ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT (nota a Corte dei conti, sez. riunite, 19 ottobre 2023, n.17).
di Stefania Florian
Sommario: 1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento. 2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon. 3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale. 4. Conclusioni.
1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento.
La fattispecie oggetto di indagine concerne le modifiche apportate dall’art. 23 quater del d. l. 28 ottobre 2020, n. 137 (inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176) all’art. 11, co. 6, lett. b) c.g.c, che limitano la giurisdizione esclusiva in unico grado delle Sezioni riunite della Corte dei conti sui giudizi in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT ai soli fini dell’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul problema dell’interpretazione del citato art. 23 quater e del connesso art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato nel 2020, si è pronunciata non definitivamente, con sentenza del 19 ottobre 2023, n. 17, la Corte dei Conti, a Sezioni riunite, in sede giurisdizionale, in un giudizio che vedeva la Società Autostrade del Brennero S.p.a. come parte ricorrente, che, essendo inserita come Amministrazione pubblica nell’elenco del conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche per l’anno 2023 e concorrendo, perciò, alla determinazione dei saldi di finanza pubblica, sarebbe sottoposta alla «disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica» ai sensi dell’art. 11 del c.g.c. La ricorrente, perciò, contestando il proprio inserimento in suddetto elenco in forza dell’assenza dei presupposti per l’iscrizione, chiedeva l’accertamento e la declaratoria della non applicazione nei suoi confronti della disciplina di cui all’art. 11 del d. lgs. 26 agosto 2016, n. 174 e s. m.; l’accertamento e la declaratoria dell’insussistenza dei presupposti per la sua qualificazione come «amministrazione pubblica» in violazione dell’art. 1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 e s.m. e della disciplina europea contenuta nel SEC 2010; nonché l’annullamento, previa sospensione degli effetti, dell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, pubblicato nella G.U. – Serie generale n. 229 del 30 settembre 2022, nella parte in cui l’Istituto Nazionale di Statistica ha inserito, tra le «Altre amministrazioni locali», la Società Autostrada del Brennero S.p.a. per l’anno 2023 e di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente[1].
La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede giurisdizionale, nel dispositivo, ritenendosi giurisdizionalmente competente, si pronuncia non definitivamente disapplicando l’art. 23 quater – recepito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 – poiché tale disposizione, precludendo non solo una decisione con effetti erga omnes come l’annullamento o la disapplicazione, ma anche una sentenza meramente dichiarativa dell’insussistenza dei presupposti per la qualificazione della ricorrente come Amministrazione pubblica ai sensi dell’art.1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di contabilità e finanza pubblica) e del regolamento UE 594/2013, non garantirebbe il principio di effettività della tutela giurisdizionale e dell’effetto utile e dispone, conseguentemente, la propria cognizione su tutte le domande proposte rinviando, con separata ordinanza, gli incombenti istruttori ai sensi degli artt. 94 e 96 c.g.c. e la fissazione dell’udienza.
La pronuncia della Corte dei conti troverebbe fondamento nel rilievo per cui l’art. 23 quater in esame si porrebbe in contrasto sia con il diritto comunitario, sotto il profilo della violazione del «diritto al ricorso» di cui all’art. 47 CDFUE e del combinato disposto di cui agli artt. 52, par. 3 CDFUE e 6 CEDU, sia con la Costituzione, per la violazione degli artt. 3, 24, 97, 103, 111, 113 Cost. L’impedimento arrecato dalla disposizione in esame all’attuazione del principio dell’effetto utile dei regolamenti e della direttiva 85/2011/Ue, nonché del principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto sia dalla Costituzione, sia dal diritto dell’Unione[2], avrebbe condotto, perciò, la Corte dei conti a disapplicare l’art. 23quater in esame. Questo impedimento all’attuazione dei principi comunitari sembra determinato dall’adesione alla tesi dell’impossibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale, che potrebbe ipotizzarsi nel caso in cui si escludessero dalla cognizione giurisdizionale della Corte dei conti i giudizi aventi ad oggetto una normativa diversa da quella nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul punto la sentenza in commento evidenzia le contrapposte posizioni assunte dalla parte ricorrente e dalla parte resistente. L’Avvocatura dello Stato, da un lato, ravvisa nel limite introdotto dall’art. 23quater, relativo alla cognizione della Corte dei conti, uno spazio per la tutela di quelle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto comunitario da parte del giudice amministrativo[3], evidenziando come il citato articolo, se fosse interpretato nel senso di circoscrivere la possibilità di proporre ricorso alla Corte dei conti contro l’elenco ISTAT nel solo caso di applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non sarebbe incompatibile con il diritto dell’Unione (in particolare, con il regolamento n. 549/2013 e con i principi di effettività e di equivalenza) perché sarebbe comunque garantita agli enti interessati una tutela giurisdizionale effettiva.
Di contro, la ricorrente ritiene non configurabile una doppia giurisdizione speciale, perché in contrasto, da un lato, con il principio di «tassatività» sancito dagli artt. 25 e 111, co. 1 Cost. e, dall’altro, con gli artt. 103, co. 2, e 100 Cost., che individuano la Corte dei conti come il giudice competente in materia, rispettivamente, di contabilità pubblica e di controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, nonché sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria[4]. La tesi che si oppone alla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, perciò, esclude qualsiasi deroga alla designazione del giudice contabile come giudice competente in materia di corretta determinazione dei saldi di bilancio [5].
La Corte dei conti, oltre a condividere le ragioni della parte ricorrente, a conforto della scelta di procedere alla disapplicazione evidenzia il carattere self executing del regolamento n. 549/2013 (il cui allegato A è noto come SEC 2010) – parte di un sistema normativo comprensivo della direttiva n. 85/2011/Ue e del regolamento 471/2013/Ue – che rimetterebbe allo stesso giudice a quo la verifica del superamento del limite del principio di autosufficienza del ricorso, che sarebbe configurabile nel caso in cui il ricorrente fosse costretto a proporre più di un ricorso per l’esame della propria domanda. A questo riguardo, la sentenza in commento riporta un rilievo della Corte costituzionale che, nella sentenza dell’11 marzo 2022, n. 67, osserva che «in caso di doppia pregiudizialità, ove, per effetto di una sentenza della Corte di giustizia, vi sia certezza dell’esistenza di un diritto Ue direttamente applicabile, è onere del giudice a quo riscontrare, a pena di inammissibilità, la possibilità di una interpretazione conforme al diritto europeo (cfr. ex plurimis, C. cost. sentt. n. 7 e n. 166/2004, n. 406/2005, n. 129/2006) ovvero la sussistenza dei presupposti per la «non applicazione» della disciplina interna (C. cost. sent. n. 170/1984)»[6], che imporrebbe, perciò, la disapplicazione[7]. Nella fattispecie in esame, pertanto, il giudice adito, esclusa l’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale e rilevata l’incompatibilità del sistema giurisdizionale interno con quello comunitario, disapplica l’art. 23 quater del d.l. 137/2020[8].
2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon.
La Corte dei conti, nella sentenza in commento, nel porre a fondamento della pronuncia con la quale disapplica l’art. 23 quater in esame il principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto dal diritto dell’Unione[9], richiama la sentenza della CGUE, Sez. I, del 13 luglio 2023, Cause riunite C-363/21 e C-364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon[10], che affronta alcune questioni utili all’inquadramento della fattispecie in esame.
Anche le richiamate cause riunite – in cui si contrappongono, rispettivamente, Ferrovie nord S.p.a. e la Federazione italiana Thriathlon (FITRI) all’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) in merito all’iscrizione di Ferrovie nord e della FITRI nell’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato delle autorità pubbliche – affrontano il problema dell’interpretazione dell’art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato dall’art. 23 quater d. l. 137/2020 c.g.c. e, a fronte delle contrapposte posizioni assunte dalle parti ricorrenti e dalle resistenti principali sull’interpretazione da attribuire alla citata disposizione, la Corte dei conti decide di sospendere i procedimenti e di adire la CGUE affinchè chiarisca «se i regolamenti n 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche»[11]. Ad avviso del giudice del rinvio, non dissimilmente dalle posizioni assunte dal giudice della sentenza in commento, la limitazione di competenza introdotta dall’art. 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 determinerebbe un’assenza di controllo giurisdizionale in merito alla fondatezza della designazione di determinati enti come Amministrazioni pubbliche. «Di conseguenza, tale limitazione escluderebbe la corretta applicazione delle regole contabili e di bilancio dell’Unione contemplate tanto dal regolamento n. 549/2013 quanto dalla direttiva 2011/85 e, pertanto, il rispetto dei requisiti indicati all’articolo 126 TFUE e nel Protocollo n. 12»[12]. In particolare, la disposizione in esame, secondo il giudice del rinvio delle cause riunite, escluderebbe anche «qualsiasi controllo indipendente sulle autorità di bilancio nazionali, quale previsto da detta direttiva e dal regolamento n. 473/2013, nonché la garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva come sancito dall’articolo 19 TUE e dall’articolo 47 della Carta»[13]. Il medesimo giudice del rinvio osserva anche che nel caso in cui si ammettesse che l’art. 23 quater in esame abbia ristretto la competenza della Corte dei conti, estendendo, nel contempo, quella del giudice amministrativo, si porrebbero comunque dei dubbi sulla conformità del medesimo articolo con il principio della tutela giurisdizionale effettiva, poiché le ricorrenti dovrebbero «proporre due distinti ricorsi dinanzi a due giudici differenti per far valere i propri diritti, il che rischierebbe di ledere il principio della certezza del diritto in ordine alla determinazione del loro status con riguardo all’attuazione del regolamento n. 549/2013»[14].
Alla luce delle questioni poste dal giudice a quo, la CGUE ha ritenuto necessario «verificare, da un lato, se l’assenza di possibilità di contestare la fondatezza dell’iscrizione di un ente come amministrazione pubblica nell’elenco ISTAT, quale derivante, ad avviso del giudice del rinvio, dall’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020, confligga con le prescrizioni scaturenti dai regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013 nonché dalla direttiva 2011/85 e, dunque, con l’efficacia di questi ultimi nonché con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva stabilita dal diritto dell’Unione. Dall’altro lato occorre esaminare, se tale articolo 23 quater, come interpretato dai convenuti di cui ai procedimenti principali, sia conforme all’esigenza di una siffatta tutela giurisdizionale effettiva»[15].
Sulla prima questione la CGUE rileva che al fine di assicurare che l’autorità nazionale competente rispetti la definizione del diritto dell’Unione di un ente come «amministrazione pubblica», ai sensi del regolamento n. 549/2013, la sua decisione deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale. L’effetto utile di detto regolamento, perciò, ad avviso della Corte europea, «osta ad una normativa nazionale che escluda, di fatto, qualsiasi possibilità di controllo giurisdizionale della fondatezza della qualificazione di un ente come amministrazione pubblica»[16]. L’assenza di un controllo giurisdizionale sulla qualità di «amministrazione pubblica» determinerebbe, poi, anche una compromissione della finalità e dell’effetto utile della direttiva 2011/85[17] se «i dati di bilancio di enti fossero pubblicati e trasmessi alla commissione (Eurostat) pur in assenza, in capo a tali enti, della qualità suddetta»[18].
Con riferimento, poi, alla verifica dell’idoneità dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 a soddisfare la necessità di un controllo indipendente sulle autorità di bilancio dello Stato membro interessato risultante dal regolamento n. 473/2013 e dalla direttiva 2011/85, la CGUE rileva che tali testi normativi dell’Unione «esigono l’istituzione di organismi indipendenti soltanto ai fini del rispetto delle regole di bilancio numeriche dell’Unione, ma lasciano gli Stati membri liberi di limitare la portata del controllo giurisdizionale delle loro Corti dei conti per quanto riguarda l’applicazione del regolamento n. 549/2013»[19]. Sui principi di equivalenza e di effettività rileva, infine, la CGUE di non disporre «di alcun elemento tale da far dubitare della conformità a tale principio della normativa nazionale controversa nei procedimenti principali»[20]. Sul principio di effettività ricorda il giudice ad quem che il diritto dell’Unione non impone agli Stati membri di «istituire mezzi di ricorso diversi da quelli stabiliti dal diritto interno, a meno che dalla struttura complessiva dell’ordinamento giuridico nazionale in discussione non risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale tale da permettere, anche solo in via incidentale, di assicurare il rispetto dei diritti riconosciuti ai singoli dal diritto dell’Unione, oppure che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto (sentenza del 21 dicembre 2021, Randstad Italia, C-497/20, EU:C:2021:1037, punto 62 e la giurisprudenza ivi citata)»[21].
Nonostante la CGUE non escluda la possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale nell’ordinamento interno, la Corte dei conti, nella sentenza in commento, ritiene che il legislatore non abbia «in nessun modo alterato i confini dell’ambito oggettivo della cognizione del giudice contabile»[22], che continuerebbe «a riguardare complessivamente “la ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT”»[23], ma abbia modificato il quomodo della giurisdizione, delimitando, quindi, i soli «fini» della giurisdizione contabile[24]. In particolare, ad avviso della Corte dei conti, la disposizione in esame avrebbe «escluso la capacità di questo giudice di statuire in modo vincolante a fini diversi da quelli relativi della normativa nazionale, escludendo la disponibilità di mezzi di tutela, quali l’annullamento (produttivo di effetti erga omnes) o la disapplicazione a garanzia di altri effetti/fini, tra cui, quelli del diritto Ue»[25], pregiudicando il principio dell’effetto utile della direttiva 2011/85[26] e del connesso principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
La richiamata sentenza della CGUE, tuttavia, non pare escludere una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo, evidenziando come i regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche, purché siano garantiti l’effetto utile dei regolamenti e della direttiva summenzionati nonché la tutela giurisdizionale effettiva imposta dal diritto dell’Unione. Inoltre, la stessa CGUE rileva che «qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 proposta dai convenuti, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato»[27]. «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall'ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85»[28]. Con riguardo al rischio di un allungamento dei procedimenti, cui potrebbe condurre la configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, rileva la CGUE che «gli enti iscritti nell’elenco ISTAT che intendono contestare la loro designazione quali amministrazioni pubbliche non sono tenuti a presentare due distinti ricorsi, vale a dire uno davanti al giudice amministrativo e un altro davanti alla Corte dei conti. Infatti, da un lato, essi potrebbero chiedere al giudice amministrativo l’annullamento erga omnes della decisione che li ha iscritti in quest’elenco. Dall’altro, dinanzi alla Corte dei conti, essi potrebbero contestare le conseguenze della loro iscrizione nell’elenco suddetto e ottenere, eventualmente, in maniera incidentale, la disapplicazione di tale iscrizione»[29]. La CGUE, infine, supera il problema relativo al possibile crearsi di una situazione di incertezza giuridica, in relazione all’eventuale formarsi di giudicati contrastanti sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT, rilevando che «la semplice possibilità che si verifichino simili divergenze non è sufficiente per concludere per l’esistenza di una violazione dell’articolo 19 TUE, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta e del principio di effettività, purché un ente che contesti la decisione di qualificazione adottata nei suoi confronti possa limitarsi a proporre un unico ricorso per veder esaminata la propria domanda. Ciò non toglie che incombe all’ordinamento giuridico italiano prevedere le modalità concrete di esercizio dei mezzi di ricorso, in modo tale da non pregiudicare in maniera sproporzionata il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta»[30]. Inoltre, osserva la CGUE, «il fatto che il giudice competente – ossia, secondo i convenuti di cui ai procedimenti principali, il giudice amministrativo – non sia, come indicato da detto giudice del rinvio, quello designato dalla Costituzione della Repubblica italiana quale giudice competente in materia di bilancio è privo di rilevanza dal punto di vista del diritto dell’Unione»[31].
