurisprudenziali maggioritari, una pluralità di fattispecie concrete nelle quali evidentemente prende forma il canone della reale impossibilità nella presentazione dell’offerta. Si tratta di un repertorio vasto, che contempla, ad esempio, le clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, oppure quei bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate ([10]).
Nel medesimo repertorio, il supremo collegio fa poi rientrare le “condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente”. Sotto questo profilo, l’Adunanza Plenaria recupera un indirizzo più volte ribadito dallo stesso Consiglio di Stato e ben esplicitato nella sentenza della Sez. III del 23 gennaio 2015, n. 293. In quella decisione, il giudice amministrativo ribadiva l’obbligo di immediata impugnativa per quelle clausole che “impediscano (indistintamente a tutti i concorrenti) una corretta e consapevole elaborazione della propria proposta economica; in tali casi, infatti, risulta pregiudicato il corretto esercizio della gara, in violazione dei cardini procedimentali della concorrenza e della par condicio tra tutti i partecipanti alla gara”. In quella circostanza, ad apparire viziato era il capitolato di una gara per l’affidamento di un servizio di mensa, nel quale venivano descritte condizioni dei locali da adibire al servizio non corrispondenti, in punto di capacità ricettiva, alla realtà di fatto e tali da rendere impossibile l’espletamento del servizio in conformità a legge. In questa prospettiva, la sentenza chiarisce che l’inadeguatezza dei locali rappresenta un vizio da far valere immediatamente, in quanto tale da rendere la partecipazione difficoltosa o addirittura impossibile, “ovvero (qualora fosse stato inteso come comportante implicitamente un onere dell’aggiudicatario di reperire soluzioni idonee ad ovviare all’inadeguatezza) da rendere il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso”.
La riferita sentenza del 2015, per come evocata dalla stessa Adunanza Plenaria n. 4 del 2018, evidenzia dunque una sensibilità del giudice di appello che appare la stessa che ispira il giudice salernitano di prime cure nella sentenza che qui si commenta, nel momento in cui, come già evidenziato, rileva che le previsioni sui costi contenute nel bando/disciplinare oggetto d’impugnazione “prevedendo costi sottostimati addirittura nella misura del 10,38% e quindi imponendo la presentazione di offerte incongrue, sottocosto e economicamente insostenibili per l’offerente, sono sussumibili nelle viziate clausole della lex specialis di gara attinenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta”.
4. Brevi considerazioni critiche sull’impiego dello strumento probatorio della verificazione nei giudizi di impugnazione dei bandi provocati da imprese non partecipanti alle gare.
Per quanto fin qui evidenziato, la sentenza del T.A.R. Campania in commento, nel riconoscere la legittimazione al ricorso all’operatore economico non partecipante alla gara, si colloca in una traiettoria ermeneutica che la giurisprudenza amministrativa coltiva da tempo, suffragata dall’organo giurisdizionale titolare della funzione nomofilattica.
Qualche considerazione critica piuttosto può essere formulata con riguardo all’uso della verificazione ([11]) quale mezzo di prova nell’istruttoria processuale documentata nella decisione, sulla base degli indirizzi giurisprudenziali che si sono formati in tema di onere della prova in capo al ricorrente non partecipante alla procedura di gara.
Si stratta di uno strumento che il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), al quarto comma dell’articolo 64, annovera tra i mezzi di prova cui possa fare ricorso il giudice “qualora reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche”.
Il funzionamento dell’istituto è poi disciplinato nell’articolo 66 del codice, che stabilisce la verificazione sia disposta con ordinanza del collegio, nel cui corpo della quale si procede alla individuazione dell’organismo che debba provvedervi, alla formulazione dei relativi quesiti, alla fissazione di un termine per il relativo compimento e per il deposito della relazione conclusiva.
Le scarne parole del legislatore lasciano emergere evidentemente la configurazione di uno strumento probatorio “a contenuto indeterminato” ([12]) cui si ricorre “nella ritenuta impossibilità per il giudice, in sede di legittimità, di avere una cognizione autonoma dei fatti oggetto del giudizio” ([13]) e il cui utilizzo resta nella discrezionalità del giudice, tenuto a servirsene laddove considerato necessario ai fini di “accertare la sussistenza di una situazione di fatto” ([14]), In questi termini, la verificazione si distingue dalla consulenza tecnica d’ufficio ([15]), quale mezzo di prova da utilizzarsi invece, com’è noto, a fini valutativi e cui il giudice può fare riferimento quando l’acquisizione di specifiche valutazioni sia, oltre che necessaria, indispensabile.
Tornando al caso in esame, come abbiamo visto, il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati nel punto relativo ai riferiti costi, ferma la conclusione della relazione di verificazione, che evidenziava uno scarto rilevante (nella misura del 10,38%) tra costi individuati nella lex specialis e i costi effettivi e reali a carico dell’aggiudicatario, tale da comportare che l’operatore economico non sia stato messo in condizione di presentare un’offerta congrua, seria e non antieconomica, con conseguente “danno alla concorrenza e alla massima partecipazione alle gare”.
A tal proposito, il dubbio che insorge riguarda tuttavia la stessa possibilità, per il giudice, di ricorrere allo strumento probatorio della verificazione in rapporto a fattispecie processuali nelle quali si determini un’estensione della legittimazione attiva all’impugnazione di bandi in capo a soggetti economici non partecipanti alle relative gare.
Alimenta indirettamente il dubbio l’indirizzo efficacemente sintetizzato di recente da T.A.R. Lazio, sez. V, 27 aprile 2023, n. 7254, che, nell’ambito di una vicenda sostanziale dal tenore analogo a quella descritta nella sentenza del T.A.R. Salerno che stiamo commentando, chiarisce come la lesività delle norme della lex specialis ritenute impedienti la formulazione di un’offerta, in quanto tali da rendere impossibile il calcolo di convenienza economica che anima la scelta di partecipare alla contesa, “deve essere oggetto di allegazione adeguata”. Un carattere di adeguatezza della allegazione che viene, dal giudice laziale, ulteriormente specificato, attraverso il ricorso all’orientamento giurisprudenziale diffuso, secondo cui: “l’onere probatorio ovviamente muta ai fini del merito del giudizio, poiché l’illegittimità della legge di gara sussiste sole se l’impossibilità, che il ricorrente deduce sotto il profilo soggettivo, è comune a qualsiasi delle imprese operanti nel settore. La prova da fornire in tal caso concerne, dunque l’oggettiva e generalizzata impossibilità di una partecipazione remunerativa, qualunque sia il modello organizzativo adottato” ([16]).
Ne viene fuori, nel ragionamento del TAR Lazio, un onere probatorio, in capo al ricorrente, che la sentenza definisce “aggravato”, come conseguenza del riferito carattere eccezionale dell’impugnazione immediata del bando rispetto alla regola generale dell’impugnazione differita, dovendo il ricorrente “dimostrare con oggettiva certezza che le prescrizioni lamentate, producendo effetti distorsivi della concorrenza, incidono sulla sua sfera giuridica in un momento precedente quello della mancata aggiudicazione ed indipendentemente da questa”.
In disparte ogni valutazione sulla sostenibilità giuridica dell’impostazione proposta dal TAR Lazio, che meriterebbe differenti approfondimenti, non può non evidenziarsi però come la stessa possa dispiegare effetti rilevanti sulla interpretazione dei margini di discrezionalità del giudice nel ricorso alla verificazione in relazione a fattispecie processuali nelle quali si tratti di estendere le maglie della legittimazione attiva di bando a vantaggio di operatori economici non partecipanti alla gara. Se infatti sta al ricorrente l’onere di offrire una prova di “oggettiva certezza” del carattere viziato delle prescrizioni contestate, come suggerisce la riferita decisione, sembra allora venire meno al contempo ogni spazio per il ricorso, da parte del giudice, allo strumento della verificazione. Quello strumento è descritto, infatti, dal legislatore come a disposizione dal giudice “qualora lo reputi necessario” e resta da chiedersi come possa risultare tale in quelle vicende processuali nelle quali l’onere della prova, secondo indicazioni giurisprudenziali, resti così sensibilmente a carico della parte ricorrente.
[1] Sottolinea la necessità di “evitare azioni emulative” da parte di soggetti disinteressati alla procedura di gara o privi di concrete possibilità di aggiudicazione F. Saitta, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, in Rivista trimestrale degli appalti, 2001, 3, 537.
[2] Il riferimento è all’indirizzo, sviluppato del giudice europeo in sede di interpretazione delle direttive comunitarie del 2004 in materia di appalti, secondo cui, qualora un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza nel bando di specifiche che ritiene discriminatorie, e comunque ostacolanti la possibilità di fornire l’insieme delle prestazioni richieste, la stessa mantiene il diritto di presentare ricorso direttamente avverso tali specifiche, prima ancora che si perfezioni la procedura di aggiudicazione. Si veda, CGCE, sez. VI, 12 febbraio 2004, n. 230, in Serv. pubbl. e app., 2004, 383. Sul punto, G. Crepaldi, L’impugnazione delle clausole del bando che impediscono la partecipazione alla gara: i soggetti e l’oggetto, in Foro amm. CDS, 2007, 285.
[3] D. Vaiano, L’onere dell’immediata impugnazione del bando e del-la successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere, in Dir. proc. amm., 2004, 3, 703.
[4] Si veda, in questa prospettiva, T.A.R. Puglia – Lecce, sez. II, 14 aprile 2005, n. 2227, in Foro amm. TAR, 2005, 6, 2151, con nota di S. De Paolis, L’impugnativa del bando di gara e la presentazione della domanda di partecipazione: una soluzione legata alla qualificazione delle clausole della lex specialis.
[5] La decisione, ancora una volta, si occupa della querelle intorno all’ordine di trattazione tra ricorso principale e ricorso incidentale e, in quest’ottica, costituisce l’occasione per enucleare principi fondamentali sviluppati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in tema di garanzie giurisdizionali nei processi aventi ad oggetto procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti. In questo quadro, ogni dubbio di compatibilità comunitaria del nostrano e rigoroso regime di verifica delle condizioni dell’azione ai fini della proposizione dell’impugnativa viene superato lungo due piani. Il primo è quello dell’operatività del c.d. “principio di autonomia processuale nazionale”, che la Corte di giustizia ha fatto proprio, riservando agli ordinamenti dei singoli Stati la disciplina delle modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali, pur nei limiti del rispetto dei canoni di non discriminazione ed effettività della tutela (Vedi CGUE, 22 dicembre 2010, C507/08 Governo Slovacchia). Il secondo riguarda, invece, la “cospicua esegesi” (per utilizzare lo stesso lessico impiegato nell’Adunanza Plenaria in discorso) sviluppata dalla Corte di Giustizia in relazione alle direttive in materia di garanzie processuali nei procedimenti giurisdizionali sugli appalti pubblici, attraverso la quale sarebbero stati affermati alcuni principi basilari del sistema di giustizia sull’evidenza pubblica. Tra questi, per quanto di nostro specifico interesse, trova posto la regola per cui “l’impresa che non partecipa alla gara non può in nessun caso contestare l’aggiudicazione in favore di ditte terze”. Critico rispetto all’impostazione seguita dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2014, A. Bartolini, Una decisione poco europea, in Giorn. dir. amm., 2014, 10, 936, secondo il quale la stessa “si pone in chiaro contrasto con la dimensione oggettiva del processo europeizzato degli appalti, dove la legittimazione, in pratica, non è condizione di accessibilità alla giustizia, essendo assorbita nell’interesse ad agire”.
[6] Per un commento alla sentenza: S. Terracciano, Immediata impugnazione dei bandi di gara: tra novità legislative e conferme giurisprudenziali, in Diritto processuale amministrativo, 2018, 4, 1438; S. Tranquilli, Brevi note sulla fine della parabola del revirement giurisprudenziale sull’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando, in Foro amministrativo, 2018, 3, 331; Nonché L. Bertonazzi, Notarelle originali in tema di impugnazione dei bandi, in Diritto processuale amministrativo, 2019, 3, 959, cui si rinvia per una raffinata costruzione critica tesa ad evidenziare la “natura di atto endoprocedimentale” della lex specialis, che “non entra a comporre l’oggetto del giudizio (e non è suscettibile di annullamento giurisdizionale), neppure quando, nel dettare un requisito partecipativo illegittimo, invalida in via derivata il susseguente provvedimento di esclusione”.
[7] È riportato nella sentenza: “sembra al Collegio che gli approdi raggiunti dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2003 non costituiscano un passaggio isolato od eccentrico, rispetto ai principi generali in materia di condizioni dell’azione, desumibili dall’art. 24, co. 1°, della Costituzione (‹‹tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi››) ed in riferimento al principio processuale codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art. 39, comma 1, c.p.a.) secondo cui ‹‹per proporre una domanda o per contraddire alla stessa essa è necessario avervi interesse››, posto che … nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 20 ottobre 1997 n.1210, Consiglio di Stato, sez. V, 23 febbraio 2015 n. 855 ma si veda anche Cassazione civile, sez. un., 2 novembre 2007, n. 23031 secondo cui l’interesse a ricorrere deve essere, non soltanto personale e diretto, ma anche attuale e concreto - e non ipotetico o virtuale- per fornire una prospettiva di vantaggio)”.
