Sommario: 1. Il diritto e il fine vita pensando ad Arturo Carlo Jemolo - 2. Il cammino della giurisprudenza e del legislatore sul fine vita - 3. Perché serve la legge. Il diritto di amarsi con dignità fino alla fine della vita.
1. Il diritto e il fine vita pensando ad Arturo Carlo Jemolo
Vorrei cominciare la mia riflessione partendo da un incipit che più volte è stato richiamato nel corso dei lavori rappresentato dalla oramai storica espressione di Arturo Carlo Jemolo a proposito dei rapporti fra famiglia e diritto – un’isola che il diritto può solo lambire, ma lambire soltanto – dalla stessa prospettiva prudenziale mutuando un’idea di sostanziale sfavore per un intervento del diritto sulla materia del fine vita. Disfavore che si esprime, oggi, rispetto ad un intervento regolativo da parte del legislatore ma che, implicitamente, direi soffusamente, si rivolge a tutti quegli operatori del diritto che hanno con le loro condotte imposto all’attenzione della società e del mondo politico il tema del fine vita. E sì, perché, affermare che l’intervento del legislatore, oggi, andrebbe a “lambire” qualcosa che non appartiene al diritto ma semmai all’etica ed agli ambiti filosofici, altro non vuol dire che se ci si fosse attenuti alla regola del Prof. Jemolo non si sarebbe nemmeno dovuti giungere alle “risposte” che la giustizia comune - ordinaria ed amministrativa- e quella costituzionale hanno nel tempo offerto sul tema del fine vita. E risalendo ancor di più a ritroso il pensiero che si aggancia all’isola non v’è che chi non veda la nemmeno malcelata insoddisfazione per le risposte rese dalla giurisdizione sul tema, insoddisfazione questa volta di sostanza, che si appuntano contro la “direzione” intrapresa, considerandola a sua volta espressiva di un fare giurisprudenza creativa, scollato dalla tradizione giuridica ma, ancor più gravemente dalle coordinate costituzionali intessute attorno alla netta separazione fra ambito legislativo e giurisdizionale.
Le riflessioni che seguono, tutto al contrario, cercheranno di mettere in luce gli aspetti positivi che il “cammino” intrapreso dalla giurisprudenza sul tema del fine vita ha prodotto rispetto alla tutela della persona, per giungere ad alcune conclusioni di sistema su alcuni dei nodi scoperti che ruotano attorno al ruolo del giudice, ad i suoi rapporti con il legislatore ed alla funzione che il sistema costituzionale gli attribuisce.
2. Il cammino della giurisprudenza e del legislatore sul fine vita
Chi scrive ha già provato a misurarsi sul tema del fine vita.
Sono quindi allora qui sufficienti poche battute sul cammino della giurisprudenza e del legislatore sul tema del fine vita, per il resto rinviandosi alle riflessioni in passato esposte, per quel nulla che possano ancora valere[1].
Cass. n.21748/2007, nel decidere il caso Englaro e nel riconoscere il diritto della persona non più capace di interrompere, attraverso l’ufficio del tutore chiamato ad operare nel suo interesse, le cure che in situazione di coscienza aveva espresso di non voler ricevere se fosse caduta in uno stato di incoscienza, ha rappresentato il punto di svolta del sistema di protezione giurisdizionale del diritto all’autodeterminazione del malato, realizzato attraverso la valorizzazione di principi di valore costituzionale[2]. Pronunzia che rappresenta un vero e proprio paradigma di un modo di argomentare del giudice che guarda al diritto, anche in chiave comparatistica, come espressione dell’uomo nella sua complessità e che riempie i vuoti e le lacune mettendo al centro della decisione la persona umana e la sua dignità.
La sentenza n.21748/2007 è stata da una parte della dottrina – ed in verità non solo dalla dottrina – additata, probabilmente per le implicazioni umane vissute con sofferenza – ed in modo diametralmente opposto –, come esempio di travalicamento, attraverso il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata, dei compiti del giudice interno e dell’obbligo sullo stesso ricadente di applicare e non “creare” la legge.