3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale.
A fronte della posizione assunta dalla CGUE, per cui non sembrerebbe impossibile considerare l’art. 23 quater in esame compatibile con la normativa comunitaria, purchè siano garantiti il principio di effettività e dell’effetto utile, occorre verificare, muovendo dalla citata sentenza della Corte dei conti, se il sistema normativo interno consenta di configurare la giurisdizione amministrativa come una giurisdizione di carattere generale per quanto riguarda la tutela dell’interesse legittimo.
A questo riguardo, la Corte dei conti – esclusa la compatibilità dell’art. 23 quater del d. l. 137/2020 con il diritto Ue in forza della rimessione, da parte della CGUE, al giudice nazionale del riscontro dei limiti ostativi a tale compatibilità – osserva che per costante giurisprudenza, ai sensi degli artt. 100 e 103 Cost., la giurisdizione «generale» in materia di contabilità pubblica compete alla Corte dei conti. Inoltre, una giurisdizione generale del giudice amministrativo per l’annullamento degli atti sarebbe esclusa anche in ragione dell’«avvenuta codificazione della clausola generale dell’equilibrio di bilancio»[32] e della tutela del bilancio quale «bene pubblico» in senso giuridico, che comporterebbe costanti verifiche preventive e consuntive riservate alla Corte dei conti dall’art. 100 Cost.[33]. Tuttavia, tali rilievi della Corte dei conti non sembrano del tutto convincenti se si considera che già il previgente art. 1, co. 169 della legge del 24 dicembre 2012, n. 228 rimetteva al giudice amministrativo tutte le decisioni concernenti l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT. Pare, pertanto, che la riserva di giurisdizione in favore della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, co. 2 Cost. – per cui «la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge» – non escluda una competenza generale e residuale del giudice amministrativa in materia di interessi legittimi, ma incontri il limite funzionale della interpositio del legislatore[34] contenuta nel codice di giustizia contabile[35]. Ai fini dell’attribuzione di una determinata competenza giurisdizionale alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica non pare sufficiente, quindi, il generale riferimento al concorso dell’elemento soggettivo, che attiene alla natura pubblica dell’ente e di quello oggettivo, che riflette la natura pubblica del denaro e del bene oggetto di gestione, rientrando, già secondo una risalente giurisprudenza, «nella discrezionalità del potere legislativo valutare se e quali siano le soluzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi»[36]. Se, quindi, l’art. 103, co. 2 Cost. fosse inteso come una norma di garanzia conservativa della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e, proprio in quanto norma sulla ripartizione della giurisdizione, non risultasse dotato di un’assoluta generalità, ma necessitasse di apposite specificazioni legislative[37], non sembra potersi escludere che il legislatore ordinario possa non solo ampliare le materie assegnate alla giurisdizione della Corte dei conti tanto nell’ambito delle «altre materie specificate dalla legge» quanto in quello delle «materie di contabilità pubblica»[38], ma anche restringere la potestas judicandi della medesima Corte, in forza di valutazioni discrezionali, anche di opportunità politica, che potrebbero condurre a ravvisare nel giudice contabile una minore idoneità all’esame di determinate controversie[39].
La configurabilità di una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo laddove il cittadino si contrapponga all’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione non sembra porsi in contrasto con la Costituzione anche se si considerano gli artt. 113, co. 3 e 103, co. 1 Cost. Infatti, una parte della dottrina ha rilevato come, da un lato, «il giudice ordinario, che pacificamente ha giurisdizione in materia civile e penale […] e che decide in materia di diritti soggettivi non abbia però una giurisdizione esclusiva in merito, perché la sua giurisdizione sul punto è limitata dalla possibilità prevista dall’art. 103, comma 1, Cost. sulla giurisdizione in tema di diritti soggettivi del Consiglio di Stato» e, dall’altro, come «il Consiglio di Stato […] ha giurisdizione a tutela di interessi legittimi, ma non ha una giurisdizione esclusiva sul punto, poiché il disposto di cui al terzo comma dell’art. 113 Cost., che consente che anche ad altri giudici sia attribuito il potere di annullamento dei provvedimenti amministrativi, dimostra come questi giudici, nella specie il giudice ordinario, abbiano una giurisdizione estesa agli interessi legittimi (se si trattasse di diritti soggettivi non vi sarebbe un problema di annullamento ma di riconoscimento di nullità)»[40].
Una rimessione al giudice amministrativo di una tutela generale degli interessi legittimi, inoltre, sembra essere confermata, oggi, dal legislatore ordinario che, con le modifiche apportate all’ 37c.p.c.[41] dalla riforma Cartabia, distinguendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o degli altri giudici speciali e individuando, perciò, il giudice amministrativo come un giudice che ha una posizione particolare nell’ordinamento, che lo distingue dagli altri giudici speciali in genere[42], sembra individuare nello stesso il giudice naturale degli interessi legittimi[43], come il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti soggettivi. Questa distinzione tra il giudice amministrativo e gli altri giudici speciali è ripresa dal legislatore anche all’art. 362 co. 1 c.p.c., che definisce gli altri casi di ricorso in Cassazione[44]. Sulla possibilità di considerare la giurisdizione amministrativa sullo stesso “piano” di quella ordinaria, una parte della dottrina ha evidenziato anche il richiamo operato dal c.p.c. ai principi di chiarezza, specificità e sinteticità degli atti, propri del codice del processo amministrativo[45] e applicabili, dopo la riforma Cartabia, anche nel processo civile. Anche l’art. 7 c.p.a., infine, devolvendo alla giurisdizione amministrativa «le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi […] concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» pare attribuire rilievo, ai fini della configurabilità della giurisdizione amministrativa, non all’avvenuto esercizio del potere attraverso l’emanazione di un provvedimento imperativo suscettibile di incidere unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario dell’atto, ma all’avvio di un procedimento amministrativo, in cui il privato si contrappone all’“esercizio” del potere autoritativo dell’Amministrazione[46]. La predisposizione annuale dell’elenco Istat delle Amministrazioni pubbliche, pertanto, non essendo un atto assunto dall’Amministrazione iure privatorum, rientrerebbe nella giurisdizione generale del giudice amministrativo[47].
4. Conclusioni.
Alla luce delle considerazioni esposte, con riguardo alla possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale all’interno del sistema, se si ammettesse una cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche, potrebbe ritenersi che l’art. 23 quater in esame abbia inciso sul titolo legittimante il giudizio dinnanzi alla Corte dei conti ai fini della configurabilità della sua giurisdizione. Non è infrequente, infatti, che il legislatore devolva alla giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice una stessa materia a seconda del titolo fatto valere in giudizio, identificabile con la causa petendi, per cui la giurisdizione è determinata sulla base dei fatti allegati da chi propone l’atto introduttivo e dalla intrinseca natura della posizione giuridica che in base ad essi viene fatta valere[48]. Si pensi, ad esempio, alla materia delle pensioni dei militari, in cui «la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti […] è limitata solo a quanto concerne con immediatezza, anche nella misura, il sorgere, il modificarsi e l’estinguersi totale o parziale del diritto alla pensione in senso stretto, restando esclusa da tale competenza ogni questione connessa con il rapporto di pubblico impiego, quale la determinazione della base pensionabile e dei relativi contributi da versare, sulla quale, invece, la giurisdizione è del giudice amministrativo» (Cons. Stato Sez. VI, 30-04-2002, n. 2323)[49]. Se, quindi, si ritenesse che l’art. 23 quater in esame, imponendo alla Corte dei conti di decidere solo con riguardo all’applicazione della normativa interna sulla spending review, abbia ristretto la materia della giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, la disapplicazione, nel caso di specie, sarebbe pronunciata da un giudice privo di giurisdizione.
[1] Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17, sub 1. In particolare: «Con il primo motivo di ricorso, (I) è stata denunciata la violazione della l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (vizio formale). ISTAT, infatti, secondo la tesi della società ricorrente, agirebbe in base all’inopinata tesi di non ritenersi obbligata ad osservare le regole del giusto procedimento, in virtù della natura vincolata del provvedimento autoritativo. Tale tesi ha l’effetto di costringere la società ad attivare necessariamente la propria difesa direttamente in sede giurisdizionale, con danno alle proprie ragioni» (sub 3.1.). «Dal punto di vista sostanziale, il ricorrente ha negato la sussistenza dei requisiti per essere qualificata “amministrazione pubblica” ai sensi del SEC 2010. In particolare, ha contestato (II) la sussistenza di un “controllo pubblico” (secondo motivo di ricorso), atteso che nessuna delle partecipazioni ascrivibile a soggetti pubblici, da sola, garantisce il controllo della maggioranza dei voti. In merito, ISTAT non avrebbe in alcun modo dimostrato l’esistenza di un formale vincolo (di legge o fondato su atti negoziali) tramite cui le varie amministrazioni pubbliche si coordinano per esercitare un controllo unitario» (sub 3.2.). «Infine, (III) (terzo motivo di ricorso), A22 ha negato di operare fuori mercato, quale soggetto la cui attività è prevalentemente “non destinabile alla vendita”. Il punto centrale di tale difesa riguarda la tesi della qualificabilità della tariffa autostradale alla stregua di un corrispettivo, avente le caratteristiche di un “prezzo economicamente non significativo” ai sensi del SEC 2010. Infatti, il carattere regolamentato di un prezzo, secondo il SEC (§§3.19 e 20.19) non escluderebbe il carattere economicamente significativo dello stesso» (sub 3.3.).
[2] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 4.
[3] Corte dei conti, cit.: «Secondo la difesa di ISTAT e MEF […] la sentenza non avrebbe negato, ma confermato, la separazione tra due ambiti normativi, quello privatistico (ovvero degli effetti sui poteri gestionali dei soggetti inclusi nell’elenco ISTAT, mediante la distinzione tra enti pubblici e privati) e quello pubblicistico-europeo (concernente la delimitazione della finanza pubblica). Seguendo questa impostazione, il legislatore interno non si è posto in contrasto con il diritto Ue, poiché la “mappatura della finanza pubblica”, come correttamente riconosciuto dalla Corte di giustizia, può essere verificata dal giudice amministrativo, mentre i risvolti contabili (ex art. 103 Cost.) restano attribuiti alla cognizione della Corte dei conti» (sub 15-15.1).
[4] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 12.2
[5] La difesa della parte ricorrente, in altri termini, esclude la possibilità per il giudice o, comunque, per l’interprete di «desume[re] criteri di attribuzione della giurisdizione alternativi o opposti a quelli che il legislatore stesso ha espressamente indicato»[5] in forza della «tassatività» delle norme sulla giurisdizione, che «risulta ancora più rigoroso in materia di bilancio, dove vige, in virtù del combinato degli artt. 81, co. 6, Cost. e 5, co. 1, lett. a) l. cost. n. 1/2012, una riserva formale e assoluta in materia di controlli sull’andamento della finanza pubblica» (Corte dei conti, cit., sub 40).
[6] Corte dei conti, cit., sub 3.2.
[7] Corte dei conti, cit., sub 3.3 La Corte dei conti, con riguardo al principio dell’effetto utile, afferma che «l’obbligo di disapplicazione, infatti, è direttamente connesso a tale principio (C. cost. sent. n. 67/2022, punto 10.2 in diritto; Corte di giustizia, sentenza 22 febbraio 2022, RS, C-430/21, RS, punto 88, ECLI:EU:C:2020:99), costituendo una garanzia e una forma di tutela obbligatoria a disposizione di ciascun giudice nazionale che deve applicare il diritto Ue» (sub 3.3).
[8] Sul rilievo dei principi generali di diritto comunitario v. D. DE PRETIS, I principi del diritto amministrativo europeo, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 41-59.
[9] Testualmente Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17 (sub 4).
[10] Rileva la CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon, C-363/21 e 364/21, EU: C: 2023: 563: «[…] qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 propugnata dai convenuti di cui ai procedimenti principali nonché, all’udienza, dal governo italiano, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato” (sub 95). «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall’ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85» (sub 96).
[11] CGUE, cit., sub 60
[12] CGUE, cit., sub 61
[13] CGUE, cit., sub 61
[14] CGUE, cit., sub 62
[15] CGUE, cit., sub 63
[16] CGUE, cit., sub 70
[17] La direttiva 2011/85, infatti, all’art. 1 enuncia le regole relative ai quadri di bilancio degli Stati membri, necessarie «per garantire il rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi che incombono loro in virtù del Trattato FUE per quanto riguarda l’esigenza di evitare disavanzi pubblici eccessivi» (CGUE, cit., sub 71).
