ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Una polpetta avvelenata è il dono che il governo Meloni riserva alle donne per l’8 marzo 2025. Lo schema di disegno di legge governativo appena diffuso è un dono a costo zero (la chiamano invarianza finanziaria!) perché consiste – per l’ennesima ulteriore volta, come documentiamo da tempo nella nostra Cronologia critica delle fonti legislative – nella modifica di norme di natura penale, sempre più repressive e severissime (“cattivismo legislativo”) senza un filo conduttore organico. Il fulcro qui è la previsione dell’ergastolo per chiunque (soggetto neutro) uccide “una donna”. Tale previsione è ammantata dalla innovazione linguistico/normativa dell’introduzione per la prima volta nella legge penale del lemma “femminicidio”. Il Governo ne ha formulato una definizione d’imperio, alla faccia di tutte le discussioni in proposito, in ambito politico/criminologico/giuridico: è riferito solo alla donna, in una logica rigidamente binaria, con rinvio – senza fornire alcuna specificazione definitoria – ai concetti di “discriminazione”, “odio”, “in quanto donna”, “espressione della sua personalità”. Nessuna chiarezza e precisione, come le norme penali invece esigerebbero. E, comunque, nessuna considerazione di abolizionismo, giustizia trasformativa, giustizia riparativa, diritto penale minimo… e, men che meno, del principio di funzione rieducativa della pena.
Nessuna attenzione preventiva. Eppure il problema attuale non è certo nominare e punire il femminicidio, ma farne diminuire i numeri, evitarlo e prevenirlo con politiche strutturali, che agiscano sul piano sociale e culturale. Il piano simbolico penale non ha alcun effetto di deterrenza: la penalistica seria e sovranazionale lo dice e dimostra da anni. Ma l’exploit governativo serve a distrarre dai problemi vitali, dalle torsioni antidemocratiche e spinge a parlar d’altro; è un esercizio di falso attivismo che, rafforzando logiche securitarie già da tempo praticate con nuove (mal scritte, e poi mal corrette) ipotesi di reato, aumenti delle pene, nuove aggravanti, riduzione dei bilanciamenti tra circostanze accessorie, norme penalistiche d’eccezione, rinfocolano e attizzano il desiderio di carcere senza la chiave, prospettata come soluzione risolutiva, ovviamente destinata solo a chi disturba il potere politico/finanziario e offende il suo “decoro”.
La pretesa e rigida tutela delle vittime (nel titolo del Ddl) si ritorce come un boomerang contro corpi e menti liberi, inquadrandoli in schemi eterodeterminati. Procedibilità d’ufficio, interventi forzosi e accelerazioni dei tempi in nome di tensioni vittimologiche, che nella effettività non sempre sono desiderate dalle protagoniste, se considerate nella loro soggettività e individualità. Ormai il potere esecutivo procede in via legislativa in modo del tutto frammentario (prima stalking, poi mutilazioni genitali, e poi matrimonio forzato, e poi ancora diffusione di immagini sessualmente esplicite e oltre; ora – sempre separatamente – violenza sessuale, molestie, e adesso femminicidio) e soprattutto in modo disorganico. Invano la Prima Presidente della Corte di Cassazione chiede il “fermo biologico” di simile metodo di novellazione a singulto, almeno per stabilizzare il panorama normativo.
Per parte nostra da tempo segnaliamo la necessità di una rivisitazione organica di tutta la materia della violenza contro le donne basata sul genere, per usare la dizione della Convenzione Istanbul 2011 (nel titolo del Ddl. si dice violenza “nei confronti” delle donne?!). Da tempo contestiamo la proclamata “completezza” del nostro sistema penale, che costituisce il presupposto per valorizzare la richiesta di moltiplicare l’impegno sulla attività di formazione professionale degli operatori tutti coinvolti. Anche in questa bozza non manca una norma in tema di formazione, e in particolare dei magistrati (ovviamente sempre a costo zero!).
Non manca nella bozza un incremento dei già numerosi obblighi previsti per legge di comunicazione alla parte offesa nel corso delle varie fasi processuali. È questa l’ultima in ordine cronologico di una serie di disposizioni sulle comunicazioni (già nel codice rosso e nel codice rosso rafforzato), ma possiamo prevedere che non sarà il definitivo. In ogni caso consideriamo che questo susseguirsi legislativo – che prosegue ad oggi dal 2009 dello stalking – sia la dimostrazione migliore della “non completezza” del nostro sistema giuridico, nella parte in cui regola la emersione di fatti di violenza (contro le donne basata sul genere) che si risolvono in un processo penale o del lavoro o civile/separativo (e minorile).
Non servono scoop governativi a cadenza mediatica, e tantomeno nel caso di leggi penalistiche. Neppure ci convince il sistema in corso in Parlamento, quello delle audizioni, perché opera su linee parallele che non si confrontano. Riusciamo invece a promuovere una modalità di ampio respiro politico-culturale, che consenta di addivenire a una riforma seriamente elaborata e discussa trasparentemente in tutte le sedi coinvolte e autorevoli? Intendiamo non solo Parlamento e Governo e Accademia, ma gli operatori tutti, pubblici e privati, singoli e associati, che agiscono sul campo, mettendo insieme tutti i vari Osservatori e Tavoli, ormai presenti in tanti territori.
Contributo già apparso sulla Rivista Studi sulla questione criminale online: Virgilio, M. (2025), “Nominare il femminicidio. Non in nostro nome”, in Studi sulla questione criminale online, al link https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/.
Immagine: particolare da Suzanne Valadon, Portrait de Marie Coca et sa fille, olio su tela, 1913, Musée des Beaux-Arts de Lyon.