Il giudice comune avrebbe dato vita, attraverso il caso concreto, ad una vera e propria manipolazione, con l’arma dell’interpretazione, dei valori e dell’ordine di priorità in cui sono disposti saccheggiando orientamenti giurisprudenziali “altri” che poco o nulla avrebbero rilievo nell’ordinamento interno e giungendo a risultati frutto di preferenze soggettive e di intuizioni emozionali capaci, addirittura, di aggirare il comando legislativo ed il vincolo di soggezione alla legge, fino al punto di mortificare il significato proprio del controllo incidentale di legittimità costituzionale. Secondo questa prospettiva il valore della dignità umana sarebbe diventato una sorta di artificio, in assenza di una posizione espressa dal legislatore in ordine alla possibilità di intervento sulla vita altrui da parte di soggetti pur legati da vincoli di parentela, oltre che sulla natura stessa dello stato vegetativo permanente e dell'alimentazione forzata. Sotto tale profilo la decisione dei giudici (di legittimità e di quelli di merito in sede di rinvio), conclamava un vero e proprio (grave) straripamento del (potere) giudiziario, mistificando le regole della "scienza", proiettate nel senso di riconoscere una pur limitata attività cerebrale anche nei soggetti che si trovano in tale sventurata condizione.
Ciò renderebbe l'attuale sistema antidemocratico, in balia della “tirannia dei valori”[3] e della giurisdizione allorché il giudice offre, spogliando i cittadini e chi li rappresenta, del potere di decidere ciò che è giusto e ciò che non è giusto o degno per un essere umano, modificando il modello costituzionale della tutela dei diritti, che riconosce al legislatore il compito di confezionare i diritti ed al giudice soltanto di applicarli e tutelarli.
Su altro versante si è cercato di mostrare, al contrario, le virtù della sentenza Englaro, stigmatizzando le critiche, a volte con toni peraltro inaccettabili, espresse contro i contenuti della decisione ed il modo di giudicare che essa rappresenta[4].
Qui è sufficiente ribadire che Cass. n. 21748/2007 si inscrive in quel movimento giurisprudenziale secondo il quale il giudice, di fronte al "silenzio" del legislatore, non può rimanere inerte rispetto ad una domanda di giustizia, ove questa sia giustificata e tutelata dal quadro dei principî scolpiti all'interno del sistema – integrato nel senso appena descritto – non essendogli consentito un non liquet. Rispetto all'assenza di un humus comune e condiviso, il giudice non deve né può indietreggiare o deflettere dal ruolo e dalla funzione che questi svolge allorché emergano, in termini sufficientemente chiari e prevedibili, dei principî di base che trovano la loro naturale collocazione all'interno delle Carte dei diritti fondamentali, per come vivificate dai rispettivi diritti viventi.
Comunque la si pensi rispetto alla sentenza Englaro, non si può negare che la legge n.219/2017, dedicata al tema della relazione di cura fra medico e paziente e alle dichiarazioni anticipate di trattamento, si muova sul binario tracciato dalla stessa pronunzia Englaro, ponendo al centro proprio quelle coordinate di base fondate sui canoni della dignità, dell’autodeterminazione e del consenso che la sentenza già evocata aveva valorizzato, diffondendosi con una disciplina, questa volta destinata ad operare in via generale e che si basa sull’alleanza del medico con il paziente, finalmente valorizzando anche sfere di interessi rimaste spesso poco considerate in passato (parenti, minori). Il tutto in una prospettiva tesa a salvaguardare la dignità del malato – e di chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità - secondo canoni di efficienza ed effettività sempre perfettibili e magari passibili di ulteriori e più ampie forme di tutela allorché il contesto sociale e le sensibilità che in esso maturano ne richiedano ulteriori approfondimenti.
La legge n.219/2017 appena ricordata aveva tuttavia un limite intrinseco, rappresentato dal combinato disposto dell’art. 1, c.5, e del comma uno dell’art. 2, laddove prende in considerazione la posizione del malato che decide di rinunziare o rifiutare i trattamenti sanitari necessari per la propria sopravvivenza e che, per tale scelta, si trova esposto alle sofferenze fisiche e psicologiche che si presenteranno in esito a tale scelta. Il legislatore ha previsto, anche in questi casi, un intervento attivo del medico, questa volta non orientato a salvaguardare il prolungamento della vita del malato, ma a garantire l’apprestamento di condotte di sostegno anche sanitario - legge 15 marzo 2010 n.38 - a beneficio del medesimo.