[18] CGUE, cit., sub 77
[19] CGUE, cit., sub 83
[20] CGUE, cit., sub 91
[21] CGUE, cit., sub 92
[22] Corte dei conti, cit., sub 26
[23] Corte dei conti, cit., sub 26
[24] Corte dei conti, cit., sub 26.1; 26.2
[25] Corte dei conti, cit., sub 26.3
[26] Cfr CGUE, cit., sub 94
[27] CGUE, cit., sub 95
[28] CGUE, cit., sub 96
[29] CGUE, cit., sub 97
[30] CGUE, cit., sub 98
[31] CGUE, cit., sub 99
[32] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[33] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[34] Dig. disc. pubbl., «giurisdizioni amministrative speciali» (voce) 494 Cfr. O. SEPE, ult. op. cit., 97. L’Autore prosegue: «L’elaborazione giurisprudenziale […] e le stesse pronunce sia della Corte costituzionale (sentenza 3 giugno 1966, n. 55) sia della Cassazione (Sez. riunite, 20 luglio 1968, n. 2616) hanno portato a chiarire che la Costituzione ha voluto una giurisdizione di contabilità caratterizzata da un ambito di materie, cioè una giurisdizione generale contabile che, essendo di diritto oggettivo, “è disegnata dalle materie di contabilità pubblica, ma che, in quanto generale, è automaticamente espansibile per ciò che attiene a dette materie, mentre lo è in guisa subordinata alla volontà legislativa per quelle altre specificate dalla legge, vale a dire per quelle altre materie per le quali solo si potrebbe porre il problema della natura derogatoria della giurisdizione della Corte rispetto alle giurisdizioni generali”» (11).
[35] Rileva C.E. GALLO, Considerazioni a prima lettura circa le ricadute della riforma Cartabia sul processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 3/2023, 450: «Per quanto concerne la Corte dei conti, la Corte costituzionale in passato ha sempre escluso che alla medesima sia attribuita una giurisdizione esclusiva in materia di contabilità pubblica, ritenendo che occorresse in ogni caso una interpositio legislatoris: oggi l’interpositio c'è, ed è contenuta nel codice di giustizia contabile, ma è pur vero che vi sono una serie di ambiti nei quali la responsabilità di soggetti legati alla pubblica amministrazione in modo variegato è attribuita al giudice ordinario»
[36] Dig., cit., 494. Si rileva, a questo riguardo, che «l’assenza di determinazione dei limiti concernenti la “tendenziale generalità” della giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., inducono la giurisprudenza costituzionale ad un atteggiamento restrittivo, espresso in C. Cost., n. 641/1987, la quale, riannodando le fila dell’interpretazione giurisprudenziale sulla norma dell’art. 103, 2° co. Cost., afferma: a) la materia della contabilità pubblica non è definibile oggettivamente, ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto, ma anche rispetto ai soggetti; b) la giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica è solo tendenzialmente generale e pertanto sono possibili deroghe con apposite determinazioni legislative, specialmente nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione; c) la cognizione delle cause attinenti alla responsabilità patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici da pubblici funzionari involge questioni relative a diritti soggettivi, per i quali, in assenza di apposite disposizioni derogatorie, anche di rango costituzionale, sarebbe competente il giudice ordinario; la riserva di giurisdizione spettante alla Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., incontra il limite funzionale della interpositio del legislatore, cui spetta, nei limiti ad esso imposti dalle norme costituzionali sulla ripartizione della giurisdizione, fra le quali rientra l’art. 103, 2° co. Cost., la determinazione della sfera di giurisdizione dei giudici (ordinario, amministrativo, contabile, militare ecc…)» (494)
[37] Dig., ibidem
[38] O. SEPE, La giurisdizione contabile, in G. SANTANIELLO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1989, 36: «La seconda parte del precetto contiene un rinvio alle leggi ordinarie vigenti e future; la prima parte copre con l’usbergo della costituzionalità le materie di contabilità pubblica. In effetti la Corte costituzionale ha più volte affermato che l’art. 103, nel riservare alla giurisdizione della Corte dei conti le materie di contabilità pubblica, ha recepito la nozione tradizionalmente accolta dalla legislazione vigente e dalla giurisprudenza, comprensiva dei giudizi di conto e di quelli di responsabilità; sotto l’aspetto soggettivo ne ha allargato l’ambito oltre quello, cui aveva originario riferimento, di amministrazione diretta dello Stato. Tale sarebbe il significato e il contenuto dell’aggettivo pubblico, com’è confermato dallo stesso uso fattone in altre disposizioni della Costituzione (ad es. art. 54, 2° comma; artt. 97 e 98). La giurisprudenza della Corte costituzionale nelle dette materie, per le quali occorrono “apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto ma anche rispetto ai soggetti” è solo tendenzialmente generale. sono possibili deroghe alla giurisdizione ordinaria solo con apposite disposizioni legislative, specie nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione». Cfr. T.A.R. Lazio sez. III - Roma, 09 gennaio 2017, n. 246, sub 4.
[39] Testualmente O. SEPE, La giurisdizione, cit., 98.
[40] C. E. GALLO, Considerazioni, cit., 450
[41] Art. 37, co. 1, secondo periodo: «Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado».
[42] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449
[43] Cfr. M. NIGRO, Giustizia amministrativa, III, Bologna, 1983. L’Autore, distinguendo tra «giurisdizione amministrativa ordinaria e giurisdizioni amministrative speciali» (162) e ravvisando nei giudici amministrativi i “giudici ordinari del contenzioso amministrativo» (162) e nella Corte dei conti «la più importante delle giurisdizioni speciali […] alla quale la Costituzione riconosce competenza “nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art. 103 II c.)» (164) osserva: «Le giurisdizioni amministrative speciali sono quelle costituite per somministrare giustizia in particolari materie: esse si debbono considerare speciali rispetto al giudice dei diritti (tribunali ordinari) se, o per la parte in cui, conoscono di diritti, o rispetto al giudice degli interessi (Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi) se, o per la parte in cui, conoscano di interessi legittimi, il che comporta che là dove si arresta la loro competenza riprende vigore rispettivamente quella dei tribunali ordinari o quella dei tribunali amministrativi» (164).
[44] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449. Sulla riforma Cartabia v. F. DE STEFANO, La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura, in www.giustiziainsieme.it
[45] GALLO, ult. op. cit., 449
[46] Cfr. Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204. Lo stesso art. 7 c.p.a. devolve alla giurisdizione amministrativa «[…] le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo […]».
[47] Cfr. T.A.R. Lazio sez. III – Roma (sub 3). Cfr. Dig., cit., 492
[48] Cons. Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 6022; Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2017, n. 3418; Cons. Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 81; T.A.R. Lazio, Sez. III – Roma, 21 febbraio 2023, n. 2935; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 20 febbraio 2020, n. 811; T.A.R. Emilia Romagna, Sez. I – Parma, 7 dicembre 2017, n. 395; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 4 dicembre 2017, n. 5720; T.A.R. Lazio, Sez. I – Roma, 13 ottobre 2016, n. 10239; T.A.R. Lombardia, Sez. III – Milano, 7 gennaio 2015, n. 4; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 7 maggio 2015, n. 2538; T.A.R. Piemonte, Sez. I – Torino, 6 marzo, 2015, n. 431; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 2 dicembre 2014, 6300.
[49] TAR Abruzzo, Sez. I – L’Aquila, 23 giugno 2022, n. 273, sub 2.1.
La scienza giuridica ha dedicato finora scarsa attenzione alla comunicazione delle istituzioni europee. Il tradizionale approccio può essere riassunto da un vecchio motto latino che recita: “verba volant, scripta manent”. Le parole pronunciate volano via, solo ciò che è scritto rimane – e, quindi, merita di essere preso in considerazione, potendo imporre diritti e obblighi agli individui. Tuttavia, nella società dell'informazione in cui viviamo, questo approccio rischia di non essere più convincente né sostenibile.
Uno scarno comunicato stampa della BCE, adottato dopo il famoso discorso del “whatever it takes”, ha minacciato il principio del primato del diritto dell’Unione europea nel caso Gauweiler. La decisione di spostare la sede dell'Agenzia europea del farmaco da Londra ad Amsterdam, che ha portato a quattro cause davanti alla Corte di giustizia dell'UE, è stata adottata in primo luogo attraverso un tweet. La “Dichiarazione UE-Turchia” sulla gestione della crisi dei rifugiati siriani, secondo la Corte di giustizia e il Tribunale, era una mera dichiarazione intergovernativa, pubblicata tramite un comunicato stampa, e quindi non sottoponibile allo scrutinio del Giudice dell’Unione.
Legislazione e comunicazione sono sempre andate di pari passo per regolare le società. Tuttavia, l'ascesa di Internet e dei social media ha chiaramente proiettato quest'ultima in una nuova dimensione, il cui impatto sulla sfera giuridica deve ancora essere pienamente compreso e affrontato dai giuristi.
Gli studi sulla soft law hanno fatto un primo tentativo in questo senso, concentrandosi su atti che hanno una natura ambigua ma che almeno presentavano le caratteristiche di atti giuridici, per quanto atipici, spesso adottati seguendo procedure previste da ulteriori fonti. Al contrario, i comunicati stampa, gli annunci, i post sui social media vanno chiaramente al di là di tale perimetro definitorio, essendo spesso fonti non scritte o non giuridiche, adottate attraverso procedure non regolamentate –eppure, nonostante tali considerazioni, hanno spesso un impatto enorme sugli individui.
In questo contesto, la cattedra Jean Monnet “Verba Volant, sed Imperant? The Legal Challenges of EU Communication” si propone di discutere se e in che misura i mezzi e le strategie di comunicazione possano essere considerati come nuove fonti del diritto dell’Unione europea e come i principi consolidati della tutela giurisdizionale dell’ordinamento sovranazionale possano affrontare le sfide che tale “nuovo mondo” implica. A tal fine, la Conferenza inaugurale mira a riunire accademici e professionisti, sia a livello nazionale che europeo, per discutere le implicazioni giuridiche della comunicazione dell’Unione europea e per rilevare il suo impatto nei vari settori delle politiche dell’Unione.
A questo link tutte le informazioni: https://lawcom.unife.it/inaugural-conference.
Nella sua ormai lunga esperienza professionale Lei ha avuto l’occasione di svolgere diverse funzioni: è stato sostituto Procuratore a Napoli, anche presso la DDA, poi all’ufficio del massimario, Presidente dell’ANAC ed attualmente riveste il ruolo di Procuratore della Repubblica a Perugia. Tale diversità di ruoli Le ha consentito di analizzare il fenomeno corruttivo sotto diverse angolature, sia come investigatore in relazione al caso concreto che come, potremmo dire, studioso ed osservatore del fenomeno.
Quali sono i punti deboli del sistema attuale di tutela contro la corruzione, cosa manca e cosa sarebbe auspicabile introdurre o modificare, tanto in un’ottica di garanzia per l’indagato che in un’ottica di tutela effettiva della collettività contro un fenomeno i cui effetti si riverberano sulla efficienza ed effettività dei servizi resi al cittadino e dunque sullo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese.
È necessario prima di affrontare specificamente la questione posta partire da una considerazione di fondo. Grazie soprattutto al lavoro svolto in sede internazionale e riversatosi in varie convenzioni, la più importante delle quali è quella dell’ONU del 2003 varata in Messico a Merida, la corruzione non è più vista solo come un atto, pur grave, di “tradimento” del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà assunto con l’Istituzione di appartenenza. Soprattutto quella corruzione che riguarda il sistema lato sensu delle commesse pubbliche (la cd. grand corruption) va, invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto di minare persino le stesse fondamenta della democrazia. Su questo punto sono concordi tutti i preamboli delle convenzioni internazionali e non è un caso che una felicissima definizione di essa attribuibile al Presidente Mattarella, la indica come “furto di democrazia”.
Questo cambio di paradigma è fondamentale perché giustifica la messa in campo di strumenti molto più raffinati del passato che si imperniano non solo sulla tradizionale attività repressiva/penale ma anche sulla più moderna prevenzione.
Grazie allo stimolo internazionale, l’Italia si è dotata, a partire dalle legge Severino del 2012, di un armamentario molto più efficiente di quello precedente, valutato positivamente sul piano sovranazionale, creando anche un’autorità indipendente ad hoc (l’ANAC) con il compito di sovrintendere al rispetto delle disposizioni in materia di prevenzione ma non mancando di rafforzare contestualmente gli strumenti repressivi, sia introducendo nuovi reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, traffico di influenze illecite etc), ma anche di strumenti ritenuti idonei a farla emergere (attenuanti in caso di caso di collaborazione, non punibilità in presenza di un’autodenuncia, possibilità di utilizzare le operazioni sotto copertura etc).
Sarebbe impossibile in questa sede individuare criticità e punti di forza di questo nuovo ed articolato impianto, ma io credo che esso sia ben strutturato ed ha già dato alcuni buoni risultati, consentendo all’Italia di recuperare tante posizioni, ad esempio nella classifica di Transparency international.
Quell’impianto necessiterebbe di una manutenzione che non lo metta, però, in discussione e soprattutto dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista culturale e politico. Invece, nell’ultimo periodo l’intero sistema anticorruzione è oggetto di critiche ed attacchi anche da esponenti delle Istituzioni pubbliche che ne stanno facendo perdere la sua forza. Non c’è legge che possa funzionare se chi dovrebbe sostenerla non ci crede ed anzi propone revisioni profonde e, a mio modo di vedere, peggiorative.
È stato approvato anche alla camera il disegno di legge C. 1718 che porta il nome dell’attuale Ministro della Giustizia, Nordio. La modifica normativa che connota tale disegno di legge è certamente l’abolizione tout court della controversa fattispecie dell’abuso d’ufficio, rispetto alla quale lei ha già preso espressamente posizione fornendo un contributo tecnico – giuridico in sede di audizione alla Camera dei deputati, avvenuta il 13 settembre 2023 che, come quello di altri Suoi colleghi, pare essere rimasto del tutto inascoltato.
Perché, in sintesi, gli effetti dell’abrogazione di tale norma possono determinare un serio arretramento nel sistema di tutela contro la corruzione?