Il drammatico attacco in atto alla magistratura, alla sua indipendenza e alla sua stessa funzione in uno Stato di diritto, richiede, a mio giudizio, una riflessione urgente dei giuspubblicisti. Sono sollecitato non solo dai comportamenti e dagli atti senza precedenti di governo e maggioranza parlamentare (con il consenso di pezzi di opposizione). Ma dall’atteggiamento dei mezzi di comunicazione di massa (il Corriere della Sera che dà per scontata una “guerra di trent’anni”, a partire cioè da Mani pulite, tra “politica e magistratura”) e da posizioni di non pochi giuristi (di recente un pezzo di Pier Luigi Portaluri sul Foglio del 2 febbraio, che sposa la tesi, già sostenuta da Sabino Cassese con “Il governo dei giudici”, della volontà dei magistrati di sostituirsi al potere politico).
Credo sia necessario superare una posizione ricorrente. Che tende sì a segnalare la gravità della violazione di diritti fondamentali da parte di governi illiberali (non più solo Orban e la Polonia di Kaczyński, ma Meloni, Milei, oggi Trump, con grande dispiegamento di mezzi), valorizzando il lavoro di monitoring europeo sullo Stato di diritto; dando, però, per scontato che la magistratura, in fondo, ha qualche responsabilità in ciò che è successo, senza mai interrogarsi su ciò che sta effettivamente accadendo. Registro anche una forte sensibilità e mobilitazione dei costituzionalisti, mentre gli amministrativisti sembrano invece meno consapevoli dei rischi che corriamo.
Per questo parto da alcune considerazioni semplificate, ma nette. Intanto non c’è nessun complotto ordito dalla magistratura nel suo complesso. Convincere 9.000 magistrati ad operare contro governo e Parlamento per sostituirsi ad essi mi sembra impresa ardua. Resa finora impossibile proprio dall’indipendenza della magistratura. Paradossali, poi, le tesi (ancora Cassese), che da un lato segnalano il rischio di una nuova politicizzazione della magistratura, proprio nel momento in cui si è compattamente e unitariamente schierata contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere e, dall’altro, sostengono che il corpo della magistratura è in sé sano, ma si fa rappresentare da un manipolo di magistrati politicizzati.
La magistratura italiana ha sempre avuto nel suo complesso posizioni prudenti, se non apertamente moderate. Le correnti di sinistra sono state, per un lunghissimo tempo, fortemente minoritarie. La stessa vituperata degenerazione correntizia dimostra che esistono nella magistratura diversi orientamenti culturali, non facilmente omologabili in un unico progetto o complotto. Le correnti sono state sicuramente utilizzate per interessi non commendevoli, come la promozione di carriere personali, ma non hanno mai prodotto una piegatura dei giudizi ad interessi di parte. Qualcuno potrà segnalare sentenze “orientate”, ma nessuno finora ha registrato né dimostrato un uso sistematico della giustizia per delegittimare gli altri poteri costituzionali. Ci possono essere iniziative giudiziarie o sentenze discutibili, dei veri e propri errori giudiziari, spesso fondati su una non adeguata conoscenza delle regole di funzionamento delle istituzioni (specialmente delle pubbliche amministrazioni); ovvero protagonismi indebiti o usi impropri dei mezzi di comunicazione; ci possono essere sentimenti, da superare, di isolamento dei giudici, che tendono ad identificarsi come l’unico baluardo in un sistema largamente segnato da una diffusa illegalità. Ma parlare di complotto è affermazione da respingere radicalmente.
Vediamo con qualche esempio che cosa è successo. Molte azioni penali sono nate da evidenze raccolte dalla autorità giudiziaria, anche senza particolari accanimenti. In materia di reati contro la pubblica amministrazione, l’ambivalenza delle forze politiche verso la magistratura è stata evidente: dapprima utilizzare le singole iniziative giudiziarie, a scopi di parte contro l’avversario politico o a fini di generale delegittimazione delle istituzioni, salvo poi agire direttamente contro la magistratura e il suo potere di accertamento di reati (la destra berlusconiana va al Governo sulle ceneri della prima repubblica e immediatamente si pone in conflitto con la magistratura). Il caso dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, compresa la fattispecie del conflitto di interessi, mi sembra paradigmatico di una generale insofferenza (bipartisan, ahimè) verso controlli indipendenti sull’esercizio del potere. Potremmo fare analoghe considerazioni sull’accoglienza riservata alle decisioni del giudice amministrativo o delle autorità amministrative indipendenti, tutte le volte che accertano, a vario titolo e con diversi effetti, casi di illegittimo esercizio di poteri conferiti dalla legge.
Gli “scontri” con la magistratura in casi collegati con le politiche di immigrazione sono altrettanto significativi. Qui i giudici hanno accertato lesioni di diritti riconosciuti non solo dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, ma da trattati internazionali formati proprio per impedire che singoli Stati li possano violare. Nei casi della nave Open Arms, o dei respingimenti di immigrati nei paesi non sicuri, in applicazione di norme europee, o della consegna alla Corte penale internazionale di persona oggetto di un mandato di cattura internazionale, la magistratura ha operato in realtà con molta cautela e prudenza, ma non ha potuto evitare di agire a tutela di diritti. Di qui un passaggio necessario: non è configurabile un generico “conflitto tra politica e magistratura”; siamo, invece, in presenza di puntuali casi di contrasto tra gli effetti di nuove politiche pubbliche (economiche e sociali, in qualche caso di negazione di diritti fondamentali) e gli ordinamenti giuridici contemporanei vigenti, che si sono formati grazie a Costituzioni avanzate, come quella italiana, che hanno riconosciuto nuovi diritti, rafforzandone la tutela. Di fronte alla volontà di attuare, in virtù di un presunto mandato, di un’investitura del popolo sovrano (anche grazie a piegature maggioritarie della volontà degli elettori che affidano a minoranze, sempre più agguerrite, un peso sproporzionato), politiche apertamente negatrici dei diritti fin qui riconosciuti (le chiamerei col loro nome, politiche reazionarie e antisociali), la risposta normale, ordinaria, che si può attendere da parte di un ordinamento è l’applicazione delle norme esistenti e vigenti, anche interpretate secondo Costituzione. In altre parole, il conflitto di cui parliamo è tra politiche economiche e sociali di destra e Stato costituzionale di diritto. È una “naturale resistenza” dell’ordinamento, e dei giudici che applicano le leggi, a tentativi di distorcere progressivamente il contenuto dei diritti e le forme della loro tutela, verso la quale il governo in carica non può reagire con comportamenti e atti che mirano a limitare l’indipendenza della magistratura.
