ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo in allegato il documento sottoscritto da docenti di Procedura penale di diverse Università, che esprime ragioni di contrarietà alla riforma costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale e istituzione della Corte disciplinare. Il testo nasce in risposta al documento, diffuso dal Consiglio direttivo dell'Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "Gian Domenico Pisapia", a sostegno della riforma costituzionale.
Le professoresse e i professori evidenziano che “solo un approccio scientifico ai temi toccati dalla riforma costituzionale può contribuire a stemperare le forti contrapposizioni”. Questa indicazione metodologica è tutt’altro che secondaria.
Non si tratta solo di valutare il merito delle soluzioni proposte, ma di ricostruire le condizioni di possibilità di una riforma che non sia contingente alla stagione politica, né dettata dall’urgenza di risolvere il problema del giorno. Il manifesto dei professori parte da una premessa che vale la pena sottolineare: la rigorosa separazione delle funzioni è un valore condiviso e non negoziabile nei sistemi accusatori moderni. E tuttavia — come osservano gli studiosi — non esiste una correlazione necessaria tra modello processuale e assetto delle carriere, perché nei sistemi a più consolidata tradizione accusatoria le radici professionali di pubblico ministero, avvocato e giudice sono spesso comuni.
Un primo punto critico riguarda la finalità della riforma. Le studiose e gli studiosi segnalano come essa “non fornisca alcun contributo alla risoluzione dei problemi che affliggono la giustizia penale italiana (primo fra tutti la durata irragionevole)”. Se l’obiettivo dichiarato è una maggiore efficienza, la domanda è inevitabile: separare le carriere, sdoppiare il CSM e introdurre formule di sorteggio rafforza davvero l’indipendenza dei magistrati o rischia piuttosto di logorarla? Ed è su questo crinale che il documento richiama una conseguenza forse non immediatamente visibile ma cruciale: la riforma potrebbe condurre a un mutamento genetico della figura del pubblico ministero, sempre più orientato a funzioni di repressione e sempre meno a garanzia dell’equilibrio tra interessi pubblici e tutela dei diritti fondamentali. Una trasformazione che — si legge — “è destinata a tradursi in un progressivo indebolimento delle garanzie per indagati e imputati”, soprattutto i più fragili.
Un altro punto critico riguarda la nuova Corte disciplinare. Il documento evidenzia dubbi sulla sua composizione e soprattutto sull’ampiezza della delega alla legislazione ordinaria, che decide modalità di sorteggio, composizione dei collegi e altre questioni rilevanti. L’esito è noto al nostro sistema: un assetto costituzionale destinato a mutare al variare della maggioranza politica del momento, con effetti potenzialmente destabilizzanti sulla continuità dell’ordinamento giudiziario. Di fronte a tali rilievi, la domanda di fondo resta aperta: quale riforma serve davvero alla giustizia italiana? Una riforma strutturale non può ridursi a una scelta identitaria tra pro e contro, tra magistratura e politica, tra difesa e accusa. Richiede un progetto condiviso e una visione sistemica. Il documento mostra che il dibattito serio non è tra chi è conservatore e chi è innovatore, ma tra chi pensa la giustizia in termini di garanzie e chi la pensa in termini di schieramento. Il merito più grande di questa presa di posizione è proprio questo: ricordarci che una riforma della giurisdizione non può nascere da un atto di forza, né essere valutata secondo logiche di appartenenza. Deve piuttosto inscriversi nella cornice del costituzionalismo italiano, dove autonomia della magistratura, garanzie nel processo e tutela dei diritti non sono variabili accessorie, ma architravi dell’ordine democratico.
La redazione di GI
25 novembre 2025
Documento sulla riforma costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale
e istituzione della Corte disciplinare sottoscritto da studiose e studiosi di Procedura penale
I sottoscritti professori universitari
Considerato che
-solo un approccio scientifico ai temi toccati dalla riforma costituzionale può contribuire a stemperare le forti contrapposizioni che si stanno delineando tra i favorevoli e i contrari, e tra la magistratura e l’avvocatura, che rischiano di produrre conseguenze assai negative per la giustizia penale italiana;
-la maggioranza del Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “Gian Domenico Pisapia” ha approvato e diffuso un documento sulla riforma costituzionale della magistratura e che appare utile arricchire il dibattito sul tema.
Premesso che
-la rigorosa separazione delle funzioni di accusa, difesa e giudizio è un connotato irrinunciabile di qualunque sistema processuale che voglia dirsi autenticamente accusatorio, ma un’attenta e non semplicistica comparazione con ordinamenti europei ed extraeuropei e una lettura non affrettata della giurisprudenza sovranazionale dimostrano che non vi è una correlazione necessaria tra modello processuale e assetto delle carriere e che, nei paesi a forte tradizione accusatoria, le radici professionali di pubblico ministero, avvocato e giudice sono comuni;
osservano nel merito che
- la separazione della magistratura, congegnata dalla riforma, non è necessaria per attuare il giusto processo contemplato dall’art. 111 Cost., né fornisce alcun contributo alla risoluzione dei problemi che affliggono la giustizia penale italiana (primo fra tutti la durata irragionevole), non apparendo una terapia adeguata al nostro agonizzante processo penale;
- la modifica costituzionale rischia di portare a un mutamento genetico del pubblico ministero, destinato a configurarsi sempre più come organo schiacciato su mere istanze di repressione, e a un suo conseguente pericoloso rafforzamento;
- questa involuzione del pubblico ministero è destinata a tradursi in un progressivo indebolimento delle garanzie per indagati e imputati (soprattutto non abbienti);
- lo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura e l’introduzione del sorteggio secco per la componente togata rischiano di indebolire i presidi di autonomia e indipendenza, tanto dei pubblici ministeri, quanto (e forse soprattutto) dei giudici;
- la disciplina dell’Alta Corte disciplinare, per come configurata dalla proposta, presenta notevoli criticità sul piano della composizione e sul versante del procedimento;
- la definizione di molte questioni fondamentali – quali, solo per citare le principali, la modalità di individuazione dei sorteggiabili e la composizione dei collegi della Corte disciplinare – è rimessa alla legislazione ordinaria, con il pericolo di soluzioni condizionate dalla maggioranza politica del momento e non sufficientemente meditate.
Silvia Allegrezza, Associata di Diritto e Procedura penale nell’Università di Lussemburgo
Roberta Aprati, Ordinaria di Procedura penale nell’Università di Roma Unitelma-Sapienza
Teresa Bene, Ordinaria di Procedura penale nell’Università di Napoli Federico II
Marta Bargis, Emerito di Procedura penale nell’Università del Piemonte Orientale
Hervé Belluta, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Brescia
Valentina Bonini, Associata di Procedura penale nell’Università di Pisa
Pasquale Bronzo, Associato di Procedura penale nell’Università La Sapienza di Roma
Silvia Buzzelli, Associata di Procedura penale nell’Università di Milano-Bicocca
Michele Caianiello, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Bologna
Arturo Capone, Associato di Procedura penale nell’Università di Reggio Calabria
Francesco Caprioli, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Roma La Sapienza
Fabio Cassibba, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Parma
Donatella Curtotti, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Foggia
Marcello Daniele, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Padova
Mario Deganello, Ricercatore di Procedura Penale nell’Università di Torino
Franco Della Casa, Emerito di Procedura penale nell’Università di Genova
Gabriella Di Paolo, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Trento
Fabiana Falato, Associata di Procedura penale nell’Università di Napoli Federico II
Vittorio Fanchiotti, Già Ordinario di Procedura penale nell’Università di Genova
Carlo Fiorio, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Perugia
Chiara Gabrielli, Associata di Procedura penale nell’Università di Urbino Carlo Bo
Mitja Gialuz, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Genova
Livia Giuliani, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Pavia
Lucia Iandolo, Già associato di procedura penale nell’Università di Bari
Clelia Iasevoli, Ordinaria di Procedura penale nell’Università di Napoli Federico II
Giulio Illuminati, Già Ordinario di Procedura penale nell’Università di Bologna
Roberto E. Kostoris, Emerito di Procedura penale nell’Università di Padova
Katia La Regina, Ordinaria di Procedura penale nell’Università Giustino Fortunato - Benevento
Barbara Lavarini, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Torino
Elisa Lorenzetto, Associata di Procedura penale nell’Università di Verona
Paola Maggio, Ordinaria di Procedura penale nell’Università di Palermo
Barbara Nacar, Associata di Procedura penale nell’Università di Napoli Federico II
Renzo Orlandi, Professore Alma Mater - Università di Bologna
Francesco Peroni, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Trieste
Adonella Presutti, Già Ordinario di Procedura penale nell’Università di Verona
Angela Procaccino, Ordinaria di Procedura penale nell’Università di Foggia
Serena Quattrocolo, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Torino
Rosa Anna Ruggiero, Associata di Procedura penale nell’Università della Tuscia
Paola Spagnolo, Ordinaria di Procedura penale nell’Università Lumsa di Roma
Giulio Ubertis, Già Ordinario di Procedura penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Elena Valentini, Associata di Procedura Penale nell’Università di Bologna
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In tema di riforma costituzionale su questa rivista:
Un referendum su giustizia e potere di Aniello Nappi,
La riforma costituzionale della magistratura. 10 domande e 10 risposte di Riccardo Ionta,
Il giudice che i cittadini hanno diritto di avere secondo Costituzione di Giuliano Scarselli,
Riforme e assetto costituzionale della magistratura di Giuseppe Santalucia,
In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri di Giuseppe Iannaccone,
L'unità della magistratura un interesse della collettività di Giovanni Salvi,
Confessioni di un civilista (separazione delle carriere e dintorni) di David Cerri,
Riforma costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale: procedura e obiettivo di Giovanni Di Cosimo,
Indipendenza della magistratura e Stato costituzionale di diritto di Francesco Merloni,
Brevi note sull’Alta Corte disciplinare di Giuseppe Santalucia,
Le ragioni per votare NO al Referendum costituzionale di Giuseppe Cascini.
Sembra che il fascicolo dei tre figli della famiglia T. sia aperto da oltre un anno. Evidentemente presenta una certa complessità e iI lungo tempo che precede il provvedimento del Tribunale per i minorenni dell'Aquila riflette la necessaria ponderazione, e non superficialità, della magistratura.
Avrà tenuto occupati oltre che giudici anche assistenti sociali, educatori, psicologi, consulenti vari. Tutti vincolati per ruolo al benessere dei minorenni.
Assisto sconcertata quindi al florilegio di certezza in cui tanti stanno esibendo i loro giudizi sul provvedimento.
Le critiche devono essere esercitate nel pieno rispetto delle procedure e degli atti, evitando invettive e campagne di opinione che generano confusione e alimentano paure ingiustificate.
Molte le cose che si tacciono molte quelle che si dicono.
Si sottolinea poco che il Tribunale abbia emesso solo un decreto temporaneo, quindi interlocutorio e volto a raccogliere dati. Che è cautelare e temporaneo, volto a verificare che siano garantiti i diritti alla protezione, alla salute e allo sviluppo equilibrato dei minori, in conformità con l’articolo 6 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, ratificata in Italia con la legge 176/1991.
Non è dunque automatico che questo sia un primo passo verso un allontanamento definitivo: come si fa ad affermarlo?
E non va sottovalutato che il provvedimento è stato adottato da un organo specialistico, il Tribunale per i minorenni che ha il compito di tutelare i diritti degli infanti. La parola chiave è “per”: significa che il Tribunale agisce nel migliore interesse dei minori, consapevole che il rapporto con i genitori è fondamentale. Per questo cerca di sostenere la famiglia affinché diventi capace di rispondere alle esigenze dei bambini. Solo quando necessario, e mai con leggerezza, può disporre l’allontanamento.
Perché non si sta sottolineando che i minori sono collocati in una struttura protetta insieme alla madre e il padre giornalmente ha modo di raggiungerli seppur per poco tempo? Non mi sembra una omissione di poco conto.
Una generalizzata censura serpeggia verso l’istituzione deputata a difendere i minori, senza forse aver neanche letto il Decreto. Certamente senza sapere quali passaggi hanno preceduto questa misura: infatti sono atti riservati. Lo stesso da più parti si invoca l’intervento irrituale del Presidente del consiglio e del Ministro della giustizia.