Voglio premettere che è mia convinzione che l’abrogazione dell’abuso di ufficio abbia effetti deleteri sul sistema Paese che vanno ben oltre le questioni della corruzione. Viene meno, infatti, un presidio, che al di là dell’applicazione concreta, di legalità dell’azione amministrativa. Il delitto di abuso tutela, infatti, direttamente il valore costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sanzionando comportamenti di strumentalizzazioni dell’azione amministrativa che dovessero intenzionalmente avvantaggiare o danneggiare qualcuno. Ed è falso quanto viene ogni giorno affermato anche da personaggi di primo piano della politica, secondo cui l’abrogazione non attenuerebbe la tutela del valore costituzionale dell’imparzialità perché il sistema in generale ha già altri strumenti alternativi È invece indiscutibile, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che gli atti prevaricatori o i favoritismi anche eclatanti, compiuti senza una controprestazione di utilità, resteranno senza tutela penale. certo essi potranno, se emersi, essere sanzionati in via disciplinare, ma non c’è bisogno di una conoscenza profonda dell’amministrazione pubblica per sapere quanto sia inefficiente il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione. L’abrogazione ridurrà senza dubbio, quindi, il controllo di legittimità sull’azione amministrativa ed indirettamente, quindi, rischierà di creare un humus favorevole ai fatti corruttivi. Ma l’effetto più negativo per le indagini sulla corruzione deriva dall’impossibilità di utilizzare l’abuso di ufficio come “reato spia”. Chi si occupa di indagini di pubblica amministrazione sa bene che un’indagine per corruzione molto raramente parte da una notizia di reato specifica e che essa soprattutto consegue ad indagini sulla regolarità di atti amministrativi. Quando in futuro non si potrà avviare nessun accertamento su possibili strumentalizzazioni dell’azione amministrativa, sarà difficilissimo reperire in altro modo una notizia di reato per corruzione. Questa affermazione, che viene contestata dai fautori dell’abrogazione con argomenti squisitamente ideologici (del tipo che i reati spia sarebbero espressione di una cultura della “pesca a strascico”), trova, invece, supporto proprio dalle convenzioni internazionali che ritengono indispensabile, per un’efficacia azione anticorruzione, la previsione di una fattispecie penale di abuso.
È noto che la ragione posta a fondamento della necessità di abolire l’abuso d’ufficio sia, in sintesi, la presunta inutilità della norma – valutata in virtù delle poche sentenze di condanna e delle numerose assoluzioni scaturite dai procedimenti penali avviati per tale fattispecie - unitamente agli effetti persino dannosi che la stessa avrebbe comportato ingenerando la c.d. “paura della firma” e la conseguente paralisi dell’azione amministrativa.
Si tratta di una giusta chiave di lettura? Cosa indica, se così non è, il dato relativo alle assoluzioni e come avrebbe potuto essere diversamente letto e valorizzato?
Che ci sia una tendenza nell’amministrazione a rallentare l’azione amministrativa per la paura dei funzionari di subire conseguenze negative sul piano personale per il loro agire è un dato purtroppo indiscusso. Nel nostro linguaggio si è persino coniata un’espressione (“burocrazia difensiva”) mutuata da altri ambiti (quello sanitario dove si parla di “medicina difensiva) che è assolutamente sconosciuta in altri Paesi. Dare, però, la colpa di questa situazione all’abuso di ufficio è frutto di una visione superficiale che sarà purtroppo certamente smentita nel prossimo futuro. I fatti dimostreranno che anche dopo l’abolizione dell’abuso la burocrazia difensiva non sparirà affatto e le amministrazioni non eccelleranno per la celerità delle decisioni. La paura della firma ha ragioni più complesse, frutto spesso di una cattiva organizzazione dell’amministrazione e di una non sempre adeguata preparazione dei funzionari, di cui essi non hanno nessuna colpa, perché non vengono loro nemmeno spiegate le tantissime e continue modifiche legislative in ambiti delicati, come ad esempio quelli degli appalti pubblici. Quanto al dato delle assoluzioni, è certamente indiscutibile che ve ne sono state numerose soprattutto nei tre gradi di giudizio, spesso anche con il ribaltamento di decisioni di condanna di primo grado. Le ragioni di ciò sono varie e dipendono indiscutibilmente non solo dalla struttura della norma ma anche dall’interpretazione della giurisprudenza che ha ritenuto, fra i parametri normativi che giustificano la violazione di legge, di annoverare anche regole spesso elastiche che rendono non sempre chiaro stabilire a priori cosa è lecito e cosa non lo è. Questa considerazione avrebbe, però, giustificato un intervento di modifica sulla fattispecie e non certo l’abrogazione. Del resto, il legislatore del 2020 con una riforma certo non scritta bene era intervenuto sul punto e non si è voluto nemmeno attendere gli esiti concreti di tale riforma; era una battaglia ideologica quella di mostrare “lo scalpo” dell’abuso di ufficio. Il legislatore, quindi, con la scelta che ha fatto ha ammesso la sua impotenza nello scrivere una norma migliore! Credo, invece, sia un argomento davvero insignificante quello pure utilizzato durante la fase di discussione del ddl che molti procedimenti di abuso si concludono con un nulla di fatto e cioè con l’archiviazione. Se dovessimo applicare questo criterio per stabilire quali norma lasciare in vita, rischieremmo di dover abrogare mezzo codice, a partire dal delitto di furto, in cui oltre il 95 per cento dei procedimenti vengono definiti con archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Ovviamente l’argomento parte dall’idea che nei confronti dei funzionari pubblico anche solo l’avvio di un procedimento potrebbe rappresentare un danno, non controbilanciato dall’archiviazione. Questa affermazione è almeno parzialmente vera, ma anche in questo caso si sarebbe potuto intervenire con disposizioni ad hoc per sterilizzare queste conseguenze negative (e la riforma di Cartabia le aveva già avviate stabilendo che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli), piuttosto che giungere al taglio netto.
Quanto, secondo la sua esperienza, il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa o tecnica) contribuisce a rendere maggiormente controllabile, e dunque criticabile ex post, la correttezza dell’agire del pubblico funzionario? Potrebbe essere utile diversificare la responsabilità in ragione del tipo di discrezionalità esercitata o della qualifica rivestiva o del tipo di condotte realizzate, prevaricatrici o favoritrici o, ancora, in relazione al settore specifico di riferimento (es: settore sanitario o degli appalti)?
Partiamo da una considerazione. La discrezionalità nella pubblica amministrazione rappresenta un dato fisiologico, direi persino ontologico. Serve perché l’amministrazione deve essere in grado di adattare le norme alle situazioni concrete che non sono prevedibili in astratto. L’idea di un’amministrazione che si limita ad eseguire le norme di legge è una semplificazione che non tiene conto della complessità delle vicende soprattutto in una società come quella attuale caratterizzata da tante stratificazioni e specificità. Ciò detto è evidente che la discrezionalità è maggiormente a rischio di strumentalizzazioni illecite rispetto all’attività vincolata ma è un rischio che non si può in astratto sterilizzare. Esistono poi forme diverse di discrezionalità che concedono maggiori o minori margini di scelta da parte del funzionario. Onestamente sarei scettico nel pensare che possa graduarsi la responsabilità penale o di altro tipo in relazione alle diverse forme di discrezionalità. Credo, invece, una strada percorribile potrebbe essere quella di lavorare su regole non giuridiche (tipo linee guida) che contengono regole sostanziali e procedimentali idonee a guidare nei casi concreti la discrezionalità ed il cui rispetto potrebbe valere come una presunzione di legittimità per l’azione del funzionario. Un sistema, quello cui penso, non diverso da quello delle linee guida nei vari settori della medicina, riconosciute giuridicamente dalla legge Gelli/Bianco. Un tale meccanismo potrebbe forse garantire maggiormente il cittadino rispetto agli arbitri, ma anche il funzionario rispetto ai rischi che potrebbero derivare dal suo agire.
Abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il DDL Nordio prevede anche la modifica dell’art. 346 bis c.p., con un ritorno all’originaria versione della norma, per come introdotta nel 2012 dalla Legge Severino ma, allo stesso tempo, un restringimento dello spettro applicativo della fattispecie con la previsione della natura “economica” dell’utilità data o promessa e una tipizzazione assai stringente del concetto di “mediazione onerosa”.
Quali sarebbero, a suo modo di vedere, gli effetti collaterali di questa modifica normativa, specialmente alla luce della coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio?
Malgrado il traffico di influenze sia stato introdotto da poco più di 10 anni (dalla legge Severino del 2012) siamo alla terza riscrittura! E già questa è una clamorosa patologia del sistema. Un tira e molla che non fa onore alla nostra legislazione. Ciò detto, voglio premettere che io non ero stato fra entusiasti della modifica della fattispecie arrecata dalla legge cd. “spazzacorrotti” 2019 e soprattutto non mi aveva convinto l’assorbimento nella norma del millantato credito. Questo reato, infatti, si era ritagliato nel corso degli anni un suo spazio nel sistema penale, perché puniva un comportamento fraudolento nei confronti di un soggetto privato che danneggiava contestualmente anche l’immagine di imparzialità dell’amministrazione pubblica e dei suoi funzionari. La scelta della “spazzacorrotti”, che aveva avuto come effetto di rendere punibile anche chi era stato vittima di una vera e propria frode, non mi aveva convinto anche si trattava di un’opzione patrocinata dalle convenzioni internazionali. Il ddl Nordio sul punto torna indietro, ma senza ripristinare il millantato credito; fa, invece, confluire la millanteria (o come si preferisce dire la “vendita di fumo”) nella truffa, che però è sanzionato in modo molto più lieve del precedente delitto oltre ad essere procedibile a querela. Ma la parte della riforma che più mi trova critico è quella in cui è stata definita la “mediazione illecita”; si tratta di un concetto generico, soprattutto perché nessuna disposizione chiarisce quando la mediazione è lecita, che aveva sempre attirato gli strali della dottrina, per il suo difetto di tassatività e quindi in astratto la scelta del legislatore non può che essere condivisibile. Senonché, però, nella sua determinazione il ddl Nordio ha richiesto, fra l’altro, quale requisito imprescindibile che l’attività oggetto di traffico debba costituire per il pubblico ufficiale trafficato un illecito penale. Con la contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, le cd “mediazioni cd onerose” (quelle cioè in cui il trafficante si fa dare denaro o utilità economica per un suo “intervento”), finalizzate ad ottenere da parte del pubblico ufficiale una strumentalizzazione delle sue funzioni, diventeranno lecite. Ciò significa che da domani la condotta di chi dovesse chiedere del denaro per richiedere una “raccomandazione” ad un componente di commissione di concorso per far promuovere un candidato non costituirebbe più reato! E tanti altri analoghi esempi potrebbero essere fatti. È un passo indietro indiscutibile per il contrasto al malaffare nella pubblica amministrazione. Con le modifiche del decreto Nordio si depotenzia quindi in modo significativo la capacità applicativa della norma, con il rischio, altresì, che quelle poche condanne ottenute potranno persino decadere.
Si ritiene utile ripubblicare questo contributo, già apparso su Questa Rivista il 19 luglio, a beneficio delle lettrici e dei lettori.
Surrogazione di maternità come “reato universale"
Audizione in Commissione Giustizia del Senato sui disegni di legge n. 163, 245, 475 e 824, in data 22 maggio 2024
di Gabriella Luccioli
Nell’infinito dibattito sulla compatibilità della gestazione per altri con il nostro ordinamento è forse giunto il momento di porre un punto fermo. La maternità surrogata, sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40, è una pratica che offende, in ogni sua conformazione, la dignità della madre e quella del bambino: della prima, in quanto ridotta ad una donna cosa, a mero contenitore di una vita destinata per contratto ad altri e soggetta ad un controllo proprietario che investe la salute, il vitto, al fumo, lo stile di vita, le frequentazioni, del secondo in quanto reso oggetto di scambio fin dal momento del suo concepimento, gestito alla stregua di un bene cedibile o donabile, mero strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità degli adulti, deprivato alla nascita dei suoi dati anagrafici, nonché del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica. E tale lesione si verifica sia che la pratica surrogatoria abbia assunto carattere oneroso sia che sia espressione di solidarietà.
Come è noto, la Costituzione e le Carte dei diritti attribuiscono al concetto di dignità un contenuto ampio, nel quale coesistono una dimensione soggettiva, ancorata alla sensibilità, alle esperienze ed alla percezione dei singoli individui, ed una oggettiva, che attiene al valore originario e non comprimibile di ciascuna persona; la dignità ferita dalla maternità surrogata chiama in gioco la sua dimensione “oggettiva”, identificata con la dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile di ciascuno e non può essere oggetto di scelte di volontaria rinuncia, perché ogni ferita di quella dignità è una ferita a tutto il genere umano. Nella visione di Kant la dignità di ogni persona, elemento coessenziale al suo status, esprime la dignità dell’intera umanità; ogni essere umano è diverso dagli altri, ma tutti sono eguali in dignità.
La lesione del valore supremo della dignità della donna e del bambino comporta che la trascrizione automatica dell’atto di nascita di un bimbo avvenuta all’estero a seguito di surrogazione, che finirebbe per legittimare in modo indiretto detta pratica, non sia consentita per il suo irriducibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale.
Questi principi sono stati affermati a chiare lettere dalle Sezioni Unite della Cassazione con le note sentenze n.12193 del 2019 e n. 38162 del 2022, sono stati ribaditi dalla Corte Costituzionale nelle pronunce n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021. È peraltro evidente che il rilievo giuridico che si pretenderebbe di attribuire con la trascrizione automatica al progetto genitoriale dei committenti implicherebbe necessariamente l’assorbimento dell’interesse del figlio con quello degli aspiranti genitori.
Tali conclusioni vanno assunte come principi definitivamente acquisiti nel nostro ordinamento e non più oggetto di discussione: lo richiede l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità e prevedibilità delle decisioni, lo impone l’urgenza di porre un argine a quella molteplicità di iniziative scoordinate che vanno dalla emissione di circolari ministeriali rivolte ai sindaci, tramite i prefetti, perché non trascrivano certificati di nascita emessi all’estero o alle proposte di “sanatoria” per i bimbi già nati, in un quadro di notevole confusione.
Il Parlamento con i disegni di legge oggi all’esame ha scelto di rafforzare la configurazione della surrogazione quale fattispecie criminosa introducendo una sorta di reato universale[1], attraverso l’aggiunta al comma 6 dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004 di un periodo ai sensi del quale il cittadino italiano che compie atti di surrogazione all’estero è punito secondo la legge italiana. In tal senso è il disegno di legge S. n. 824, che riproduce il testo approvato dalla Camera dei Deputati nello scorso luglio. Tra le varie proposte di legge presentate alle Camere fin dalla precedente legislatura la scelta di voto è dunque caduta su quella, di contenuto assai stringato e di semplice articolazione, che non ha altro oggetto che l’estensione della punibilità alle condotte di surrogazione dei cittadini all’estero. Nello stesso senso è il disegno di legge S. n. 245.