Ci si chiedeva, dunque, fino a che punto si potesse spingere l’attività di sostegno in favore di chi decide, in fase terminale, di non volere più vivere, ritenendo che un’esistenza martoriata dal dolore e dalla sofferenza equivalga ad una ‘non vita’ e sia contraria alla propria dignità. Poteva il malato chiedere l’aiuto a porre fine alla propria esistenza quando non è in condizioni di autonomamente realizzare il proprio proposito? Quali conseguenze derivavano a carico di chi, esercente o meno la professione medica, offriva il proprio contributo attivo al fine di realizzare siffatto proposito? Il sistema sanitario doveva farsi carico di venire incontro a tale esigenza e fino a che punto poteva essere preteso un intervento in tale direzione da parte del medico?
A questi e ad altri interrogativi non forniva risposte complete la legge n.219/2017, essa limitandosi ad escludere che il paziente non potesse pretendere dal sanitario trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Rispetto a tali richieste, dunque, il medico, afferma il comma 6 dell’art. 1 della l. n.219/2017, “non ha obblighi professionali”.
Non si dubitava, peraltro, che la legislazione in vigore non consentisse al medico che ne fosse richiesto, di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni sopra descritte, trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. – cfr. Corte cost. n.207/2018[5] e Corte cost.n.242/2019[6] –.
È dunque questo il contesto nel quale intervengono le due pronunzie della Corte costituzionale sulla triste vicenda del dj Fabo, che sono state scandagliate dagli altri relatori e, per parte di chi scrive, già oggetto di separata riflessione, mostrando apertis verbis il vuoto di tutela in atto esistente nell’ordinamento.
E ciò perchè è proprio l’esame congiunto delle due pronunzie a confermare come le stesse, nate in un ambito prettamente penalistico, nel quale dunque i giudici costituzionali erano stati chiamati a verificare gli effetti di una condotta agevolativa dell’accelerazione al fine vita del dj Fabo, hanno poi visto i giudici costituzionali offrire una risposta, o se si vuole un progetto di risposta, che ha ampliato enormemente il tema di indagine e non ha guardato soltanto al problema dei riflessi penalistici della condotta, ma ha tentato di scrutare il tema generale. Una risposta che ha coinvolto il diritto, si è detto prospettato prima ed accertato con l’ultima pronunzia, di ogni persona in condizioni di malattia irreversibile ad accelerare la fine della vita nella ricorrenza di determinati – e, per i più, tassativi – presupposti fissati dalla stessa Corte costituzionale.
I seguiti che la giurisprudenza costituzionale ha prodotto nella giurisprudenza comune, dopo avere certificato l’impossibilità di ovviare alla lacuna normativa esistente, con il proposto referendum, rendono plasticamente urgente ed ineludibile un intervento “di cornice” del legislatore.
Le poche riflessioni che seguono saranno dunque orientate a rendere palese le ragioni di tale duplice esigenza.
3. Perché serve la legge. Il diritto di amarsi con dignità fino alla fine della vita
Stefano Rodotà ci ha consegnato un testo molto interessante e delicato, dedicato al tema “amore e diritto”.
In esso non manca, ancora una volta, un attento richiamo alla frase di Jemolo già ricordata. Richiamo che, per l’un verso, è riconoscimento tangibile della centralità, nel pensiero di Jemolo, del tema degli affetti e (ma) per altro verso, si presta ad un’analisi in qualche modo critica sull’idea che il ritirarsi del diritto di fronte a ciò che è amore ed a lasciare che esso sia "isola" non lasci davvero irrisolti alcuni nodi che riguardano, appunto, il tema del rapporto fra amore e diritto[7]. Si trattava, allora, di un’analisi incentrata su tratti apparentemente diversi da quelli che qui oggi esaminiamo, destinati ad incollarsi con una scelta (tragica) di morte che sembra istintivamente collocarsi in un campo “altro” rispetto a quello dell’amore. Ambiti nei quali, al momento in cui il libro venne alla luce (2015, ma in realtà pensato ancor prima come l’Autore attesta nel ringraziamento finale) non solo non vi era una legislazione interna sulle unioni civili ma nemmeno era stata emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo la sentenza Oleari c. Italia.