Si può criticare un provvedimento, previa la consultazione degli atti e non sollevando polveroni senza fondamento. Errori umani possono sempre esserci, ma la serietà impone di analizzare i dati prima di giudicare. Le parti interessate possono subito fare ricorso. Per fortuna se si ritiene che un tribunale abbia commesso un errore, sono previsti i gradi di giudizio per rettificare le decisioni, senza interferenze ministeriali. In democrazia esistono già pesi e contrappesi. Le dichiarazioni diffuse in questi giorni, sulla stampa e in televisione, mostrano invece con buona sicurezza un’ostilità o diffidenza verso un’Istituzione della Repubblica, che ho avuto l’onore di servire come giudice onorario per molti anni. Perché screditare un organismo la cui funzione è proteggere i bambini, anche quando deve assumere decisioni difficili? Se un provvedimento appare ingiusto, risposte e verifiche si trovano negli atti e nelle procedure, non negli attacchi preconcetti.
Le istituzioni meritano rispetto e sostegno, soprattutto in periodi in cui risorse umane e finanziarie sono scarse, mentre il carico di lavoro aumenta esponenzialmente. La giustizia giusta e tempestiva è un diritto fondamentale, ma richiede mezzi adeguati per essere garantita, non può essere svuotata della propria dignità.
E non va sottaciuto che le risorse destinate alla giustizia sono da anni insufficienti, mentre il contenzioso è cresciuto notevolmente.
Garantire una giustizia di qualità è un diritto irrinunciabile per ogni cittadino. Ridurre gli organici giudiziari di risorse umane e finanziarie è invece una responsabilità grave.
Dietro questo gran parlare di questi giorni forse è celata una rivendicazione politica. Potrebbe perfino intravvedersi un potenziale tentativo di minare la fiducia nel potere giudiziario e indurre l’accreditamento della separazione delle carriere giudiziarie.
Se così fosse sarebbe davvero grave: non si possono usare temi delicati come la genitorialità e i diritti dei minori per battaglie che nulla hanno a che fare con la reale tutela dei bambini. Sarebbe una strumentalizzazione di temi fondamentali come la genitorialità e i diritti dell’infanzia.
Ecco una vera violazione, quella del rispetto dovuto a un’Istituzione della Repubblica.
Screditare la giurisdizione con campagne pubbliche erode il senso civico e vanifica il dovere di migliorare il servizio giustizia per i cittadini.
Di fronte alla complessità di questa vicenda familiare, si impone invece l’obbligo di assumere un impegno civile maturo che onori le istituzioni e favorisca una riflessione seria sui reali bisogni dei minori e delle famiglie, nell’interesse supremo di tutti i bambini coinvolti e della società tutta.
Un decreto di allontanamento, seppur provvisorio, è sempre fonte di dolore. Per tutti. Per chi si è coinvolto come operatore, per chi è stato interpellato come genitore. Per i bambini.
Tutti ora si danno da fare, come è giusto, perché abbia le minori conseguenze emotive (il padre si reca giornalmente nella struttura, la madre vi soggiorna e passa molto tempo con i figli, gli operatori cercano di attutire l’impatto, ecc).
Quello che è certo è che, nonostante la buona volontà, la comunicazione tra tutti gli attori di questa vicenda non ha finora prodotto alleanza, comprensione, progetto, patto. L’esito non poteva che essere quello che è sotto gli occhi di tutti e che sta dividendo a metà gli italiani.
Ma questo chiacchiericcio buonista a cui stiamo assistendo serve a poco ai bambini e al dolore degli adulti insieme a loro coinvolti.
Se la cultura della mediazione dei conflitti, istituto giuridico introdotto dalla riforma Cartabia, fosse stata conosciuta e applicata dai i vari attori, forse non sarebbe stato neanche necessario arrivare ad un provvedimento duro quale quello attuale. Forse si sarebbe potuto trovare un reciproco riconoscimento delle ragioni, e trovare un progetto che tenesse conto dei bisogni di tutti: dei giudici e del loro dovere di vigilare sulla qualità di vita dei minorenni. Degli assistenti sociali e degli educatori che sono votati a sostenere chi si trova in difficoltà al fine di migliorare le sue condizioni di vita. Dei genitori che hanno il dovere di dare un senso alla loro vita e di condividerlo con le loro creature. Ciascun genitore vuole dare ai figli quel che considera buono per sé.
Su questa metodologia io ho versato fiumi di inchiostro presentando il modello di mediazione filosofico-umanistica. Ma so che ancora siamo anni luce dalla sua diffusione e applicazione di valore. La mediazione dei conflitti, che studio e applico e racconto nei miei scritti, mi ha insegnato che ascoltando profondamente i punti di vista sempre differenti di ogni essere umano si scopre in ognuno una prospettiva degna di essere presa in considerazione. Si sperimenta che uno più uno fa tre e non due. Cioè si sperimenta che il confronto leale, senza sopraffazione o manipolazione è arricchente e costruttivo. Dalle diverse posizioni si può giungere ad una terza che rispetta entrambe senza omologarle. Questo particolare approccio, alto, poco praticato e compreso, favorisce il confronto e il dialogo evitando contrapposizioni semplicistiche e polarizzanti.
Certo occorre una comunicazione autentica, dal profondo del cuore, in verità. Non urlata, non spacciata come certezza univoca e unilaterale che invece creano escalation basate su pregiudizi e confusione.
In questo caso, come in ogni conflitto, non poteva esserci che una escalation. Ma si può sempre invertire la rotta e sperimentare l’efficacia di questa metodologia chiamata mediazione dei conflitti.
Comunque le situazioni sono sempre più complesse di quel che si dice, di quel che appare. Ma tutti oggi sono diventati giudici, censori, di parte : ora appoggiano i genitori e attaccano i giudici. Presto tutto cadrà nell’oblio e rimarranno solo i cocci di questa triste vicenda. I cocci saranno anche a carico di tutta la società, delle tifoserie a favore o contro che siano: tutti avranno consolidato una sorta di sfiducia nella magistratura.
Mentre è sempre buona cosa discutere. Di questo e di tutte le sensibilità nuove che stanno imponendosi e che attengono alle scelte di vita delle persone. Ed anche alla morte: pensiamo al tema del fine vita: programmato o accettato come ubbidienza/destino.
Si tratta di temi nuovi che richiedono garbo, delicatezza e competenza, sempre al confine tra pubblico e privato. Interpellano l’etica e la morale. Creano schieramenti politici. Ma stiamo attenti a non trattarli con lo stile da bar.
Stiamo attenti a non radicalizzare le posizioni, questo non farebbe fare un passo avanti. Non fa cogliere la complessità. Porta a semplificazioni banalizzanti e superficiali. Offende la dignità della persona.
E soprattutto a dobbiamo evitare di demonizzare o screditare le istituzioni su cui si basa la nostra democrazia e che sono deputate a sovrintendere, a vigilare, a normare.
Onestamente e seriamente si può interrogarsi ma non si può attestare con sicurezza e a cuor leggero che:
- La famiglia è solo quella dei nostri genitori o che il modello di Nazareth non apra essa stessa a modalità altre? È il modello che conta o la capacità di far circolare l’amore?
- La scuola e la formazione delle nuove generazioni sono di esclusiva competenza della famiglia o dello Stato? O vanno riconosciute le molteplici agenzie educative e il segreto sta nella sinergia tra loro?
- Il “deserto della città” è peggio o meglio del ritiro nel bosco? Un aut aut necessario, utile o dannoso?
- Il rapporto mediato dal telefonino mentre l’adulto guarda l’iPad educa alla relazione o rassegna all’isolamento interpersonale?
- Il fare manuale tipico delle società agricole ha una valenza formativa e il vuoto di stimoli si trasforma in pieno di pensieri personali, di educazione al contatto con se stessi?
Si può discuterne a lungo e probabilmente non sarà facile giungere a sintesi colta e onesta. Ci si può allenare. Ci si può avvicinare. Ma quel che non si può né si deve fare è il chiacchiericcio mediatico e la strumentalizzazione pretestuosa e ideologica. Tutto ciò porta pregiudizi e confusione e si nutre di sentimentalismi e slogan.
La cultura della mediazione dei conflitti, soprattutto nella declinazione filosofico-umanistica e trasformativa, rappresenta un’opportunità concreta per prevenire e gestire situazioni di crisi familiare. La mediazione non è solo una tecnica, ma una prassi basata sull’ascolto profondo, il riconoscimento reciproco delle ragioni e la costruzione di un dialogo autentico.
Questo approccio valorizza la pluralità delle prospettive, favorisce soluzioni che rispettano le esigenze di tutte le parti e trasforma gli scontri in opportunità di crescita e riconciliazione. In un tempo in cui la polarizzazione e la semplificazione spopolano, la mediazione filosofico-umanistica invita a una comunicazione più umana e rispettosa, che non mira a vincitori o vinti, ma a ristabilire la relazione e l’umanità tra le persone. Guida una riflessione civile, matura e responsabile.
Temi tanto delicati come la genitorialità, l’educazione e la protezione dei minori richiedono un approccio rispettoso, competente e consapevole delle complessità, lontano da slogan, banalizzazioni e campagne mediatiche urlate. È necessario evitare la radicalizzazione delle posizioni, che impedisce di cogliere le sfumature.
La società deve assumere un impegno civile maturo: onorare le istituzioni, sostenere il rispetto delle procedure legali, e promuovere un dialogo serio e basato sui fatti. Solo così si potrà difendere efficacemente i diritti dei minori, tutelare le famiglie e rafforzare la fiducia nelle istituzioni, indispensabile per il funzionamento di una democrazia sana.
Si veda anche Nota all'ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila del 13 novembre 2025
Immagine: Leonardo Da Vinci, Studio di Mani e Braccia, circa 1490, Royal Library at Windsor Castle.
Attività di impresa e contenzioso climatico. Dal diritto al clima al diritto alla salute passando per gli artt. 9 e 41 della Costituzione (commento a Cassazione, Sezioni Unite, 21 luglio 2025, ordinanza n. 20381)
Sommario: 1. Le peculiarità del caso; 2. Le norme invocate sulla responsabilità civile extracontrattuale. L’elemento oggettivo; 3. L’elemento soggettivo; 4. Riflessioni conclusive alla luce degli artt. 9 e 41 della Costituzione
1. Le peculiarità del caso
Il caso deciso con l’ordinanza dalle Sezioni Unite della Cassazione in commento, a seguito della proposizione di un regolamento di giurisdizione, affronta un tema specifico, ossia la questione del giudice dotato dello ius decidendi in relazione ad un’azione di responsabilità extracontrattuale promossa contro un’impresa privata per danni al diritto alla salute e al rispetto della vita familiare e domestica, tutelati anche dagli articoli 2 e 8 della CEDU[1]. La Corte ha concluso per la sussistenza della giurisdizione civile, precisando che spetta al giudice di merito accertare i presupposti legali per l’eventuale riconoscimento dei diritti azionati.
Secondo l’impostazione degli attori, il danno lamentato – sia patrimoniale sia non patrimoniale – sarebbe causalmente riconducibile ai comportamenti inquinanti dell’impresa e all’inottemperanza di ENI S.p.A. agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, in particolare dall’Accordo di Parigi, oltre che alla violazione di ulteriori parametri vincolanti desunti da norme di diritto internazionale, dei quali si invoca l’efficacia tanto orizzontale quanto verticale. Gli attori aggiungono, inoltre, che ENI avrebbe violato il principio dello sviluppo sostenibile e i principi generali dell’azione ambientale.
Tra i convenuti figura non solo ENI, ma anche il Ministero dell’ambiente e Cassa Depositi e Prestiti; questi ultimi chiamati in giudizio non in quanto fautori di politiche pubbliche delle quali si contesti l’inefficacia, ma nella loro qualità di azionisti di controllo della società convenuta, che avrebbero consentito l’attività inquinante traendone beneficio economico sotto forma dell’utile di impresa.
Il regolamento di giurisdizione è stato richiesto (non tanto per un effettivo dubbio circa l’individuazione del giudice munito di giurisdizione, quanto piuttosto) per evitare un esito analogo a quello cui era pervenuto, pochi mesi prima, il Tribunale di Roma[2] che, in una causa che presentava analoghe tematiche, aveva dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione in relazione a una domanda di condanna dello Stato per omissioni connesse all’inefficacia delle politiche climatiche.
La motivazione dell’ordinanza ha affrontato una prima questione, di ordine processuale, inerente alla proponibilità del regolamento di giurisdizione da parte degli attori del giudizio principale.
La decisione della Corte si è appoggiata ad un proprio consolidato orientamento[3], riconoscendo l’ammissibilità dello strumento processuale proposto in ragione dell’interesse ad ottenere la stabilizzazione della questione concernente l’individuazione della giurisdizione.
In particolare, le Sezioni Unite hanno precisato che il caso di specie presentava, in effetti, connotati peculiari, dai quali era deducibile l’interesse concreto ad ottenere una pronuncia sulla giurisdizione: infatti, non si rinvenivano precedenti, nella giurisprudenza di legittimità, su fattispecie analoghe; l’unica decisione di merito, sia pure su una controversia con oggetto significativamente differente, aveva pronunciato il difetto assoluto di giurisdizione e le controparti in giudizio avevano sollevato diverse eccezioni proprio sull’azionabilità delle domande agite, appunto facendo valere il precedente negativo a cui si è fatto cenno.