[8] La sentenza cita, a tal fine, Corte cost., 22 novembre 2016 n. 245 che ha ritenuto inammissibile – per difetto di rilevanza – una questione di legittimità costituzionale promossa dal T.A.R. per la Liguria, nell’ambito di un giudizio in materia di appalti pubblici originato dal ricorso proposto da un’impresa che non aveva partecipato alla gara: “secondo la Corte, infatti, la verifica di legittimità costituzionale della disciplina sostanziale indicata dal T.A.R. non potrebbe influire sull’esito della lite, destinata a concludersi con una pronuncia di inammissibilità del ricorso). La decisione chiarisce che “tale opzione ermeneutica muove dalla condivisibile considerazione secondo cui l’operatore del settore che non ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell’intera selezione (ciò, in tesi, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara), ma tale preteso interesse “strumentale” avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto, infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell’ “interesse” differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione, essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non trovandosi al cospetto di alcuna clausola “escludente” (nel senso ampliativo fatto proprio dalla giurisprudenza e prima illustrato); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta dall’operatore del settore, in quanto questi, pur potendo presentare l’offerta si è astenuto dal farlo”. Paraltro, conclude la decisione: “anche se si volesse accedere ad una nozione allargata di legittimazione individuando un interesse dell’operatore economico a competere secondo i criteri predefiniti dal legislatore, ugualmente resterebbe insuperabile la considerazione che esso non sarebbe né attuale né “certo”, ma meramente ipotetico”.
[9] La sentenza sottolinea al riguardo come “anche sul piano del diritto europeo, non si rinvenga alcun riferimento che militi per l’estensione della legittimazione ad impugnare clausole non escludenti contenute nei bandi di gara agli operatori del settore che si siano astenuti dal partecipare alla gara medesima. 18.5.3. Giova precisare, in proposito che: a) la Corte di Giustizia, Sez. VI, 12 febbraio 2004, in causa C-230/02 ha stabilito che l’operatore economico il quale si ritenga leso da una clausola della legge di gara la quale impedisca la sua partecipazione ha la possibilità (rectius: l’onere) di impugnare in modo diretto tale clausola (affermazione questa, certamente in linea con quella della giurisprudenza nazionale prima citata a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2003), ma non ha esteso la legittimazione del non partecipante alla gara all’ impugnazione di clausole non certamente preclusive della propria partecipazione; b) più di recente la Corte di Giustizia (CGUE, Sez. 21 dicembre 2016 in causa C-355/15 -Bietergemeinschaft Technische Gebäudebetreuung GsmbH) ha espresso il principio secondo cui “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”; c) se, quindi, seppur a particolari condizioni, può non essere riconosciuta la legittimazione all’impugnazione in capo ad un soggetto, pur partecipante alla gara ma che ne sia stato definitivamente escluso, a fortiori non si vede perché essa dovrebbe essere riconosciuta al soggetto che, pur potendo partecipare alla gara (in quanto il bando non recava clausole escludenti, discriminatorie, etc), si sia astenuto dal presentare un’offerta: va semmai rilevato che la posizione dell’impresa che non abbia partecipato ab imis alla procedura appare ancor meno meritevole di considerazione, sul piano dell’interesse, rispetto a quella dell’impresa che pur abbia manifestato in concreto la volontà di partecipare alla procedura, rimanendo però esclusa”.
[10] Nel repertorio, la decisione inserisce anche: le regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta; clausole impositive di obblighi contra ius; atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011 n. 5421).
[11] Per un inquadramento dell’istituto, si rinvia ampiamente a G. Clemente di S. Luca, Verificazione e consulenza tecnica d’ufficio nel quadro dei mezzi di prova esperibili nel processo amministrativo, in Diritto e processo amministrativo, 2018, 3, 761.
[12] V. Caracciolo La Grotteria, Verificazione e consulenza tecnica nel processo amministrativo. Nota a Cons. Stato 24 marzo 2023 n. 3025, in www.giustiziainsieme.it, 21 giugno 2023, che sottolinea come lo strumento possa “tradursi in ispezioni, sopralluoghi, accertamenti tecnici, acquisizione di testimonianze o documenti, finalizzati a fornire tutta una serie di elementi probatori, assimilabili a quelli di cui dispone il giudice civile”.
[13] L. Giani, La fase istruttoria, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 441.
[14] V. Caracciolo La Grotteria, op. ult. cit.
[15] Sulla differenza fra verificazione e consulenza tecnica, nella giurisprudenza recente: Consiglio di Stato, sez. II, 26 gennaio 2022, n. 546. Per un approfondimento intorno a natura e oggetto della consulenza tecnica, prima del codice del processo amministrativo: M.A. Sandulli, La consulenza tecnica d’ufficio, in Il Foro amministrativo T.A.R., 2008, 12, 3533.
[16] Così, Consiglio di Stato, Sez. III, 26 aprile 2022, n. 3191.
Gli effetti delle “valutazioni” di merito e delle prove raccolte in un giudizio successivamente definito in rito per inammissibilità del ricorso (Nota a Consiglio di Stato, sentenza n. 8466 del 22 settembre 2023)
di Enrico Roveroni
Sommario: 1. Il giudizio e la questione oggetto di commento – 2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito – 3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio – 4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato – 5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
1. Il giudizio e la questione oggetto di commento
La sentenza in commento conclude una complessa vicenda relativa alla realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti in località Cantalupa (Milano). In estrema sintesi, la società istante propone ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune di Milano ha negato l’autorizzazione alla realizzazione del distributore. La domanda viene rigettata dal T.A.R. Lombardia.
La società modifica il progetto originario dell’impianto e presenta dunque una nuova istanza, ma il Comune di Milano nega il rilascio dell’autorizzazione richiesta, in ragione del fatto che il distributore ricadrebbe nella cd. “fascia di rispetto autostradale” (cfr. art. 18, d.lgs., 30 aprile 1992, n. 285, nonché art. 26 e 28, d.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495). La circostanza trova riscontro anche nel parere negativo reso dalla società concessionaria del tratto automobilistico.
La medesima società istante impugna il provvedimento di diniego, ma il ricorso viene dichiarato inammissibile dal T.A.R. Lombardia ai sensi dell’art. 41, co. 2, c.p.a.[1], per la mancata notifica al controinteressato concessionario (T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664)[2]. La pronuncia precisa, tuttavia, che il ricorso appare “infondato anche nel merito, essendo chiaramente emerso dall’esperimento della verificazione effettuata che l’impianto che l’istante vorrebbe realizzare sarebbe situato nella fascia di rispetto autostradale”.
Successivamente, la richiedente presenta una nuova istanza di autorizzazione. In esito ad un articolato procedimento, il Comune di Milano adotta infine provvedimento di diniego, anche questo impugnato dalla società avanti al T.A.R. Lombardia. A fronte del rigetto nel merito della domanda di annullamento, la società propone appello in Consiglio di Stato avverso la sentenza di primo grado, impugnazione che tuttavia è anch’essa rigettata con la sentenza in commento.
Ritiene il Consiglio di Stato che la domanda di annullamento sia infondata in quanto (fra l’altro) “coperta” dal giudicato della sentenza resa dal T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664, circostanza ritenuta dal Giudice di appello “decisiva”. La sentenza del T.A.R. Lombardia consentirebbe di ritenere accertata (in esito alla verificazione esperita in giudizio) la violazione delle norme disciplinanti la cd. fascia di rispetto autostradale.
La pronuncia presenta alcune problematiche in materia di: a) valutazioni di merito compiute dal giudice in un giudizio definito in rito; b) estensione del giudicato; c) rilevanza giuridica delle prove assunte in un giudizio definito in rito con pronuncia di inammissibilità del ricorso.
2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito
Il Consiglio di Stato ritiene la questione oggetto di controversia coperta da giudicato, in quanto già decisa in maniera definitiva dal T.A.R. Lombardia con la sentenza del 6 aprile 2016.
Gli effetti di una sentenza acquisiscono autorità di cosa giudicata qualora la pronuncia sia divenuta definitiva tra le parti, rendendo dunque la relativa questione di diritto incontrovertibile. Al fine di poter invocare l’autorità di cosa giudicata in ordine ad una determinata questione è dunque necessario che la sentenza (oltre che definitiva) decida la controversia nel merito[3].
Si è specificato tuttavia come, nel caso qui esaminato, la sentenza del T.A.R. Lombardia 6 aprile 2016, n. 664 non statuisca nel merito della vicenda, ma definisca la controversia soltanto in rito, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla società ricorrente per omessa notifica nei confronti del controinteressato. Solo in motivazione (e non nel dispositivo) il T.A.R. Lombardia precisa che (a suo avviso) la domanda di annullamento è comunque da ritenersi infondata.
È dunque necessario stabilire se l’autorità giudiziaria, definendo in rito la controversia, possa anche decidere nel merito e (eventualmente) quali effetti produca tale decisione. Sembra naturale propendere per la risposta negativa per il seguente ordine di ragioni.
Le ipotesi di inammissibilità del ricorso previste nel nostro ordinamento sono quanto mai varie e tra loro disomogenee, ma solitamente esse si ricollegano all’inesistenza di condizioni essenziali del ricorso, tali da rendere l’atto introduttivo inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale. Mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 35, co. 1, lett. b), c.p.a., è possibile affermare che, in via generale, il ricorso è inammissibile laddove vi siano “ragioni ostative ad una pronuncia nel merito”[4].
L’inammissibilità del ricorso impedisce al ricorrente di poter discutere il merito della controversia e soprattutto di ottenere una sentenza che si pronunci sulla fondatezza o infondatezza della pretesa dedotta in giudizio. Ma essa comporta anche (e ciò maggiormente rileva ai fini della presente analisi) l’impossibilità per il giudice di conoscere la controversia nel merito. Ciò in quanto, l’autorità giudiziaria può e deve pronunciarsi soltanto nei limiti della domanda validamente proposta dal ricorrente[5]. La domanda proposta con un ricorso dichiarato inammissibile non è evidentemente idonea a suscitare una pronuncia nel merito, dunque ad investire l’autorità giudiziaria del potere di decidere la controversia[6]. Di conseguenza, il giudice adito non solo non può, ma (soprattutto) non deve pronunciarsi in ordine alla fondatezza (o infondatezza) della domanda proposta dal ricorrente[7].
3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio
È necessario domandarsi quali effetti producano le eventuali “valutazioni” compiute dal giudice nel merito della controversia pur a fronte dell’inammissibilità del ricorso o comunque della definizione in rito del processo.
Nel caso di specie, la sentenza del T.A.R. Lombardia – richiamata dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui annotata – una volta esposte le ragioni a sostegno dell’inammissibilità del ricorso, si esprime anche nel merito della controversia, ritenendo infondata la domanda di annullamento del provvedimento di diniego. L’argomento è confinato nella motivazione della sentenza e non trova poi alcun riscontro nel dispositivo della decisione.
La valutazione compiuta dal T.A.R. Lombardia non riguarda una questione incidentale della controversia, anche solo per il fatto che (ovviamente) la conoscenza dei profili di merito della controversia non assume alcun valore pregiudiziale o essenziale per potere decidere sull’ammissibilità del ricorso. Sembra logico concludere sostenendo che le valutazioni nel merito della controversia rese dal giudice nonostante la definizione della causa in rito siano prive di effetti per il ricorrente e, dunque, del tutto irrilevanti nell’ambito di eventuali successive controversie.
Ma si potrebbe affermare che l'eventuale valutazione compiuta dal giudice – essendo stata adottata in assenza di una domanda di parte validamente proposta – sia affetta da nullità, dunque “sanabile” ai sensi dell'art. 161 c.p.c. qualora la nullità non venga fatta valere in appello[8]. A prescindere dalla circostanza che la fattispecie non rientra tra le ipotesi di invalidità della sentenza tassativamente previste[9], la soluzione trascura tuttavia che, nel caso di specie, non siamo di fronte nemmeno ad una vera e propria decisione (prova ne sia che il dispositivo della sentenza riguarda unicamente la definizione della causa in rito), ma ad una mera “valutazione” del giudice in ordine alla fondatezza del ricorso.
Non trattandosi di una decisione in senso stretto (dunque non producendo effetti per le parti in ordine alla domanda proposta dal ricorrente) non può parlarsi di nullità della sentenza nella parte in cui si esprime sul merito della controversia.
Nemmeno le tesi più estensive in materia di interpretazione della sentenza consentirebbero di giungere ad un risultato differente[10]: parte della dottrina ipotizza infatti che la motivazione assuma rilievo determinante (e vincolante) ai fini della esatta individuazione dell’oggetto della decisione resa dal giudice (ossia, in altre parole, dell’interpretazione del dispositivo). Ma anche a voler ragionare in tal senso, è evidente che le valutazioni compiute nel merito della controversia e confinate nella motivazione non possono in alcun modo rilevare ai fini della “interpretazione” di una decisione di mero rito.
La conclusione trova conferma negli argomenti svolti poco sopra in relazione alla preclusione per il giudice di pronunciarsi nel merito della controversia in presenza di ragioni di inammissibilità del ricorso. L’impossibilità di pronunciarsi nel merito comporta l'assenza dei poteri di giurisdizione propri dell'autorità giudiziaria, con la conseguenza che l’eventuale valutazione della fondatezza del ricorso non assume rilevanza giuridica.