Insomma, un’epoca nella quale l’assenza di una legislazione sul tema delle unioni omosessuali era avvertita da Rodotà come lesiva del diritto d’amare e, dunque, della dignità dell’uomo. L’assenza di legislazione nella materia anzidetta aveva il senso di una privazione di garanzia all’amore nella sua pienezza (p.19).
Ed è qui che l’analisi di Rodotà intercetta il tema dell’autodeterminazione, ragionando attorno alla tutela del diritto alla salute. Un principio fondativo, scolpito da Corte cost. n.438/2008 prima e dalla giurisprudenza della Corte edu – in particolare (Corte edu, Pretty c. Regno Unito) e di legittimità, poi[8].
È proprio questa analisi a tornare utile quando ci si interroga sull’opportunità o meno di una legislazione in materia di fine vita.
A sommesso avviso di chi scrive, vi è la necessità di offrire una tutela effettiva al diritto di ogni persona di liberamente autodeterminarsi rispetto alla propria esistenza, purché questo si concili con altre imperiose esigenze correlate alla fragilità delle persone coinvolte, alla piena libertà e capacità di esprimere validamente il consenso verso una scelta irrimediabile, dopo che essa si manifesta ed è posta in esecuzione.
Il che conferma che in materia esistono diritti fondamentali da tutelare e, fra questi, quello di amarsi fino alla fine con dignità del malato terminale che decide, secondo il proprio convincimento, di volere cessare di vivere. Senza tuttavia dimenticare che questo diritto fondamentale non può essere considerato assoluto e tiranno, ma deve convivere con altre esigenze parimenti fondamentali che attengono alla stessa persona ed al suo essere parte di una comunità.
Questo sembra essere, in definitiva l’insegnamento da trarre dal composito esame delle giurisprudenze delle Corti nazionali e sovranazionali che si sono espresse sul tema.
Se il diritto alla cura e al rifiuto alle cure è già oggi da considerare meritevole di piena tutela, ove espresso e procedimentalizzato secondo i canoni fissati dalla l. n.219/2017, è proprio la necessità di offrire parimenti tutela, nelle forme che il legislatore intenderà fissare sulla base della griglia di indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, al diritto a porre fine alla propria esistenza con dignità, a reclamare con forza una disciplina normativa che consenta a quel diritto fondamentale, scolpito attorno ai canoni di dignità-autodeterminazione-fragilità, di realizzarsi pienamente ed in modo effettivo.
Ed infatti, il varco aperto nella legislazione penale dalla Corte costituzionale ma, ancora di più, l’avere concretizzato - o inventato, per usare la felice (ed al tempo stesso solo apparentemente provocatoria) espressione dell’indimenticato Paolo Grossi – il diritto al suicidio assistito, secondo paradigmi e contenuti che il giudice delle leggi ha fissato, per giungere alla caducazione parziale dell’art. 580 c.p., ha inevitabilmente calamitato nel sistema in una situazione di incertezza sul quomodo con il quale questo diritto a por fine alla propria esistenza debba essere declinato, su quale debba essere il ruolo del servizio sanitario nazionale e dei comitati etici nell’attuazione dello stesso, sulle modalità operative, sull’obiezione di coscienza da eventualmente riconoscere al sanitario.
Insomma, un fascio di questioni alle quali non possono non aggiungersi quelle imposte dall’interpretazione che le Corti di merito hanno offerto delle condizioni legittimanti il c.d. suicidio assistito, confrontandosi con “casi della vita” in parte diversi da quello preso in esame dal giudice costituzionale.
Ora, chi scrive è dell’avviso che l’attuale situazione sia al tempo stesso fisiologica e patologica. Lo è nel primo senso laddove si considera che il giudice nazionale al quale sono posti casi della vita da risolvere originati dalle sentenze della Corte costituzionale già ricordate è responsabile delle decisioni che gli sono sollecitate, alle stesse non potendo opporsi con una semplice presa d’atto che manca una legge. Posizione che non lo renderebbe fedele alla Costituzione (art.54) ed agli obblighi che nascono dalla funzione giurisdizionale che lo stesso esercita. E nella stessa prospettiva non si può nascondere l’utilità della formazione progressiva di un diritto vivente che, proprio in relazione alla mutevolazza dei casi della vita, offra soluzioni concrete nello stigma fissato dalla Corte costituzionale[9].
