La città della Palla ovale, il campione biondo, la memoria e il futuro
(alla mia città, a 15 anni dalla notte che ci cambiò la vita)
di Paolo Spaziani
Non ricordavo altro se non che fosse domenica, tra il 1987 e il 1989.
Doveva essere una domenica di primavera inoltrata perché il cielo era nitidamente azzurro, il sole, luminoso, induceva ad allentare i cappotti e le cime del Corno Grande e del Pizzo Cefalone abbacinavano di neve bianca, fresca di alcuni giorni.
Lungo il primo Corso, salendo dalla Villa verso la Piazza, si sentiva il vociare dei pronostici. Il rurale dialetto imbuffoniva le parole inglesi. Ma la consapevolezza della tecnica e della tattica induceva serietà e attenzione.
Era una delle nostre cose, il rugby. Come lo erano i nostri tratturi montani. Come le nostre nevi perenni. Come il Castello degli spagnoli e la Cattedrale di San Massimo.
Era l’unica parola inglese pronunciabile in aquilano.
Dal Duomo uscivano quelli della messa di mezzogiorno. I più mattinieri erano stati a quella delle Anime Sante, venti metri più avanti. Gli uni e gli altri si dirigevano, felici, verso i Quattro Cantoni.
Davanti all’Eden si sentiva il profumo delle bombe fritte alla panna. Vi facevano colazione gli studenti che venivano dai Gesuiti e gli anziani che scendevano da Piazza Chiarino.
La Fontana Luminosa era come una statua di ghiaccio. Tra i bellissimi corpi nudi, più basso della conca, si vedeva il Corno Grande. Quando il cielo era così terso, sembrava guardasse poco oltre i pini del Castello.
In basso, lo Stadio era ancora vuoto. Ma più tardi, dopo il pranzo domenicale, nella migliore tradizione aquilana, tutta la città, festante, vi si sarebbe riunita; per sostenere i propri figli, ma anche per onorare i rispettati avversari veneti, la grande squadra di Treviso.
Quel giorno, come ogni domenica, era il giorno della palla ovale.
«Come fai a fumare le Camel se devi giocare? Almeno prendi le Merit! Sono più leggere!»
Giuseppe, il banchista del bar dello Stadio, non sapeva che la sigaretta più buona non è quella dopo pranzo o dopo il caffè, come di solito si dice, ma quella tra il primo e il secondo tempo: quando, negli spogliatoi, il fumo del tabacco sposa l’odore lieve del prato a quello aspro e forte del sudore.
Nero Verdi contro Bianco Verdi. Una sfida classica, quasi sempre (ma non sempre) vinta da loro. Spesso più forti. Sempre fratelli leali di una battaglia comune. Ci rispettavano, li rispettavamo. Li amavamo, ci amavano.
Il rispetto era negli occhi che si incrociavano tra gli avanti nella mischia chiusa; nelle braccia dei trequarti che non placcavano mai oltre il grosso tronco; nelle urla del tallonatore prima di battere le touches; nelle mani dei mediani di mischia; nei piedi dei mediani di apertura.
Da qualche tempo i Bianco Verdi erano ancora più forti. Avevano ingaggiato il trequarti ala più forte del mondo.
Veniva dalla Nuova Zelanda, aveva vinto con gli All Blacks il primo mondiale. Era bellissimo e velocissimo. Ai mondiali, contro l’Italia, aveva segnato dopo 70 metri di corsa solitaria, dalla linea dei 22 a quella di meta.
Avevano provato a placcarlo in sette, senza riuscirvi. Era la meta che tutti i numeri 14 vorrebbero realizzare; che nessun altro ha mai realizzato.
Quel giorno avrebbe giocato contro di noi.
Lo guardai a lungo, in campo. Il corpo snello, i possenti quadricipiti, i dolci capelli biondi: sembrava nato per correre; con la palla ovale sotto il braccio.
Giocammo bene. Come spesso ci accadeva di fare al Tommaso Fattori, stadio imprendibile per i più.
Dopo essere andati sotto riuscimmo a contrattaccare. Alla mano, come nel rugby dei sogni, senza smettere, con fasi continue, in apnea, da destra, da sinistra, quindi ancora da destra. I passaggi riuscivano, le idee venivano, la stanchezza sembrava lontana.
I Bianco Verdi erano chiusi nei loro 22. Erano nelle nostre mani. Avremmo segnato da un momento all’altro.
Poi, l’imprevedibile, per chiunque non sappia della dimensione ultraterrena che il rugby può assumere nelle persone dei più grandi.
Il campione del mondo vede l’unico pallone intercettabile tra i nostri trequarti. Si getta sull’ovale. Angelicamente, lo prende sotto le sue ali. Esplodono i muscoli delle sue gambe. Bruciano l’erba del prato le sue scarpe. Evita una selva di braccia, pur retrocesse, generose, a rincorrerlo. Rimane solo, dardo luminoso irraggiungibile, nell’immensità del campo. Trafigge i pali e i nostri cuori prima di regalarci la maglia numero 14.
Avevo questi pensieri mentre camminavo per le strade ferite, tra i sassi e i cani. Le ombre di gigantesche gru nascondevano profili di case rotte. Le nevi non più perenni del Monte Corno sembravano appassire in un perenne autunno.
Nel prato deserto del Fattori rivedevo le immagini di una partita di rugby e la corsa di un campione; nel suo silenzio identificavo il dolore di una città.
Oggi, dopo quindici anni, quel dolore mi trova impreparato mentre percorro le stesse strade ben curate e guardo le stesse case sontuosamente ricostruite.
Non basta la rinnovata bellezza delle nostre piazze e dei nostri palazzi, l’azzurro intenso del nostro cielo, la bella purità di Nostra Signora di Collemaggio, la maestosa incombenza di San Bernardino, l’apollinea struttura della raffaellita San Silvestro.
I visi delle Anime Sante dapprima mi rimproverano per non essere con loro, di poi mi rassicurano di essere con me.
La voce del mio professore di latino risuona ancora dei versi di Saffo, nelle care itale note di cui li vestì Catullo.
Lei mi sorride, ricordandomi le notti d’agosto sotto il cielo stellato di Pagliare e le parole infinite al fumo di una Marlboro fumata in due.
Un altro campione biondo mi reca l’odore dell’erba del campo di Lucoli e il ricordo della gelida doccia che dividevamo di corsa mentre dalla finestra degli spogliatoi fiocchi di breve argentea illuminavano il monte di Campo Felice.
Sono la nostra memoria e il nostro futuro.
Ora che anche Santa Maria Paganica sarà ricostruita, ora che riapriranno i portici del Liceo, ora che torneranno le bombe dell’Eden, ora che il Fattori si rianimerà: ecco la mia città e i miei campioni; con la palla ovale sotto il braccio.