D’altro canto, se così non fosse, il ricorrente verrebbe gravemente pregiudicato nella propria tutela, in quanto la valutazione resa dal giudice in ordine alla fondatezza del ricorso non sarebbe comunque impugnabile in appello.
Infatti, il ricorrente (soccombente in primo grado), per poter contestare la parte di sentenza in cui il giudice ha valutato il merito della controversia, dovrebbe previamente impugnare la decisione laddove essa ha dichiarato inammissibile in rito il ricorso. In caso contrario, il ricorrente risulterebbe privo di interesse ad impugnare, non potendo trarre dall’accoglimento dell’impugnazione alcuna utilità: la riforma della decisione di primo grado con riguardo ai profili di merito presuppone, in altre parole, una nuova (e difforme) valutazione dell’ammissibilità del ricorso.
Il Consiglio di Stato potrebbe accogliere il motivo di appello principale, ritenendo ammissibile il ricorso presentato in primo grado, decidendo poi la controversia nel merito e assicurando dunque piena tutela all’appellante[11]. Ma potrebbe anche rigettare il motivo di appello principale, confermando l’inammissibilità in rito del ricorso: in tale caso, il capo di sentenza con cui il giudice di primo grado ha conosciuto sulla fondatezza della domanda di annullamento non sarebbe oggetto di esame da parte del giudice di appello. È evidente il pregiudizio che a ciò conseguirebbe il capo al ricorrente, il quale sarebbe vincolato dagli effetti della sentenza di primo grado anche in relazione al merito della controversia, senza nemmeno aver potuto ottenere dal giudice di appello un nuovo esame della questione controversa.
Per le ragioni esposte, è possibile concludere affermando che: il rigetto in rito del ricorso (quantomeno nei casi di inammissibilità e irricevibilità) impedisce al giudice di conoscere e pronunciarsi nel merito della controversia; l’eventuale decisione o valutazione compiuta dal giudice in violazione di tale principio non configura un’ipotesi di nullità del relativo capo di sentenza. Esso, infatti, deve ritenersi meramente privo di effetti. Pertanto, la parte soccombente non deve – e nemmeno può – impugnare il capo di sentenza nella parte in cui il giudice ha erroneamente pronunciato nel merito della domanda.
4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato
Se la sentenza di rigetto in rito non può in ogni caso produrre effetti rilevanti sul piano sostanziale (essendo la decisione limitata entro l’ambito processuale), nemmeno è possibile che essa acquisti autorità di cosa giudicata in ordine al merito della controversia. Come già accennato sopra, il giudicato non rappresenta – come spesso affermato in dottrina – un effetto della sentenza, ulteriore e distinto rispetto agli altri effetti che essa produce, ma una qualità (una caratteristica) della stessa[12]. La sentenza produce i propri effetti anche laddove non ancora passata in giudicato; il passaggio in giudicato comporta “soltanto” l’incontrovertibilità della decisione, ossia la definitività degli effetti propri della decisione.
Ma qualora la sentenza definisca la controversia in rito, essa risulta improduttiva di effetti nel merito e, pertanto, inidonea a acquistare autorità di cosa giudicata: ne consegue, per logica, l’inesistenza dei vincoli del giudicato in capo al ricorrente, il quale rimane libero di agire nuovamente in giudizio al fine di far valere i vizi del provvedimento amministrativo.
Si sottolinea soltanto che la riproposizione della (medesima) domanda di annullamento già rigettata in rito risulterà (con buona frequenza) impedita dal decorso del termine di impugnazione del provvedimento amministrativo. Ma sul piano teorico essa rimarrebbe comunque proponibile, senza che la precedente sentenza di rito produca vincoli in ordine alla introduzione di un giudizio avente ad oggetto la medesima domanda già proposta con ricorso dichiarato inammissibile.
Fermo quanto sopra, vale pur sottolineare che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso non è improduttiva di effetti in ordine all’eventuale successivo giudizio: essa, infatti, ha deciso (con efficacia vincolante) sulla necessaria sussistenza di determinati presupposti (nel nostro caso: la notifica al controinteressato) al fine della ammissibilità del ricorso, decisione divenuta comunque incontrovertibile tra le parti del processo.
Peraltro, un ulteriore aspetto merita di essere evidenziato. Pur ammettendo che la sentenza T.A.R. Lombardia n. 664 del 2016 riguardi il merito e non (solo) il rito della controversia, essa si riferisce ad un provvedimento diverso rispetto a quello oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato di cui al presente commento. È possibile affermare, pur in via generale[13], che la sentenza resa sulla validità di un provvedimento amministrativo non produce effetti (e non acquisisce dunque autorità di cosa giudicata) in relazione alla validità (o invalidità) di un provvedimento diverso e successivo. Il giudicato, infatti, si estende entro i limiti dell’oggetto della controversia, potendo dunque rilevare soltanto in riferimento alla questione della fondatezza o infondatezza del ricorso proposto avverso uno specifico provvedimento amministrativo. Sicché, nel giudizio avente ad oggetto il provvedimento successivo, il giudice è chiamato a svolgere una (nuova e diversa) valutazione dei fatti di causa e degli elementi di diritto, potendo in astratto giungere a conclusioni difformi rispetto a quelle della prima decisione. In altre parole, se le valutazioni compiute in un precedente giudizio possono agevolare la decisione della controversia successiva, esse non acquisiscono tuttavia autorità di cosa giudicata[14].
5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
Escluso che la sentenza del T.A.R. Lombardia possa far stato tra le parti in ordine al merito della questione, resta da valutare la rilevanza delle prove raccolte in giudizio e in particolare della verificazione disposta nel processo poi definito in rito (e non in merito).
Nel caso particolare, si trattava di verificare la distanza tra l’autostrada e il confine del terreno su cui il ricorrente intendeva realizzare un impianto di distribuzione di carburanti, al fine di stabilire se esso ricadesse o meno nella cd. fascia di rispetto autostradale. La circostanza è stata appunto oggetto di verificazione del processo poi definito in rito dal T.A.R. Lombardia.
Il Consiglio di Stato utilizza le risultanze istruttorie ivi raccolte, mantenendo fermo l’assunto per cui l’impianto di distribuzione che la società istante avrebbe voluto realizzare rientrava (parzialmente) nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma è lecito domandarsi se le prove formate in un giudizio definito soltanto in rito possano essere utilizzate anche in un diverso processo.
Le norme in materia di processo amministrativo non regolano la fattispecie. E, in realtà, nemmeno il codice del processo civile contiene una disciplina specificamente applicabile. Si potrebbero allora richiamare le disposizioni in materia di estinzione del processo civile: a riguardo, l’art. 310, co. 3, c.p.c. prevede che le prove assunte nel giudizio dichiarato estinto sono valutate (in un eventuale diverso processo) come argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
Il codice del processo amministrativo non regola (nemmeno in generale) le conseguenze della dichiarazione di estinzione del processo. Sicché, la disciplina prevista dall’art. 310 c.p.c. troverà applicazione anche nell’ambito del giudizio amministrativo, tramite il cd. rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. o quantomeno in via di applicazione analogica[15].
Rimane da stabilire se la disciplina prevista in materia di estinzione sia o meno estendibile anche all’ipotesi in cui il processo sia definito con una sentenza di rito in ragione dell’inammissibilità del ricorso introduttivo.
Un argomento a favore della tesi positiva potrebbe essere desunto dall’art. 85 c.p.a., norma che regola la forma della dichiarazione di estinzione e di improcedibilità del giudizio. La disposizione equipara le fattispecie in oggetto, riservando ad entrambe il medesimo procedimento. Si potrebbe dunque concludere ritenendo che tale equiparazione rilevi non soltanto a fini procedimenti, ma anche con riguardo agli effetti: in altre parole, l’improcedibilità del giudizio risulterebbe anch’essa disciplinata (quanto alle conseguenze derivanti dalla relativa dichiarazione) dall’art. 310 c.p.c.
Anche ammesso che tale soluzione sia corretta, ciò tuttavia non consente di estendere le medesime conclusioni anche all’ipotesi in cui il ricorso sia dichiarato inammissibile[16]. Risultato che invero sembra assai difficile da sostenere dal punto di vista interpretativo.
In primo luogo, l’art. 85 c.p.a. si riferisce solamente alle ipotesi di estinzione e improcedibilità del giudizio: sicché viene meno qualsiasi sostegno normativo per estendere l’applicazione dell’art. 310 c.p.c. a fattispecie diverse, come appunto l’inammissibilità del ricorso.
Soprattutto, l’ipotesi di inammissibilità si distingue dalle fattispecie previste dall’art. 85 c.p.a. per la diversità dei relativi presupposti[17]. L’estinzione e l’improcedibilità attengono infatti allo svolgimento del processo, configurando ipotesi straordinarie in cui il giudizio non giunge ad una definizione del merito della controversia per eventi o circostanze sopravvenute rispetto alla sua instaurazione. Al contrario, l’inammissibilità presuppone la sussistenza di ragioni ostative alla pronuncia nel merito, ragioni che possono essere sopravvenute rispetto all’atto introduttivo ma che di regola attengono il momento “genetico” del processo.
In tale prospettiva, l’eventuale inammissibilità del ricorso – impedendo al giudice di pronunciarsi sulla domanda – preclude anche lo svolgimento della fase istruttoria, la quale (non potendo la controversia essere decisa nel merito) si dimostrerebbe del tutto superflua[18]. Sicché il giudice non solo non dovrebbe, ma nemmeno potrebbe procedere all’istruzione della causa. Qualora si sia ugualmente provveduto in tal senso, si potrebbe perfino sostenere che le prove raccolte in giudizio non siano affatto degradate a meri argomenti di prova, ma piuttosto che esse (in quanto invalidamente raccolte) non abbiano alcuna rilevanza processuale e che pertanto non possano essere utilizzate in un eventuale successivo processo.
Non può trascurarsi che la soluzione prospettata mal si concilia con le esigenze di economicità dei mezzi processuali e di limitazione dei tempi di giudizio, particolarmente avvertite nell’odierno contesto giurisprudenziale. Tuttavia, una diversa interpretazione (che appare ardua sul piano argomentativo) presupporrebbe di equiparare l’inammissibilità del ricorso all’estinzione del giudizio, con particolare riguardo ai rispettivi effetti, equiparazione che non trova, come sopra esposto, alcun conforto normativo e richiederebbe di individuare nell’art. 310 c.p.c. una sorta di “principio generale”, applicabile in tutti i casi in cui il giudizio venga definito con una sentenza di rito (anziché di merito)[19].
[1] L’art. 41, co. 2, c.p.a. prescrive l’onere di notifica al controinteressato a pena di “decadenza”, non di inammissibilità. Ma la giurisprudenza largamente prevalente ravvisa nel caso previsto dalla disposizione una ipotesi di (appunto) inammissibilità del ricorso (v. recentemente T.A.R. Lazio 2 maggio 2023, n.7329, secondo cui “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica del ricorso, a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale e il G.A. non può fare altro che statuire sul vizio di inammissibilità del gravame, non potendo essere sanato tale difetto di notifica mediante l'integrazione del contraddittorio, a mente dell'art. 41, comma 2, c.p.a., ovvero con la concessione dell'errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., non sussistendo oggettive ragioni di incertezza”). L’art. 35 c.p.a. – laddove individua le diverse ipotesi di sentenze di rito – non disciplina la fattispecie della “decadenza”. Per tale ragione, probabilmente, la giurisprudenza ha ritenuto di dover ricondurre la mancata notifica del ricorso al controinteressato entro una delle varie categorie previste all’art. 35 c.p.a., sorvolando sulla lettera dell’art. 41, co. 2, c.p.a. Sicché la decadenza non appare, ad oggi, fattispecie giuridica dotata di autonoma rilevanza processuale. Così non era in passato, si veda ad esempio (seppur in una prospettiva “casistica” più che sistematica) E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova, 1954, p. 280, secondo cui la decadenza del ricorso interviene “quando il deposito del ricorso dopo la notificazione non sia effettuato nel termine prescritto, o quanto non vi sia stata accompagnata la copia del provvedimento impugnato o altro atto equipollente, o quando il ricorrente, terminato il giudizio di falso da lui instaurato, non depositi copia della relativa sentenza entro il termine prescritto presso la segreteria del collegio giudicante”.
[2] Così la sentenza: “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica allo stesso del ricorso proposto al giudice amministrativo a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010 (c.p.a.), trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale. Nella fattispecie all’esame del collegio la Milano Serravalle – Milano Tangenziali S.p.a. riveste certamente tale qualifica, avendo espresso il proprio parere negativo alla realizzazione dell’impianto oggetto della presente controversia nell’ambito della conferenza di servizi che ha portato all’emanazione del diniego impugnato, nella sua qualità di concessionaria dell’autostrada della cui fascia di rispetto il provvedimento impugnato ha rilevato la violazione”.
[3] Sia consentita la semplificazione esposta nel testo, la quale non vuole certo trascurare le tesi dottrinarie secondo cui non solo le sentenze di merito, ma anche le pronunce in rito potrebbero acquisire autorità di cosa giudicata. A ben vedere, l’autorità di cosa giudicata altro non è se non una qualità della sentenza, conseguente alla incontrovertibilità della questione decisa. Tale questione potrebbe essere anche di rito: ciò significa che le parti del processo non potranno più porre in discussione i profili di rito esaminati e decisi dalla sentenza passata in giudicato. Sul punto sia consentito rinviare a quanto dettagliatamente esposto in C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 171 ss.