Come ci è capitato altre volte di osservare, gli operatori di giustizia non possono nascondersi dietro un dito e non considerare che le coordinate di un sistema nel quale la produzione del diritto è sempre più plurale, promanando da centri di imputazione che la democrazia, le sue regole, e in particolare quelle che la Costituzione ha fissato, individuano come “motori propulsori” dei diritti al servizio della società. E tra questi sono proprio i casi della vita a dimostrarsi spesso difficili, onerosi, complessi per chi è chiamato a giudicare, esponendolo a ruoli e modi di essere che non gli sono congeniali, egli essendo ontologicamente chiamato a condannare o assolvere, più che ad essere arbitro delle esistenze altrui.
Ma è pure vero che la funzione giurisdizionale è essa stessa figlia del suo tempo, della coscienza sociale, della cultura di un popolo, anche quando è chiamata a verificare la coerenza, attualità e capacità del sistema normativo vigente di rispondere alle esigenze avvertite da chi è parte della società[10].
Detto questo non si può non convenire con chi – R. Bin[11] e da ultimo, G.Luccioli, nel suo saggio, intenso, dedicato al tema del fine vita[12] – auspica un intervento del legislatore in materia. Non vi è alcuna contraddizione, almeno agli occhi di chi scrive, fra quanto fin qui detto e l’esigenza di un intervento normativo che “universalizzi” le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, affidando al legislatore il bilanciamento fra i valori che si fronteggiano in materia e dia veste normativa agli auspici espressi dalla Corte costituzionale a proposito della creazione di un processo medicalizzato, prevedendo eventualmente la riserva esclusiva al servizio sanitario nazionale, in uno all’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto – p.10 Cons.in diritto sent.n242/2019 –.
Ora, sembra evidente che porsi dal lato di chi evoca, ancora una volta, per rispettabilissime ragioni di natura etica, l’idea dell’isola per rappresentare l’intendimento sfavorevole ad una regolamentazione in via normativa del fine vita avrebbe il senso di una regressione verso posizioni di “non diritto” che, per converso, contrastano con le indicazioni della Corte costituzionale.
Ovvia l’obiezione ad una simile conclusione di chi ha stigmatizzato il “suprematismo giudiziario” della Corte costituzionale proprio in questo ambito – Bin[13] per tutti – e contesta l’ortodossia costituzionale della posizione espressa in tema di suicidio c.d. assistito.
Ma a tale obiezione si può agevolmente opporre il solido aggancio del diritto al suicidio assistito ai valori costituzionali e, soprattutto, alla dignità della persona. Dacché la mancata regolamentazione dell’attuale assetto desumibile dal diritto vivente non può che generare una situazione di caos alla quale il legislatore può porre rimedio per offrire una cornice di principi che siano poi attuati in relazione ai singoli casi della vita dal giudice. E ciò anche in modo da offrire una regolamentazione essenziale sul ruolo dell’autodeterminazione, in relazione alla situazione di fragilità nella quale si trova coinvolto il paziente che decide di porre fine alla propria esistenza. Tema, quest’ultimo che richiede particolare attenzione quando sono coinvolti minori di età[14].
Quanto al quomodo dell’intervento normativo[15], altre volte abbiamo provato a rappresentare l’idea che la materia di cui si discute si presta ad una disciplina mite, nella quale la cornice dei principi che il legislatore deve fissare offra poi all’interprete la possibilità di attuarla in relazione alla molteplicità e diversità dei casi della vita, in modo da offrire una risposta alla domanda di giustizia, quanto più rispondente ai canoni ed ai valori che qui si è provato a sunteggiare.
Chi scrive crede davvero nel canone della fiducia che deve animare gli operatori che compongono il frastagliato pianeta giustizia. Una fiducia che, come ha di recente scritto Tommaso Greco[16] deve tendere a creare una stabile rete di collegamento fra i diversi protagonisti del diritto, animandoli a cooperare in vista di un diritto più flessibile, più mite o più duttile[17].