Non si è intervenuti quindi in tali disegni di legge né sulla struttura della fattispecie né sul trattamento sanzionatorio, il quale in ragione della sua non elevata entità sembra porsi come strumento repressivo dell’esercizio organizzato della pratica in discorso piuttosto che come misura di dissuasione dei committenti nella loro aspirazione alla genitorialità.
Gli altri due disegni di legge sono un po' più articolati, in quanto l’uno estende l’ambito di applicazione anche alla commercializzazione di gameti o di embrioni avvenuta all’estero (atto n. 163), l’altro eleva in misura consistente la pena prevista per la surrogazione (atto n. 475). Entrambi inoltre sembrano riguardare, con l’uso del pronome chiunque, sia i cittadini italiani che gli stranieri.
Mi soffermo per esigenze di tempo sul cosiddetto reato universale, comune a tutti gli articolati.
La scelta operata in detti testi, che nella sua nettezza solleva questioni complesse sul piano del diritto penale internazionale, appare del tutto impropria, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice identitaria ed ideologica, nonché priva di ogni utilità sul piano concreto.
Va innanzi tutto osservato che la conclamata volontà di configurare la gestazione per altri come reato universale, in deroga al principio generale della territorialità, confligge con il dato di fatto che detta pratica nel panorama internazionale è disciplinata in modo assai diversificato, essendo consentita in alcuni Stati solo per fini altruistici, in altri anche per fini commerciali, in altri ancora essendo sanzionata in qualunque sua forma. Secondo la comune accezione costituiscono reati universali quelli percepiti come tali a livello globale, come i crimini di guerra, la pirateria, la tortura, il genocidio.
Del tutto impropria appare quindi l’intenzione di istituire un reato universale in relazione ad un fatto che non è universalmente assunto come tale.
Va inoltre considerato che, a legislazione vigente, secondo la norma generale di cui all’art. 6, comma 2, c.p. il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. La giurisprudenza ha fornito una nozione ampia del concetto di in parte, ritenendo sufficiente a radicare la giurisdizione del giudice italiano qualsiasi condotta che si inserisca nella serie di comportamenti diretti alla realizzazione dell’illecito: in ragione dell’ampio collegamento con la giurisdizione italiana così accolto resta integra la punibilità secondo il nostro ordinamento, oltre che nel caso di nascita del bambino in Italia, in tutti i casi in cui l’accordo di surrogazione sia stato concluso in territorio italiano o comunque sia stata posta in essere in Italia qualsiasi condotta (ad esempio il pagamento del corrispettivo pattuito) eziologicamente collegata all’evento della surrogazione.
L’art. 7 c.p. ha attribuito il crisma della universalità ad alcuni specifici reati che esigono la punizione del colpevole, cittadino o straniero, in qualsiasi luogo siano stati commessi, in ragione della loro capacità lesiva di interessi fondamentali dello Stato. Ai fini che qui interessano non appare ragionevole invocare l‘ipotesi di cui al n. 5 di detto art. 7, riguardante ogni altro reato per il quale specifiche disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana, atteso che detta norma di chiusura va logicamente interpretata in armonia con le altre previsioni contenute nello stesso art. 7 e non può pertanto non riferirsi a fattispecie penali omogenee alle altre: come è evidente, la surrogazione non ha nulla di simile ai reati contro la personalità dello Stato o contro i suoi elementi identificativi, come il sigillo o le monete, che hanno un’impronta intrinsecamente extraterritoriale. Si ritiene generalmente in dottrina che i reati assoggettabili a tale più ampia estensione della giurisdizione italiana debbano essere quelli posti a tutela di fondamentali interessi statuali o di interessi di riconosciuto valore universale, certamente non ravvisabili nel delitto di surrogazione. Non senza considerare che stante la lieve entità della pena prevista per tale delitto sono possibili istituti deflattivi che consentirebbero di non arrivare ad una sentenza di condanna e in ogni caso di evitare l’esecuzione della pena detentiva[2].
Del tutto estraneo alla previsione in esame è l’art. 8 c.p., secondo il quale è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art. 7.
Va altresì ricordato che ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p. qualsiasi delitto comune punito con pena inferiore nel minimo a tre anni, e quindi anche la gestazione per altri, è già punibile se commesso interamente all’estero da cittadini italiani (sempre che si trovino nel territorio dello Stato), a richiesta del Ministro della giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa. Non ho notizia di iniziative adottate in passato[G1] dal Ministro in relazione a surrogazioni di maternità realizzate interamente all’estero.
È ulteriormente da osservare che secondo la prevalente letteratura scientifica e parte della giurisprudenza, avallata dai lavori preparatori al codice penale, il citato art. 9 c.p. consente di punire all’estero un reato comune commesso da cittadini solo ove sussista la doppia incriminazione, configurato tale elemento come requisito implicito di punibilità del delitto comune commesso dal cittadino all’estero e come strumento regolatore dei rapporti di cooperazione giudiziaria internazionale tra i vari Paesi. Il Parlamento sembra voler prescindere da tale requisito, non ponendosi la questione della implausibilità di una fattiva collaborazione dello Stato estero per l’accertamento di un fatto considerato lecito nel suo ordinamento. È allora forte il rischio di ridurre l’affermazione della giurisdizione italiana ad una mera enunciazione simbolica, espressione di uno sterile paternalismo.[3] Va in aggiunta considerato che il superamento del requisito della doppia incriminazione aprirebbe seri problemi in ordine alla consapevolezza della illiceità e perseguibilità della condotta.
In conclusione la norma in esame, che incide direttamente sulla disciplina contenuta negli articoli da 7 a 10 del codice penale, si profila come del tutto velleitaria ed inutile.
L’introduzione della modifica dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40, che appare a mio avviso giustificata nella sua inutilità soltanto dalla finalità di rafforzare lo stigma dell’illiceità penale della gestazione per altri e di escogitare uno strumento volto a disincentivarne l’utilizzo, scoraggiando il turismo procreativo, risulta infine del tutto disallineata rispetto alle sollecitazioni più volte dirette al legislatore dalla Corte Costituzionale a trovare in tempi rapidi, con un intervento da ultimo definito indifferibile, uno strumento di definizione dello status dei minori nati da gestazione per altri.
Dietro la scelta del Parlamento sembra leggersi il rifiuto di apprestare soluzioni normative ai problemi scaturiti dall’utilizzo delle nuove tecniche riproduttive, seguendo una linea politica tesa soltanto alla individuazione del nemico comune da sconfiggere. Una scelta siffatta non solo esprime indifferenza rispetto al dovere di rispondere ad una esigenza sociale che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone, e soprattutto dei bambini, ma segna una grave frattura tra le istituzioni, per il mancato rispetto delle decisioni e delle sollecitazioni della Corte Costituzionale, che è organo di garanzia dei diritti, e per la mancata volontà di assumere la responsabilità di completare il sistema di tutele del quale detta Corte ha segnalato le carenze, affrontando finalmente la disciplina della maternità surrogata non da un solo lato di visione, ma in tutta la sua complessità ed in tutte le sue implicazioni.
Occorre insomma separare la valutazione della fattispecie illecita dalle sue ricadute sul rapporto di filiazione, prendendo finalmente consapevolezza che quei bambini sono comunque venuti al mondo, esistono ed hanno il diritto di avere uno status, quello status del quale l’art. 315 c.c. ha sancito inequivocabilmente l’unicità.
Questa è la vera priorità: apprestare con spirito laico e senza nascondersi dietro steccati ideologici regole dirette a fornire tutela a detti minori.
Non sembra inutile al riguardo ricordare che il 14 marzo 2023 la Commissione politiche europee del Senato ha approvato una risoluzione che, svolgendo rilievi critici alla proposta di Regolamento europeo in tema di filiazione e certificato europeo di filiazione, dopo aver ampiamente richiamato la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022 ha affermato che appare … condizione essenziale che la proposta preveda esplicitamente la possibilità di invocare la clausola dell’ordine pubblico in via generale su tutti i casi di filiazione per maternità surrogata, a condizione di assicurare una tutela alternativa ed equivalente, quale quella del citato istituto dell’adozione in casi particolari, e che ciò valga esplicitamente anche con riguardo al certificato europeo di filiazione.
1 V. in senso critico CALVANESE, La surrogazione di maternità realizzata all’estero e la sua punibilità in Italia, in giudicedonna.it, n. 1-2/2023; FUSCALDO, Il reato di maternità surrogata: ratio e questioni, in Diritto.it, 25 settembre 2023; GATTA, Surrogazione di maternità come “reato universale”? A proposito di tre proposte di legge all’esame del Parlamento, in Sistema Penale, 2 maggio 2023.
[2] V. sul punto D’ALOIA, Serve davvero il “reato universale” di maternità surrogata?, in federalismi.it,18 ottobre 2023.
[3]V. sul punto MANNA, Rilievi critici sulla penale rilevanza tout court della maternità surrogata e sulle proposte governative di qualificarla come “reato universale”, in Sistema Penale, 18 luglio 2023; PELISSERO, Surrogazione di maternità: la pretesa di un diritto punitivo universale. Osservazioni sulle proposte di legge n. 2599 (Carfagna) e 306 (Meloni), Camera dei Deputati, in Sistema Penale, 29 giugno 2021.
Sul tema si vedano anche Il totem del “reato universale” e quei bambini dimenticati dal Parlamento di Gabriella Luccioli, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia di Mirzia Bianca, Maternità surrogata. Le conclusioni della Procura generale all’udienza dell’8 novembre 2022. Requisitoria dell'Avvocato generale Renato Finocchi Gherzi, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022 di Mirzia Bianca, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso di Gabriella Luccioli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite di Arnaldo Morace Pinelli, Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite di Arnaldo Morace Pinelli, Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta. Nota a Trib. Milano 23.9.2021di Rita Russo, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33 di Arnaldo Morace Pinelli. Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S.Stefanelli) Intervista di Rita Russo, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? di Gabriella Luccioli, Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière. di Rita Russo, Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022 di Emanuele Bilotti, Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo, Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c., L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006) di Stefania Stefanelli, Il diritto alla cura dei nati contra legem di Alberto Gambino; Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021 di Gilda Ferrando, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 di Mirzia Bianca, Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia di T. Greco, Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione di Rita Russo, Fecondazione post mortem di Remo Trezza, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere. La lezione di Gabriella Luccioli: dalla discriminazione all’uguaglianza.
Lo stato dell’arte sui criteri di priorità nell’azione penale: evoluzione storica e prospettive future
di Federica Antonia Orlacchio
Abstract
Il contributo intende ripercorrere brevemente il percorso dei criteri di priorità nell’azione penale, dai primi sforzi organizzativi dei Procuratori, passando per le questioni relative all’assenza di una certa base normativa, sino alla recente valutazione di quest’ultima proposta da parte del Legislatore.
Evidenziando i punti più importanti di questo lungo dibattito, si vorrà da ultimo soffermarsi sulle varie proposte che hanno preceduto l’emanazione della l. 134/2021, meglio nota come Riforma Cartabia che ha, per la prima volta, introdotto una disciplina organica dei criteri di priorità, lasciando tuttavia aperti vari interrogativi. Di questi si sta attualmente discutendo in Commissione Giustizia, ove si sta valutando il testo del d.d.l. S-933, che intende completare il percorso avviato dalla riforma: esaminando il progetto, il presente contributo vorrà evidenziarne alcune criticità, interrogandosi sulle possibili soluzioni proposte in dottrina.
The article intends to briefly retrace the path of the priority criteria, starting from the prosecutors’ first organizational efforts, passing through issues related to a lack of a certain regulation, all the way to the recent evaluation of this proposal by the lawmaker.
By highlighting the most important points of this long debate, the article will lastly focus on the various proposals that preceded the emanation of the law no. 134 of 2021, better konwn as the Cartabia Reform, that for the first time introduced an organic discipline to the priority criteria, however leaving some questions open. These questions are currently being discussed by the Judiciary Committee where the text of the draft law no. S-933, which intends to complete the process started by the Reform, is being evaluated: by examining the project, this article aims to highlight some critical issues, questioning on the possibile soluzione propose in the doctrine.
Sommario: 1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost. – 2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese – 3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto – 4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa – 5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure – 6. Le scelte della Commissione Lattanzi – 7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134 – 8. I dubbi permangono – 9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933 – 10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost.
Lungo e tortuoso è stato il cammino che la proposta dei criteri di priorità ha dovuto affrontare in più di trent’anni di acceso dibattito, coinvolgendo importanti soggetti istituzionali sino a persuadere lo stesso Legislatore, finalmente intervenuto di recente dopo anni di colpevole inerzia, con un passo che, tuttavia, non sembra essere risolutivo.
È la legge n. 134 del 2021, meglio nota come Riforma Cartabia, a porre fine al silenzio sino ad ora serbato sul punto, nell’ottica di una più ampia aspirazione di ricostruzione organizzativa della giustizia penale, tentando di ovviare alla profonda crisi di efficienza, effettività e autorevolezza che essa patisce[1].
Una ritrosia, la sua, non da denunciare completamente, se solo vuol pensarsi alla grande tensione che l’“operazione priorità” ha da sempre presentato con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e, soprattutto, con le interpretazioni rigide, a tratti esasperate, che dello stesso, ancor oggi, la letteratura giuridica si ostina a dare: nell’affermare, alquanto laconicamente, che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, la norma detta un principio ontologicamente irrealizzabile, nella misura in cui pretende che la pubblica accusa assicuri paritaria e soprattutto dignitosa attenzione a tutte le notitiae criminis verosimilmente riconducibili a fattispecie criminose.
Ecco che la possibilità di assicurare prioritaria trattazione a taluni procedimenti rispetto ad altri cerca di ergersi da tempo quale possibile soluzione rispetto all’annoso problema dell’ingolfamento della macchina processuale, impiegando al meglio le poche risorse materiali e umane disponibili.
Insomma, per assicurare effettività non soltanto alla regola di cui all’art. 112 Cost. ma anche ai valori ad esso sottesi è indispensabile assumere un approccio realistico, acquisendo consapevolezza del discrimen intercorrente tra la dimensione concreta del principio di obbligatorietà (e, dunque, spazi valutativi fisiologici connaturati al dovere di agire) e patologiche deviazioni dalla ratio della scelta costituzionale[2].
In questo senso deve interpretarsi la proposta qui in commento, testimonianza più evidente dello sforzo di dottrina e magistratura di lasciare inalterato il principio della legalità dell’agire, permettendo tuttavia allo stesso di adeguarsi alla realtà.