Ci si dovrebbe domandare se gli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte siano meramente confermativi del solco già tracciato oppure siano forieri di un nuovo orientamento sulle condizioni di proponibilità del regolamento di giurisdizione. Si potrebbe infatti arguire che chi ha scelto la giurisdizione, radicando la causa presso un determinato giudice, debba poi dimostrare, per essere legittimato a presentare regolamento preventivo di giurisdizione, che la questione sia nuova e, al contempo, che vi siano contestazioni sul difetto assoluto di giurisdizione[4] e sussistano precedenti contrari dai quali ci sarebbero ragioni per distanziarsi. Tale conclusione non pare, invero, derivare dall’argomentazione dell’ordinanza, che utilizza le ragioni anzidette come elementi convergenti, ma non tutti necessari, per affermare la presenza delle condizioni di proponibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c..
Ebbene, al di là della temuta analogia con il caso deciso dal Tribunale di Roma nel quale convenuto era lo Stato Italiano – analogia strumentale al pronunciamento in sede di regolamento preventivo di giurisdizione – come i primi commenti non hanno mancato di sottolineare[5], la causa che ha condotto all’ordinanza delle Sezioni Unite presenta elementi decisamente diversi da quelli alla base del precedente giudizio conclusosi, come accennato, con la declaratoria del difetto assoluto di giurisdizione. Nel caso oggetto del regolamento di giurisdizione, infatti, il thema decidendi riguarda la possibile giustiziabilità di un danno derivante dall’attività di impresa, ai sensi degli artt. 2043, 2050, 2051 e 2058 c.c., e degli artt. 300 e 301 del Codice dell’ambiente; nel caso conclusosi con la declaratoria del difetto assoluto di giurisdizione, invece, l’oggetto della domanda verteva sulla responsabilità dello Stato per non aver adottato politiche climatiche efficaci, con annessa richiesta di condanna ad un facere specifico inerente alle strategie dell’azione politica contro il cambiamento climatico.
La differenza tra i due oggetti di causa concerne, quindi, l’articolazione tecnico-processuale della domanda giudiziale, la fonte del danno lamentato e i soggetti ritenuti responsabili.
Diversamente dall’azione di condanna promossa contro lo Stato per inefficienza delle politiche climatiche, che aveva fondato l’azione sul diritto al clima salubre[6], le domande rivolte nei confronti di ENI non tangono, minimamente, le competenze riservate al legislatore, appuntandosi invece su una condotta illecita generata dall’attività di impresa che avrebbe disatteso gli obblighi derivanti dalle vigenti politiche climatiche.
L’ordinanza delle Sezioni Unite non modifica l’orientamento espresso dal Tribunale di Roma in merito al contenzioso climatico che abbia ad oggetto l’efficacia delle politiche climatiche[7]; anzi, sul punto, vengono rafforzate le conclusioni raggiunte nel precedente caso: la Corte ritiene infatti che nessun giudice possa disporre e imporre allo Stato l’adozione di “atti, provvedimenti o comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico”, che restano necessariamente di pertinenza esclusiva di chi esercita quella funzione, dunque non dei titolari dell’esercizio del potere giurisdizionale.
Per ciò, appare utile, anzitutto, unirsi alle voci che già hanno sottolineato la necessità di una interpretazione cauta dell’ordinanza della Suprema Corte che colga la regola enunciata alla luce delle peculiarità del caso con riferimento al quale è stata pronunciata e la delimiti con precisione. In quest’ottica ed in estrema sintesi, dall’ordinanza deriva che se una controversia riguarda un’azione da responsabilità civile extracontrattuale per danno causato da un’impresa, non vi è dubbio che sussista la giurisdizione del giudice civile[8].
Viceversa, una lettura dell’ordinanza che ravvisasse in essa non solo il riconoscimento della sussistenza della giurisdizione del giudice civile su un asserito danno ambientale e climatico arrecato dalle imprese, ma anche un’implicita ammissione di una generalizzata responsabilità degli operatori economici, accanto a quella dei poteri pubblici, rispetto alle politiche climatiche risulterebbe un fuor d’opera.
La Cassazione non si esprime, naturalmente, sul merito delle pretese azionate: spetterà alla cognizione del giudice adito verificare, secondo le regole comuni in materia, se sussistano o meno i presupposti per integrare le contestate fattispecie di responsabilità aquiliana.
Ciò non toglie che le argomentazioni confluite nell’ordinanza presentino aspetti di estremo interesse per l’ampio dibattito suscitato dal contenzioso climatico, ai quali dedicheremo i paragrafi che seguono.
2. Le norme invocate sulla responsabilità civile extracontrattuale. L’elemento oggettivo
Fermo restando, dunque, che la valutazione di merito sulla fondatezza delle pretese azionate spetterà al giudice della cognizione, è possibile svolgere alcune riflessioni generali, a partire dai contenuti dell’ordinanza in commento, in relazione ai rischi gravanti sull’attività di impresa in conseguenza della sua potenziale lesività per il diritto alla salute e per l’ambiente.
Diversamente dalla causa intentata contro lo Stato, discussa e decisa con la sentenza del 26 febbraio 2024, n. 3552 del Tribunale di Roma (nella quale le doglianze riguardavano non specifiche violazioni di norme poste a tutela dell’ambiente, ma il venir meno ad un generale “dovere di protezione” dedotto dalla Costituzione, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, dall’Accordo di Parigi del 2015 e da fonti integrative quali i report scientifici dell’IPCC), nella controversia in commento, il danno ingiusto è lamentato come conseguenza dell’azione di un operatore economico privato, che avrebbe agito in contrasto con norme giuridiche interne e internazionali, di cui si invoca la diretta applicazione.
Nello specifico, secondo gli attori, l’ingiustizia del danno, sotto il profilo oggettivo, deriverebbe dalla violazione, imputata a ENI, di parametri giuridici contenuti nel diritto internazionale – in primo luogo nell’Accordo di Parigi – che i convenuti avrebbero disatteso, pur avendoli assunti come vincolanti nel proprio codice etico aziendale. E non solo; l’impresa avrebbe violato anche la clausola di responsabilità intergenerazionale sancita dall’art. 9, comma 3, Cost., che consente al giudice civile di esercitare un sindacato su quella che è stata definita “obbligazione climatica”[9]. Tale obbligazione vincola le imprese, pubbliche e private, cui si rivolge la nuova formulazione dell’art. 41 Cost., secondo cui l’iniziativa economica non può svolgersi in modo da arrecare danno alla salute e all’ambiente.
Emerge dall’ordinanza che gli attori, per rafforzare i propri argomenti, hanno richiamato anche gli artt. 3 tere 3 quater del Codice dell’Ambiente[10], oltre che gli artt. 2 e 9 della Convenzione di Århus[11] sulla giustiziabilità dei diritti dei singoli e delle associazioni nei confronti delle attività economiche difformi dai principi dell’azione ambientale.
È pacifico, intanto, che il giudice civile dovrà accertare il danno ingiusto, secondo le regole comuni[12].
Efficace, sul punto, la sintesi fornita dall’ordinanza: “la fattispecie in esame si configura come una comune azione risarcitoria, fondata sull’allegazione di un danno, consistente nella lesione del diritto alla vita e al rispetto della vita privata e famigliare, la cui ingiustizia viene predicata in virtù del richiamo da un lato agli obblighi positivi e negativi derivanti dagli artt. 2 e 8 della Cedu, e dall’altro ai doveri di intervento previsti dalle fonti internazionali in tema di contrasto al cambiamento climatico, obblighi e doveri dei quali viene affermata l’efficacia vincolate non solo a carico degli Stati che hanno aderito alla Cedu ed agli Accordi richiamati, ma anche a carico di soggetti pubblici e privati (…) responsabili dell’incremento della temperatura globale”.
In linea generale, deve rammentarsi che è ingiusto un danno prodotto da una condotta posta in essere contra ius, presupposto causale del pregiudizio di cui si chiede il risarcimento, e che si palesi come soggettivamente connotato almeno da colpa dell’agente del fatto dannoso.
Nel giudizio sulla responsabilità aquiliana, il giudice è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti costitutivi dell’illecito aquilano, ossia (i) un’azione o un’omissione colposa, (ii) che abbia causato un danno contra ius e (iii) un nesso di causalità diretta tra condotta imputabile e pregiudizio. Più precisamente, il giudice civile dovrà, in ordine logico progressivo: indagare la sussistenza di un evento dannoso; qualificare il danno come ingiusto; verificare la presenza di un nesso causale; e indagare la sussistenza di una condotta quantomeno colposa.
Ove poi si tratti di responsabilità per omissione – invero dall’ordinanza parrebbe che l’azione contro ENI contesti specificamente l’inottemperanza dell’ENI al dovere di adottare le misure necessarie per ridurre la quantità delle emissioni, ma una tale qualificazione dipenderà dall’esame specifico della domanda, in tutte le sue articolazioni – andrebbe anche considerato che essa può essere accertata solo se il soggetto la cui omissione ha causato il danno è “formalmente” (cioè ex lege) tenuto all’obbligo giuridico di evitare il danno che si è poi verificato come conseguenza della previsione di impegni specifici posti a suo proprio carico.
L’ingiustizia del danno ha connotati differenti a seconda delle diverse ipotesi di responsabilità civile extra contrattuale previsti dal codice civile.
L’ordinanza rammenta che la responsabilità di impresa potrebbe essere ricondotta, seguendo le tesi degli attori, agli artt. 2050 e 2051 cc., alla luce del fatto che gli operatori nel settore della produzione del trasporto e della commercializzazione di combustibili fossili opererebbero nel campo di attività pericolose, che impongono a chi le esercita di adottare tutte le misure idonee ad evitare che si arrechi danno a terzi.
Dunque, al fine di verificare l’ingiustizia del danno, il Tribunale dovrà valutare se ascrivere la fattispecie nel campo (generico) di applicazione della responsabilità aquiliana di cui art. 2043 c.c. oppure in quello, maggiormente specifico, della responsabilità per lo svolgimento di attività pericolosa, ex art. 2050 c.c.
Quale che sia la fattispecie prescelta, non si potrà evitare di prendere una posizione sulla sussistenza di obblighi (di azione e protezione) in capo alle imprese derivanti dalla suddetta “obbligazione climatica”, giacché è da questa questione che dipenderà la stessa configurabilità, in astratto, del danno, quale che sia la norma ritenuta pertinente al caso.
Gli attori hanno invocato, come si accennava, anche l’art. 2050, ricostruendo l’attività di ENI nei termini di una attività pericolosa, per veder affermato il principio secondo cui chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.
A riguardo, la domanda attorea è tecnicamente insidiosa e dimostra l’evoluzione delle strategie di “attacco” proprie dello sviluppo, per prove ed errori, delle liti strategiche. Qui la prospettiva che il Tribunale dovrà giudicare è quella di ricostruire la posizione dei convenuti nei termini di una responsabilità aggravata, che, in quanto tale, si discosta dal modello generale dell’illecito aquiliano. A ciò conseguirebbe una inversione dell’onere della prova, fondato sulla presunzione di colpa a carico di ENI, in quanto esercente di un’attività qualificabile come pericolosa. In altri termini, per integrare la fattispecie, aperta e atipica, della pericolosità dell’attività, l’attore dovrebbe dimostrare che l’impresa convenuta è impegnata in attività di natura “pericolosa”; mentre l’operatore economico, ove il Tribunale dovesse accogliere la tesi della riconduzione del caso all’art. 2050 cc., per liberarsi, dovrebbe dimostrare di aver adottato tutte le misure ragionevolmente possibili per evitare il danno.
Sul punto, vi è da attendersi che la decisione del Tribunale tenga in considerazione la definizione di attività pericolosa derivante dall’interpretazione giurisprudenziale, che la qualifica come quella attività che “per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati” si presenta come tale, senza invece proporre un elenco tipizzato di casi.
La giurisprudenza civile ha introdotto il concetto di pericolosità “per natura”, di determinate azioni che hanno una pericolosità intrinseca: per esempio la produzione di energia elettrica, a causa dei rischi elevati connessi sia al contatto diretto con la rete sia ai guasti nella distribuzione, come sbalzi di tensione o cortocircuiti[13]; o la produzione, lavorazione e commercializzazione di sostanze esplosive o infiammabili, come la nitrocellulosa[14].