Occorre dunque adoperarsi, ad ogni livello, in una prospettiva di ricercata alleanza fra mondo politico ed operatori del diritto. Alleanza che consenta al legislatore di esaminare il diritto giurisprudenziale fin qui emerso per valutarne la congruenza rispetto agli obiettivi che esso intende perseguire, ma anche agli altri operatori del diritto di offrire indicazioni che potrebbero tornare utili allo stesso legislatore, senza con questo invadere competenze altrui, ma appunto mettendo a disposizione dell’organo legittimato a provvedere, la propria esperienza da giudice e da giurista al servizio delle istituzioni. Tutto ciò in vista di un obiettivo comune che vede nella “rete” l’idea migliore per cooperare insieme agli altri costruttori del diritto e che viene ormai indicato come paradigma sul quale il diritto non può che fondarsi a fronte della sua pluralità[18]. Il che, in definitiva, sembra essere una prospettiva sulla quale potere e dovere investire fruttuosamente.
Non resta, a questo punto, che dedicare a chi è giunto fino a questo punto della lettura le parole di Guido Calabresi sul tema del dialogo[19], nella speranza che esse possano essere fatte proprie da tutti gli operatori del diritto con coscienza, coraggio e responsabilità emarginando suggestioni pericolose che ventilano più o meno apertamente lo spettro di omicidi per sentenza.
Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali. Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, raccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto.
[1] Sia consentito il rinvio a R.G.Conti, Scelte di vita e di morte. Il giudice è garante della dignità? Roma, Aracne, 2019.
[2] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2019., 91.
[3] Cfr., S. Staiano, Legiferare per dilemmi sulla fine della vita: funzione del diritto e moralità del legislatore, in il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di A. D’Aloia, Napoli 2012, 391, che ricorda la lezione schmittiana sull’assolutezza della legge accompagnata da una Costituzione priva di norme di garanzia a presidio della persona.
[4] G. Ferrando, Diritto alla salute e autodeterminazione tra diritto europeo e Costituzione, in Pol. Dir., 2012,1, 3 ss.
[5] A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. ord.n.207 del 2018), in Consultaonline, n.1/2019.
[6] A. Ruggeri, La disciplina del suicidio assistito è “legge” (o, meglio, “sentenza legge”), frutto di libera invenzione della Consulta (a margine di Corte cost., n.242 del 2019), in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV. Studi dell’anno 2020, Torino, 2021, 47 ss.
[7] S. Rodotà, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, in particolare, 11,12 e 18.
[8] V. volendo, senza pretesa alcuna di esaustività per solo per comodità di chi scrive e vantaggio di sintesi in questa sede, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2015, 122 ss.
[9] Sia consentito il rinvio a R. G. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto UE, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino, 2017, 99.
[10] Tornano alla mente le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”- P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020.-
[11] R. Bin, Il giudice tra Costituzione e biodiritto, in Scritti in onore di Antonio Ruggeri, Napoli, 2021, Vol.I, 460.
[12] Sul quale v., volendo, la recensione al volume di chi scrive R. Conti, Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022, in Giustiziainsieme, 4 settembre 2022.
[13] R. Bin, Cose e idee. Per un consolidamento della teoria delle fonti, in Diritto costituzionale, Rivista quadrimestrale, 2019, 20 ss.
[14] Tema sul quale in passato si è provato a riflettere in R.G.Conti, Il giudice e il biodiritto, in Trattato di diritto e bioetica, a cura di A. Cagnazzo, Napoli, 2017, 62.
[15] A. Ruggeri, Ancora su Cappato e la progettazione legislativa volta a dare seguito alle indicazioni della Consulta, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV. Studi dell’anno 2020, cit., 590, da tempo suggerisce l’utilizzazione di una legge costituzionale, in ragione della materia che si situa nel cuore della Costituzione, attenendo a vicende relative al fine della vita che coinvolgono beni di primario rilievo.
[16] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2021.
[17] T. Greco, op.cit., 120.
[18]Cfr., ancora, B. Pastore, Interpreti e fonti, cit., 28 ss.
[19] G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013, 76.