Dunque, l’idea è semplice: dinanzi all’impossibilità ormai riconosciuta di analizzare con la stessa tempistica tutte le notizie di reato, la migliore soluzione, ponendosi in una prospettiva pragmatica, sarebbe quella di individuare, sulla base di canoni obiettivi, un ordine di preferenza nello svolgimento delle indagini[3].
2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese
Trattasi di un’impostazione particolarmente suggestiva, emblematicamente suggerita dagli stessi uffici inquirenti: la paternità del problema è ascrivibile alle famose circolari torinesi, essendo state le prime ad aver avuto il “pregio di affrontare senza reticenze ed ipocrisia il problema”[4].
Fu Vladimiro Zagrebelsky, allora a capo della Procura torinese, ad inaugurare, nel 1990, questa nuova filosofia dell’organizzazione del lavoro, proponendo una “risposta trasparente ad uno stato di necessità”[5]: egli, partendo dal dato fattuale concernente l’eccessivo sovraccarico della procura torinese e la limitata capacità di lavoro dell’ufficio, anelava ad una programmazione dello stesso sotto il profilo quantitativo, affermando per questa via l’ineluttabilità dell’elaborazione dei criteri di priorità nella conduzione delle indagini preliminari. Sottolinea, tra l’altro, che tale modus operandi non sarebbe in contrasto con con il dettato costituzionale in tema di obbligatorietà, posto che il mancato esercizio dell’azione penale per tutte le notizie non infondate deriverebbe non tanto da considerazioni di opportunità relative alla singola notitia criminis, quanto piuttosto dall’oggettiva incapacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso.
Assolutamente lontano sarebbe pertanto il pericolo di sconfinare in arbitrio assoluto dell’ufficio, impedito a monte dai principi costituzionali di eguaglianza da un lato, e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione dall’altro.
In sostanza, nell’ottica di Zagrebelsky, i criteri di priorità si articolano verso l’alto, e dunque nella direzione di un’elevata prelazione per i reati più gravi in base alle pene edittali, alle singole tipologie di reato, alla posizione della vittima e all’attualità cautelare[6].
Qualche anno più tardi, è ancora una volta la Procura di Torino ad offrire un ulteriore spunto sul tema, riaccendendo in chiave critica il dibattito: la “Circolare Maddalena” del 2007[7], successiva all’approvazione della legge 31 luglio 2006, n. 24, recante “Concessione di indulto”[8], articolava diversamente i criteri, questa volta verso il basso, in virtù di valutazioni meramente procedimentali, postergando procedimenti a citazione diretta, con indagati irreperibili o quando ancora fosse prossima la prescrizione del reato.
Evidenziata la difficile situazione in cui versavano il sistema giudiziario in generale e facendo emergere le disastrose inefficienze provocate proprio dal provvedimento clemenziale, il Procuratore riteneva “contrario ad ogni logica insistere nel trattare tutti e comunque i procedimenti pendenti”: invitava pertanto ad un uso parsimonioso dell’azione penale, privilegiando “la strada della richiesta di archiviazione (anche generosa) ogni qualvolta appaia praticabile e anche solo possibile”[9].
Lungi dunque dal guardare al futuro, come la precedente, la circolare in questione si fermava al presente[10], mirando ad esaurire le pendenze inattive e affermando, per la prima volta, la regola dell’accantonamento degli affari non prioritari, tenuto conto di una serie di fattori legati “all’oggettività del fatto, alla gravità della lesione degli interessi protetti, alla soggettività del reo, all’ interesse all’azione dell’indagato o imputato o delle persone offese, alla irreperibilità dell’indagato etc. etc.”[11].
3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto
I provvedimenti torinesi fanno da precedente e divengono con il tempo un indiscusso punto di riferimento per altrettante Procure della Repubblica, le quali dimostrarono, negli anni a venire, un regolare attivismo a riguardo. Emulando i propositi delle circolari cui si è fatto cenno, sono stati adottati nel tempo provvedimenti simili, ispirandosi a scelte prioritarie sulla base di specifiche esigenze e tenuto conto delle rispettive realtà circondariali: tutto ciò ha dato vita alle cd. buone prassi, ossia delle prassi organizzative che tentano di smaltire nel modo più efficace il flusso di affari[12].
Esse hanno ricevuto il placet da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha sposato la causa in maniera sempre più convinta, arrivando al punto di interpretare l’adozione dei parametri orientativi nella gestio degli affari penali (di cui valorizzava la natura prettamente organizzativa) in termini di sostanziale doverosità, nell’ottica di maggiore efficienza della giustizia e anche di uniformità dell’azione penale[13].
Tuttavia, per quanto encomiabili fossero gli sforzi organizzativi delle Procure – essendo testimonianza di una forte responsabilizzazione e presa di coscienza da parte degli stessi operatori del processo – i medesimi venivano censurati dai più, per la mancanza di una norma che conferisse alle loro scelte oggettività e predeterminazione: è proprio questo, anzi, il passaggio che ha concentrato le principali contestazioni della dottrina più ostile poiché – si diceva – una gestione orizzontale avrebbe rischiato di scalfire i contorni di una regola costituzionale sempre più in crisi.
Non può comunque nascondersi che, negli anni, vi sono stati degli interventi che hanno dato alla luce nuove norme nelle quali, non senza difficoltà e sforzo interpretativo, si è cercato di trovare un appiglio all’“operazione priorità”: il massimo risultato a cui è pervenuto il Legislatore in tempi più lontani sta nella norma dettata in tema di riforma del giudice unico, ossia l’art. 227 del d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51[14]. Con la disposizione de qua si è, per la prima volta, normativamente accreditata l’idea che la selezione delle notizie di reato potesse rappresentare, in una prospettiva futura, la soluzione alla malvista discrezionalità di fatto incontrollata[15].
Poco dopo il Legislatore è intervenuto nuovamente sul tema, attraverso il d. l. 24 novembre 2001, n. 341[16], che ha introdotto l’art. 132-bis tra le disposizioni di attuazione del codice di rito, con il quale sono state create corsie preferenziali per taluni procedimenti ai fini della formazione dei ruoli d’udienza da parte degli uffici giudicanti, inizialmente per ragioni spiccatamente processuali, ossia là dove si pongono gravi ragioni d’urgenza con riferimento alla scadenza dei termini cautelari. Nondimeno, l’attuale profilo contenutistico risulta sensibilmente diverso, essendo stato oggetto di ripetuti interventi normativi[17] che ne hanno mutato l’originale assetto, risultando ora comprensivo di ipotesi così eterogenee che pare difficile rinvenire per le stesse una base comune.
Per quanto apprezzabile fosse l’intento legislativo di regolamentare, secondo canoni oggettivi e soprattutto verificabili, delle priorità, nessuna delle due norme oggetto di precedente disamina ha permesso di individuare una copertura legale alle prassi.
Anzitutto militava in senso opposto l’incontestabile circostanza che entrambe fossero non tanto rivolte ai pubblici ministeri, bensì agli uffici giudicanti[18]; e, ancora, che le medesime fossero prospettate ad un momento successivo all’esercizio dell’azione penale, dunque in quanto tali non avevano rilevanza alcuna per la determinazione delle priorità, che invece si pone nei primi momenti del segmento meramente procedimentale.
4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa
L’indiscutibile incertezza derivante dall’assenza di una solida base normativa ha quindi da sempre rappresentato un’evidente criticità della teoria dei criteri di priorità, messa in discussione da quanti guardavano alle attività delle Procure come eccentriche, difettando queste ultime di fonte legislativa di rango primario.
Fondamentalmente, la predeterminazione legislativa delle precedenze da seguire nella trattazione delle notizie di reato sarebbe l’unica via per ridurre l’inventiva della magistratura inquirente, alla cui libera scelta verrebbe altrimenti rimessa la sorte di taluni procedimenti.
A dire il vero, quest’ultima strada è stata percorsa in passato, addirittura dall’Organo di autogoverno della Magistratura, tanto in sede disciplinare[19] che in altre occasioni: anzi, rebus sic stantibus, questa sarebbe apparsa per taluni la migliore soluzione poiché il magistrato inquirente disporrebbe di maggiore conoscenza, rispetto ad un legislatore lontano e distratto[20], della realtà delinquenziale del territorio di sua competenza, pertanto sarebbe maggiormente in grado di calibrare la risposta alla tracotanza degli autori del reato[21].
Quella della definizione dal basso delle priorità si sarebbe allora presentata come soluzione necessitata dinanzi alla non più tollerabile neghittosità del legislatore, che è invece intervenuto su altri settori – depenalizzazione, deproccessualizzazione, potenziamento dei riti alternativi – con scarsi risultati.
Una tale affermazione viene tuttavia – opportunamente – contestata da quanti paventano il pericolo che una giustizia a macchia di leopardo possa presentarsi sì più vicina ai cittadini, ma effettivamente pericolosa. Permettere agli uffici di Procura di provvedere ex se porrebbe le basi per una differente applicazione della legge penale e per una disparità di trattamento tra individui che si troverebbero ad essere trattati in maniera assai diversa, a seconda del luogo in cui abbiano commesso il medesimo reato. Il che, a tacer d’altro, non soltanto determinerebbe momenti di tensione con l’art. 112 Cost., ma anche con gli artt. 3 e 25 Cost.[22].
Se allora la fissazione delle priorità diviene espressione di indirizzo politico in materia criminale, l’unica scelta da prendere in considerazione sarebbe quella di un coinvolgimento attivo del Parlamento: anzi, questa risulta essere la via maestra per quanti si dicono favorevoli all’introduzione dei criteri di priorità. In uno Stato di diritto ed in base ad un elementare principio di separazione di poteri, tale organo dovrebbe essere l’unico a poter regolare il sistema penale, decidendo di volta in volta, in base a trasparenti criteri di politica giudiziaria, a quale categoria di reati dare l’eventuale precedenza[23].
Una soluzione del genere avrebbe un indubbio pregio nell’ottica di conferire legittimazione democratica alle scelte di politica criminale compiute dalla pubblica accusa, anzi le assicurerebbe il massimo grado: l’idea di un collegamento tra quest’ultima e il Parlamento poggia sull’opinione per cui, all’organo che rappresenta in maniera diretta i cittadini, spettano poteri di controllo democratico su tutte le attività di rilevanza pubblica e conseguenzialmente, su una delle più importanti, ossia l’esercizio della funzione requirente[24].
Ecco che, allora, l’unico soggetto legittimato alla definizione delle priorità non può che essere proprio l’organo legislativo: calzante e significativa l’osservazione secondo cui come solo quest’ultimo può provvedere alla predisposizione di fattispecie criminose, così non può non essergli devoluto l’eventuale compito di dettare priorità ai fini dell’esercizio dell’azione penale, attraverso uno strumento suscettibile anche di controllo di costituzionalità[25].
5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure
Gli interrogativi posti dalle precedenti riflessioni non hanno ricevuto integrale soddisfazione nel d.d.l. Bonafede, presentato dal Governo Conte II alla Camera il 13 marzo 2020: l’AC 2435[26], nell’intento di assicurare l’efficacia della risposta giudiziaria, assegnava – all’art. 3, comma 1, lett. h) – al legislatore delegato il compito di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Si continuava poi che “nell’elaborazione dei criteri di priorità, il Procuratore della Repubblica, curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.
Una novità, come si è detto, rilevante ma non sconvolgente[27]: difatti, non è difficile cogliere l’aderenza del disegno qui prospettato alle prassi che si sono andate formando[28], e la sua perfetta rispondenza alle indicazioni del C.S.M. succedutesi negli ultimi quindici anni.
Il circuito ivi delineato si colloca infatti interamente nell’ambito giudiziario, dall’individuazione all’applicazione, sino al controllo sull’attuazione dei criteri di priorità[29]: in un’ottica “autoreferenziale”[30] si prevedeva che l’elaborazione dei medesimi fosse devoluta alle Procure e ai progetti organizzativi redatti dai dirigenti degli Uffici del pubblico ministero. Venne attivamente coinvolto anche lo stesso C.S.M che avrebbe assicurato trasparenza nella gestione dell’azione[31]: si anelava dunque ad un dialogo ed una costante comunicazione che avrebbe dovuto – nelle intenzioni del progetto – assicurare maggiore omogeneità.
Siffatta impostazione venne tuttavia caldamente osteggiata dalla dottrina maggioritaria, la quale le muoveva aspre critiche per aver sostanzialmente sottratto al legislatore una sua funzione.
Le voci dei più auspicavano per contro un ruolo maggiormente significativo per il Parlamento, evidenziando profonde criticità della proposta: anzitutto il meccanismo delineato dal d.d.l. Bonafede avrebbe assegnato un ruolo politico alla magistratura, responsabilità che non le compete[32]; quest’ultimo sembrava poi essere insensibile a tutte le criticità derivanti da un conferimento del compito di predeterminazione dei criteri alle singole Procure, poiché non avrebbe scongiurato il rischio di una perseguibilità dei reati a macchia di leopardo[33].
Insomma, un disegno poco convincente. Ciononostante, un qualche consenso pur lo meritava e nello specifico con riferimento al meccanismo di individuazione dei criteri di priorità, nella misura in cui si chiamava il Procuratore della Repubblica a raccordarsi con gli uffici giudicanti – naturali destinatari dei provvedimenti in cui si concretizza la scelta di agire – e anche quella opposta affidata alla richiesta di archiviazione, collocando le sue determinazioni nella più ampia dimensione del distretto.
Osservandolo più attentamente, questo modello partecipato non negava totalmente il ruolo del Parlamento, ma lo articolava diversamente: la sua tipica funzione di controllo sarebbe stata invero assicurata dalla previsione secondo cui il Ministro della giustizia avrebbe provveduto all’illustrazione dell’andamento della gestione dell’azione nei vari distretti giudiziari, nel più ampio ambito delle comunicazioni annuali sull’Amministrazione della giustizia ex art. 86 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12[34].
Il Legislativo avrebbe così verificato la congruità dei dati acquisiti, ora chiedendone la correzione, ora valutando l’eventuale necessità di un intervento del Governo, volto ad assicurare un maggiore stanziamento di risorse per la revisione di taluni criteri.
6. Le scelte della Commissione Lattanzi
Per ovviare comunque alle permanenti perplessità verso il progetto sopra delineato, con la formazione del Governo Draghi, la Ministra della giustizia Prof. Marta Cartabia insediò una nuova commissione di studio per elaborare proposta di riforma: con il decreto del 16 marzo 2021 venne infatti costituita presso l’ufficio legislativo del Ministero una commissione “per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in tema di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge AC 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizone dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”.