[4] Per una più ragionata analisi della fattispecie della inammissibilità, seppur condotta in riferimento al diritto processuale civile, sia consentito rinviare a R. Poli, Inammissibilità e improcedibilità, in Treccani Diritto on line 2016.
[5] Si può anche affermare, sotto diverso punto di vista, che la sussistenza di ragioni di inammissibilità del ricorso comporta l’illegittimo o comunque inefficace esercizio dell’azione. Non è questa la sede per approfondire il concetto (particolarmente complesso) di azione, la cui definizione viene resa nel testo secondo le indicazioni di autorevole dottrina processualista (v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 62 ss.; per un esame approfondito si veda, ad esempio, R. Orestano, Azione in generale, Enc. Dir., spec. p. 797 ss.).
[6] Sulla correlazione tra domanda e limiti del potere decisorio del giudice, v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 93 ss.
[7] Quanto esposto sembra la logica conseguenza dei principi che regolano il nostro sistema processuale, fra tutti il principio della domanda e il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tuttavia, a quanto consta, la dottrina si è finora espressa in termini di mera “irrilevanza” delle valutazioni di merito contenute in una sentenza di rigetto in rito della domanda. Si veda, ad esempio, E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268 ss.: “La sentenza di rito è, come rilevato, quella che incide soltanto sul processo e non anche sul merito; si può anche qualificare come 'giurisdizionale', ma solo lato sensu (infatti, non realizza misure giurisdizionali). Si tratta, ancor qui di volizione (preceduta, ovviamente, dalla ricognizione dei presupposti). Così, è rifiuto di pronunciare nel merito la sentenza che declina la giurisdizione o la competenza. Queste declinatorie possono intervenire tardi cioè dopo che il processo si è svolto completamente. Ma esse possono intervenire anche molto prima: così quando il giudice constati, già in base al metro del provvedimento richiesto, e senza necessità d'istruttoria, di esser privo di giurisdizione e/o di competenza (non altrimenti il giudice deve por termine al processo quando constati che neanche in ipotesi le parti possono essere considerate destinatarie degli effetti del provvedimento richiesto che, dunque, esse non sono munite di legittimazione ad agire). Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide: ciò è confermato dalla nostra legge processuale, che consente al giudice di non decidere subito la quaestio pregiudiziale (e così, ad esempio, quella di competenza), ma di rimandare la decisione alla fine (art. 187 comma 3 c. p. c.)”.
[8] Sull’applicazione delle disposizioni in materia di nullità della sentenza nel processo amministrativo, v. F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 288.
[9] Si rammenta che l’art. 156, co. 1, c.p.c. prevede infatti che la nullità per inosservanza delle forme degli atti processuali non può essere pronunciata “se la nullità non è comminata dalla legge” ovvero laddove l’atto manchi dei “requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”, ipotesi che nel caso qui annotato non paiono sussistere.
[10] Salvo non portare alle estreme conseguenze i numerosi “corollari” derivanti da una interpretazione eccessivamente “elastica” della pronuncia giurisprudenziale. Sul punto si veda F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, p. 301: “I problemi nascono nel momento in cui la nozione di cosa giudicata abbandona il ristretto, ma certo, confine del dispositivo della sentenza, la conclusione del sillogismo in cui si esprime la logica della sentenza, per estendersi alle sue premesse, alla parte motiva della sentenza. E, nel caso del processo amministrativo, si acuiscono a dismisura per via delle eccessive fluidità ed elasticità della nozione di giudicato. Ciò è dovuto non tanto al fatto che nel processo amministrativo è pacifica l’affermazione che occorre guardare alla motivazione della sentenza per ricostruire il dictum del giudice, quanto piuttosto al fatto che essa si accompagna ad altre affermazioni quali sono quella che nel giudizio di legittimità il giudicato copra comunque solo i vizi dedotti e non quelli deducibili; che la motivazione possa essere integrata nell’ambito del giudizio di ottemperanza “al giudicato”, completando in questa stessa sede l’accertamento mancante nella sentenza; o (si accompagna) al dato esperienziale di una prassi che origina motivazioni prolisse, eccessivamente articolate e complesse, che troppo spesso rendono assolutamente labile ed evanescente il confine tra un obiter dictum e ciò che è un antecedente logico necessario della decisione e al fatto che questa prassi è per altro verso dissonante dall’esplicito riconoscimento legislativo della possibilità di pronunciare sentenza in forma semplificata, ovvero con «sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero al precedente conforme» (art. 74 c.p.a.)”.
[11] Nel caso di accoglimento del motivo di appello avverso la pronuncia di inammissibilità, il Consiglio di Stato decide la controversia senza rinviare al giudice di primo grado (v. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2018 n. 10 e 11: “La questione di diritto all’esame dell’Adunanza plenaria deve essere risolta dando continuità al consolidato orientamento interpretativo che, anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso Codice. Va in particolare, escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito)”.
[12] Si fa riferimento alla tesi di Liebman, variamente esposta in diversi scritti, secondo cui l’autorità di cosa giudicata non è un effetto della sentenza (la quale è infatti produttiva di effetti indipendentemente dal passaggio in giudicato) ma una sua qualità o caratteristica, ricollegata alla raggiunta incontrovertibilità della questione oggetto di decisione (ne consegue peraltro l’irrilevanza della distinzione tra giudicato formale e giudicato sostanziale); la tesi si trova esposta in vari scritti, in particolare E.T. Liebman, Efficacia e autorità della sentenza Milano, 1962.
[13] Il tema, in realtà, è più complesso e meriterebbe una estesa trattazione. Soltanto per accennare un possibile aspetto problematico, si pensi all’ipotesi in cui il primo giudizio abbia deciso su questioni pregiudiziali rispetto alla controversia oggetto del secondo processo (per una approfondita trattazione del tema, C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 129; nonché F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, 299).
[14] Si potrebbe obiettare che talora (come parrebbe nel caso di specie) le ragioni poste a fondamento della “prima” decisione permangono immutate anche nell’ulteriore giudizio relativo al “secondo” provvedimento. Nella sentenza in commento, ad esempio, l’impianto di distribuzione risultava ricompreso, tanto nel primo quanto nel secondo progetto, nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma si tratta di una obiezione non risolutiva. Essa non consente infatti di superare quanto affermato nel testo, ossia che la valutazione resa dal giudice riguarda (necessariamente) soltanto gli elementi di fatto e di diritto relativi allo specifico provvedimento impugnato. Quantomeno, il giudice sarà chiamato a stabilire se una data circostanza – ritenuta dirimente ai fini di un precedente giudizio – sia o meno altrettanto determinante per la decisione della controversia.
[15] La giurisprudenza appare orientata nel senso di ritenere applicabile alla giurisdizione amministrativa la disciplina dell’art. 310 c.p.c. Recentemente, Cons. Stato, 30 maggio 2023, n. 9187. In maniera argomentata, v. T.A.R. Puglia, 24 ottobre 2013, n.1489: “A tenore dell’art. 310 c.p.c., l’estinzione del processo non estingue l’azione. Si può ritenere che tale norma si applichi – in ragione del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. – anche al processo amministrativo, dove l’estinzione processuale è determinata dalla perenzione, ex art. 9 comma secondo della legge n. 205/2000 (ora art. 81 c.p.a.). Infatti, l’estinzione del processo civile e la perenzione del processo amministrativo sono istituti in tutto simili, con la differenza che, mentre la perenzione considera il processo nel suo insieme e sanziona l’inattività assoluta delle parti, protrattasi per un certo periodo di tempo, l’estinzione ha riguardo ad atti specifici e alla loro specifica collocazione temporale e sanziona non solo la lunghezza e rilassatezza dei tempi, ma anche il mancato compimento di attività funzionali a una corretta decisione di merito”.
[16] Le medesime considerazioni possono trarsi anche per l’ipotesi di irricevibilità.
[17] Nel testo si propone – per ragioni di brevità – una interpretazione semplificata del fenomeno dell’estinzione del processo e dei suoi rapporti con categorie “limitrofe”, quali l’inammissibilità del ricorso e l’improcedibilità del giudizio. Per una interessante disamina delle principali tesi dottrinarie, si veda C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 235 ss.
[18] Si veda il già citato E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268: “Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide”.
[19] In buona sostanza, troverebbe applicazione la (pacifica) giurisprudenza secondo cui le prove raccolte in un giudizio diverso possono essere valutate come “argomenti di prova”. Tale indirizzo si riferisce tuttavia alle prove assunte nell’ambito di processi poi giunti ad una definizione di merito della controversia, risultando dunque quantomeno discutibile l’applicazione del medesimo principio nel caso di un processo concluso con una sentenza di rito (v. di recente Cons. Stato, 4 agosto 2023, n. 7539: “Quanto all’accertamento svolto in sede civile va rammentato che, per principio generale, il giudice può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse e anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre sedi civili”; ma anche, seppur in via incidentale, Cass. SS.UU., 8 aprile 2008, n. 9040: “il giudizio circa l'utilità e la pertinenza di un mezzo di prova rientra nei poteri di valutazione del giudice di merito, il quale può anche utilizzare per la formazione del proprio convincimento prove raccolte in altro giudizio, sebbene estinto, tra le stesse parti”).
Godwin Baxter, chirurgo visionario dal volto deforme, frutto di menomazioni cliniche ad opera del padre medico, sperimenta a sua volta nella giovane e gravida Victoria, morta suicida lanciandosi giù dal ponte di Londra, la sostituzione del cervello ormai inattivo con quello del suo feto, alimentandone la funzione con scariche elettriche rivitalizzanti e dando vita così a Bella Baxter, prototipo ibrido di una reviviscenza scientifica destinata però ad un percorso di crescita alla stessa stregua di un neonato. Adulato e insieme criticato dai suoi allievi, lo scienziato assegna al fido seguace Max McCandles lo studio e la cura dello sviluppo mentale di Bella, della quale il giovane medico finisce per invaghirsi accettando la proposta di Godwin di prenderla in sposa. A travolgere il programma subentra tuttavia lo spavaldo avvocato Duncan Wedderburn, fatuo gigolò avventuriero camuffato da professionista borghese, attratto dalle innocenti sensualità di Bella e che lei, seguendolo col tacito consenso di Godwin, usa come occasione di conoscenza del mondo. Per mare e per terra, da Lisbona ad Atene, fino ad Alessandria d’Egitto ed infine a Parigi dove Bella, già avviatasi nel suo itinerario evolutivo al sesso solitario e di coppia, si dà convinta alla prostituzione. Rapita da un ingenuo e altruistico ideale socialista ripudia Duncan, diventato frattanto ossessivamente geloso, e ne fugge via tornando a Londra dove, raggiunto Godwin ormai morente, artefice nelle more di un secondo trapianto di cervello nella giovane Felicity, diserta per la seconda volta le nozze con Max andando a convivere col ritrovato marito Alfie e finalmente scoprendo la ragione del suo suicidio - il proposito del coniuge di mutilarle i genitali per contenerne la sfrenatezza sessuale - che vendica, ormai da novello chirurgo, impiantando nel cranio del marito un cervello di capra.
Nell’orrido c’è il magnetismo dell’attrazione, nella provocazione il godimento perverso della sfida, che ambedue Lanthimos lancia in un intrigante condensato di bellezze e brutture, in un’Histoire d’O ribaltata, dove sottomissione e appagante umiliazione, in una nemesi di genere, sono inflitte agli uomini ad opera e al candido capriccio di una donna madre/figlia/compagna; da tutte loro insieme e al tempo stesso da nessuna di esse. La matura e pluritatuata tenutaria parigina, usuraria di passioni maschili, infatti è donna, come donne sono la prostituta socialista e la filosofeggiante Martha; femmine comprimarie di una vincente anarchia degli istinti che Lanthimos edifica al meglio esibendola nel felice annullamento di ogni intervallo razionale tra le prime pulsioni sessuali di Bella e il suo abbandonarsi ai furiosi sobbalzi dei plurimi amplessi; e ancora, tra il diffondersi delle prime note musicali, durante un più che convenzionale ed elegante convivio, e l’irrefrenabile suo bisogno di lasciarsi andare ad un ballo smodato, tanto eccessivo quanto meravigliosamente irriverente agli occhi del contesto.
Nel suo procedere per simboli e allegorie il film presenta a più riprese un quesito di comparazione tra mostruosità e fascino, tra carnalità, chirurgica e sessuale, e morale, tra vita e morte, candidando e promuovendo Bella come indizio allusivo di una nuova Medusa, incarnazione di bellezza infliggente, intemerata e perfida, attraente e ammaliante, orrore di grazia e seduzione. Un quesito che non pretende soluzione se non nell’affermazione del primato del libero arbitrio - espressamente predicato da Godwin nell’assecondare Bella nel suo desiderio di libertà - nella sua accezione empirica e deterministica di traguardo passionale. Un germe, quello del libero arbitrio, che come Dio il deforme scienziato (Godwin traduce per l’appunto “amico di Dio”) attraverso Bella inocula nel mondo delle poor things nel proposito di sovvertire i principi del conformismo con audaci unzioni di verità e libertà su regole e convenienze (William Godwin è anche il nome di un filosofo libertario teorizzatore del moderno anarchismo).