Di fianco a questo concetto, si ritrova quello della pericolosità “per la natura dei mezzi adoperati”, riferibile a situazioni in cui l’attività rientra in quelle pericolose (non per le sue caratteristiche intrinseche, ma) a causa degli strumenti, macchinari o impianti utilizzati per il suo svolgimento, quando vi sia una “potenzialità lesiva notevolmente superiore al normale”: come nel caso di lavori di scavo con mezzo meccanico[15]; attività di polizia in cui sia prevista la disponibilità di armi[16]; navigazione aerea in presenza di condizioni atmosferiche peculiari[17]; gestione di un maneggio per insegnamento di equitazione[18].
Considerate le attività svolte da ENI, la decisione sull’applicabilità o meno dell’art. 2050 c.c. non è affatto scontato e richiederà, con buona probabilità, un’analisi dettagliata anche di raffronto con i precedenti giurisprudenziali a cui si è fatto brevemente cenno.
In ultimo, il Tribunale dovrà anche confrontarsi con il richiamo all’art. 2051, norma per i danni arrecati dai beni di cui si abbia la custodia[19].
Diversamente dalle fattispecie di responsabilità precedentemente citate, nel caso vi sia un legame giuridico con la cosa che produce il danno, il custode risponde sempre direttamente, salvo che provi il caso fortuito. La giurisprudenza è unanime nel qualificare la responsabilità ex art. 2051 c.c. come responsabilità oggettiva, che prescinde completamente da un’indagine sulla colpa (negligenza, imprudenza o imperizia) del custode[20]. L’art. 2051 c.c. fonda la responsabilità sulla mera sussistenza del rapporto di custodia e del nesso causale tra la cosa e il danno[21].
Il fondamento di tale responsabilità oggettiva, che non è collegato a specifiche norme di protezione violate, risiede in un criterio di allocazione del rischio: il soggetto che ha il “governo” della cosa è chiamato a rispondere dei danni che essa produce.
Dunque, la responsabilità del custode del bene che produca danno, ha un perimetro di rischio maggiore di quella configurabile sia ai sensi dell’art. 2043 c.c. sia ai sensi dell’art. 2050, che richiede al danneggiato di provare, tra l’altro, la colpa e il nesso di causalità rispetto alla condotta del danneggiante.
Nello specifico, l’art. 2051 c.c. sanziona la condotta di chi abbia un potere di controllo sulla cosa e ometta di predisporre le misure di sorveglianza per evitare che essa produca danni a situazioni soggettive tutelate dall’ordinamento[22].
La giurisprudenza civile applica l’art. 2051 c.c. anche nel caso di attività di impresa, ritenendo che l’imprenditore debba controllare i rischi e rispondere delle conseguenze dannose delle “cose” di cui dispone[23]. La casistica a riguardo è piuttosto variegata: si afferma, tra l’altro, la responsabilità dell’impresa che gestisce un locale aperto al pubblico per i danni causati da acqua presente sui pavimenti; quella del gestore di un’area gioco per infortunio ai bambini[24]; vi sono anche casi che presentano maggiori tratti di potenziale analogia con quello di specie, come la responsabilità affermata per i gestori di grandi infrastrutture, ritenuti “custodi”, per esempio, del manto stradale e delle relative pertinenze[25].
3. L'elemento soggettivo
L’elemento soggettivo, come si evince da quanto esposto sopra, dipende dalla fattispecie che si consideri. I sistemi di responsabilità civile extracontrattuale presuppongono, difatti, diverse forme di imputabilità del fatto in capo al danneggiante, che dipendono dalla posizione (giuridica) nella quale questi si trovi rispetto all’evento dannoso.
Ove non si verta in ipotesi di responsabilità oggettiva, come nel caso dello svolgimento di attività pericolose, o in quello della responsabilità (aggravata) per cose in custodia, i criteri di determinazione soggettiva della responsabilità dell’agente sono però riconducibili agli ordinari parametri della responsabilità aquiliana.
Nel campo del danno all’ambiente generato da emissioni che contribuiscono ad innalzare il livello della temperatura del Pianeta, l’elemento soggettivo è da sempre segnalato come particolarmente problematico, in ragione della difficoltà di configurare quanto meno una “colpa” nel soggetto agente, a fronte di una condotta che non si ponga in violazione di norme vincolati e per il fatto di ravvisare una sorta di “colpa” diffusa e indifferenziata in ogni condotta riconducibile all’attività umana.
Sul punto assume particolare interesse il ragionamento svolto dalla Corte Internazionale di Giustizia con il parere consultivo n. 3623 del 23 luglio 2025 in tema di “Obblighi degli Stati in materia di Cambiamento Climatico”, reso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite[26].
Sebbene il parere riguardi la responsabilità delle istituzioni, esso contiene affermazioni di portata più generale, che potrebbero suggerire alcuni ripensamenti sia sul tema dell’imputabilità delle condotte sia sul nesso di causalità.
In particolare, la Corte conclude che la responsabilità per le violazioni degli obblighi ai sensi dei Trattati sul cambiamento climatico, e in relazione alle perdite e ai danni associati agli effetti avversi del cambiamento climatico, deve essere determinata applicando le norme consolidate sulla responsabilità degli Stati ai sensi del diritto internazionale consuetudinario e che, in tema di nesso di causalità, l’atto illecito in questione non sarebbe l’emissione di gas a effetto serra di per sé, ma la violazione degli obblighi convenzionali e consuetudinari.
Se tale considerazione valesse anche nel percorso logico giuridico di verifica di responsabilità delle imprese, potrebbe configurarsi una sorta di responsabilità soggettiva in re ipsa ove si ritenesse di attribuire alle previsioni del diritto internazionale consuetudinario un’efficacia anche verticale, capace di determinare obblighi anche nei confronti degli operatori economici.
In più, sul nesso di causalità, la Corte affronta la problematica relativa alla difficoltà di invocare la responsabilità nel contesto del cambiamento climatico, dato che la condotta illecita è di natura cumulativa, coinvolgendo l’azione (o l’omissione) di diversi soggetti. In argomento, la Corte precisa che il fatto che il danno climatico è il risultato di cause concorrenti non esonera i soggetti agenti da qualsiasi obbligo riparatorio, purché sussista “un nesso causale sufficientemente diretto e certo tra un’azione o omissione illecita presunta e il danno presunto sia sufficientemente flessibile da affrontare le sfide che sorgono rispetto al fenomeno del cambiamento climatico”. Per accertare questo nesso di causalità che potremmo definire “specifico”, è ritenuto decisivo il contributo di analisi scientifiche, che processualmente comportano un onere della prova particolarmente rigoroso e l’eventuale utilizzo degli strumenti di approfondimenti istruttorio tipici di ciascun giudizio.
Sono dunque la c.d. “prove scientifiche”[27] ad essere dirimenti, dal punto di vista della rimproverabilità della condotta: esse determinano se sussiste un collegamento giuridicamente qualificato tra fatto e danno, rilevando se un danno significativo al sistema climatico è stato causato come risultato delle emissioni antropogeniche di gas a effetto serra (anche) imputabili ad un certo soggetto che abbia violato le norme del diritto internazionale consuetudinario o i parametri connessi ai propri oneri e responsabilità.
Quanto anticipato comporta che l’elemento soggettivo per ravvisare un danno da responsabilità extracontrattuale in capo ad un’impresa dipenda dalla norma che si consideri applicabile al caso, dalla presenza di nessi, scientificamente provati, tra azione e danno e dalla possibilità, quindi, di ravvisare elementi di colpa, eventualmente in re ipsa, derivanti dalla violazione di parametri normativi che avrebbero dovuto essere considerati dal soggetto agente.
4. Riflessioni conclusive alla luce degli artt. 9 e 41 della Costituzione
L’ordinanza della Corte riporta un passaggio significativo delle tesi attoree che consiste nell’affermare che la limitazione della libertà di determinare la politica aziendale deriverebbe anche dell’art. 9 comma 3 della Costituzione, che prevede una responsabilità intergenerazionale in funzione della tutela dell’ambiente, che impone anche all’autorità giurisdizionale di sindacare il rispetto dell’obbligazione climatica anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 41 della Costituzione, secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da arrecare danno alla salute e all’ambiente.
Senonché, un conto è affermare che, in ragione della riforma costituzionale, lo Stato debba adottare politiche di intervento pubblico volte ad orientare i fattori produttivi verso il raggiungimento di obiettivi che trascendono la semplice competizione tra le imprese[28], altro conto è sostenere che dalle medesime norme derivino auto-vincoli per le imprese, responsabili di una generica obbligazione climatica a fronte della necessità di tutelare gli interessi delle future generazioni.
Infatti, la giurisprudenza della Corte costituzionale mostra una attenta ricostruzione delle implicazioni giuridiche delle modifiche introdotte agli artt. 9 e 41 Cost., ritenendo che sussista un preciso dovere per le generazioni attuali di preservare le condizioni per le generazioni future, anche come “limite esplicito alla stessa libertà di iniziativa economica privata”[29], ma rivolge il suo sindacato alla normativa interna per armonizzarla ai principi costituzionali vigenti: il bilanciamento tra interessi economici e altri interessi primari, tra cui l’ambiente e la salute, viene cioè preso in esame con riferimento all’attività legislativa, nel rispetto della quale va ad essere svolta l’attività di impresa. Non vale cioè il contrario; nel senso che gli art. 9 e 41 della Cost. se vincolano lo Stato, non sono (ancora) interpretati come dotati di effetto diretto verticale, nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento e a prescindere dal tramite del loro recepimento in previsioni di diritto positivo conformate alla logica sottesa alla riforma della Costituzione. In altri termini “Il livello di sacrificio (dell’ambiente, n.d.r.) considerato come tollerabile in vista dell’esigenze della soddisfazione di un bisogno è l’esatta espressione del giudizio di sostenibilità individuato per legge”[30].
Il condizionamento che le nuove norme proiettano anche sulla libertà di iniziativa economica non può (e non deve) sfuggire al principio di legalità e alla prevedibilità delle condotte attese dalle imprese, la cui azione, se non limitata da previsioni di legge, deve potersi svolgere secondo valutazioni proprie dell’autonomia privata.
Da qui, la dottrina ha segnalato la necessità di applicare, anche alla tutela dell’ambiente, pur a fronte del riconoscimento di diritti umani risarcibili connessi ai fenomeni di deterioramento dell’ambiente e del clima, quella logica del contemperamento degli interessi che la stessa Costituzione avalla[31].
L’art. 41 Cost. non è norma in grado di attribuire diritti che comprimano la libertà economica senza l’intermediazione di una fonte legale.
Così parrebbe rilevante, per individuare limitazioni dell’attività di impresa, invece del parametro costituzionale, la regola del do not significant harm, che è richiamata, tra l’altro, nell’art. 452 bis del codice penale, per determinare la condotta produttiva del danno ambientale, qualificato in termini di deterioramento significativo e misurabile di acqua, aria, suolo, ecosistemi e biodiversità.
Così, se ad un lato vi è la possibilità che sia la legge a delimitare nuovi ambiti di responsabilità d’impresa anche in relazione all’obbligazione climatica, dall’altro lato vi è comunque il presidio di tutela figurato, in termini generali, dalle norme sanzionatorie. Proprio in quest’ottica si conferma l’attualità della decisione fornita dalla Corte Costituzionale nel noto caso Ilva, rammentando che “Spetta certamente al potere politico amministrativo stabilire, in conformità ai principi costituzionali (art. 41, primo, secondo e terzo comma) regime, limiti e vincoli relativi ad attività di per sé non solo lecite ma socialmente utili e necessarie, ancorché genericamente “pericolose”, come la produzione industriale, in particolare la produzione della grande industria dell’acciaio, con i suoi corollari di occupazione e di sviluppo dell’economia nazionale. D’altra parte, spetta certamente al potere giudiziario perseguire e reprimere le condotte violatrici di norme e lesive di diritti delle persone, con i corollari dei poteri cautelari e preventivi attribuiti all’autorità giudiziaria”[32].
Ciò comporta che l’attività di impresa sia guidata verso le necessità di protezione dell’ambiente, nell’ottica proprio del principio di sviluppo sostenibile, ma entro parametri certi compatibili con l’autonomia imprenditoriale e con il sistema economico costituzionale del c.d. liberismo condizionato[33].
Diverso, invece, l’impatto delle norme costituzionali sulle pubbliche amministrazioni, che, in quanto istituzioni che danno corpo allo Stato, subiscono la precettività del dato costituzionale in maniera certamente più ampia e sono tenute ad effettuare un continuo bilanciamento tra iniziativa economica (soggetto a autorizzazioni o controlli), utilità sociale e interessi ambientali[34].