Una situazione simile si aprirebbe, ad esempio, nel caso di un governo di sinistra che volesse attuare un programma, di nazionalizzazioni e regolazioni/pianificazioni dell’economia, così radicale da produrre negazioni sostanziali del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata. Anche un simile programma troverebbe nell’ordinamento italiano e nei suoi giudici una naturale resistenza.
È un conflitto destinato ad estendersi nel futuro, se si consolideranno orientamenti politici dai contenuti apertamente anticostituzionali. La novità rispetto al passato è la velocità del mutamento; mentre le politiche espansive dei diritti si sono attuate in tempi lunghi e con un progressivo (e negoziato) cambiamento normativo tra forze politiche diverse, oggi la sterzata che si vuole produrre è repentina e drastica. La liquidazione brutale di intere politiche sociali, di interi apparati pubblici, la pretesa di attuare le proprie politiche senza vincoli e controlli indipendenti, del binomio Trump-Musk negli Stati Uniti è l’esempio trainante e una possibile legittimazione politica per tutte le destre reazionarie in Europa.
Di fronte a questa nuova situazione non c’è solo da difendere, sul piano formale, il baluardo dell’indipendenza della magistratura come primo, insostituibile, fondamento dello Stato costituzionale di diritto. C’è da comprendere e valorizzare, sul piano sostanziale, il ruolo oggettivo, naturale, della magistratura, di tutti i giudici, costituzionali, penali, civili, amministrativi, a tutela dei diritti costituzionali dei cittadini che le politiche ultraliberiste e reazionarie rischiano di pregiudicare.
Guai, però, a confidare nella sola l’azione di “resistenza” dei giudici. Questa ha una sua funzione limitata (spesso a singoli casi) e temporanea (nel lungo periodo si cambiano non solo le leggi ma anche le Costituzioni). La vera risposta sta nella dialettica politica, nel legittimo contrasto e necessario dialogo tra interessi diversi, nella capacità di ipotizzare, proporre e attuare politiche diverse e alternative, che salvaguardino il “felice compromesso” tra libertà economiche e diritti sociali della Costituzione del 1948.
Già apparso su www.diariodidirittopubblico.it il 17 febbraio 2025.
Immagine: particolare da Jacopo Negretti detto Palma il giovane, Allegoria della giustizia e della pace, olio su tela, circa 1620, Galleria Estense, Modena.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo. 2. Dalla medina alle forze di deterrenza. 3. Carceri, sicari e brigate personali. 4. Il torturatore di Mitiga. 5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo.
L’Italia è il primo Paese per interscambi commerciali con la Libia. Nel 2023 il loro valore complessivo ammontava a 8,34 miliardi di euro. La Libia ha sempre rappresentato uno dei mercati preferenziali per le imprese italiane. Dal sito dell’Istituto italiano per il commercio risulta che l’Italia è il terzo Paese fornitore della Libia dopo la Cina, con 3,6 miliardi di euro (+67,54% rispetto ai primi 11 mesi del 2022 e una quota di mercato del 19,47), e Turchia, con 2,741 miliardi di euro (+11,37% rispetto allo stesso periodo del 2022, e una quota di mercato del 16,48%)[1].
Nei primi sei mesi del 2024 la quota di mercato è ancora salita: 13%. Importiamo petrolio ed esportiamo materie prime industriali, apparecchiature meccaniche e prodotti agroalimentari. “E alle famiglie libiche la qualità del made in Italy piace, sia nella sua componente legata al sistema casa che a quella legata alla moda”[2].
La storia, il commercio, l’industria danno luogo a un legame radicato e indissolubile. Non è un caso che a maggio 2024, alla cinquantesima edizione della Fiera campionaria di Tripoli, la più importante e longeva manifestazione fieristica libica, l’Italia fosse invitata come ospite d’onore.
Si può dire che nel commercio fosse anche Osama Elmasry Njeem. Prima della guerra civile libica, infatti, comprava e rivendeva volatili. La traslitterazione dalla lingua araba porta sempre a risultati imperfetti. Quando parlano di lui i media lo chiamano Almasri. Noi invece preferiamo “Njeem”, aderendo alla scelta della Corte penale internazionale. Nella lingua siriaca della fede cristiano-maronita questo appellativo significa “piccola stella”, una stella che nel controverso e crudele firmamento del potere locale brilla sempre più di una luce propria e terribile.
2. Dalla medina alle forze di deterrenza.
Njeem nasce a Tripoli il 16 luglio 1979. Vive per oltre trent’anni nel regime della Repubblica araba di Libia e quando, nel 2011, s’infiamma la sommossa contro Gheddafi, non vi partecipa subito in prima persona. Njeem commercia nel mercato di Tripoli, disseminato all’interno dell’antica medina.