Marionetta vivente e burattina di se stessa Emma Stone, in un alone di perfetto divino senza delirio Willem Dafoe, entrambi svettano in eccellenza recitativa, circondati da un cast di rilievo (tra gli interpreti una sempre efficace Hanna Schygulla), in un mood scenografico che nell’alternanza bianconero/colore ritrova ancora una volta la cifra cromatica di quel plurimo quesito.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il diritto di sciopero nell’art. 40 Cost. - 3. La delibera della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - 4. L’ordinanza di precettazione ex art. 8 L. 146/1990.
1. Introduzione
Le recenti astensioni dei lavoratori del novembre e dicembre 2023 in ampi settori dei servizi pubblici essenziali hanno posto nuovamente al centro del dibattito il diritto di sciopero in tali servizi e, in particolare, la sua regolamentazione anche attraverso provvedimenti amministrativi emanati dalle competenti Autorità: Commissione di Garanzia per l’applicazione della L. 146/1990 e Pubbliche Amministrazione di riferimento per i singoli servizi.
L’attenzione si è, in particolare, concentrata sul servizio di trasporto pubblico, nazionale e locale, anche in ragione dei diversi interventi del Ministero competente con ordinanze di precettazione e regolamentazione in senso restrittivo rispetto alle proclamazioni comunicate dalle OO.SS., precedute da delibere regolatrici della Commissione di Garanzia, parimenti limitative.
Il numero[1] e il tenore dei recenti provvedimenti è, dunque, occasione per tornare a riflettere sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e sul necessario contemperamento tra lo stesso e i diritti della persona su cui inevitabilmente incidono.
É noto, infatti, che il Legislatore ha disciplinato l’istituto con la L. 146/1990, integrata dalla L. 83/2000, che rappresenta - nel contesto europeo - una delle norme più restrittive. La legge del 1990, tuttavia, ha come incipit un articolo 1 che, dopo aver individuato i servizi pubblici essenziali in “quelli volti a garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati” (alla vita alla salute alla libertà e alla sicurezza, alla liberà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione), esplicita al comma 2 la ratio dell’intera disciplina, individuandola nella necessità di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona …di cui al comma 1”.
2. Il diritto di sciopero nell’art. 40 Cost.
Nella materia che ci occupa, infatti, si fronteggiano posizioni giuridiche di pari rilievo costituzionale: da un lato il diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., e dall’altro i diversi diritti inviolabili della persona, specificamente elencati nell’art. 1 c. 1 citato.
Su questi ultimi basti richiamare la parte prima della Costituzione e l’incontestabile rilievo agli stessi riconosciuto.
Quanto al primo, merita qui spendere qualche parola in più. L’art. 40 Cost. afferma, infatti, che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e, superando la precedente qualificazione corporativa dell’astensione dal lavoro come reato[2], fa assurgere lo sciopero - senza riserve - a “diritto” di rango costituzionale e introduce una riserva di legge per la disciplina dei limiti, che attengono non già al diritto in sé, ma esclusivamente al suo esercizio. L’art. 40, dunque, è norma immediatamente precettiva e vincolante: con esso il Legislatore costituente ha inteso dare dignità e rilevo al conflitto sociale, prendendo chiara posizione in merito ad uno degli strumenti cardine di tale conflitto: lo sciopero, appunto. Proprio al fine di sottolinearne il valore primario, i commentatori non hanno mancato di evidenziare la differente attenzione riservata, per contro, alla serrata, che – viceversa – non ha avuto ingresso nella Carta.
Ebbene, nella consapevolezza che il conflitto è l’essenza delle relazioni industriali nonchè imprescindibile meccanismo di tutela del lavoro, l’art. 40 Cost. mira a rafforzare la posizione delle parti deboli di tali relazioni e, in combinato disposto con il precedente art. 39, può quindi essere considerato necessaria espressione di eguaglianza sostanziale. Dai verbali della Prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, si ricava una illuminante definizione: “il diritto di organizzazione sindacale, senza un connesso diritto di sciopero, non avrebbe importanza. Il lavoratore si organizza a scopo di difendersi. La difesa non può essere che lo sciopero”[3].
I limiti all’esercizio del diritto di sciopero, tuttavia e come noto, non sono stati regolati da alcuna legge ordinaria per quanto attiene al settore privato, con necessaria e prolifica attività di supplenza ad opera della giurisprudenza, sia costituzionale che ordinaria; mentre con riguardo al settore pubblico e, in specie, ai servizi pubblici essenziali è stata approvata, nel 1990 la L. 146, qui in commento.
Non è questa la sede per richiamare il dettaglio della disciplina, come detto particolarmente dettagliata e stringente. É, tuttavia, utile ricordare che le regole e le procedure imposte per l’esercizio del diritto di sciopero hanno come dichiarata finalità quella di “assicurare l’effettività, nel loro contenuto essenziale, dei diritti medesimi”[4], (sia quello allo sciopero che quelli della persona). Tale contemperamento si estrinseca – sempre secondo il Legislatore del 1990 – nella previsione a) di “prestazioni indispensabili” da assicurarsi anche durante le astensioni dal lavoro, b) del preavviso minimo di proclamazione dell’astensione e c) della comunicazione scritta a parte delle OO.SS. proclamanti, circa la durata, le modalità e le motivazioni sottese allo sciopero. Le prestazioni indispensabili sono, poi, garantite altresì dalla previsione di un intervallo minimo tra la prima astensione e la proclamazione delle successive, al fine di non compromettere la continuità del servizio (c.d. rarefazione oggettiva) e dalla regolamentazione di modalità e procedure di erogazione ad opera di contratti e accordi collettivi[5].
L’individuazione delle prestazioni indispensabili, delle modalità e procedure della loro erogazione è, infatti, rimessa alle parti sociali, benché sottoposta al vaglio di idoneità della Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; Commissione che interviene in funzione sostitutiva e temporanea solo quando manchi la regolamentazione pattizia o quando questa sia valutata non “idonea”.
L’intervento dell’organo di garanzia, dunque, si pone come verifica e controllo ‘terzo’ ed ‘ago della bilancia’ tra le diverse istanze delle parti e nonché dell’utenza interessata al servizio pubblico coinvolto. Inoltre, trattandosi di Autorità Amministrativa Indipendente, le delibere adottate sono provvedimenti amministrativi, in quanto tali immediatamente efficaci e frutto di valutazione discrezionale. Parimenti discrezionale è il potere riconosciuto - nell’ambito della medesima procedura di regolazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali - al Presidente del Consiglio o, come più spesso accade, al Ministro delegato, per l’adozione dell’ordinanza di cui all’art. 8 L. 146 cit., anch’essa di regolamentazione restrittiva dello sciopero, ove sussista un “fondato pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Ed è proprio questo il fulcro della riflessione qui proposta.
Nel quadro dei diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati, quando è legittimo e fin dove può spingersi l’intervento delle Autorità amministrative previsto dalla legge?
3. La delibera della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
I recenti provvedimenti della Commissione di Garanzia e del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, in relazione alla proclamazione dello sciopero generale del 17 e 24 novembre 2023 nonché 15 dicembre 2023, suggeriscono un esame meditato anche alla luce degli esiti che gli stessi hanno avuto: a fronte delle stringenti misure di rimodulazione dell’astensione - sia in termini di orari di durata che di calendarizzazione, che, addirittura, di ambito settoriale di operatività, con specifica esclusione di alcuni settori[6] – e delle conseguenze sanzionatorie previste dagli artt. 4 e 9 della L. 146/90 per i casi di inottemperanza a tali delibere e ordinanze, le OO.SS. proclamanti hanno deciso di adeguarsi a buona parte delle disposizioni ricevute, salva la facoltà di impugnazione dei provvedimenti anzi al Giudice Amministrativo.
Nel caso di specie a fronte di una proclamazione di sciopero generale nazionale da parte di due OO.SS. di indubbia rappresentatività a livello nazionale, la Commissione di Garanzia ha riqualificato l’astensione come plurisettoriale, ha valutato la regolamentazione della stessa riferendola ai singoli settori ed ha applicato a ciascun settore coinvolto le specifiche regole di raffreddamento, durata, e rarefazione oggettiva, per ritenerle violate nel caso concreto e disporre stringenti restrizioni.
Rimane da chiedersi se rientri tra i poteri della Commissione quello di qualificazione dello sciopero come generale o settoriale e, in caso affermativo, sulla scorta di quali criteri normativi tale potere debba essere esercitato. Nulla si rinviene sul punto nella L. 146/1990, che all’art. 2 c. 2 circoscrive i (pur ampi) poteri della Commissione alla valutazione di idoneità della regolamentazione pattizia eventualmente raggiunta dalle Parti Sociali e alla elaborazione di una regolamentazione sostitutiva e temporanea per il caso di mancanza o inidoneità della prima e, comunque, tutto ciò sempre e solo con riguardo alla previsione e alla disciplina delle “prestazioni indispensabili” che devono essere garantite. Difetta, viceversa, nel dato normativo, un richiamo al potere qualificatorio dello sciopero, vieppiù in difformità rispetto a quanto contenuto nella comunicazione di proclamazione. Non è di aiuto, invero, neppure la delibera del caso specifico, in quanto sprovvista di motivazione sul punto così come di indicazione delle ragioni sottese alla mancata valutazione di elementi pur essenziali ai fini della qualificazione dello sciopero, quali ad esempio le ragioni dell’astensione[7].
In presenza di rivendicazioni che coinvolgono indistintamente tutti i settori produttivi e che possono riguardare lavoratori attivi su tutto il territorio nazionale, non vi è ragione per escludere il carattere generale dello sciopero e costringere l’astensione nelle strette maglie delle svariate e difformi regolamentazioni di settore.
Dal momento che, proprio nel caso vagliato dalla Commissione nel novembre 2023, la qualificazione dello sciopero come generale avrebbe consentito l’applicazione di limiti al relativo esercizio meno stringenti, con il superamento dell’applicazione della disciplina regolatrice di questo o quello specifico settore (ad esempio in tema di procedure di conciliazione, raffreddamento, rarefazione oggettiva, ecc.), la stessa avrebbe meritato ben più ampia motivazione; rectius, avrebbe meritato una motivazione, invero del tutto assente.
Sembra, dunque, potersi affermare che i poteri di intervento e regolazione della Commissione di Garanzia, sono sorretti da due ordini di limiti, interni ed esterni: da un lato, infatti, essi sono circoscritti alle materie indicate nell’art. 2 c. 2, più volte citato[8], e dall’altro – nell’ambito di dette materie – sono il frutto della discrezionalità amministrativa cui si è fatto riferimento sopra, e proprio per tale ragione non possono prescindere da adeguata preliminare attività istruttoria né da una puntuale motivazione, escludendosi qualsiasi profilo di arbitrarietà, illogicità o irragionevolezza delle decisioni adottate.
Anche i poteri regolamentari in commento, infatti, devono essere esercitati nel rispetto del quadro generale disegnato dall’art. 1 della legge regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, di talché essi devono conformarsi e rispondere alla ratio di tale disciplina. Non si tratta, in altre parole, di un potere ispettivo e/o di vigilanza sbilanciato sulle modalità di esercizio dello sciopero e sulla tutela dell’utenza, ma è esso stesso espressione di quel bilanciamento di diritti costituzionalmente rilevanti e pari-ordinati cui si è fatto riferimento in apertura.
L’assunto, sembra trovare conforto in un recente arresto della giurisprudenza amministrativa, chiamata a pronunciarsi su una delibera della Commissione di Garanzia modificativa della disciplina della c.d. rarefazione oggettiva, con ampliamento dell’intervallo minimo tra la prima astensione e la proclamazione di un successivo sciopero da 10 a 20 giorni. Nel ritenere illegittimo il provvedimento amministrativo, nel 2023 il Consiglio di Stato, con argomenti che è utile ritrascrivere, ha chiarito come “l’ampia discrezionalità decisionale della Commissione, nello specifico con riguardo alla individuazione del periodo di rarefazione oggettiva tra gli scioperi, proprio perché involge e coinvolge diritti costituzionalmente garantiti, merita di essere esercitata con particolare cautela ed attenzione, assumendo decisioni che siano il frutto di una accurata istruttoria e che siano caratterizzate, nell’individuazione della misura più opportuna da mettere in campo, da una motivazione puntuale dalla quale sia possibile poter ricostruire nella sua interessa e completezza il corredo informativo che ha consentito di indirizzare la manifestazione di volontà della Commissione verso scelte proporzionate all’interesse pubblico che si intende salvaguardare”[9].
4. L’ordinanza di precettazione ex art. 8 L. 146/1990
Riflessioni non dissimili possono essere fatte con riferimento all’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato (o ancora, per gli scioperi locali, del Prefetto) di cui all’art. 8 L. 146/1990. Anche tale provvedimento è un atto amministrativo discrezionale, con tutte le caratteristiche sopra riferite alla delibera della Commissione di Garanzia, ma presenta un limite ulteriore, peraltro, particolarmente stringente.
L’ordinanza, infatti, per espressa previsione dell’art. 8 cit., potendo disporre autoritativamente il differimento dell’astensione, la riduzione della durata o altre misure idonee ad assicurare il funzionamento del servizio pubblico interessato, trova la sua giustificazione unicamente in presenza di un “fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
La lettera della norma, induce a ritenere che il potere de quo incontri non soltanto i limiti propri dell’agire amministrativo sopra esaminati, ma necessiti di una motivazione rafforzata e relativa a) all’esistenza di un pericolo di pregiudizio grave e imminente, dunque qualificato, b) ad elementi fattuali che facciano ritenere tale pericolo non semplicemente possibile o probabile ma, addirittura, “fondato”. Tale termine richiama profili di concretezza della situazione di rischio e consente di qualificare come eccezionale l’intervento amministrativo.