In sostanza, il nuovo art. 41 Cost. enuclea una vera e propria funzione pubblica “traducibile nell’individuazione del limite tollerabile al pregiudizio prodotto dall’iniziativa nei confronti degli elementi altri rispetto all’operazione economica”[35]. Ma, appunto, di funzione pubblica pur sempre si tratta, perché è nella sede delle valutazioni istituzionali che può compiersi il bilanciamento di cui si è detto, stabilendo vincoli e confini all’ “eseguibilità” dell’interesse meramente economico.
E, di fatti, anche la giurisprudenza amministrativa che si appiglia al principio di sviluppo sostenibile, richiamando pure l’interesse delle future generazioni[36], per giustificare decisioni amministrative di rilevante impatto sull’attività economica e comunque limitative dei diritti proprietari, lo fa esaminando la ragionevolezza di provvedimenti pubblici controversi, ma mai estendendo le proprie argomentazioni fino a immaginare un auto-limite che gli operatori economici dovrebbero imporsi per dirigere le proprie azioni nel senso indicato, in astratto, nell’art. 41 Cost., ove ciò non sia recepito in previsioni di legge o provvedimenti amministrativi ad hoc.
Non pare possano condurre ad una interpretazione differente nemmeno gli artt. 3-ter e 3-quater del Codice dell’ambiente che, pur affermando la necessità che anche gli enti privati ispirino la propria azione ai principi della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, oltre che al principio “chi inquina paga” e al principio di sviluppo sostenibile, hanno efficacia precettiva una volta che siano tradotti in norme.
[1] Per una visione complessiva dei diversi ambiti di tutela contemplati dall’art. 8 CEDU, si rimanda a R. Conti, Alla ricerca del ruolo dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Pol. Dir., 2013, 127 ss.; V. Zagrebelsky - R. Chenal - L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, II ed., Il Mulino, 2016, 275 ss.; M. Bonetti - A. Galluccio, Profili specifici sull'art. 8, in G. Ubertis - F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2022, 327 ss. Con specifico riferimento alla tutela del diritto ambientale tramite l’art. 8 CEDU, cfr. G. D’Avino, La tutela ambientale tra interessi industriali strategici e preminenti diritti fondamentali, in A. Di Stasi (a cura di), Cedu e ordinamento italiano, la giurisprudenza dellaCorte europea dei diritti dell’uomo e l’impatto nell’ordinamento interno (2016 - 2020), Milano, 2020, 709 ss.; A. Scarcella, Violato il diritto alla salute e quello ad un ricorso effettivo dei residenti nell’area ad elevato pericolo di inquinamento ambientale dell’ILVA di Taranto, in Cass. pen., 2019, 2293 ss.; S. Zirulla, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in Dir. pen. contemp., 2019, 135 ss. L’applicazione della previsione ai casi di contenzioso civilistico strategico in materia climatica è ben evidenziata in G. Puleio, L’obbligazione climatica degli Stati nel sistema CEDU. Fondamento normativo e impatto sui rimedi civilistici, in Oss. dir. civ. comm., 2023, 1 ss.; U. Salanitro, Tutela dell’ambiente e del clima nella teoria dei beni, in Riv. dir. civ., 2025, 637 ss.
[2] Tribunale di Roma, 26 febbraio 2024, n. 3552, se si vuole con commento di S. Valaguzza, Gli orizzonti del diritto dell’ambiente a partire dal contenzioso climatico, in Dir. proc. amm., 2024, 917 ss.
[3] Orientamento riassunto, di recente, per esempio, da Cassazione civile, Sez. Un., 29 agosto 2023 , n. 25427, secondo cui il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dall’attore, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adito, sussistendo, anche in mancanza di un’eccezione proposta dalla controparte, un interesse concreto ed immediato a sollecitare la risoluzione della questione da parte della Corte regolatrice, in via definitiva, in modo da evitare che nel corso del giudizio possano intervenire successive modifiche della giurisdizione, tali da ritardare la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole.
[4] A riguardo, invero, la giurisprudenza delle Sezioni Unite Cassazione civile (per es. 30 giugno 2008, n. 17776) è consolidata nel ritenere che se la parte convenuta o resistente aderisce esplicitamente o implicitamente all'assunto della parte attrice o ricorrente che ha ritenuto essere il giudice adito fornito di giurisdizione e non sussiste alcun elemento di fatto - dedotto in ricorso - che possa far dubitare di ciò, la parte attrice o ricorrente non ha interesse a vedere coonestato anticipatamente il suo assunto con una pronuncia di questa Corte sulla giurisdizione che, resa in sede di regolamento preventivo, vincoli il giudice adito.
[5] E. Romani, Il contenzioso climatico e la tutela a geometria variabile offerta dal giudice ordinario e dal giudice amministrativo, in corso di pubblicazione, in Dir. proc. amm.; G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., 21 luglio 2025, n. 20381) in tema di contenzioso climatico, in Judicium, 29 luglio 2024; M. Buffoni, Giustizia climatica strategica e transizione ecologica. Prime indicazioni della Cassazione sullo spazio d’azione, per il giudice italiano, nell’approccio alle nuove frontiere del diritto, in Questionegiustizia.it, 15 ottobre 2025; A. Molfetta, «Eppur [qualcosa] si muove». Considerazioni a prima lettura intorno all’ordinanza sul regolamento di giurisdizione nella vertenza climatica Greenpeace e al. v. Eni e al., in Corti supreme e salute, 2025, 1; con riferimento al profilo comparato, V. Capuozzo, Riflessioni sul ruolo del potere giudiziario nel contrasto al cambiamento climatico: un’analisi comparativa, in questa Rivista, 21 ottobre 2025.
[6] Sui c.d. “nuovi” diritti, i contributi scientifici sono ormai molti, senza pretesa di esaustività, ex multis, A. Scalisi, Il valore della persona nel sistema e i nuovi diritti della personalità, Milano, 1990; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, Torino 1995, 2 ss.; S. Castignone, Nuovi diritti e nuovi soggetti: appunti di bioetica e biodiritto, Genova, 1996; R. Ferrara-P.M. Vipiana (a cura di), I nuovi diritti nello Stato sociale in trasformazione, Padova, 2000; A. D’Aloia, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, in Id. (a cura di), Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano 2003; S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004; E. Corcione, Diritti umani, cambiamento climatico e definizione giudiziale di standard di condotta, in Dir. umani dir. int, 2019, 291; K. Poneti, Il cambiamento climatico tra governance del clima e lotta per i diritti, in S. Ciuffoletti-M. Deriu-S. Marcenò-K. Poneti (a cura di), La crisi dei paradigmi e il cambiamento climatico, in Jura Gentium, XVI, 2019, 5 ss.; G. Carmellino, La tutela d’urgenza dei nuovi diritti, Torino, 2020; R. Di Marco, Diritto e nuovi diritti: l’ordine del diritto e il problema del suo fondamento attraverso la lettura di alcune questioni biogiuridiche, Torino, 2021; F. Menga, F. Ciaramelli (a cura di), Il diritto di fronte al futuro: le sfide della giustizia intergenerazionale, in Riv. fil dir., 2021, 253 ss.; F. Menga, Etica intergenerazionale, Brescia, 2021; S. Scagliarini, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in Gruppo di Pisa, 2012, 1 ss.; G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione nel contenzioso climatico: c’è un giudice per il clima?, in Riv. trim. dir. e proc civ., 2021, 273 ss.; E. Guarna Assanti, Il Contenzioso Climatico Europeo. Profili Evolutivi dell’Accesso alla Giustizia in Materia Ambientale, Milano, 2024.
[7] In linea generale, in tema di contenzioso climatico: J. Peel-H.M. Osofsky, Climate Change Litigation: Regulatory Pathways to Cleaner Energy, Cambridge, 2015, 22; C. Ragni, Scienza, diritto e giustizia internazionale, Milano, 2020; W. Kahl-M.P. Weller, Climate Change Litigation, Monaco, 2021; J. Setzer-C. Higham, Global Trends in Climate Change Litigation: 2022 Snapshot, Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment, Londra, 2022; F. Sindico-M.M. Mbengue (a cura di), Comparative Climate Change Litigation: Beyond the Usual Suspects, Ius Comparatum - Global Studies in Comparative Law, Cham, 2021; M.L. Banda, Climate science in the courts: a review of U.S. and international judicial pronouncements, in 2 Environmental Law Institute (2020), 1; G. Bisogni, Una giurisdizione all’altezza dei diritti sociali. Limiti attuali e ipotesi di sviluppo della loro giustiziabilità contro il legislatore, in Ragion Pratica, 2017, 231 ss.; M. Limon, Human Rights and Climate Change: Constructing a Case for Political Action, in 33 Harvard Environmental Law review (2009), 439; M. Chapman, Climate Change and the Regional Human Rights Systems, in 37-38 Sustainable Development Law and Policy (2010), 60; M. Spitzer-B. Burtscher, Liability for Climate Change: Cases, Challenges, and Concepts, in 8 Journal of European Tort Law (2017), 137; L. Harrington-F. Otto, Attributable Damage Liability in a Non-Linear Climate, in 153 Climate Change (2019), 15; T. Scovazzi, L’interpretazione e l’applicazione ambientalista della Convenzione europea dei diritti umani, con particolare riguardo al caso Urgenda, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2019, 619 ss.; M. Ramajoli, Il cambiamento climatico tra Green Deal e Climate Change Litigation, in Riv. giur. amb., 2021, 53 ss.; F. Sindico-K. McKenzie-G. Medici-Colombo-L. Wegener, Research Handbook on Climate Change Litigation, Cheltenham, 2024; E. Marazza, L’accesso alle Corti per reagire all’inefficienza delle politiche climatiche, in S. Valaguzza, (a cura di), Esplorazioni di diritto dell’ambiente, 221 ss.; B. Pozzo, La climate litigation in prospettiva comparatistica, in Riv. giur. amb., 2021, 271 ss.. Si segnala l’interessante raccolta di materiali offerta dal sito www.contenziosoclimatico.it, che contiene costanti aggiornamenti di contributi dottrinali sul tema e dei casi pendenti e decisi. Il concetto può essere approfondito anche attraverso i contributi di A. Pisanò, Il diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei, Napoli, 2022; M. Ramajoli, Il cambiamento climatico tra Green Deal e Climate Change Litigation, in Riv. giur. amb., 2021, 53 ss.; M. Delsignore, La legittimazione a ricorrere delle associazioni ambientali: questioni aperte, ivi, 2020, 179 ss.; B. Pozzo, La climate litigation in prospettiva comparatistica, in Riv. giur. amb., 2021, 271 ss. e, se si vuole, in S. Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il Pianeta?, in Dir. proc amm., 2021, 2 ss.. Più di recente, il tema è stato approfondito con sguardo di diritto processuale nei contributi di E. Guarna Assanti, Il contenzioso climatico europeo: profili evolutivi dell’accesso alla giustizia in materia ambientale, Milano, 2024; M. Mattalia, Contenzioso climatico e condizioni dell’azione avanti al giudice amministrativo, Torino, 2025 e, con approccio più sistematico, da D. Bevilacqua, La normativa europea sul clima e il Green New Deal. Una regolazione strategica di indirizzo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 297 ss. Nella letteratura - invero sterminata - di diritto internazionale, si segnalano in particolare, per vicinanza all’approccio qui adottato, B. Pozzo, Il contenzioso climatico nel prisma del diritto comparato, in Dir. pubbl. compar. eur., 2024, 987 ss.; O. Feraci, Contenzioso climatico e diritto internazionale privato dell’Unione europea, Torino, 2025.
[8] G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza delle Sezioni Unite, cit.
[9] In argomento, Così, M. Carducci, La sentenza KlimaSeniorinnen e il Carbon Budget come presidio materiale di sicurezza quantitativa e temporale, contro il pericolo e come limite esterno alla discrezionalità del potere, cit., 1432. Con lo stesso approccio, M. Carducci, Le affinità “emissive”. La giurisprudenza comparata destinata ad incidere sul contenzioso climatico, in www.diritticomparati.it, 2024.