Il mercato della capitale libica assomiglia solo in parte a quelli di altri centri del mondo arabo, soprattutto a quelli più frequentati dai turisti che ne apprezzano i rumori, i colori accesi, i profumi delle spezie. Nella medina di Tripoli non c’è vociare caotico né l’assillante tormento rivolto al passante individuato come potenziale acquirente, meglio se straniero. I libici hanno molto rispetto per la persona del cliente, si rivolgono a lui e tra di loro con tono sommesso. Hanno rispetto formale per la persona e cura della storia racchiusa nella medina, dove ancora agli incroci le colonne romaniche si ergono addossate alla calce e al legno dei negozi.
Pare che qui Njeem venisse ogni venerdì, per vendere polli e volatili al mercato degli animali. Proviamo a immaginarlo, mentre tratta gallinacei con delicatezza e approccia, gentile secondo il costume arabo, la calca delle signore, che valutano la merce con occhio competente tra il velo che lascia trasparire l’incarnato delle loro diverse etnie. Elucubrare sulla presenza di Njeem dietro al banco di vendita dei volatili è un esercizio di fantasia allettante, ora che sappiamo chi rappresenti quest’uomo nella Libia di oggi.
Si sa che Njeem si aggrega alle Forze speciali di deterrenza (al Radaa), la milizia salafita capeggiata da Abdel Raouf Kara, nel 2014, a tre anni dall’inizio della rivoluzione e dell’uccisione di Gheddafi. Recupera rapidamente il tempo perduto, però, acquisendo i gradi sul campo, poiché si distingue nella partecipazione alle operazioni “sporche” della RADAA: repressione degli oppositori, uccisione mirata di esponenti delle fazioni avversarie, azioni militari contro le forze rivali del generale Khalifa Haftar che controllano l’est del Paese. Quanto sia determinato, affidabile e perciò prezioso alla causa di Kara lo dicono le fonti giornalistiche: “Lui è un killer, deve eliminare gli indesiderati e per farlo assolda sicari e uomini col pelo sullo stomaco disposti a tutto, reclutati tra i prigionieri rinchiusi nelle stesse carceri che è chiamato a dirigere”[3].
3. Carceri, sicari e brigate personali.
Carceri e sicari sono all’origine del potere di Njeem. Quando la RADAA ha conquistato l’aeroporto di Mitiga, vi ha costruito all’interno quella che diventerà la principale struttura di detenzione della Libia occidentale o, quanto meno, dell’area di Tripoli. Dopo un anno, nel 2015, viene già affidata al controllo di Njeem, che ne diventa il padrone incontrollato.
Qui trasforma molti prigionieri maschi in schiavi da lavoro o, quando ritiene, in combattenti della RADAA, soprattutto per le attività non lecite. Occorrono persone che abbiano poco o nulla da perdere; la prospettiva di uscire dall’inferno di Mitiga basta a rendere pronto a tutto un esecutore di ordini.
L’autorità di Njeem va oltre. L’efficienza dimostrata a Mitiga gli consegna il controllo di altre prigioni della Tripolitania.
Judaydah è una struttura detentiva della capitale, prevalentemente femminile, ma nella quale sono rinchiusi anche maschi accusati di crimini gravi, tra cui il traffico di stupefacenti. All’interno vi è un emporio di cui Njeem è privato proprietario. L’uomo ha conservato evidentemente una certa propensione al commercio, se è vero i parenti dei detenuti sono costretti a acquistarvi i beni che vogliano portare ai detenuti di Judaydah e anche di Mitiga[4].
Risulta che nell’estate 2023 almeno 25 donne straniere e i loro 38 bambini fossero da tempo imprigionati qui – e nella prigione di Kuwayfiyah, a Bengasi – a causa dei loro presunti legami con Da'esh. Il 30 maggio, la United nations support mission in Libya (UNSMIL) aveva incontrato cinque dei detenuti nella prigione di Judaydah e si era relazionata con le autorità locali per affrontare la loro situazione, anche per garantire un giusto processo, l’accesso alla giustizia, un possibile trasferimento e l’istruzione per i bambini[5].
Il rapporto firmato personalmente dal segretario generale Antonio Guterres denota l’attenzione dell’ONU, a seguito di ben cinque risoluzioni approvate tra il 2020 e il 2022, sulla problematicità della condizione dei diritti umani in Libia. Non risulta tuttavia che l’iniziativa specifica, riferita alle donne e ai bambini detenuti a Judaydah, abbia condotto a una più rapida soluzione del caso: torture e maltrattamenti, violenze sessuali, isolamento e separazioni forzose dai figli vengono praticati con sistematicità[6].
Ad Ain Zara c’è un altro lager, che gestisce quasi esclusivamente migranti. dove le persone vengono “disumanizzate”, sottoposte a trattamenti crudeli e degradanti, stipate a centinaia in un’unica cella, costrette a dormire sedute, senza servizi igienici e con fosse traboccanti di liquami[7]. Realizzata in un’oasi, oggi Ain Zara è un centro a una decina di chilometri da Tripoli. La bruna struttura del carcere contrasta col territorio complessivamente verdeggiante, storico polo agricolo della Tripolitania. La prigione è governata dalla Brigata 42, l’unità speciale costituita da Njeem alla quale è affidato il rastrellamento dei migranti provenienti da sud[8].
Per Abdel Moaz Nouri Bouaraqoub, direttore della struttura di Ain Zara, Njee “è noto per il suo rigore, la sua dedizione e la sua professionalità nell’adempimento dei compiti affidatigli per molti anni”[9].
Catturare chi è fuggito dalla desertificazione, dalla fame, dai conflitti civili richiede certamente una professionalità particolare, favorita dal fatto di non avere troppe regole da rispettare, soprattutto in un territorio senza regole. La pratica rientra forse tra gli obiettivi del memorandum firmato dal governo italiano, presidente Gentiloni, e da Fayez Mustafa Serraj per il governo di riconciliazione nazionale (GNA), quello che controlla la Libia occidentale ed è in lotta perenne col nemico di oriente, il Libyan national army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar[10]. Ma nessun accordo internazionale può legittimare quanto accade in quei luoghi immondi di restrizione.