Le modifiche presentate intendevano quindi accogliere tutte le critiche avanzate all’originaria proposta, provvedendo ad un’intensificazione del ruolo del Parlamento: ne risulta un progetto di profonda distanza culturale e tecnica[35].
La Commissione Lattanzi, “in piena aderenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento”[36], intendeva dunque rimettere a quest’ultimo organo il delicato ruolo delle priorità: lo avrebbe fatto attraverso un’indicazione periodica di criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità, che avrebbe fatto riferimento all’apposita relazione del C.S.M. sugli effetti prodotti nel periodo precedente.
Una volta poi definita la cornice dell’alto, si sarebbero mossi i singoli uffici giudiziari che avrebbero provveduto autonomamente, stabilendo dei criteri “dinamici” che tenessero conto della realtà locale – tanto sotto il profilo criminale quanto sotto quello organizzativo – per assicurare concretezza alle scelte parlamentari. In quest’ottica, dunque, sarebbe stato superato l’elenco di criteri statici contemplato all’interno dell’art. 132-bis disp. att. c.p.p. che – si sottolinea nella Relazione – hanno dimostrato negli anni “tutta la loro inidoneità a garantire razionale ed effettiva trattazione degli affari penali”.
Si evidenziava, pertanto, da parte dei primi commentatori, la contrapposizione tra le periodicità delle regole parlamentari e la dinamicità dei criteri dei singoli uffici di Procura, espressione di scelte di politica criminale e di una puntuale concretizzazione delle stesse sul piano territoriale. La Commissione, com’è stato evidenziato, si è mossa dunque con condivisibile cautela e delicatezza, cercando di non urtare la sensibilità degli uffici giudiziari, privati di quella competenza esclusiva che riservava loro il d.d.l. Bonafede[37].
Ad ogni modo, bisognava tessere le lodi del disegno qui in commento per la scelta di rendere obbligatorio l’intervento del Parlamento nella definizione delle priorità, considerata la loro afferenza alla materia di politica criminale. Un tratto che rendeva di gran lunga preferibile quest’ultimo rispetto al precedente, non foss’altro per una sua evidente armonia con il fisiologico rapporto tra potere legislativo e giudiziario: il primo dà le determinazioni di principio, ed il secondo, lungi dal vedersi attribuito un ruolo di mero esecutore di direttive altrui, le specifica concretamente[38].
Opinabile era invece l’eccessiva genericità della formula con cui veniva devoluto al Parlamento il compito di dettare criteri generali: essa risultava particolarmente equivoca nella misura in cui, non parlando expressis verbis di legge, lasciava aperta l’ipotesi che vi si provvedesse per il tramite di un atto di indirizzo. Atti che non difficilmente dimostrano la loro inattitudine ad assumere tali connotati: basti qui ricordare che trattasi di atti per loro natura fluidi, nel contenuto e nelle forme, dunque in quanto tali maggiormente esposti alle fluttuazioni derivanti dalle mutevoli congiunture politiche[39].
7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134
Finalmente si approda all’emanazione del testo definitivo[40], il quale assegna al legislatore una traccia sensibilmente differente: si legge nell’art. 1, comma 9, lett. i) che “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforma esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Si conclude poi per la necessità di “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”[41].
In continuum rispetto alle scelte precedenti, si ritiene indispensabile quell’elemento interlocutorio interno alle stesse realtà circondariali, volto ad assicurare maggiore omogeneità. Salta, tuttavia, subito all’occhio una fondamentale differenza rispetto alle proposte della Commissione Lattanzi: la determinazione dei criteri da parte del Parlamento non viene affidata all’atto periodico di indirizzo politico; bensì allo strumento solenne, impegnativo e soprattutto stabile della legge che dunque, in quanto tale, risulterà vincolante per tutti gli operatori[42].
Una legge cornice rigida – dunque non periodica – completata dalle successive scelte dei capi degli uffici, sembra essere quindi un buon tentativo di mediazione, che lasci giusti spazi di manovra ai Procuratori della Repubblica ma al contempo impedisca loro di tirare troppo, con il rischio che si spezzi “la corda dell’irresponsabilità politica”[43].
Per dare attuazione alla delega, è intervenuta la minimale disciplina contenuta nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150[44], la quale ha preso posizione su poche questioni. In effetti, per dare seguito alla delega sono state adottate una serie di disposizioni non tutte contemplate all’interno del decreto legislativo che intende adempiervi: la Relazione di accompagnamento sottolinea che, nelle more dell’adozione dell’atto avente forza di legge, il Parlamento è intervenuto con la legge 17 giugno 2022, n. 71, prevedendo una modifica dal punto di vista ordinamentale[45]. Il doppio intervento supporta l’idea che i criteri di priorità abbiano una duplice rilevanza, non avendo questi essenzialmente natura procedimentale, bensì incidendo anche su scelte organizzative, sin dall’attività successiva all’iscrizione della notizia di reato[46].
Dal punto di vista procedimentale, l’art. 1, comma 1, lett. a) interviene allora sulle disposizioni di attuazione attraverso l’introduzione dell’art. 3-bis, ove si prescrive che il pubblico ministero, tanto nella trattazione delle notizie di reato quanto nell’esercizio dell’azione penale, debba conformarsi ai criteri di priorità contenuti all’interno del progetto organizzativo della Procura. Contestualmente viene introdotto l’art. 127-bis disp. att. c.p.p. dove si prevede che, nell’esercizio dei poteri di avocazione che spettano al Procuratore generale, si tenga conto dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio della Procura della Repubblica. Un’introduzione, si dirà, assolutamente doverosa per assicurare coerenza tra la neo-introdotta disciplina delle priorità con quanto previsto in tema di avocazione: in mancanza, vi sarebbe un paradosso nell’“avocazione per inazione”, rispetto ad un’inazione che trova giustificazione proprio nei criteri di priorità[47].
La norma necessita tuttavia di una lettura in combinato disposto con la novellata disciplina ordinamentale, secondo cui la predisposizione dei criteri, all’interno dei progetti organizzativi adottati a cadenza quadriennale e nel più ampio ambito dei criteri generali stabiliti dal Parlamento, dovrà tener conto del “numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. A dire il vero, dalla norma risulta un ingranaggio procedurale particolarmente complesso, cui viene data voce a diversi soggetti[48], provvedendo così ad una procedimentalizzazione dei criteri di priorità: i progetti organizzativi dovranno infatti essere approvati, fatte eventuali osservazioni del Ministro della giustizia, dal C.S.M. in quanto conformi agli standard dallo stesso dettati; dovranno poi essere ascoltati i dirigenti degli uffici giudicanti e il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati.
8. I dubbi permangono
Se per alcuni il risultato così raggiunto può rappresentare un punto di arrivo, esso altro non è che un punto di partenza.
Ciò è maggiormente chiaro laddove si tenga presente che quello che dai più era stato definito come intervento epocale, si limita a prevedere lo stretto necessario per consentire la redazione e l’operatività dei criteri di priorità: vengono infatti pericolosamente lasciati aperti taluni – o meglio, troppi – interrogativi, che non permettono di dirimere i contrasti che hanno sempre caratterizzato la proposta dei criteri di priorità, anzi, potrebbero essere in grado di potenziarli. Il Legislatore, piuttosto che lasciare al non detto davvero poco, va in tutt’altro senso: nulla dice, ad esempio, circa la periodicità o “fissità” della legge cornice. Propenderebbe nel primo senso la mutevolezza, nel tempo, della criminalità e delle esigenze della sua repressione[49]; nel senso opposto, invece, plurimi fattori: anzitutto, si dice, se il Legislatore avesse realmente voluto rendere periodica la legge cornice, lo avrebbe fatto expressis verbis[50], o ancora, la circostanza che pur proposta durante i lavori parlamentari, non è stata inserita nel testo definitivo.
Ulteriori incertezze concernono il riferimento ai “criteri generali”, ponendo una locuzione così generica una serie di questioni: dovrebbe essere sia evitata una mera predisposizione di elenco di reati da preferire, direttamente proveniente dal Legislativo, tanto una statuizione eccessivamente vaga, tale da riconoscere ampio spazio discrezionale alle Procure.
Difficoltà tutte avvertite dal Parlamento che, a distanza di quasi due anni dalla delega, tarda a stilare una griglia di criteri generali: le Procure, nel frattempo, attendono, tant’è che si è reso doveroso per l’Organo di autogoverno intervenire nuovamente[51].
Le acque sembrano tuttavia cominciare a smuoversi: in questi mesi si sta discutendo, in Commissione Giustizia, del d.d.l. S-933, intitolato “Disposizioni di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale” di iniziativa dei senatori Zanettin e Stefani. Nell’ottica di ovviare ad una serie di lacune ed incongruenze della disciplina attuativa della delega, i proponenti intendono, tra le altre cose, affiancare all’art. 3-bis disp. att. c.p.p. un nuovo articolo 3-ter, prefiggendosi di cristallizzare il rispetto del principio per cui il pubblico ministero debba attenersi ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi, a tal fine indicandoli specificamente[52]:
9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933
Questa (tardiva) iniziativa legislativa – non semplicemente opportuna, ma assolutamente necessaria – si espone nondimeno ad una serie di critiche.
Anzitutto si evidenzia, da parte dei primi commentatori, un vizio di fondo: la proposta sembra infatti alterare l’equilibrato meccanismo compromissorio delineato dalla l. 134/2021 prima e dalla l. 71/2022 poi, che unisce una valutazione preventiva definita all’interno di una legge cornice alla concretizzazione di quelle stesse indicazioni da parte dei Procuratori, i quali vi provvedono attraverso un procedimento partecipato.
A ben vedere, il d.d.l qui in commento introduce direttamente – come parametro di riferimento dell’attività dei pubblici ministeri – i criteri di priorità, non facendo più comprendere quale sia il rapporto tra i criteri generali di spettanza del Legislatore e quelli “di dettaglio” contenuti nel progetto organizzativo[53].
Non convince, poi, l’estrema vaghezza che lo contraddistingue: in effetti le lett. a) e c) sembrano sposare una logica piuttosto ampia, ispirata a criteri formali e oggettivi, che sebbene appaia coerente con l’intento del Legislatore di definire dei “meta-criteri”, risulta essere eccessivamente generica. In effetti, il criterio della “gravità dei fatti” appare poco specifico, sino al punto di divenire privo di contenuto precettivo. Tale problema interpretativo, tuttavia, potrebbe trovare una soluzione se si facesse riferimento alle previsioni edittali: un Legislatore attento e sensibile, si dice, è colui che gradua la pena sulla base della gravità del reato[54].
I medesimi problemi si pongono poi per il riferimento all’ “offensività in concreto del reato” che, anzi, rischia addirittura di sovvertire ogni criterio generale di priorità sulla base di una valutazione concreta, effettuata caso per caso dall’Autorità Giudiziaria procedente[55].
Un’ispirazione diversa sembra invece connotare la lett. b) che identifica singole fattispecie di reato, sicuramente coerente con l’ottica del “doppio binario” che, in aderenza a direttive sovrananzionali, intensifica la tutela di vittime di taluni reati, velocizzando i tempi dei relativi procedimenti. Nondimeno, essa non soltanto rischia di determinare una disomogeneità e poca chiarezza del dettato legislativo, ma accentua il pericolo di cavalcare, per questa via, l’onda dell’emotività dell’opinione pubblica, molto instabile e soprattutto particolarmente suggestionabile.
Discutibile risulta poi il richiamo, nella lett. a), “alla realtà criminale e alle esigenze di protezione della popolazione”: una scelta, questa, giustificata dai proponenti in virtù del forte legame tra le medesime e i criteri di priorità e, tra le altre cose, perfettamente rispondente alle indicazioni dell’Organo di autogoverno nella “super-circolare” del 2017, che riconosce ai pubblici ministeri un compito di mediazione tra le istanze del territorio e l’azione penale[56]. Orbene, un soggetto politicamente irresponsabile e privo di legittimazione democratica come la pubblica accusa non potrà misurare sic et sempliciter la maggiore o minore sensibilità della comunità rispetto alla persecuzione di taluni reati: quest’ultime integrerebbero valutazioni di carattere politico, in quanto tali in collisione con l’art. 112 Cost., che ammette tutt’al più una discrezionalità tecnica.
Così come formulato, allora, tale “meta-criterio” non convince: per allontanare i pericoli di una regionalizzazione del sistema a scapito dell’uniformità dell’azione penale, sarebbe necessaria una cornice legislativa più stringente e stabile – la cui completezza presupporrebbe un’analisi di vari fenomeni criminali e peculiarità regionali – che potrà essere poi adeguatamente dettagliata dai singoli Procuratori.
Tantomeno condivisibile la seconda parte della lett. c), nella misura in cui raccorda la previsione dell’offensività in concreto alla condotta della persona offesa: una lettura poco approfondita lascerebbe addirittura intendere che sia la volontà di quest’ultima a condizionare la determinazione delle priorità, in palese contrasto con i principi del nostro sistema[57].
Più chiaro invece si presenta forse il richiamo al “danno patrimoniale o non”, riferendosi ad un concetto di gravità in concreto del fatto, desumibile dal danno provocato; mentre del tutto inopportuno è il profilo della mancata partecipazione dell’indagato ai percorsi di giustizia riparativa: certo, una lettura – troppo – generosa potrebbe permettere di ricavarne indirettamente una valorizzazione in positivo per l’indagato che decida di parteciparvi. Ma, comunque, più forti sono i dubbi di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., che non può vedersi così condizionato.
A prescindere dal discutibile profilo contenutistico, ciò che desta maggiori perplessità è il mancato coordinamento con il nutrito catalogo di reati cui dare una precedenza nella formazione di ruoli d’udienza e trattazione dei processi, ossia l’art. 132-bis disp. att. c.p.p[58]: quandanche la norma abbia costituito guida irrinunciabile per la fase investigativa, essa risponde ad una logica del tutto differente, per cui sarebbe necessaria un’armonizzazione tra gli uffici requirenti e giudicanti che sia rispettosa della razionalità del sistema e dunque degli artt. 3 e 111 Cost. Anzi, si osserva, l’occasione potrebbe essere proprizia per una riscrittura dell’infelicissima norma che, a dire il vero, non ha mai funzionato: certo, l’operazione è alquanto delicata e difficile.