[10] Il principio della tutela ambientale espresso dall’art. 3-ter D.lgs. n. 152/2006 non è stato approfondito dalla dottrina come canone autonomo del diritto ambientale, dovendosi rinvenire il suo fondamento direttamente negli artt. 9 e 41 Cost. secondo S. Matteini Chiari, Tutela del paesaggio e “Codice dell’ambiente”, in Riv. giur. amb., 2008, 717 ss.; M.V. Ferroni, La perdita della biodiversità, gli strumenti di tutela ed il codice dell’ambiente, in Riv. quadr. dir. amb., 2022, 123 ss., in particolare 142. Sul punto, A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. II, Firenze, 1969, pp. 381 ss.; R. Leonardi, Principi e organizzazione per l’ambiente, in S. Nespor - A.L. De Cesaris (a cura di), Codice dell’ambiente, III ed., Milano, 2009, 143 ss. Sull’art. 3-quater del medesimo testo normativo, si veda in senso critico la disamina di F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in G. Rossi, Diritto dell’ambiente, IV ed., Torino, 2021, 181, spec. 188 ss.; M. Pennasilico, La transizione verso il diritto dello sviluppo umano ed ecologico, in A. Buonfrate - A. Uricchio, Trattato breve di diritto dello sviluppo sostenibile, Padova, 2023, 37, spec. 57 ss.; C. Boiti, La progressiva emersione di princìpi e valori connessi alla sostenibilità, in L. Mezzasoma - G. Berti De Marinis (a cura di), Diritto dell’economia e sviluppo sostenibile, Napoli, 2024, 1 ss.
[11] Sulla quale, ex multis, M. Hedemann-Robinson, Access to environmental justice and European union institutional compliance with the Aarhus convention: a rather longer and more winding road than anticipated, in 31 European Energy Law Review, (2022), 175.
[12] Per tutti, P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio e danno, Milano, 2021. Anche G. Puleio, Rimedi civilistici e cambiamento climatico antropogenico, in Pers. merc., 2021, 469 ss. e B. Pozzo, I criteri di liquidazione del danno ambientale nella prospettiva della distinzione tra danno evento e danno conseguenza, in Resp. civ. prev., 2023, 1848 ss.. Ragionano sulla configurabilità di un modello di responsabilità civile imperniato sul danno da cambiamento climatico P. Femia, Responsabilità civile e climate change litigation, in Enc. dir. - I tematici, VII - Responsabilità civile, Milano, 2024, 847 ss.; V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico. Interessi non appropriativi, tecniche processuali per diritti transsoggettivi, dimensione intergenerazionale dei diritti fondamentali, in DPCE Online, 2023; A. Mattarella, Responsabilità degli enti e compliance globale. L’armonizzazione degli ordinamenti nel contrasto al crimine d’impresa, in Dir. fam. pers., 2022, 386 ss.; C. Camardi, Verso un modello europeo di responsabilità civile, in Accademia, n. 25/2025, 38. Affrontano altresì la problematica, pur in una prospettiva più ampia sul contenzioso climatico, G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione nel contenzioso climatico: c’è un giudice per il clima?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2021, 1273 ss.; M. Marinai, Il contenzioso e la legislazione climatica: un interminabile valzer sulle note della due diligence, in Resp. civ. prev., 2023, 1327 ss.; N. Dimitri, Doppio movimento. Riflessioni filosofico-giuridiche su soggetto e responsabilità nel contesto della trasformazione tecnologica e della crisi climatica, in Eur. dir. priv., 2025, 270 ss.; C. Scognamiglio,Il danno risarcibile nella disciplina della responsabilità del produttore, in Resp. civ. prev., 2025, 1107 ss.
[13] Trib. Catania, 8 aprile 2025, n. 1966.
[14] Cass. Civ., sez. III, 7 novembre 2019, n. 28626.
[15] Trib. Salerno, 20 maggio 2014, n. 2628.
[16] Cass. Civ., sez. III, 17 luglio 2014, n. 21426; 30 novembre 2006, n. 25479.
[17] Cass. Civ., sez. III, 19 luglio 2002, n. 10551.
[18] Cass. Civ., sez. III, 27 novembre 2015, n. 24211; 12 gennaio 2015, n. 7093; Cassazione Civ., sez. III, 9 marzo 2010, n. 5664; 19 luglio 2008, n. 20063; 17 ottobre 2002, n. 14743.
[19] Si rammenta in dottrina che il danno non scaturisce dalla cosa, ma è arrecato “con” la cosa, perché il danno si verifica se la direzione e il controllo sulla cosa sono state inadeguate e le conseguenze dell’azione sarebbero state evitabile in condizioni diligenti del custode, V. ancora P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, 1961, 196.
[20] Ex multis, Cass. Civ., sez. VI, 1° dicembre 2022, n. 35415.
[21] Ex multis, Cass. Civ., sez. III, 25 maggio 2023, n. 14526.
[22] Si rammenta in dottrina che il danno non scaturisce dalla cosa, ma è arrecato “con” la cosa, perché il danno si verifica se la direzione e il controllo sulla cosa sono state inadeguate e le conseguenze dell’azione sarebbero state evitabile in condizioni diligenti del custode, V. ancora P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, 1961, 196.
[23] Corte App., Reggio Calabria, sez. I, 28 giugno 2017, n. 621.
[24] Trib. Perugia, 16 giugno 2025, n. 733/2018.
[25] Trib. Forlì, 10 novembre 2022, n. 987/2022.
[26] Per un’analisi, si rinvia a T. Scovazzi, Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sul cambiamento climatico, in RGA Online, n. 68/2025.
[27] In relazione al contenzioso climatico, tra gli altri, S. Spuntarelli, Contenzioso climatico e sapere scientifico, in AmbienteDiritto.it, 1/2023, 52 ss.; M. F. Cavalcanti, Fonti del diritto e cambiamento climatico: il ruolo dei dati tecnico-scientifici nella giustizia climatica in Europa, in dpceonline.it, Sp-2/2023, 329 ss.. In dottrina si è di recente osservato che ciò che rileva “non è la presa d’atto della sempre più intensa penetrazione delle conoscenze fornite dalla scienza nell’ambito della regolazione, quanto piuttosto la questione relativa all’individuazione del punto di equilibrio fra la rigidità dei vincoli dettati dalla scienza e la flessibilità che deve caratterizzare le scelte effettuabili dal regolatore pubblico.”, così A. Bonomo, L’approccio science-based sul cambiamento climatico: quale spazio per il decisore pubblico?, in Riv. quadr. dir. amb., 2024, 54.
[28] E. Parisi, Il principio di sviluppo sostenibile nell’ordinamento altruista, Napoli, 2025, 74 ss., anche per gli ampi riferimenti dottrinali.
[29] Corte Cost., 20 dicembre 2022, n. 254.
[30] E. Parisi, Il principio di sviluppo sostenibile nell’ordinamento altruista, op. cit., 153.
[31] G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza delle Sezioni Unite, cit.: “La tutela dell’ambiente, pure sacrosanto, non può spingersi fino al punto di impedire l’attività industriale ed economica del paese, non può spingersi fino al punto di comprimere il diritto del lavoro, e perfino i diritti di libertà delle persone garantiti in tutte le democrazie occidentali. Alla fine, qualcuno dirà che non si potrà più prendere l’aereo o girare in automobile; qualcuno arriverà ad immaginare una nuova vita in nuove città, divise in quartieri, e in ogni quartiere tutti i beni essenziali, e nessuno, a tutela dell’ambiente, potrà più uscire dal proprio quartiere”, 8.
[32] Ci si riferisce a Corte cost. 9 maggio 2013, n. 8. La pronuncia ha suscitato importante riflessioni intorno al principio della separazione dei poteri e alla relazione tra diritto e politica. Tra i commenti più significativi si citano V. Onida, Un conflitto tra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente, in Rivista AIC, n. 3/2013; D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge ILVA, ivi, 1498 ss.; R. Bin, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”, in Giur. cost., 2013, 1505 ss.; M. Boni, Le politiche pubbliche dell’emergenza tra bilanciamento e «ragionevole» compressione dei diritti: brevi riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva (n. 85/2013), in Federalismi.it, n. 3/2014. Più di recente, il tema è stato affrontato alla luce della pronuncia resa sul medesimo caso da C. giust., Grande Sez., 25 giugno 2024, in C-626/22, da F. Trimarchi Banfi, Politica e diritto: il caso Ilva, in Dir. amm., 2025, 58 ss. Secondo M. Cecchetti, la revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente, La revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 3/2021, 11 ss., la riforma costituzionale del 2022 porterebbe a riconsiderare necessariamente l’assetto del bilanciamento proposto dalla Corte costituzionale nel 2013. Parimenti si veda A. Morrone, L’ambiente in Costituzione. Premesse per un nuovo “contratto sociale”, in AA.VV., La riforma costituzionale in materia di tutela dell’ambiente, Atti del convegno del 29 gennaio 2022, Napoli, 2022, 9.
[33] Ancora in argomento, E. Parisi, Il principio di sviluppo sostenibile nell’ordinamento altruista, op. cit., 143 ss., dove il principio di sviluppo sostenibile viene definito come “costituzionalizzato” e associato ai “connotati procedurali di un criterio di bilanciamento tra interessi, applicabile laddove venga in rilievo un’operazione di rilevanza economica capace di generale un impatto sul contesto sociale e ambientale di riferimento e consistente nell’attribuzione di un peso a interessi altri da quello economico-concorrenziale.”, 143.
[34] Ampiamente sul punto, E. Parisi, Il principio di sviluppo sostenibile nell’ordinamento altruista, op. cit., 172 ss.
[35] E. Parisi, Il principio di sviluppo sostenibile nell’ordinamento altruista, op. cit., 172.
[36] Per esempio, Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2020, n. 8502; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 6 aprile 2021, n. 877; Tar Campania, sez. VIII, 4 marzo 2024, n. 1463.
Pubblichiamo l'ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila del 13 novembre 2025 relativo all’ormai noto caso della “famiglia che vive nel bosco”.
Con l'ordinanza del 13 novembre scorso è stata sospesa la responsabilità di entrambi i genitori di tre minori ed i predetti sono stati affidati ai servizi sociali (i quali, già con ordinanza del Tribunale di maggio 2025 avevano in carico le scelte in materia sanitaria) e collocati, unitamente alla madre, in una casa-famiglia.
All’esito della istruttoria è emerso che i bambini vivevano in una situazione abitativa disagevole ed insalubre (un rudere privo di corrente elettrica, gas e servizi sanitari), in un contesto che non consentiva lo sviluppo di capacità relazionali (i bambini non frequentavano istituti scolastici) e che era gravemente pregiudizievole per la tutela della salute (i bambini non erano stati visitati da un pediatra fino a luglio 2025 e non è stato possibile verificare se fossero stati sottoposti alle vaccinazioni obbligatorie in quanto i genitori si sono rifiutati di consegnare il relativo libretto e di farli sottoporre ad analisi del sangue per verificare lo stato di sviluppo del sistema immunitario).
Il provvedimento offre lo spunto per esaminare il delicato tema del bilanciamento tra il diritto della famiglia a determinare le proprie scelte di vita e il dovere di tutela dell’interesse dei minori, così come stabilito dagli artt. 30 e 31 della Costituzione.
Ed è solo seguendo le direttrici costituzionali che i giudici hanno adottato misure di protezione a tutela dei minori, ben consapevoli che ogni decisione, in questa materia così delicata, incide sulla quotidianità della vita dei bambini.
La decisione si inserisce in una costante linea giurisprudenziale secondo la quale la tutela dei diritti fondamentali del minore – in particolare il diritto alla salute, alla vita di relazione, all’istruzione e alla riservatezza – costituisce parametro centrale e sufficiente per l’adozione dei provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale.
Il caso presenta molteplici profili di interesse.
In primo luogo, la valutazione del pregiudizio e il ruolo delle condizioni abitative.
Il Tribunale ricostruisce una situazione caratterizzata da degrado igienico-strutturale, assenza di impianti, mancanza di agibilità e condizioni tali da integrare una presunzione legale di pericolo ai sensi dell’art. 24 T.U. edilizia. La decisione valorizza il fatto che la mancanza di sicurezza statica e di salubrità dell’abitazione non richiede un accertamento tecnico particolarmente complesso: l’assenza di certificazioni e impianti essenziali è ritenuta sufficiente a far scattare il rischio di pregiudizio per l’incolumità dei minori.
In secondo luogo, il diritto alla vita di relazione come bene giuridico autonomo.
Il Tribunale richiama espressamente alcune tesi dottrinali (il riferimento è alle teorie di Vygotskij, Piaget, Bandura, Bronfenbrenner ed Erikson) sul ruolo dei pari nell’età evolutiva, fondando il provvedimento anche sul rischio di compromissione della "vita di relazione" dei bambini in età scolare. Il passaggio è particolarmente significativo perché sposta l’attenzione non sul mero adempimento dell’obbligo scolastico, ma sulla necessità che il minore abbia accesso ad un ambiente relazionale adeguato, imprescindibile per lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.
In terzo luogo, il tema della riservatezza e dell’esposizione mediatica del minore.