4. Il torturatore di Mitiga.
Mitiga, Judaydah, Ain Zara, ma anche al-Jadida, Rueni. Sono i nomi di prigioni governate da Njeem. Attraverso il sistema carcerario che gli è stato affidato, complessivamente 15.000 esseri umani sono nelle sue mani, migliaia di guardie ai suoi ordini. Un potere tanto accentrato, propagatosi in pochi anni, si rende inevitabilmente autonomo all’interno della RADAA. Che a sua volta è ormai Stato nello Stato, intoccabile anche da parte del Governo di accordo nazionale (GNA) di Al Serraj del cui apparato, pure, fa parte formalmente, essendo stata riconosciuta nel 2018 come un’articolazione del Ministero dell’interno libico.
Secondo la Corte penale internazionale – sulla base delle prove raccolte dall’ufficio del Procuratore e contenute nella richiesta del 2 ottobre 2024 – vi sono ragionevoli motivi per ritenere che a Mitiga Njeem si sia reso personalmente responsabile di percosse, torture, colpi di arma da fuoco, aggressione sessuale nei confronti di numerosi tra gli almeno 5140 detenuti tra febbraio 2015 e ottobre 2024. In più casi quelle condotte hanno provocato la morte dei detenuti[11].
Grazie alle sue direttive, “picchiare i carcerati era una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti, i quali riferivano al signor Njeem. In alcune occasioni era presente mentre le guardie li percuotevano o sparavano contro di loro. Secondo quanto riferito, ha ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo che le ferite non fossero visibili. Inoltre, si dice che abbia punito le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a procurarsi cibo migliore”[12].
Quale responsabile del carcere di Mitiga, Njeem predisponeva i turni delle guardie e dava loro le istruzioni sulla distribuzione dei prigionieri nelle celle e sulle loro punizioni. Decideva se opporsi o meno agli atti illeciti che sapeva essere perpetrati nei loro confronti. Ne aveva ovviamente anche il controllo “amministrativo”: restrizione, liberazione, sequestro dei telefoni cellulari, requisizione dei documenti, del denaro e degli altri effetti personali[13].
In conclusione nel mandato di arresto si afferma che, “oltre che prendere parte in prima persona alla condotta illecita, ha dato anche ordine di commettere atti che erano necessariamente criminali, poiché non poteva esistere alcuna giustificazione per, tra l’altro, la violenza sessuale o la tortura dei detenuti. Data la sua posizione di direttore, il signor Njeem non solo era a conoscenza delle condizioni di detenzione problematiche, ma lasciandole in vigore per un tempo prolungato, intendeva necessariamente che tali condizioni esistessero e che i detenuti ne subissero i danni. Era consapevole degli atti criminali commessi contro i detenuti oppure, quando venivano compiuti in momenti in cui lui era assente, era intenzionato a farli accadere e sapeva che si sarebbero verificati nel corso ordinario degli eventi”[14].
5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
Il 19 gennaio 2025 Njeem viene fermato a Torino in esecuzione del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Dopo due giorni viene rilasciato e rimpatriato in poche ore in Libia. Le foto della sua accoglienza trionfale a Mitiga, appena sceso dalla scaletta dell’aereo di Stato italiano, fanno il giro del mondo.
Le polemiche accendono un faro sulla figura di Njeem. “Al Masri” diventa il carnefice liberato e i media raccolgono le testimonianze di chi ne conserva il ricordo indelebile.
a) Yambio (27 anni). Yambio, che all’epoca aveva 21 anni, ha raccontato del suo arrivo iniziale in Libia dal Sud Sudan, dove era stato costretto a combattere come bambino soldato, del tentativo di fuga in Europa e della cattura da parte della guardia costiera. Ristretto nel centro di detenzione a Triq al-Sika, Yambio afferma di essere stato “venduto” a una rete di prigioni gestite da Njeem e dalla sua polizia nel dicembre 2019, a cominciare dalla struttura tentacolare di al-Jadida a Tripoli.
Ne ha descritto le terribili condizioni, tra percosse e maltrattamenti, aggiungendo di essere stato inserito in un esercito di schiavi prigionieri e costretto a lavorare nei cantieri edili per il bene dei suoi carcerieri. “Ma la cosa peggiore è stata quando Njeem era lì – ha detto – tutti ad al-Jadida sapevano chi fosse Njeem. Ogni due giorni ci mettevano in fila a migliaia per un conteggio e, quando veniva a trovarci, al-Masri camminava lungo la fila, scegliendo le persone da picchiare, o con un tubo di metallo o con l'impugnatura della sua pistola. A volte entrava nelle celle dove dormivano le persone e le picchiava con un tubo di metallo o di plastica”.
Nel marzo 2020, dopo un assalto a Tripoli e al governo occidentale da parte delle milizie di Khalifa Haftar, Yambio è stato trasferito a Mitiga. Qui ha ritrovato Lam Magok anche lui del Sud Sudan, con cui aveva condiviso un periodo della detenzione ad al-Jadida. “Restavamo svegli la notte a parlare – ha ricordato Yambio – ricordando la nostra casa e il paese che ci aveva abbandonati”.
A Mitiga Yambio è stato selezionato con alcuni altri per combattere in una delle brigate di Njeem. Magok, non rendendosi conto che alla fine lo avrebbe seguito, gli ha messo in mano un foglio di carta, su cui erano annotati i numeri di un attivista e di un giornalista e i recapiti di suo zio, con una supplica affinché, se mai ne avesse avuto la possibilità, Yambio almeno provasse a dire alla sua famiglia che Magok era vivo.