Ebbene, a fronte di ciò, e prendendo spunto proprio dalle recenti ordinanze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti[10], sembra potersi affermare che provvedimenti non adeguatamente motivati o che riconducano le ragioni delle direttive impartite a necessità avulse dal bilanciamento di diritti paritari o dall’esistenza di concrete necessità di fronteggiare un pericolo “grave ed imminente” per uno o più di essi, non possano dirsi conformi al dettato normativo e si traducano in una indebita ingerenza degli organi amministrativi nel conflitto sociale e nella regolazione delle relazioni industriali.
Le ordinanze in commento, infatti, sono - per loro stessa natura - provvedimenti invasivi, che si risolvono necessariamente in uno svantaggio per una delle parti interessate; per tali ragioni, il ricorso alle stesse deve essere vagliato con particolare rigore, e parimenti attenta deve essere la verifica della loro rispondenza al dettato normativo o, per contro, la eventuale frustrazione delle finalità perseguite dalla legge. Ordinanze precettive emanate oltre i limiti legali (formali e sostanziali) sopra descritti, infatti, si traducono in strumenti deflattivi dell’azione sindacale e, dunque, della tutela del lavoro o, comunque, un indebito contenimento del conflitto in misura non proporzionale alle necessità di tutela dei diritti dei fruitori del servizio interessato.
Non va dimenticato, a tal proposito, che il disagio per l’utenza coinvolta nei servizi pubblici essenziali interessati è connaturale all’esercizio stesso del diritto di sciopero. Ciò che le Autorità Amministrative coinvolte sono chiamate a vagliare e a garantire non è, dunque, la mera esistenza di un qualche disagio, se del caso anche di un certo rilievo, ma l’entità non equilibrata dello stesso e l’insufficienza delle misure volte ad assicurare le prestazioni indispensabili. Il Legislatore, in altre parole, ha già compiuto valutazioni generali sul contemperamento degli interessi in gioco, fornendo alle Autorità Amministrative competenti i parametri per il corretto esercizio del potere autoritativo.
Riprendendo, ancora come spunto comparativo, il contenuto delle ordinanze recentemente adottate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti[11] pare non potersi ritenere, ad esempio, adeguata motivazione ex art. 8 L. 146/1990, quella che fa riferimento a possibili danni per un preteso “trend positivo del turismo” o al probabile aumento del “traffico veicolare con ripercussioni sulla sicurezza stradale e sulle emissioni ambientali”, o addirittura ad una paventata “partecipazione consistente” all’astensione dal lavoro da parte dei lavoratori.
Si tratta, infatti, di valutazioni, da un lato meramente ipotetiche perché non adeguatamente supportate da elementi istruttori, e comunque prive del carattere della concretezza preteso dalla norma; dall’altro, riferite a (possibili lesioni di) diritti privi del rilievo costituzionale imposto dal Legislatore del 1990 (così, per non fare che gli esempi sopra riportati, il turismo o il traffico veicolare), quando non addirittura in contrasto con il dettato costituzionale: la prevedibile massiccia partecipazione all’astensione (sempre nel rispetto dell’obbligo di fornire le prestazioni indispensabili) è l’essenza stessa dell’esercizio del diritto di sciopero e non certo un suo possibile limite.
La specificità e completezza della motivazione appare, in quest’ottica, strumento indefettibile di scrutinio della legittimità dell’esercizio del potere autoritativo e sanzionatorio dell’organo amministrativo. In difetto di un concreto e attuale rischio per posizioni giuridiche di rilievo costituzionale, non si giustifica il sacrificio di un diritto (questo sì, attuale e concreto) di indubbio rango costituzionale quale è quello di sciopero; ciò a meno di voler accettare il rischio di introdurre – per via amministrativa – ulteriori ed inedite derive regolatorie e i limiti del tutto nuovi rispetto a quelli contenuti in una normativa che già allo stato attuale risulta particolarmente vincolante.
[1] Le ordinanze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti riferite ad un’unica tornata di astensioni generale dal lavoro proclamato il 27/10/2023 sono la n. 196T del 15/11/2023 e la n. 198T del 12/12/2023. Nel precedente mese di settembre era stata, peraltro, emanata l’ordinanza n. 194T del 26/9/2023 in relazione ad uno sciopero proclamato in data 24/8/2023 di tenore e contenuto sostanzialmente simile.
[2] Il Codice penale Rocco prevedeva infatti agli artt. 502-506 svariate ipotesi di reato legate all’astensione dal lavoro (sciopero e serrata) per motivi contrattuali, non contrattuali, per solidarietà o per protesta.
[3] Verbale del 15/10/1946, intervento del costituente Pietro Mancini.
[4] Così recita testualmente l’art. 1 c.2 L. 146/1990.
[5] Così dispone l’art. 2 c. 2 L. 146/1990.
[6] Il riferimento è fatto alla delibera Commissione di Garanzia 1314/23 del 9/11/2023 nonché alle ordinanze n. 196T e 198T Min. Infrastrutture e Trasporti cit..
[7] Nel caso esaminato le rivendicazioni delle OO.SS. erano legate alla legge di bilancio, alle politiche economiche e sociali del Governo, alle piattaforme sindacali unitarie, a provvedimenti in materia di lavoro, politiche industriali, fisco, pensioni, istruzioni, sanità, ecc.
[8] Il riferimento è alle prestazioni indispensabili, alle modalità e alle procedure di erogazione, nonché gli intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo e le procedure di raffreddamento e di conciliazione.
[9] Cfr. Cons. Stato, sent. n. 2116 del 1/3/2023.
[10] Le già citate ordinanze nn.- 194T/2023, 196T/2023 e 198T/2023. Nell’ordinanza n. 196T, in particolare, si legge: “CONSIDERATO il trend positivo del turismo, che torna ad essere un settore trainante per la nostra economia e che si caratterizza con una forte intensificazione dei flussi turistici in entra e in uscita dal territorio nazionale, prevalentemente nei weekend, in aggiunta alla persistenza degli spostamenti dei lavoratori pendolari; CONSIDERATO che gli effetti dello sciopero si riverberano anche sul traffico veicolare con ripercussioni sulla sicurezza stradale e sulle emissioni ambientali, anche tenuto conto della sua fissazione nell’ultimo giorno lavorativo della settimana, connotata da maggiori flussi di traffico; (…) TENUTO CONTO che, alla luce di quanto verificatosi in occasione di precedenti astensioni dal lavoro promosse da Organizzazioni Sindacali altamente rappresentative nel settore dei trasporti, si prevede che la partecipazione ai richiamati scioperi sarà consistente”.
[11] Le già citate ordinanze nn. 194T, 196T e 198T del 2023.
(Immagine: foto di repertorio fonte)
Sommario: 1. Introduzione. La transizione digitale della giustizia penale italiana: l’approccio collaborativo ed inclusivo seguito da CSM e MdG - 2. APP: non funziona! - 3. La roadmap genetica ed evolutiva - 4. L’interattività e il prodotto della concertazione con gli utenti-effetti collaterali - 5. La somministrazione agli Uffici Giudiziari del prodotto. Il supporto fornito dal MdG e quello fornito da CSM-STO-RID-MagRif.
1. Introduzione. La transizione digitale della giustizia penale italiana: l’approccio collaborativo ed inclusivo seguito da CSM e MdG
Chiedo umilmente venia al lettore per il clickbait a cui ho fatto ricorso nel titolo di questo contributo, che ripete il mantra “APP non funziona!”, ultimamente molto in voga tra gli addetti ai lavori e non del processo penale. Per contro, ricorro all’esercizio dialettico del titolo esca, tipico degli internauti, al mero fine di attirare l’attenzione proprio del lettore emozionalmente atterrito dal cd grido di allarme al fallimento del processo penale telematico e di APP, nonché per cercare di offrire uno spunto di riflessione sul tema e di lanciare, da addetta ai lavori, un ambizioso segnale di rasserenante approccio.
Corre l’obbligo di inquadrare lo scenario di fondo nel quale si enuncia il fallimento del PPT e di APP, ovvero l’opera di transizione digitale, che passa necessariamente per la tanto attesa digitalizzazione del processo penale. Tralasciando, per ragioni di sintesi e di contestualizzazione del tema, tutte le osservazioni che a rigore si imporrebbero per il dovere di allineare il settore giustizia al quadro di transizione digitale nello scenario italiano e sovranazionale, mi limito a rappresentare banalmente come la cd virata alla modalità digitale nella Pubblica Amministrazione costituisca un obbligo ineludibile anche del Settore Giustizia, che non a caso ha comportato l’istituzione di un apposito dipartimento del Ministero della Giustizia.
Snodo normativo fondamentale del processo di digitalizzazione delle PA è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La prima componente della Missione n. 1 del Piano, denominata “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, ha come obiettivo generale l'innovazione del Paese in chiave digitale, ed è articolata in tre settori di intervento, tra i quali l’innovazione organizzativa della giustizia. Giova precisare come l’impegno alla transizione costituisca un intervento finanziato con limitati fondi nazionali e non europei, se pur la realizzazione (non l’obbligatorietà) dell'applicazione rientri tra le milestone del PNRR, riforma 1.8.
Non si può tacere come la transizione digitale nel contesto giudiziario debba, innanzitutto, uniformarsi al disposto della normativa sovranazionale e delle direttive europee.
Ovviamente è fondamentale tenere ben presente come la transizione del sistema giudiziario - nell’alveo delle direttive europee che enfatizzano l'importanza dell'etica, dell'inclusione e della sostenibilità, richiedendo agli Stati Membri il monitoraggio del rispetto dei diritti fondamentali, affinché venga tutelato in maniera egualitaria il libero diritto di accesso alla giustizia da parte di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro competenze digitali - diversamente dalla transizione di altro ramo della Pubblica Amministrazione, rappresenti, apriori una sfida complessa, che richiede un'integrazione sinergica di competenze tecniche, legali e amministrative, in quanto incide sull’organizzazione di un servizio a cui partecipano vari attori in posizione spesso paritaria, nonché agisce sulla movimentazione di dati sensibili, oltre che sulla gestione delle risorse umane e tecnologiche degli Uffici Giudiziari.
Secondo le Linee Guida[1] varate in materia dal Consiglio d’Europa, “I principi di inclusività e accessibilità rappresentano dimensioni fondamentali per raggiungere l'efficacia nel perseguire il principio del digitale per default”. La centralità dell'utente consente al sistema giudiziario di tenere in considerazione le esigenze e le voci di tutti gli utenti finali, siano essi interni o esterni, durante la progettazione, la consegna, l'implementazione e la valutazione delle soluzioni e dei servizi digitali.
La digitalizzazione del processo deve, per essere adeguata e collimante con le linee guida europee, garantire uniformità e standardizzazione procedurali, e dovrebbe anche prevedere, in una certa misura, flessibilità per agevolare le diverse eccezioni e i casi d'uso specifici che potrebbero verificarsi durante la trasformazione delle procedure giudiziarie o in relazione a diverse soluzioni tecnologiche che potrebbero essere adottate o evolversi in futuro[2].
Inoltre, l’opera di transizione digitale deve essere in grado di fronteggiare e superare in maniera omogenea il digital divide, consentire di fronteggiare i diversi livelli di alfabetizzazione digitale degli utenti e di dar ad essi l’opportunità di godere di un approccio sostanzialmente egualitario.
Last but not least, un programma di trasformazione giudiziaria efficace ed efficiente nel nostro sistema giudiziario richiede una forte volontà politica, un approccio gestionale completo e un ampio coinvolgimento degli stakeholders[3] e, per poter conseguire il proprio scopo e rispettare gli strumenti sovranazionali che la hanno prevista normativamente, oltre che per poter essere adeguata alla diversa modalità operativa dei vari attori del sistema giustizia italiano, deve potersi manifestare come trasversale ed inclusiva, impostarsi su un approccio collaborativo tra vari attori istituzionali: i magistrati, il CSM, il Ministero della Giustizia, il DGSIA, i cancellieri, gli avvocati e tutti i professionisti del diritto che interagiscono nel processo.
La digitalizzazione del sistema giudiziario italiano, in particolare nel processo penale, rappresenta una sfida complessa che si sta operando su un piano di integrazione, trasversale e verticale, sinergica, di competenze tecniche, legali e amministrative. Questo obiettivo è delineato con un’attività di continuativa cooperazione tra Ministero e CSM, e un modulo innovativo, un unicum senza precedenti nella storia della giustizia italiana, un metodo istituzionalizzato di collaborazione intensa tra i due attori principali della scena chiamati a costruire e recepire la transizione.
Per addivenire all’obiettivo di inclusività e di cooperazione da parte di tutti gli attori del processo penale, invero, si è assistito nel nostro sistema giudiziario, nel corso degli ultimi due anni e mezzo, dall’ottobre 2021, alla creazione di moduli differenti di elaborazione condivisa dei progetti degli applicativi del PPT (ivi compreso APP), destinati a esser generati, osservati, monitorati e implementati, da una serie di esperti operatori giudiziari: magistrati, in ruolo e fuori ruolo, cancellieri, avvocati, soggetti tutti non lontani dalle aule giudiziarie ma in diretta, reale e concreta connessione con il territorio, reclutati dal Ministero come esperti in base alle non comuni competenze informatiche mostrate dal loro percorso professionale.