La partecipazione dei bambini a una trasmissione televisiva nazionale ("Le Iene") costituisce, per il Tribunale, una violazione gravissima dei diritti personalissimi del minore: artt. 16 Convenzione ONU 1989, art. 8 CEDU, art. 7 Carta di Nizza, oltre agli artt. 50 Codice privacy e 13 ss. del DPR 448/1988. Si legge nella motivazione che i genitori, esponendo i figli alla mediatizzazione del contenzioso, hanno “utilizzato” i minori per influenzare l’opinione pubblica e condizionare l’esercizio della giurisdizione. Si tratta di un passaggio interessante che potrebbe generare una più ampia riflessione sul rapporto – sempre più problematico – tra comunicazione mediatica e procedimenti minorili.
L'ordinanza offre una motivazione articolata e attenta ai molteplici piani di tutela del minore: fisico, affettivo, relazionale, sanitario e identitario.
La decisione conferma una linea interpretativa ormai consolidata nei procedimenti minorili: la nozione di pregiudizio non si identifica solo in condotte maltrattanti, ma richiede, per escluderne la sussistenza, che il minore possa crescere in un ambiente che garantisca sviluppo, socializzazione, salute e integrità della propria identità.
Si evidenzia che l’allontanamento è stato disposto nel rispetto del criterio di gradualità e ha costituito l’esito di un procedimento nel quale, dopo un’osservazione ed un monitoraggio durato per diversi mesi, si è preso atto dell’inefficacia delle precedenti soluzioni proposte a causa del rifiuto, da parte dei genitori, di rispettare le prescrizioni imposte dal Tribunale per i minorenni.
Sorprende il clamore mediatico che ha accompagnato l’adozione del provvedimento in esame in quanto non solo adottato nel rispetto delle norme vigenti e con finalità esclusivamente protettive dei minori, ma anche perché in linea con molteplici altri provvedimenti adottati da Tribunali per i Minorenni di altre sedi giudiziarie di tutta Italia in casi meno noti, ma analoghi per quanto attiene al pericolo di pregiudizio per i minori.
Infine, non può non rimarcarsi come desti particolare allarme e preoccupazione l’attacco politico all’esercizio di funzioni giurisdizionali, con conseguente alimentazione di un clima di paura e tensione tra la società civile e la magistratura, sempre più spesso, come nel caso in esame, vittima di minacce e insulti sui social networks.
La rilevanza costituzionale dei valori in gioco, soprattutto quando al centro vi è la vita di bambini, impone di evitare qualsivoglia forma di strumentalizzazione e, più in generale, di non minare la fiducia dei cittadini nella magistratura, i cui provvedimenti potranno eventualmente essere vagliati solo nelle opportune sedi giudiziarie.
Ho diviso il mio intervento in quattro parti. Ognuna di esse contiene ottime ragioni per votare NO al referendum su questa riforma.
Nella prima parte parlerò del metodo e del contesto. Ovvero del modo in cui si è arrivati alla approvazione di questa riforma e delle parole che ne hanno accompagnato l’iter.
Nella seconda parte cercherò di dimostrare come la riforma realizzi effettivamente un indebolimento delle garanzie di autonomia e di indipendenza della magistratura.
Nella terza parte segnalerò alcune aporie e incongruenze interne alla riforma, che da sole basterebbero per votare NO al referendum.
Nella quarta parte farò un accenno alla figura del PM e al destino che l’aspetta con questa riforma.
Sommario: 1. Il metodo – 2. Il contesto - 3. L’indebolimento delle garanzie di autonomia e di indipendenza. - 4. Le aporie e contraddizioni – 5. Il destino del pubblico ministero
1. Il metodo
L’art.138 della Costituzione, come sapete, prevede una procedura rafforzata per la revisione della Costituzione. Un doppio voto di entrambe le Camere sullo stesso testo a distanza di tre mesi l’una dall’altra. E il referendum in caso di approvazione con maggioranza inferiore ai due terzi.
Quali sono lo scopo, lo spirito, la ratio di questa disposizione?
In primo luogo, assicurare un dibattito e un confronto approfonditi nel Parlamento e nel paese. Il doppio voto a distanza di tre mesi serve appunto a questo: pensateci bene, sembra dire il Costituente ai suoi posteri, rifletteteci, confrontatevi tra voi. Parlatene ai cittadini e con i cittadini.
E poi, attraverso il dibattito e il confronto, cercare convergenze, punti di incontro. Perché la Costituzione è di tutti e non di una parte sola. E per cambiarla sarebbe meglio avere il consenso di tutti o, almeno, di una maggioranza più ampia di quella di governo. Per questo se non si raggiunge il voto dei due terzi del Parlamento si può procedere a referendum. Un referendum che, attenzione, non è corretto definire, come pretende di fare qualcuno, confermativo. Al contrario il referendum costituzionale è uno strumento che la Costituzione affida alla minoranza per chiedere ai cittadini di dire NO ad una riforma votata solo dalla maggioranza.
Con questa riforma lo spirito e la ratio dell’art.138 della Costituzione sono stati traditi. La forma è stata rispettata. I due rami del Parlamento hanno votato due volte a distanza di tre mesi. Ma la sostanza è stata calpestata. La proposta del Governo è stata approvata dal Parlamento senza alcuna modifica. La maggioranza non ha presentato nessun emendamento. Gli emendamenti dell’opposizione sono stati tutti respinti. La discussione è stata praticamente inesistente. Nessun dialogo, nessun confronto sulle ragioni della riforma, sugli obiettivi da raggiungere, sulla congruenza delle norme proposte con quelle ragioni e quegli obiettivi. Sono stati ascoltati magistrati, avvocati, giuristi. Ma nessuna delle tantissime obiezioni raccolte ha trovato il minimo ascolto. Il testo è stato blindato, come si usa dire con un gergo militare che tanto piace in questa epoca di negazione della pace, sin dall’inizio. Anche i dubbi di alcuni settori interni alla maggioranza sono stati messi a tacere.
Nemmeno per un decreto-legge si procede così. In sede di conversione il Governo spesso si confronta con il Parlamento, e a volte accoglie gli emendamenti sia della maggioranza che dell’opposizione.
Qui, invece, è stata negata ogni possibilità al confronto. Anche alcuni errori marchiani, alcune insuperabili aporie (di alcune di queste ne parlerò più avanti), sono state lasciate così.
2. Il contesto
La volontà del legislatore, come sapete, è uno strumento fondamentale per la interpretazione della legge.
E questo vale ancor di più per le Costituzioni che sono sovente una legislazione per principi.
I lavori della Assemblea costituente sono ancora oggi uno strumento preziosissimo per l’interprete per comprendere lo spirito e il senso delle norme costituzionali. Noi riusciamo a leggere e a comprendere la Costituzione attraverso le parole di giuristi del calibro di Calamandrei, Mortati, Jemolo o di politici come Einaudi, Gronchi, Lelio Basso.
In assenza di una reale discussione in Parlamento sui contenuti della riforma, sui suoi obiettivi e sui suoi scopi, l’interprete del futuro dovrà accontentarsi delle parole dei membri del Governo che hanno accompagnato l’iter della riforma.
E queste parole sono tutte chiare e univoche nel dirci che l’obiettivo della riforma è quello di ridurre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Il Ministro Nordio ha parlato espressamente della necessità di un riequilibrio dei poteri tra magistratura e politica, aggiungendo: “…Il governo Prodi cadde perché Mastella, mio predecessore, fu indagato per accuse poi rivelatesi infondate. Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo”
La Presidente del Consiglio on. Meloni nel commentare una decisione della Corte dei Conti sul ponte sullo stretto ha parlato della necessità di approvare la riforma costituzionale per ridurre l'invadenza del potere giudiziario sulle scelte della politica.
Della necessità della riforma costituzionale per riequilibrare i rapporti tra politica e magistratura ha parlato anche il Presidente del Senato on. La Russa.
L’intenzione del legislatore costituente sembra dunque molto chiara: la riforma è necessaria per stabilire un nuovo equilibrio nel rapporto tra magistratura e politica.
3. L’indebolimento delle garanzie di autonomia e di indipendenza.
Ora, la domanda da porsi è se e in che misura questa riforma raggiunge questo dichiarato obiettivo di riequilibrio nel rapporto del giudiziario con la politica.
A me pare evidente che sia così.
È vero, come ripetono spesso molti dei promotori della riforma, che nel nuovo testo dell’articolo 104 della Cost. resta non modificata l’affermazione della indipendenza della magistratura da ogni altro potere, ma i giuristi sanno bene che la declamazione di un principio non è di per sé garanzia sufficiente per la sua effettività, per la quale è invece necessario apprestare articolati strumenti di garanzia.
Faccio un esempio per far capire cosa intendo. L’articolo 13 della Costituzione dice che la libertà personale è inviolabile. Avrebbero potuto fermarsi qui, ma non l’hanno fatto. Conoscendo la distanza che spesso separa l’affermazione di un principio dalla sua realizzazione effettiva, i padri costituenti hanno fissato norme di dettaglio, direi di estremo dettaglio, per assicurarsi che quel diritto fosse effettivamente inviolabile. Una riserva di legge e una riserva di giurisdizione (atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi previsti dalla legge). La possibilità, in via eccezionale e solo nei casi tassativamente previsti dalla legge, di una limitazione della libertà come atto di polizia, che deve essere sottoposto alla immediata approvazione della autorità giudiziaria.
Ora che diremmo se il legislatore modificasse l’articolo 13 della Costituzione lasciando invariato il primo comma: “la libertà personale è inviolabile”, ma eliminando la riserva di legge e la riserva di giurisdizione con una formula del tipo: “sono consentite limitazioni della libertà personale solo in base ad un atto motivato dell’autorità”?
Diremmo che non è cambiato nulla? Che il primo comma è chiaro nel sancire l’inviolabilità della libertà personale e che quindi non c’è nessun problema? Non credo.
Non basta dunque affermare un principio. Occorre renderlo effettivo.
I padri costituenti lo sapevano. E per questo avevano accompagnato l’affermazione di principio della autonomia e indipendenza della magistratura con un sistema di strumenti di garanzia, primo fra tutti un organo costituzionale di governo autonomo presieduto dal Presidente della Repubblica, cui sono affidate tutte le competenze in materia di governo dei magistrati, ivi compresa la competenza in materia disciplinare.
Ed è questo apparato di garanzie che viene significativamente eroso dalla riforma.
Andiamo con ordine.
a) La riforma prevede la creazione di due organi di governo autonomo, uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica.
In questo caso, a differenza del gelato, due non è meglio di uno.
Il Consiglio Superiore della Magistratura voluto dal Costituente non è solo l’ufficio del personale di magistratura. È un organo costituzionale, o di rilievo costituzionale, che ha poteri di indirizzo e di orientamento, sulla organizzazione degli uffici, sulle priorità nella trattazione degli affari, sulla professionalità e sulla deontologia dei magistrati. Ed è organo di garanzia della indipendenza dei magistrati. Per questo il Costituente ne ha affidato la presidenza al Presidente della Repubblica. E per questo ha previsto la presenza di una componente laica eletta dal Parlamento in seduta comune, con una maggioranza qualificata. Sarebbe stato decisamente troppo per un ufficio del personale.
È chiaro che con la separazione i due organi avranno meno autorevolezza e meno peso. Su molte questioni comuni potrebbero anche esprimere orientamenti diversi. Il che, di fatto, indebolirà anche la funzione di garanzia della indipendenza e della autonomia.
Ma, si dice, la separazione è resa necessaria dalla esigenza di rafforzare l’imparzialità del giudice, che oggi sarebbe compromessa dalla presenza dei pubblici ministeri nel comune organo di governo autonomo.
A me pare che questo argomento sia solo suggestivo, ma del tutto privo di fondamento. I giudici italiani hanno dato ampia prova, nella storia repubblicana, di saper resistere alle minacce della mafia e del terrorismo. Alcuni hanno pagato con la vita il prezzo della loro imparzialità. Molti sono costretti a vivere sotto scorta. Ma nessuno ha mai piegato la testa, nessuno ha rinunciato al proprio dovere di imparzialità e si è arreso alla paura.
Ma se questo è vero, come si può pensare che un giudice che non ha paura della mafia, che non si piega di fronte a concrete e reali minacce, possa poi subire l’influenza di una parte del processo solo perché nel suo organo di governo autonomo su trenta componenti (dico 30) ci sono anche sei (dico 6) pubblici ministeri? Non mi pare che abbia senso.
E poi, aggiungo, se davvero pensiamo che un giudice possa perdere la sua imparzialità e subire l’influenza di una parte del processo perché nel suo organo di governo autonomo ci sono alcuni esponenti di quella categoria, perché mai allora lasciamo la possibilità di eleggere nell’organo di governo autonomo dei giudici ben dieci (dico 10) avvocati? Perché in questo caso il giudice non dovrebbe subire l’influenza derivante da una così massiccia presenza di una parte del processo nel suo organo di governo autonomo. E perché in questo caso non sarebbe compromessa la sua imparzialità?
b) Con la riforma i componenti togati dei due organismi saranno scelti mediante sorteggio. Anche i componenti laici saranno sorteggiati, ma all’interno di un elenco compilato dal Parlamento.