“Se il cielo lo permette, trovali. Di’ loro che sono vivo”, erano state le parole di Magok, nel ricordo di Yambio.
b) Magok (33 anni). Risparmiato dall’esperienza dei combattimenti, Magok ha sopportato a Mitiga condizioni non meno severe. “Ogni due giorni, ci chiamavano per un conteggio. Ci facevano inginocchiare e poi ci picchiavano... Se facevi qualcosa che non gli piaceva, ti portavano via, ti chiudevano in una stanza e ti torturavano”. Le uccisioni non erano sconosciute, ha aggiunto. “Eravamo trattenuti con i libici e i migranti, ma erano sempre i migranti a essere mandati a pulire le stanze. Gli veniva detto di mettere il corpo dei detenuti uccisi in un sacco e di portarlo all’ambulanza. Era terribile”.
Magok era costretto a lavorare nei magazzini militari, caricando munizioni sui veicoli, mentre Yambio racconta di essere stato mandato ogni giorno sulla vicina linea del fronte, dove è stato costretto a combattere insieme ad altri migranti, gruppi libici e forze turche e siriane per respingere le forze di Haftar.
“Eravamo abituati a trasportare munizioni e a sparare con gli obici. Ho ancora l'acufene. Le condizioni erano davvero pessime. C'erano prigionieri, libici e migranti costretti a nascondersi in buche nel terreno”, ha detto, descrivendo le celle sotterranee di Mitiga, dove l’odore dei malati e dei moribondi lo colpiva e lo seguiva per tutto il giorno.
“Li abbiamo visti scortati nelle stanze degli interrogatori, dove venivano picchiati, sottoposti a elettroshock, gli venivano tagliate le dita o costretti a entrare in barili d'acqua e tenuti sott'acqua”, ha detto dei metodi usati contro i prigionieri libici e migranti a Mitiga.
“Al-Masri era una persona brutale. Quando la gente sapeva che stava arrivando, andava nel panico. A volte mi chiedevo se fosse sotto l'effetto di droghe, ma non era così. Era semplicemente quello che era. Era puramente malvagio. L’ho visto uccidere delle persone”, ha aggiunto Yambio in tono piatto. “Una volta, due persone hanno cercato di scappare... Mitiga. Al-Masri ci ha fatto mettere in fila mentre sparava a uno. Avevo il sangue sul corpo. Un'altra volta, qualcuno aveva dato alle persone che lavoravano all'obice le coordinate sbagliate del drone. Al-Masri lo ha ucciso”[15].
Yambio è fuggito da Mitiga nell’aprile 2020, dirigendosi in Italia dove gli è stato concesso asilo. Magok è fuggito in Italia nel dicembre dello stesso anno. Entrambi ora lavorano per sostenere una campagna per i diritti dei rifugiati e dei migranti irregolari.
In un’altra intervista, Magok ha voluto chiarire che al-Jadida come Mitiga sono “prigioni ufficiali, non centri di detenzione, e che sono gestiti da questi gruppi armati. Ho provato ad attraversare il mare sei volte e sono stato riportato indietro, in Libia tutti gli stranieri sono considerati criminali e rischiano l’arresto. Nelle prigioni ci sono veri criminali, ma anche migranti. Eravamo bendati, ci hanno dato dei numeri e ci hanno fatto delle foto per identificarci. Quindi ci hanno picchiato con dei bastoni, anche in testa. Mentre ci colpivano, ci insultavano”.
A Magok il trasferimento a Mitiga era stato presentato come un passaggio in vista del rimpatrio. In realtà è stato forzato a lavorare per nove mesi nella base militare dell’aeroporto, occupata dalla RADAA, per costruire edifici, ma anche per sotterrare i cadaveri delle persone uccise. “Quando alcuni di noi hanno tentato di fuggire, siamo stati picchiati, presi a sprangate, alcuni portati in isolamento e torturati”, racconta[16].
c) M. (13 anni). Punta il dito su una foto di giornale che ritrae Njeem, e sbotta: “è lui l’uomo che picchiava le persone e che comandava gli altri. Anche io sono stato picchiato dai suoi uomini”. M., è un ragazzino egiziano tredicenne. Quando è stato rinchiuso a Mitiga, di anni ne aveva 10. Ora è ospitato in una casa di accoglienza gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII, a Reggio Calabria, e non può fare a meno di ricordare il suo calvario fatto di botte dall’inizio alla fine del viaggio.
M. è arrivato dall’Egitto con un trasporto pagato dal padre a bordo di un pick-up. Un trafficante egiziano che li aveva stipati sul veicolo, maltrattandoli per tutto il tempo, li ha consegnati alla polizia libica. Ha raggiunto mesi dopo l’Italia su un barcone con centinaia di altri migranti. Sbarcato a Lampedusa, è finito in un centro di accoglienza a Ragusa, da cui è fuggito per andare a nord. È stato ritrovato a Villa San Giovanni mentre vagava per strada.
Nel centro di Reggio, una delle attività dei minori è la lettura dei giornali. E su un giornale ha visto la foto di Njeem, rivivendo il suo incubo. “Lui era il capo. Decideva i tempi, decideva chi, come e dove spostarci. Ma mi ricordo anche i nomi dei suoi uomini: Ayub, Ossama, Adabae, El Nemir ..”.
A Mitiga M. ha perso la cognizione del tempo, non ricorda per quanto vi sia stato trattenuto. Ricorda solo le botte e la paura per gli aguzzini di Njeem[17].
[1] www.ice.it/it/area-clienti/eventi/dettaglio-evento/2024/@@/054, consultato il 16 marzo 2025.
[2] Libia e Italia, crescere insieme. Il contributo del sistema camerale al Business Forum Italia-Libia 2024,
[3] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, divisa da generale e accoglienza da eroe: “Qui tutti sapevano che l’Italia lo avrebbe liberato. Un killer, elimina gli indesiderati”, in Corriere della sera, 7 febbraio 2025.