La storia evolutiva dell’approccio condiviso CSM-Ministero può come segue essere sintetizzata:
Nel ginepraio di gruppi e incarichi ministeriali che comunque hanno consentito alla componente di magistratura di contribuire alla transizione fino ad ora effettuata, in sintesi, appare evidente come occorra fermarsi e fare ordine, strutturare il cammino condiviso. La transizione digitale necessita, in sintesi, di un cambiamento di paradigma, che consenta la collaborazione paritetica di tutte le istituzioni coinvolte nel processo evolutivo, di passaggio al processo digitale. Da quanto avvenuto emerge che deve darsi come pacifico che gli aspetti tecnologici e quelli giuridici non possono essere dominio della singola istituzione, ma devono sinergicamente essere analizzati in concreto attraverso una strutturata forma di collaborazione istituzionale.
La vicenda di APP sottolinea l'importanza di superare l'approccio tradizionale basato sulla relazione/fornitore-utente nel contesto dello sviluppo del Processo Penale Telematico. Ciò implica l'adozione di un modello più collaborativo e inclusivo, dove la corresponsabilità tra le parti coinvolte diventa un pilastro fondamentale. In questo scenario, magistrati e avvocati non sono semplici destinatari di tecnologie e soluzioni imposte dall'alto, ma attori attivi nel processo di innovazione, con una voce in capitolo significativa nella progettazione, implementazione e valutazione delle soluzioni tecnologiche. Abbracciare un modello di collaborazione effettiva significa riconoscere l'importanza di integrare le conoscenze e le esperienze dei professionisti del diritto fin dalle fasi iniziali dei progetti di digitalizzazione.
Questo implica un dialogo costante e costruttivo tra sviluppatori tecnologici, magistrati, avvocati e altre figure chiave, per assicurare che le nuove soluzioni non solo rispettino le procedure codificate ma anche ne facilitino l'efficienza e l'efficacia. L'obiettivo è dunque quello di costruire un sistema di Processo Penale Telematico che sia non solo tecnologicamente avanzato, ma anche profondamente radicato nelle reali esigenze e dinamiche del mondo della magistratura.
Questo richiede un cambio di paradigma che ponga l'enfasi sulla corresponsabilità e sulla partecipazione attiva di tutti gli stakeholders coinvolti, per garantire che l'innovazione tecnologica nel settore giuridico sia realmente al servizio della giustizia. Si auspica una seria presa di posizione del CSM al fine pretendere dal Ministero una proficua condivisione della strategia di informatizzazione nel processo penale anche con il coinvolgimento - attraverso tavoli tecnici ancora possibili - dei soggetti istituzionali tutti (CSM, ANM, CNF, Dirigenze amministrative) coinvolti nella informatizzazione del processo penale. L'importanza di superare la logica fornitore/utente per favorire una collaborazione effettiva che includa la corresponsabilità nel contesto dello sviluppo del Processo Penale Telematico porta inevitabilmente a considerare la necessità di un intervento incisivo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che è chiamato a prendere una posizione ferma per sollecitare ed individuare con il Ministero della Giustizia la promozione di una strategia di informatizzazione del processo penale che sia frutto di una reale, trasparente, allargata e proficua condivisione con tutti i soggetti istituzionali coinvolti.
Questo approccio collaborativo, che vede il CSM impegnato a richiedere e favorire una partecipazione attiva e concreta di tutti gli attori istituzionali coinvolti, segna un passo fondamentale verso la realizzazione di un sistema di giustizia penale telematico efficace, efficiente e, soprattutto, equo. Solo attraverso una seria presa di posizione e la promozione di una strategia di informatizzazione realmente condivisa a tutti i destinatari del prodotto, sarà possibile superare le sfide poste dall'innovazione tecnologica e garantire che il processo penale telematico si sviluppi in modo tale da rispettare e valorizzare le peculiarità del sistema giudiziario, migliorando al contempo l'accesso alla giustizia per tutti i cittadini.
2. APP: non funziona!
L'introduzione di APP del Processo Penale Telematico ha segnato un passo significativo nella transizione digitale del processo penale nei termini anzidetti, costituendo l’esordio del processo penale telematico: anche se i primi veri passi verso la digitalizzazione sono passati per robuste ed altrettanto tortuose strade come il PdP e il PNdr, l’impatto di APP, come applicativo di flusso, può senz’altro portare a definirlo il vero Caronte digitale. Esso, pertanto, costituendo il primo ma non unico prodotto del cammino di transizione del processo penale verso il digitale, solleva questioni notevoli relative alla progettazione, implementazione e adozione di tecnologie digitali in un ambiente giuridico e processuale, del quale rischia di intaccare alcuni punti sacrali.
La scelta del clickbait di questo articolo “APP non funziona” è dettata dalla necessità e opportunità di analizzare funditus, da addetta ai lavori in un Distretto anche molto complesso oltre che sconfinato, la reale corrispondenza alla realtà di questo tormentone. Per esigenze di completezza, occorre inevitabilmente fare appello nella maniera più tecnica ed oggettiva possibile ai dati che l’esperienza sul campo ha consentito di recepire, non senza passare per un inquadramento descrittivo e sostanziale dell’applicativo protagonista della scena, anche al fine di fornire pochi fondamentali tecnici che non sono di comune dominio stante la giovane età del nostro Caronte.
La definizione
APP è l’applicativo unico di gestione del processo penale telematico, per il governo dei flussi procedurali e documentali esterni e interni agli uffici giudiziari, che vanno dall’iscrizione della notizia di reato fino all’udienza preliminare esclusa (obiettivo PNRR M1C1-38, Riforma 1.8).
L’obiettivo
L’obiettivo perseguito con la transizione digitale operata via/APP non è tanto quella di sostituire il documentale TIAP esistente (né tanto meno di duplicarlo), bensì:
Il risultato perseguito con la transizione al PPT via APP, operando su una piattaforma composta non solo documenti ma da veri e propri procedimenti, stricto sensu, è quello di fruire del pregio degli applicativi gestionali, consentendo di ottimizzare al massimo il processo, rendendolo più semplice, più veloce, senza errori, trasparente, fruibile dall’utente medio.
Il tipo di applicativo: gestionale e documentale; struttura e funzioni principali
Il software approntato per la gestione del processo penale, cd APP, ambisce ad offrire il vantaggio tipico dei software gestionali e documentali insieme.
Pertanto, esso si colloca nella prospettiva finalistica, non tutta oggi conseguita, della realizzazione dei seguenti risultati, propri degli applicativi gestionali:
APP è invero un sistema collaborativo informatico, che è progettato per consentire a tutti i soggetti abilitati la redazione, la firma digitale e il deposito telematico dei provvedimenti penali, rendendo telematici tutti i flussi procedimentali, dall’iscrizione della notizia di reato all’udienza preliminare esclusa, integrandosi con il PDP e il Portale delle Notizie di Reato. L’applicativo prevede, in progetto, tutte le funzionalità atte a garantire la redazione di atti nativi digitali, gli scambi telematici bidirezionali tra i diversi uffici giudiziari coinvolti, e l’integrazione con i Portali (PNdR e PDP) per la ricezione automatizzata degli atti, dei file multimediali e dei relativi dati strutturati. Basti notare che oggi TIAP permette la sola scannerizzazione in formato immagine (anche di bassa qualità) di documenti cartacei, senza alcuna possibilità di altre tipologie di file (es. multimediali), la cui acquisizione e usabilità è prevista in APP.
APP si distingue per la sua connotazione ultra ed extra-documentale, gestionale, accorpando in sé il documentale preesistente (Tiap) e, recuperando i dati dal registro, provvede al contestuale governo dei flussi procedurali di documenti interni, oltre che alla ricezione dei documenti esterni ad esso.
Nell’area di gestione dei flussi procedurali esso distingue varie aree, dedicate ai singoli flussi: intercettazioni, indagini preliminari (archiviazione, proroga, riapertura, conclusione, tabulati, iscrizione, prelievo coatto, interrogatorio, sequestro probatorio, ispezioni, incidente probatorio, esibizione, perquisizioni), misure precautelari, misure cautelari, impugnazioni misure, avocazione.
Allo stesso tempo l’applicativo offre:
3. La roadmap genetica ed evolutiva
La roadmap evolutiva dell’applicativo, disegnata secondo un approccio incrementale, in ottica di miglioramento continuo, si è sviluppata nei seguenti step del percorso programmato, preventivato, condiviso e perseguito nel corso di questi mesi:
In buona sintesi, l’avvio di APP, nella sua release ha recepito le indicazioni definite nei tavoli tecnici, composti da numerosi magistrati, cancellieri, avvocati, informatici e ingegneri, ed è stato progressivo per consentirne la sperimentazione prima dell’obbligatorietà del deposito telematico (Decreti Ministeriali previsti dall’articolo 87 commi 1 e 3 D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150). Per indirizzare gli obiettivi del PNRR M1C1, entro il 2023, è stata realizzata la soluzione di base del sistema APP e realizzato il flusso intercettazioni PM – GIP. Pertanto, sono state posti in campo alcuni segmenti di sperimentazione in esercizio, con l’apertura l’ultima settimana di ottobre 23 ad undici Uffici Giudiziari, la 4° settimana di novembre alla Procura Europea e a tutti gli Uffici di Procura e Gip.
Lo stato e la pianificazione degli sviluppi fuoriuscito dalle sessioni di lavoro effettuato sottoposte all’analisi del cd Gruppo di Analisi, dopo essere stato progettato dal Gruppo istituito dal Ministero con componenti esperte della magistratura, autorizzate ovviamente dall’organi di autocontrollo, ha portato alla predisposizione di funzionalità aggiuntive, a titolo esemplificativo individuate in: popolamento del modellario, introduzione, in aggiunta alla funzione di redazione mediante l’uso di Word on line, della previsione preliminare della funzione di plug-in Word, l’introduzione delle personalizzazione dell’atto off-line, la gestione del fascicolo documentale con la predisposizione di appositi tag nella funzione App Studio -la cui disponibilità, prevista, è stata differita- la firma massiva, qualche predisposizione di funzionalità per i visti con ritorno atti in cancelleria o con ritorno atti al redattore e assenso; nonché per la visibilità selettiva.
4. L’interattività e il prodotto della concertazione con gli utenti-effetti collaterali
Se APP funziona o meno, non può essere ad avviso di chi scrive una conclusione automaticamente derivante dagli aggiustamenti evolutivi che giocoforza esso ha imposto e impone anche grazie alla cooperazione, ma rimane una mera ipotesi che merita di essere vagliata sul piano sperimentale, a valle dei preventivi passi iterativi e delle complessive risorse messe in campo dal sistema giustizia italiano.
Giova sin da subito riportare che il monitoraggio dell’esercizio ha consentito di rilevare- al di là dei problemi di hardware e di infrastruttura rispetto ai quali è in corso un’operazione di ri-assettamento e risoluzione e che ha portato a sospendere per due giorni le attività di alcuni Uffici (tra cui i maggiori del Distretto di Napoli) -che l’applicativo sicuramente necessita degli adeguamenti di software, tra cui quelli di seguito menzionati (e rilevati nell’ultimo report del Gruppo di Analisi), adeguamento fortunatamente fronteggiabile proprio grazie alla caratteristica evolutiva di APP, che consente ad esso per sua natura di adattarsi alla realtà materiale del lavoro del giudice. Nel corso della best practice di Train on jobmessa in campo dall’UDI di Napoli, che lavora come gruppo permanente di esercizio live dei flussi di archiviazione (flussi completi: segreteria Pm-Pm-Gip-cancelleria Gip-restituzione segreteria PM), si è consentito, invero, di acquisire come dato prioritario, che APP viene utilizzato sempre senza problemi - tecnicamente - di flusso (e quindi APP, come applicativo di flusso, tecnicamente, funziona), ma con momenti bloccanti, al 100 % riconducibili a inciampi infrastrutturali e, quindi, tecnicamente di Hardware, con performances e tempistiche differenti a seconda dei diversi seguenti co-agenti di seguito indicati, rispetto ai quali si connota in termini di diretta proporzionalità:
L’esercizio live dell’UDI di Napoli (compiuto fino ad oggi in sette sessioni di due ore e mezza circa ciascuna) ha invero lasciato - salvi i casi di funzionamento a singhiozzo dell’infrastruttura e salvi alcuni individuali problemi dovuti ad errori di profilazione e/o abilitazione dell’utente singolo, risolti in gran parte dei casi - emergere sempre una corretta e piuttosto snella elaborazione del flusso, durato da un minimo di un minuto e trenta secondi ad un massimo di sette minuti e trenta secondi (nel caso più complesso in cui si è anche aperto e risolto live un ticket di profilazione con l’assistenza on line del CISIA) per l’intero flusso.