10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
Le riflessioni che precedono dimostrano come l’acceso dibattito sui criteri di priorità fatichi a trovare soluzione.
Certo è che sul Parlamento grava un compito delicatissimo: per quanto lacunosa, la recente iniziativa legilsativa ha l’indubbio merito di aver preso dichiaratamente posizione in questo articolato dibattito, in cui ancora forti sono le voci dottrinali che si dicono assolutamente contrarie all’introduzione dei criteri di priorità all’interno di un ordinamento, come quello italiano, governato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Si tratta di un veicolo normativo da trasformare secondo talune direttive per far sì che diventi un vero e proprio statuto dei criteri di priorità. Ecco, dunque, i nodi da sciogliere.
Si auspica una maggiore chiarezza del dettato normativo, che definisca anzitutto cosa debba intendersi per fascicolo prioritario: ciò, infatti, non significa semplicemente “metterlo davanti” ad altri, ma destinare ad esso le migliori risorse umane e materiali; sono scelte da ponderare attentamente, per allontanare il rischio di condannare i reati “secondari” ad una sicura prescrizione. Doveroso sarà poi il coordinamento con l’art. 132-bis disp. att. c.p.p., per assicurare omogeneità tra priorità investigative e quelle da seguire nella fase giudicante: il traino dovrebbe essere individuato nelle prime, cui facciano seguito i criteri nella formazione dei ruoli d’udienza.
Ulteriore tratto su cui la proposta rimane discutibilmente silente è quello relativo alle conseguenze della mancata osservanza dei criteri definiti dai progetti organizzativi: è una questione particolarmente delicata, poiché si tratterebbe di capire se, ad esempio, possa essere sottoposto a procedimento disciplinare il magistrato che non abbia osservato la scala delle priorità, esercitando l’azione penale che il dettato costituzionale proclama obbligatoria; non si dimentichi che è tuttavia possibile valorizzare a tal fine un rimedio processuale già presente nel nostro ordinamento, qual è quello dell’avocazione, la cui disciplina è stata già adeguata alle novità di cui qui si sta tenendo conto.
Si tratta, insomma, di questioni che non possono essere lasciate aperte, ma che al contrario necessitano di un approfondito esame.
[1] Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR. La Procura tra prospettive organizzative, temi istituzionali e scelte comportamentali, in Quest. giust., 2021, p. 55.
[2] Fiandaca-Di Chiara, Il pubblico ministero e l’esercizio dell’azione penale, in Una introduzione al sistema penale: per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, 2003, p. 248.
[3] Catalano, Introduzione, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 1 ss.
[4] Ceresa-Gastaldo, Dall’obbligatorietà dell’azione penale alla selezione politica dei processi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, p. 1427.
[5] Rossi, Per una concezione “realistica” dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, p. 315. L’espressione in realtà è una costante in tutte le delibere del Consiglio Superiore della Magistratura tese ad esprimere un favor verso gli sforzi organizzativi degli uffici inquirenti.
[6] Si specifica infatti che non è possibile definire le priorità sulla base del mero criterio cronologico, nè tantomeno è possibile affidarsi alla debole indicazione della semplicità e della rapidità della trattazione dell’indagine preliminare, occorrendo una valutazione maggiormente approfondita. Punto di riferimento indiscusso saranno considerazioni rivenute all’interno dello stesso ordinamento e sulla ragionevolezza su cui esso si fonda.
[7] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, in Quest. giust., 2007, p. 621 ss.
[8] L’approvazione della legge di indulto, non essendo stata accompagnata da un parallelo provvedimento di amnistia, aveva sollevato non pochi problemi, avendo comportato l’immediata liberazione dei detenuti, ma senza tuttavia aver alleggerito gli uffici dal carico giudiziario esistente.
[9] Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, in Proc. pen. e giust., 2022, p. 62 ss.
[10] Una differenza sottolineata dallo stesso autore della circolare nel su intervento al Convegno La circolare Maddalena e il futuro dell’obbligatorietà dell’azione penale (Torino, 12 marzo 2007), organizzato dalla Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e Valle D’Aosta. Qui afferma infatti che “è profondamente diversa dalla circolare Zagrebelsky perchè tra la mia e quella antecedente passa la stessa differenza che c’è tra futuro e passato: mentre la prima impostava una prospettiva futura, la mia si è limitata a prendere atto di una certa situazione, di un certo provvedimento che sicuramente introduceva una nota di minore utilità in una situazione in cui, di fatto, gli uffici giudiziari torinesi sarebbero arrivati inevitabilmente a seguito del formarsi delle serie di discrezionalità che si sommano”. Si ascolti l’intero intervento in https://www.radioradicale.it/scheda/220013/la-circolare-maddalena-e-il-futuro-della-obbligatorieta-dellazione-penale.it.
[11] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, cit., p. 621 ss., punto 7.
[12] Così Sottani, Organizzazione degli uffici di procura. Modelli organizzativi e bilanci delle Procure della Repubblica, in L’obbligatorietà dell’azione penale. Atti del XXXIII Convengo Nazionale di Verona 1-12 ottobre 2019 dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Giuffrè, 2021, p. 64.
[13] Sul punto, si veda l’analisi di Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi es esercizio dei poteri di vigilanza, in Dir. pen. cont., 9 novembre 2016, p. 7 ss; Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, in Quest. giust., 2021, pp. 86-91.
[14] Secondo la norma “Al fine di assicurare la rapida trattazione dei processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio, che può derivare da ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa”.
[15] Frioni, Le diverse forme di manifestazione della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 557. Effettivamente, l’intervento normativo qui in commento si pone come un’importante risposta, in ambito penale, alle difficoltà organizzative che già gravano sul sistema e che maggiormente si sarebbero poste in virtù della ristrutturazione degli uffici giudiziari secondo il modello del giudice unico. In un tale contesto, il legislatore non si è semplicemente limitato ad operare su un piano prettamente organizzativo, ma è piuttosto intervenuto sulla disciplina processuale, allo scopo di stimolare la rapida definizione dei procedimenti in corso attraverso l’introduzione di specifici meccanismi acceleratori. Si legga sul punto il prezioso contributo di Bresciani, Commento all’articolo 227 d. lgs. 19/2/1998 – Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, in Leg. pen., 1998, p. 475 ss.
[16] “Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia”, convertito con modifiche nella l. 19 gennaio 2001, n. 4.
[17] D. l. 23 maggio 2008, n. 92 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), conv. con modif. dalla l. 24 luglio 2008, n. 125; d. l. 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema id protezione civile e di commissariamento delle province), conv. con modif., dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119; l. 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice di penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) e la l. 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate); l. 26 aprile 2019, n. 36 (Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa).
[18] Così, Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 56; Frioni, Le diverse forme di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen¸ 2002, p. 557; Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in Cass. pen.¸ 2020, p. 12 ss; Maffeo, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 65.
[19] Conviene qui ricordare il famoso “Caso Vannucci” riportato in Cass. pen., 1998, p. 1490 ss.
[20] Deganello, Notizie di reato ed ingestibilità dei flussi: le scelte organizzative della procura torinese, cit., p. 1592 ss.
[21] Catalano, L’individuazione dell’organo cui affidare la fissazione dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 155.
[22] Così Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss. Si fa poi notare in dottrina, tra le altre cose, che come la magistratura non potrebbe dar vita a fattispecie penali di derivazione giurisprudenziale, per le stesse ragioni non potrebbe allestire criteri gerarchici che accelerino o decelerino la persecuzione dei reati, poiché così facendo le si riconoscerebbe una discrezionalità politica che non le si addice. Si tratta di un passaggio opportunamente evidenziato da Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16 il quale continua che “non bisogna confondere i progetti semplicemente organizzativi, al cui elaborazione spetta alle procure, con i criteri di priorità che incidono sulla persecuzione dei reati, sino a comprometterla di fatto per reati collocati nella fascia inferiore”.
[23] Petrelli, Azione penale, non basta la super-circolare, Il Mattino, 26 novembre 2017.
[24] Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, p. 286.
[25] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16.
[26] “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso la corte d’appello”.
[27] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, in Quest. giust., 2021, p. 50.
[28] Anzi, sarebbe chiara la volontà di fornire alle medesime una base normative ad hoc. Così Gialuz-Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia approda alla camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 2020, p. 164 ss. Questi ultimi Autori criticano la suddetta proposta, aspettandosi che si intervenisse diversamente, e cioè attribuendo ruolo centrale al Parlamento: anelavano, per questa via, che fosse “lo stesso Parlamento a rivendicare a sé la responsabilità di dettare le direttive generali in tema di criteri di priorità, le quali potrebbero poi essere specificate, tenuto conto delle peculiarità territoriali, a livello di procure. È evidente la difficoltà di tale prospettiva, ma sarebbe certamente più rispettosa dell’architettura costituzionale. Ove una tale strada non sia considerata politicamente percorribile, quantomeno è auspicabile che venga chiarito in modo esplicito nel testo della legge delega, per come oggi configurato l’obbligo in capo alle procure della Repubblica di rispettare nella stesura dei criteri di priorità le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura, onde assicurare così almeno una certa uniformità tra i parametri adottati a livello locale”.
[29] Si veda sul punto Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, in Quest. giust., 2021, p. 78; Monaco, Riforma della giustizia penale e criteri di priorità nell’esercizio dell’azione, in Federalismi.it, 2022.
[30] Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 76 ss.
[31] Giarda-Spangher, Art. 3-bis – Priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, in Codice di procedura penale commentato, Wolters Kluwer, 2023, tomo IV, p. 3152 ss.
[32] Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, cit., p. 59.
[33] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, cit., p. 50.
[34] Maffeo, I criteri di priorità tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss.
[35] Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure, cit., p. 78.
[36] Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. AC 2435, 24 maggio 2021, p. 20, consultabile presso https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LATTANZI_relazione_finale_24mag21.pdf.
[37] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, in Proc. pen. e giust., 2021, p. 1401 ss.
[38]Ancora Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, cit., p. 1043 il quale si pronuncia positivamente circa le scelte della Commissione Lattanzi poiché “alle procure ben può essere offerta la possibilità di intervenire in funzione consultiva nel procedimento legislativo, fornendo dati sul carico penale e sulle risorse disponibili, avanzando proposte e suggerimenti. I pubblici ministeri continueranno inoltre a godere di una notevole discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, perché i criteri saranno necessariamente fissati con direttive generali, presumibilmente per categorie di reati in base all’interesse leso; all’interno delle quali saranno sempre gli uffici giudiziari ad individuare reati cui applicare le priorità”.
[39] Rossi, I criteri di priorità tra cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 79. E ancora, Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, cit., p. 287 ss. L’Autore infatti evidenzia come la risoluzione sia strettamente connessa alla funzione di indirizzo politico e dunque volta ad arricchire il rapporto Camera-Governo; parimenti per l’ordine del giorno, laddove se ne valorizzi la natura di atto di indirizzo, essendo rivolto prioritariamente all’Esecutivo. In definitiva, si tratta di atti che pur potendo essere adottati per specifici scopi, afferiscono al legame fiduciario tra Parlamento e Governo, controllando il primo che l’attività del secondo sua conforme al programma stilato al momento della fiducia. Anzi, si dice, l’inattitudine degli atti de quibus ad assurgere a strumenti per la definizione delle priorità dovrebbe già dedursi dalle loro caratteristiche strutturali, assumendo spesso il carattere dell’accessorietà.
[40] Legge 27 settembre 2021, n. 134 contenente “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.
[41] Si espressero in questo senso già risalenti voci dottrinali, tra cui Illuminati, Come adattare la “domanda” all’“offerta” di giustizia, in La ragionevole durata del processo; garanzie ed efficienza della giustizia penale, Giappichelli, 2005, p. 92 ss.
[42] Opzione, conviene ricordarlo, avente un duplice pregio: non solo limita i problemi di eguaglianza, ma rende controllabili dalla Corte Costituzionale le scelte prioritarie.
[43] Queste le parole di Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Cass. pen., 2024, p. 1427 ss.
[44] “Attuazione della legge 27 settembre, n. 134. Recante al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione die procedimenti giudiziari”.
[45] Più nello specifico, l’art. 13 ha direttamente sostituito i commi 6 e 7 dell’art. 1 del d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero: si prevede ora che il progetto organizzativo dell’ufficio inquirente, predisposto dal procuratore della Repubblica, contenga criteri di priorità finalizzati alla selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, “tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale, e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziari disponibili”.
[46] “Relazione illustrative al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, p. 253, consultabile in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/10/19/22A06018/sg.
[47] Queste le parole di Marzaduri, durante la sua audizione informale sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale) in 2a Commissione (Giustizia), martedì 16 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[48] Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., p. 1427 ss.
[49] Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre, n. 134, in Quest. giust., 2021, p. 94.
[50] A favore di questa soluzione è Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 80.
[51] Si legga la Delibera del 3 maggio 2023 consultabile presso il sito del Consiglio Superiore della Magistratura.
[52] Si legga la Relazione introduttiva del presente disegno di legge, consultabile in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01394143.pdf.
[53] Così il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il Dott. Santalucia, intervenuto in videoconferenza in 2a Commissione (Giustizia) sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale), martedì 30 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244677. Prima ancora anche il Prof. Gialuz, secondo cui tale proposta rappresenterebbe un passo indietro rispetto ai risultati conquistati con la l. 134/202, innestandosi sul modello statico che prevede la definizione delle priorità direttamente da parte del Parlamento, e di cui già v’è traccia nel nostro ordinamento, stante la disposizione di cui all’art. 132-bis disp. att. c.p.p, https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[54] Ancora, Marzaduri, cit.
[55] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, 30 gennaio 2024, https://www.camerepenali.it/cat/12286/criteri_di_priorità_nellesercizio_dellazione_penale_laudizione_di_ucpi.html.
[56] Circolare sull’organizzazione degli Uffici di Procura (Delibera del Pelunum in data 16.11.2017, così come modificata alla data del 16.6.2022), www.csm.it, p. 2.
[57] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, cit., p. 2.
[58] Conviene ricordare che l’art. 4 del d.d.l. S-933 intende ampliare notevolmente il catalogo della norma qui in commento inserendovi la lett. a)-quater (processi relativi ai delitti di cui agli articoli 558-bis, 583-quater, e 612-ter del codice penale).
Immagine: William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844, olio su tela, cm 91×122, National Gallery, Londra.
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