[4] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 12.
[5] UNSMIL, Report of the Secretary-General, 8 agosto 2023, p. 49.
[6] Cfr. anche M. Marazziti: un emendamento alla legge di bilancio per non essere complici dei trafficanti umani, in democraziasolidale.it, 20 dicembre 2023, consultato il 19 marzo 2025.
[7] MSF denuncia l’inferno dei centri di detenzione in Libia, in nigrizia.it, 7 dicembre 2023, consultato il 13 marzo 2025.
[8] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, cit. .
[9] L. Gambardella, Carcere e torture per 5 anni senza motivo. Le accuse ad Almasri, in Il Foglio, 22 gennaio 2025.
[10] Nel memorandum, sottoscritto il 2 febbraio 2017, l’Italia si impegnava a finanziare (art. 4), tra l’altro, il completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia e adeguare i “centri di accoglienza” e formare il personale libico per fare fronte alle condizioni dei “migranti illegali”, sostenendo i “centri di ricerca libici” in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati “per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani” (art. 2, lett. 1-3).
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n. ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 94-95.
[12] Corte penale internazionale, cit., p. 93.
[13] Corte penale internazionale, cit., p. 92 e 96.
[14] Corte penale internazionale, cit., p. 97.
[15] Al Jazeera staff, I saw him kill people: Libya and Italy’s shadowy migrant deals”, in aljazeera.com, 13 febbraio 2025, consultato il 13 marzo 2025. Nell’articolo Al Jazeera riferisce di avere contattato sia il Ministero della giustizia libico sia la sua polizia giudiziaria, per avere un commento sulle accuse a Njeem, senza ottenere però risposta.
[16] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
[17] V. R. Spagnolo, Il testimone. “Ho visto Almasri, picchiava i migranti”, 30 gennaio 2025, Avvenire.
Il lavoro precario, tra sinonimi e contrari. Recensione a F.M. Giorgi, F. Aiello (a cura di), Il lavoro precario, Giappichelli, Torino, 2024, 350 pp.
I giuslavoristi e le giuslavoriste prestano ormai da tempo la loro attenzione a categorie che, pur non assurgendo al rango dei concetti normativi, sono entrate nel linguaggio comune e nel dibattito allargato. Si pensi, in particolare, ai casi del lavoro atipico, non-standard o flessibile, accomunati dal richiedere, ai fini della relativa perimetrazione, una preliminare, e tutt’altro che scontata, identificazione del proprio contrario, ossia delle caratteristiche, rispettivamente, del lavoro tipico, standard e rigido.
Tale operazione risente inevitabilmente del momento storico, tanto è vero che ciò che ieri, nel contesto dell’unità spaziale, temporale e di comando entro la quale si collocava la prestazione di lavoro, poteva non essere ricondotto nell’alveo dello standard (si pensi, su tutti, al lavoro da remoto), potrebbe oggi, nel diritto del lavoro post-pandemico, assai più agevolmente rientrarvi.
Quel che è difficilmente dubitabile è che, sotteso all’utilizzo di tali categorie, vi sia un preciso afflato valoriale, se non proprio una tensione assiologica che appare quanto mai marcata laddove si decida di confrontarsi, come nello stimolante volume a cura di Filippo Maria Giorgi e di Filippo Aiello, con la tematica del lavoro precario.
Più che opportunamente, perciò, i due curatori, nella prefazione a loro firma, chiariscono che il lavoro precario “non è una formula giuridica”, ma che si tratta, piuttosto, di un’espressione connotata da una “indiscussa [e, verrebbe da aggiungere, immediatamente percepibile] polarizzazione negativa”.
Palesata così, con un’apprezzabile opzione di metodo, la matrice ultima dell’opera, si comprende che quest’ultima miri ad offrire alle lettrici e ai lettori un’indagine critica sul “fenomeno transtipico” de quo (così, efficacemente, Francesca Chietera a p. 185).
Al centro dell’analisi vengono, quali lenti privilegiate di osservazione, alcuni istituti del diritto del lavoro, i quali erano già in precedenza giunti, nelle parole dei due curatori, “nel mirino dell’esperienza professionale degli autori”, nel cui novero figurano autorevoli magistrate/i e avvocate/i del lavoro.
La tesi che si sostiene trasversalmente è che sia proprio l’ordinamento giuridico (attraverso le novelle alla disciplina lavoristica, tanto sostanziale, quanto processuale) ad avere da ultimo accettato, se non addirittura promosso, la mancanza di stabilità del lavoro, la quale ridonda nel senso di precarietà anche esistenziale che affligge una larga parte della forza lavoro.
L’argomento viene sviluppato lungo tre direttrici principali, cui corrispondono altrettante sezioni del volume: i diritti fondamentali (I), il lavoro privato (II) e il lavoro pubblico (III).
All’interno di ciascuna sezione, vengono ulteriormente declinate le questioni che involgono la precarietà del lavoro, intesa, nella specola dei curatori del volume, alla stregua de “la mancanza di continuità nel rapporto di lavoro o anche solo l’incertezza nella sua prosecuzione per un tempo sufficiente a garantire scelte di vita libera e dignitosa, ovvero la carenza di condizioni di lavoro, di sicurezza, di protezione o di reddito, tali da assicurare una pianificazione esistenziale”.
Tale concezione della precarietà del lavoro viene ripresa nei diversi contributi del volume, per quanto non vi sia sempre una concordanza di opinioni tra le autrici e gli autori in ordine ai rapporti o, forse più propriamente, ai confini con altre categorie prossime, come quella del lavoro povero, che viene talora tenuto distinto (v. Antonino Sgroi a p. 42) e talora assimilato al lavoro precario (v. Tiziana Orrù a p. 55).