Le sessioni di train on job del Gruppo di lavoro distrettuale partenopeo hanno dato, invero, modo di registrare una media sensibile soddisfazione degli utenti nell’uso di APP per la fluidità del transito del flusso tra cancellerie GIP e segreterie PM, per l’eliminazione di carte-carrelli- commessi, soddisfazione che è stata più intensa nel caso dell’esercizio della sperimentazione delle modalità funzionali dei firma massiva, in uso in alcune Procure del Distretto. L’esercizio ha comportato l’esponenziale crescita delle richieste di abilitazioni di accesso da remoto ed ha riscontrato un upgrade delmodulo, grazie all’instaurazione di una collaborazione, costante e sinergica con il CISIA locale, che ha consentito la risoluzione live dei ticket aperti dagli utenti, alla presenza degli utenti stessi chiamati in call, e la registrazione di corrispondente riduzione esponenziale, come risultato di periodo, numero dei ticket, effetto derivante evidentemente dalla condivisione dell’esperienza.
La regolarità del funzionamento di APP (applicativo di flusso, regolarmente funzionante) è avvalorata dai rilievi effettuati fino al 31.1.2024 che, unitamente alla mappatura nazionale di archiviazioni depositate via/APP, e alle risultanze degli estratti statistici di accesso al sistema e di lavorazione delle pratiche di archiviazione, evidenziano che APP è utilizzato (circa 2000 utenti con circa 30.000 atti lavorati con APP). Osservando la distribuzione territoriale, circa il 45% degli atti lavorati si concentra nei distretti più grandi (Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli). Si registra, tra l’altro, che l’applicativo è stato utilizzato non solo per redigere e sottoscrivere atti relativi alla fase di archiviazione, obbligatori in formato digitale per legge, ma anche per la gestione di ulteriori fasi e provvedimenti del processo penale (ad esempio: avviso conclusione indagini, decreto penale di condanna, sequestri, etc).
I dati preliminari di rilievo lasciano emergere che le medie dei depositi di archiviazione in APP sono in decisivo calo rispetto allo scorso anno, per la fisiologica incidenza dei tempi di rodaggio derivati dall’epocale innovazione messa in campo, il che denota sicuramente un inevitabile rallentamento in avvio, ma non la sussistenza di una condizione di empasse o collasso degli Uffici dell’intera Nazione.
L’interattività e evolutività dell’applicativo ha peraltro consentito di recepire il contenuto delle segnalazioni ricevute dagli utenti e filtrate dai Gruppi di Lavoro sopra indicati, segnalazioni che sono state ricevute, completate, sviluppate, analizzate in corso d’opera e hanno infine dato luogo al rilascio di numerose patch migliorative e modificative, non comunque esaustive di tutte le istanze proveniente dalla base, selezionate evidentemente per priorità..
A titolo esemplificativo, sono state di consistente rilievo le segnalazioni che hanno consentito di prevedere varie implementazioni, alcune delle quali già rilasciate, altre in corso su APP1.0, e altre da inserire in APP 2.0 (Funzione gestione del team, Wizard per la voce capi di imputazione o punti di motivazione, Caricare modelli dall’esterno, Agenda), altre da elaborare (Emissione di atti urgenti per il personale di turno, messa in evidenza fascicoli di nuova assegnazione).
A titolo esemplificativo si indicano le seguenti implementazioni, come detto testé, rilasciate, previste, in corso, d’opera:
In generale, alla luce delle evoluzioni indicate e in corso d’opera e del prodotto finito, si deve evidenziare come non sia francamente opportuno decretare sic et simpliciter il fallimento dell’applicativo, senza tener conto dell’enorme percorso di cambiamento che esso involge, anche se l’attesa dei risultati concreti può spaventare. Invero APP, per sua natura imprescindibilmente iterativo, lavora per evoluzioni continue, recepite dalla interazione continua con gli stakeholders, in modo da permette di evolvere costantemente le evoluzioni, indirizzando requisiti che, in contesto così complesso, è normale che emergano dalla prova sul campo in ambiente reale.
Questa caratteristica è senza dubbio produttiva del collaterale effetto, verificatosi, di generare anomalie tecnologiche, rallentamenti a volte consistenti, ed errori di sistema ricorrenti, che devono essere prontamente indirizzati, il che va d’altra parte commisurato all'imponente numerosità di utenti che utilizzano l'applicativo su tutto il territorio italiano, anche questo, dato che merita opportuna analisi di fattibilità e adeguate tecniche di fronteggiamento.
Dai riscontri fatti in corso d’opera è emerso agli addetti ai lavori come l'evoluzione di APP sia stata guidata da principi di ingegneria del software di natura agile e iterativa. Questa elasticità, che per alcuni aspetti e che un approccio diffidente potrebbe essere considerata come uno svantaggio è, per contro, elemento connaturale degli applicativi evolutivi, che nel caso di APP ha permesso, non senza attese snervanti e difficoltà logistiche del caso, di implementare cicli di feedback continui, nel corso dei quali le modifiche e gli aggiustamenti sono stati apportati in base alle risposte degli utenti e alle sfide incontrate.
Deve d’altra parte essere precisato che le indicazioni sovranazionali sono inevitabilmente dirette a raccomandare la natura flessibile agile degli applicativi introdotti nel corso della transizione digitale dei processi giudiziari, al precipuo e concreto fine di adattarsi a diverse eccezioni e casi specifici che potrebbero emergere durante la trasformazione delle procedure giudiziarie o in relazione a soluzioni tecnologiche diverse che potrebbero essere adottate o evolversi nel futuro. L'agilità è un concetto che enfatizza la flessibilità, la risposta ai cambiamenti e la collaborazione continua. Nel settore del software, l’agilità è di un approccio alla gestione dei progetti e allo sviluppo del software che mette in primo piano i risultati, promuove la partecipazione degli stakeholders e favorisce il miglioramento continuo.
Questo metodo prevede la suddivisione dei progetti in fasi e l'iterazione per consegnare valore attraverso incrementi piccoli ma consumabili. In sintesi, l'agilità è caratterizzata da adattabilità, fluidità e agire in base ai risultati anziché a regole rigide[4]. L’agilità, si ripete, è una caratteristica naturale, tecnica, normativamente prevista per i software di gestione dei processi, e non può costituire, per converso, un difetto dell’applicativo. La rimodulazione dell'uso dell'APPalle sole archiviazioni traduce il significato della natura evolutiva ed agile dello stesso, e al contempo costituisce una dimostrazione dell’efficacia della cooperazione, un esempio di come gli obiettivi ambiziosi perseguiti siano stati rimodulati in risposta alle esigenze emergenti, rivelando la necessità di un ulteriore sviluppo e adattamento per il residuo campo del processo penale.
Si può ad attenta analisi dell’applicativo asserire che, anche se sotto molti aspetti APP, come compiutamente indicato nei report del Gruppo di Analisi, è perfettibile e imperfetto, da altro punto di vista esso appare all’uso quasi banale, user-friendly e idoneo a fronteggiare il divario di competenze digitali inevitabilmente riscontrabili in un organico così ampio come quello della magistratura. Dall’esperimento compiuto sul campo fin dal suo primo utilizzo emerge infatti come l’accesso all’applicativo APP non abbia mai richiesto una sia pur minima opera di alfabetizzazione digitale, non risultando elementi bloccanti scaturenti dalla inintelligibilità o non usabilità diretta dello stesso.
Nè può tacersi quanto la necessità di un ulteriore consistente sviluppo nella funzionalità di APP sia evidente, così come oggi sia ineludibile la necessità di un approccio adattivo per rispondere a queste sfide. Attraverso workshop, sessioni di feedback e test pilota, è stato fino ad oggi possibile a tutti gli attori della progettazione e sperimentazione chiamati ad interagire, convogliare input essenziali per garantire che l'applicativo rispondesse effettivamente alle esigenze degli utenti finali. Questo processo, carente peraltro di necessaria strutturazione, ha permesso di creare uno strumento che, per quanto non sembri (per antonomasia nel campo informatico – in quanto app - deve essere user-friendly), non solo appare tecnologicamente avanzato, proprio perché semplice, ma anche intuitivo e facile da usare per tutti gli operatori del settore giudiziario.
Può concludersi che APP appare certamente come un sistema evolutivo, giovane, per definizione elastico agli adattamenti richiesti dalle esigenze, emergenti anche in esercizio, pur non potendosi cogliere l’altro lato della medaglia, e cioè che gli adattamenti richiedono interventi che a volte necessitano del blocco dello stesso, patiti dall’utenza con disagio che aumenta esponenzialmente nel caso in cui debbano essere compiuti interventi per alcune ore continuative.
Il bilancio dell’esercizio di due mesi scarni di sperimentazione facoltativa (di undici degli uffici giudiziari, la maggior parte dei quali ha effettuato la sperimentazione riducendola a pochi componenti dell’ufficio e a poche attività) e di venti giorni di esercizio ha consentito di ricavarne dati rilevati a livello nazionale con l’uso diffuso di APP – salvi i casi del blocco delle infrastrutture che è oggetto di analisi localizzata - che sono il risultato della composizione di diversi co-agenti e di diverse connotazioni, dovute alla diversa complessità e composizione uffici, al maggiore o minore accesso al sistema, alla differente tenuta delle infrastrutture e del differente livello di alfabetizzazione digitale degli utenti.
Inevitabilmente l’attività di rodaggio e di assestamento ha influito in questi 20 gg dall’entrata in vigore della obbligatorietà, sui tempi di lavorazione delle richieste di archiviazione e si sono registrate sostanzialmente, alla data del 26.1.2024 le seguenti notazioni:
È un elenco di momenti impeditivi che incidono consistentemente sulla capacità performativa (e sulla funzionalità in senso lato dell’applicativo) e che connotano la presenza di carenze del sistema hardware, delle infrastrutture, piuttosto che di disfunzioni o blocchi del software APP, che nella sua modalità evolutiva, contempla in corso la risoluzione già avviata delle inadeguatezze sue proprie, di software (strettamente tali sono quelle sub 1, 2,3 e 4).
5. La somministrazione agli Uffici Giudiziari del prodotto. Il supporto fornito dal MdG e quello fornito da CSM-STO-RID-MagRif
In vista dell’avvio sperimentale e della successiva apertura a tutti gli utenti, la DGSIA ha progettato un articolato percorso di supporto agli utenti per l’utilizzo delle funzionalità previste dall’applicativo, da ottobre 2023 a giugno 2024, mediante sessioni formative e webinar, materiale formativo, video-pillole, FaQ, supporto dedicato di primo livello, tramite chat su piattaforma Teams, supporto da remoto prenotabile mediante booking integrato con Teams, presidio on site in distretti da parte di operatori dedicati ad integrazione del supporto da remoto.
Deve sottolinearsi come in questo contesto di primo piano sia il ruolo degli organi della Innovazione e i compiti a questi demandati dalla Circolare CSM del 6 novembre 2019 su Rid e MagRif, di interagire efficacemente sulle criticità e di trasferire il bagaglio esperienziale accumulato, compito fondamentale per l'efficientamento degli applicativi in generale e di APP in particolare. Il ruolo dei RID in base all'articolo 5 della Circolare Rid/Magrif si sviluppa sia in senso verticale, attraverso l’attività di informazione e formazione a cascata – tramite il collegamento RID/MAGRIF/colleghi dell’U.G. – sia in linea orizzontale mediante la collaborazione con i Dirigenti degli UU.GG. del Distretto, con la STO e con la VII Commissione del CSM. Sotto il profilo informativo, essi sono chiamati a diffondere la conoscenza dell'applicativo, spiegandone le funzioni principali e sollecitandone l'utilizzo e deputati a convogliare le informazioni sulle esperienze degli utenti e sulle criticità riscontrate, per poi trasmetterle agli organi di assistenza tecnica per invocare/guidare gli interventi correttivi ed evolutivi. Questi attori, attraverso un processo di feedback bidirezionale - essenziale per identificare e segnalare le disfunzioni tecniche e operative, contribuendo così all'evoluzione dell'applicativo- e di collaborazione con diverse entità istituzionali, possono e devono contribuire significativamente all'evoluzione e all'efficacia dell'applicativo, in linea con gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La rete dei RID, strutturata e rafforzata in concomitanza con l'adozione del PNRR, anche mediante l'utilizzo di strumenti di comunicazione come la mailing list nazionale dei RID/magrif istituita dal CSM e la creazione di TEAM dedicati alla sperimentazione dell'APP, faciliterebbe senza dubbio lo scambio di informazioni e esperienze. Sarebbe anche possibile progettare un modello piramidale del tipo train of trainers, sfruttando un meccanismo di trasferimento di informazioni e formazioni, da ciascuno dei Rid esperti a un gruppo di colleghi, che a propria volta potrebbe diventare formatore di altro gruppo, in modo da allargare la piattaforma della formazione, così che il circuito di conoscenze non si arresti. Così come si potrebbe utilizzare il network Cosmag-RID per condividere le best practices messe in campo dai vari UDI per l’efficientamento dell’applicativo.
[1] CEPEJ Gudelines on electronic court filing and digitalization of courts, 8-9.12.20221 37 th penary Meeting of Cepej
[2] Cfr Dedicated legislation, in Guidelines Consiglio d’Europa on digitalisation cit.
[3] Cfr Governance Strategy point 11 in Guidelines Consiglio d’Europa on digitalisation cit.
[4] Dedicated legislation point 6 Council of Europe guidelines on digitalization : number 3 of 2022-2025 CEPEJ Action Plan: All justice professionals contribute to the same public service, that of justice at the service of the user;they must therefore have easy-to-use, compatible, and efficient communication tools.
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