Mette al contempo conto sottolineare che le diverse voci si guardano bene dal ricondurre de plano al lavoro precario ogni forma di lavoro flessibile, andando piuttosto alla ricerca dei singoli frammenti normativi che, in riferimento a ciascun istituto preso in esame, ostano al raggiungimento di quel grado di stabilità che costituisce la precondizione di un’esistenza libera e dignitosa.
Pur nella tendenziale impronta “pro labour”, l’opera merita un convinto apprezzamento, sul piano del metodo, per lo spirito pluralista che emerge dalla politica, prima ancora che dall’articolazione, delle citazioni, per quanto variamente declinate nei diversi contributi. Ciò costituisce il segno indefettibile di un’apertura al confronto con punti di vista differenti, la quale risulta particolarmente lodevole in considerazione della natura intrinsecamente valoriale del tema prescelto.
Nel merito, l’articolato volume, dal taglio e dai contenuti prettamente giuridici (limitate e generalmente sorvegliate risultano le incursioni nella sociologia), si rivela di notevole rilevanza tanto teorica, quanto pratica. L’opera racchiude, infatti, sia meditate riflessioni sulle tecniche protettive di un diritto del lavoro in rapido mutamento, sia ausili interpretativi utili a risolvere alcune delle questioni attualmente più dibattute tra gli operatori del settore, le quali spaziano dalla sussistenza del requisito della temporaneità nella somministrazione di lavoro alla definizione del salario adeguato ex art. 36 Cost., sino all’inquadramento della codatorialità nelle reti di imprese e all’individuazione dei requisiti delle procedure di selezione del personale da parte delle “partecipate”.
È morto Bruno Cavallone, illustre processualista, discepolo di Enrico Tullio Liebman, il più “sistematico” degli allievi di Chiovenda.
Appassionato del tema delle prove, di cui, insieme a Taruffo, è stato il più grande studioso dell’età post carneluttiana, aveva però dedicato molti dei suoi scritti a temi extradogmatici, impegnandosi, come già altri celebri processualisti, nel settore della law and literature, contaminando quello che Satta chiamò il mistero del processo di reminiscenze dickenziane talora ludiche talaltra drammatiche, come nella fantastica borsa di Miss Flite.
Inclito cultore della poesia e della letteratura inglese, amava i versi di John Donne (una lingua inglese forbita e ignorata, diceva con nostalgia) e si divertiva ancora oggi con le vignette originali dei Peanuts, alla cui traduzione in italiano aveva dedicato fatiche non solo giovanili.
Aveva studiato funditus la storia del processo e della scienza processuale; insieme a Giuseppe Tarzia aveva commentato tutti i progetti legislativi di riforma del processo civile che si erano susseguiti dal codice del 1865 alla vigilia di quello del 1940.
Da anni, insieme a Carmine Punzi, dirigeva la Rivista di diritto processuale, dopo essere succeduto al suo amico Edoardo Ricci nella prestigiosa carica che era stata originariamente di Chiovenda e di Carnelutti e che anche il suo maestro Liebman aveva ricoperto. Era orgoglioso di dirigere la Processuale sulle orme degli amati Patres ed attribuiva rilievo soprattutto ad una rubrica, che curava personalmente, intitolata “Storia e cultura del processo” che arricchiva ogni tanto (e sistematicamente in occasione dell’ultimo numero di ogni anno, di norma pubblicato in periodo natalizio), di un suo contributo personale, cui in quell’occasione usava dare il titolo festoso di Christmas Card.
Nel periodo immediatamente antecedente alla pandemia, aveva partecipato con entusiasmo ai convegni in ricordo di Mortara e Lessona che si erano celebrati in Cassazione e al CSM. In una di queste occasioni mi disse che la nipote di Calamandrei, Silvia, e la figlia di Cappelletti, Matelda, gli avevano messo a disposizione il carteggio inedito di lettere che Carnelutti e Calamandrei si erano scambiati tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.
Era entusiasta di poter ricostruire le vicende storiche della fondazione e dei primi anni della Rivista e pubblicò sull’argomento tre gustosissimi saggi, intitolati “Una fondazione asimmetrica”, “Una convivenza difficile”, “Una rinascita tormentata”. Dopo la pandemia era tornato a Roma una sola volta, nell’ottobre 2022, per ricevere, in Corte costituzionale, insieme al condirettore Carmine Punzi, il Premio Selvaggi per la stampa storico-giuridica, quell’anno attribuito alla Processuale. In quell’occasione, sorridendo, mi disse, riprendendo il filo di una conversazione telefonica di pochi giorni prima, che aveva finalmente scoperto chi era l’ “inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi” di cui Calamandrei aveva parlato con disprezzo nella Recensione al Trattato di Lessona recante la Prefazione di Chiovenda. Nel confidarmi il nome, mi pregò però di non rivelarlo a nessuno poiché non aveva ancora trovato la prova inconfutabile, la “pistola fumante”. Il nome lo avrebbe svelato in uno degli ultimi scritti, con la spoglia eleganza della sua inimitabile prosa.
Con rammarico non aveva potuto essere presente, invece, nel 2023, in Aula Magna, al convegno del Centenario sulla Cassazione unica, ma la sua densa relazione, illustrata “da remoto”, sarà il saggio d’apertura del Volume, in corso di stampa, in cui gli atti di quel convegno saranno pubblicati.
Addio, caro Professore, la Sua dottrina non sarà dimenticata, insieme alla grazia della Sua classe di gran gentiluomo; e io Le sarò sempre riconoscente, con deferenza di discepolo, per la gradita frequenza con cui pazientemente mi onorava della Sua interlocuzione sulla storia della nostra scienza.
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