Anche questa previsione ha il chiaro obiettivo di indebolire la funzione del Consiglio Superiore di garanzia della indipendenza della magistratura.
La selezione per sorteggio snatura completamente la funzione di governo autonomo affidata al Consiglio superiore. Governo autonomo significa “governarsi da sé”. Governarsi da sé significa governarsi direttamente da soli o per il tramite di propri rappresentanti.
Con il sorteggio i magistrati non si governano da soli, ma sono governati da alcuni loro colleghi scelti a caso. È una cosa completamente diversa.
Ma, soprattutto, con il sorteggio gli organi di governo autonomo si trasformeranno in uffici del personale di magistratura e perderanno la capacità di esercitare quella funzione di garanzia della indipendenza, di indirizzo e di orientamento sulla organizzazione degli uffici, sulla professionalità e deontologia dei magistrati, che oggi caratterizza la funzione costituzionale del CSM.
Quelle funzioni richiedono, infatti, che la rappresentanza sia fondata sulla base di idee e di valori, e non solo sulla comune appartenenza ad una corporazione.
Non è qui in discussione la capacità tecnica di qualunque magistrato di interpretare e di applicare le norme di ordinamento giudiziario, ma è chiaro che l’assenza di qualsiasi collegamento con la base degli amministrati e con i corpi intermedi, all’interno dei quali si formano idee collettive e valori condivisi renderà oggettivamente impossibile lo svolgimento di funzioni ulteriori rispetto a quelle di amministrazione del personale.
A ciò si aggiunga che a fronte di 20 monadi selezionate con sorteggio, prive di qualsiasi collegamento tra loro e con la base degli amministrati, ci saranno ben 10 componenti scelti dal Parlamento in seduta comune (sorteggiati in un elenco compilato dal parlamento, il che significa di fatto scelti dal parlamento), e quindi in gran parte, o anche nella loro totalità, scelti dalla maggioranza di governo.
A me pare evidente che, pur restando inalterata la proporzione laici/togati all’interno dei due CSM, il “peso” della componente politica sarà decisamente dominante.
Peraltro, la diversa modalità di selezione dei componenti dei due CSM, sorteggio “puro” per i togati e sorteggio previa selezione per i laici, potrebbe essere oggetto di censura sul piano costituzionale (la Corte Costituzionale ha riconosciuto ormai da molto tempo la possibilità di un sindacato di compatibilità costituzionale anche per le norme approvate con la procedura rafforzata di cui all’art.138), stante la assenza di qualsiasi ragionevole giustificazione di tale disparità di trattamento.
Ma, si dice, il sorteggio è l’unico rimedio possibile al correntismo, cioè a quella degenerazione nell’esercizio delle funzioni di governo autonomo che sono venute agli onori (direi ai disonori) delle cronache negli ultimi anni.
Qui il discorso sarebbe assai lungo e articolato, essendo articolate e complesse le ragioni di questo fenomeno. Mi limito a dire che, come ho già detto più volte in molte occasioni, anche ben prima che si avviasse l’iter di questa riforma, io penso che il correntismo nelle sue due forme tipiche del clientelismo e del corporativismo sia un male gravissimo del governo autonomo che rischia di metterne in discussione la stessa legittimazione. Che poi è quello che è successo con questa riforma.
Io credo, però, che il rimedio proposto non solo non sia idoneo a risolvere il problema, ma rischi di aggravarlo. È facile prevedere che i magistrati sorteggiati, privi di qualsiasi collegamento tra loro, con la base dei magistrati, con i luoghi nei quali si elabora un pensiero collettivo, privi di esperienze di confronto con il mondo della accademia, delle professioni e della politica, saranno tendenzialmente più corporativi dei magistrati eletti (che, come detto, già lo sono fin troppo). Così come è facile prevedere che le aspirazioni di carriera dei magistrati troveranno terreno fertile anche tra i sorteggiati (che comunque non saranno mai privi di legami, amicizie, collegamenti), ma soprattutto nella componente laica, che in particolare nelle ultime consiliature ha mostrato sempre maggiore attenzione al tema delle nomine per gli incarichi direttivi.
Altri sarebbero gli interventi possibili per ridurre i mali del correntismo.
Ad esempio, una riforma della dirigenza degli uffici che introduca una effettiva temporaneità negli incarichi, così riducendo l’ansia di carriera di molti magistrati.
Una riforma della legge elettorale che aumenti la possibilità per gli elettori di scegliere i propri rappresentanti e riduca il potere degli organismi dirigenti delle correnti di individuare gli eletti.
c) Con la riforma la competenza disciplinare sui magistrati viene affidata ad una Alta Corte composta da 9 magistrati (6 giudici e 3 pubblici ministeri), sempre estratti a sorte, e da 6 laici (3 nominati dal Presidente della Repubblica e 3 estratti a sorte da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune).
Le osservazioni svolte sopra con riferimento alla composizione dei due CSM valgono anche per la composizione dell’Alta Corte disciplinare i cui componenti sono sorteggiati per la parte magistrati, scelti direttamente per i laici nominati dal Presidente della Repubblica, sorteggiati in un elenco per quelli scelti dal Parlamento.
Piccolo dettaglio, anche questo però segno della impostazione complessiva della riforma, il rapporto laici/togati nell’Alta corte si modifica a favore dei laici (6 componenti su 15 è infatti più di 1/3).
L’elemento più rilevante è dato, però, dalla separazione della Corte disciplinare dal CSM. La scelta del costituente di affidare al CSM anche il sindacato disciplinare sui magistrati si iscrive, infatti, in quella complessiva articolazione di strumenti di garanzia della indipendenza dei magistrati.
La leva disciplinare è, infatti, un potenziale strumento di pressione sul magistrato e ne mette a rischio l’indipendenza.
Al riguardo basti considerare che nell’attuale sistema disciplinare qualunque condanna ad una sanzione più grave della censura può essere accompagnata dalla sanzione accessoria del trasferimento di ufficio. Ed è evidente che l’attribuzione della potestà disciplinare ad un organismo diverso dal CSM finisce per avere un impatto diretto su una delle più importanti garanzie di indipendenza dei magistrati, quella della inamovibilità.
La separazione dal CSM e la selezione dei membri togati fondata esclusivamente sulla appartenenza al “corpo” e senza una scelta degli amministrati rischia di compromettere gravemente la funzione di garanzia di indipendenza che è insita nella cd. “giustizia domestica”.
4. Le aporie e contraddizioni
Si è già detto sopra delle diverse modalità di accesso al CSM per laici e togati con una disparità di trattamento priva di qualsiasi razionale giustificazione.
Ma le aporie e le contraddizioni del testo sono anche altre e peggiori.
A volte leggendo questa riforma si ha l’impressione che siano davvero pochi quelli che l’abbiano effettivamente letta. E ancora meno quelli che l’abbiano davvero compresa.
Abbiamo parlato prima, ad esempio, della scelta di separare i due CSM per evitare che l’imparzialità del giudice possa essere pregiudicata dalla presenza nell’organo di autogoverno di una delle parti del processo. E abbiamo già detto che inspiegabilmente questa premura per la imparzialità del giudice non valga per l’influenza derivante dalla possibile presenza di ben 10 avvocati, cioè l’altra parte del processo, nell’organo di governo autonomo.
Ma c’è di più. Nella Alta Corte disciplinare, separata dai due CSM, giudici e pubblici ministero siedono insieme e giudicano, unitamente ai laici, sia i giudici che i pubblici ministeri.
Quindi il legislatore della riforma separa i due Consigli per sottrarre il giudice dalla possibile influenza di una parte, ma da un lato lascia la possibile influenza dell’altra parte del processo (l’avvocato) e dall’altro affida il giudizio disciplinare sul giudice ad un organo composto, in maggioranza, da esponenti delle parti (pubblici ministeri e avvocati) e solo in minoranza da giudici.
Ma non finisce qui. La riforma non dice nulla sulla iniziativa disciplinare, che oggi la Costituzione affida come facoltativa al Ministro (e sul punto non ci sono modifiche) e la legge affida come obbligatoria al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
Cosa ne sarà, dopo la riforma della iniziativa disciplinare?
Sarà lasciata come facoltativa solo in capo al Ministro (che oggi la esercita in pochi casi, perlopiù in materia di ritardi) o la si lascerà anche in capo al Procuratore Generale?
E quindi questo povero giudice, alla cui terzietà rispetto al pubblico ministero è finalizzata l’intera riforma, si troverà stretto tra un titolare dell’azione disciplinare che è il vertice della magistratura requirente e un giudice disciplinare composto in maggioranza dalle parti del processo.
Ancora, sempre sulla Corte disciplinare, mi pare vi sia una palese violazione dell’art.111 della Costituzione, il quale prevede che tutte le sentenze possono essere impugnate davanti alla Corte di Cassazione. Le sentenze dell’Alta Corte, di questo nuovo giudice speciale introdotto dalla riforma, invece, saranno impugnabili solo davanti allo stesso giudice.
In questo modo ci si priva della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione su una materia così delicata come il disciplinare.
Il rischio principale è quello di uno scivolamento del controllo disciplinare sul merito delle decisioni giudiziarie.
5. Il destino del pubblico ministero
Il tema del futuro del Pubblico Ministero dopo la riforma è al centro del dibattito pubblico di questi giorni. Alcuni commentatori hanno rilevato una apparente contraddizione negli argomenti dei sostenitori del NO al riforma, laddove da una parte paventano un rischio di sottomissione del Pubblico Ministero al potere politico e dall’altra esprimono preoccupazione per la trasformazione del ruolo del pubblico ministero in una sorta di superpoliziotto, che ha come unico obiettivo quello di ottenere la condanna dell’imputato e per la eccessiva concentrazione di potere in capo ad un ristretto corpo di funzionari che non risponde a nessuno, si amministra da solo, dispone della polizia giudiziaria e che ha poteri molto ampi sulla vita delle persone.
In realtà sono vere entrambe le cose e non c’è contraddizione tra le due affermazioni.
Il rischio di una trasformazione culturale del pubblico ministero esiste davvero. È vero che già oggi pochi cambiano funzione e che quindi abbiamo già perso quella che secondo me era una ricchezza, cioè la possibilità di sperimentare funzioni diverse. In un mio intervento di molti anni fa io sostenevo (e continuo a pensarlo) che l’alternativa migliore alla separazione delle carriere sarebbe quella della unificazione di tutte le carriere, includendo anche gli avvocati e prevedendo come obbligatoria una esperienza come avvocato prima di accedere in magistratura.
Però l’unità della magistratura e l’unità del Consiglio Superiore con il suo ruolo di indirizzo e di orientamento sul piano professionale e deontologico, secondo me, contribuisce a mantenere fortemente ancorato il pubblico ministero ad un ruolo giurisdizionale, che rischia di perdersi o di diminuire con un CSM separato.
Esiste inoltre un rischio serio di eccessiva concentrazione di potere. Con un CSM di sorteggiati avranno un peso molto forte i procuratori della Repubblica, soprattutto quelli delle grandi procure, dalle quali, per la legge dei grandi numeri proverranno in prevalenza i sorteggiati. Questo aumenterà il carattere fortemente gerarchico e verticistico della organizzazione del pubblico ministero.
Si illude, infine, chi pensa che con la separazione avremo un giudice più “forte”. In realtà il peso mediatico della fase delle indagini preliminari dipende da ragioni strutturali, molte delle quali esterne al processo, come ad esempio le regole che governano l’informazione e i suoi tempi, e ogni tentativo di modificare questa realtà si è sempre rivelato vano.
E sarà così anche dopo la riforma.
Questo, però, finirà per creare una situazione di squilibrio che porterà inevitabilmente a ragionare sulla necessità di prevedere forme di responsabilità politica degli uffici del pubblico ministero.
Perché nessuna democrazia può tollerare un potere troppo ampio privo di controlli e di responsabilità.
Di questo si sono avveduti anche alcuni esponenti della attuale maggioranza di governo, i quali hanno espressamente affermato che la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo rappresenta il necessario completamento di questa riforma.
E io, purtroppo, sono d’accordo con loro.
* Intervento al Convegno "Il Nodo delle Carriere nella magistratura italiana", tenutosi presso l'Università La Sapienza, facoltà di giurisprudenza, il 21 novembre 2025.
In tema di riforma costituzionale su questa rivista:
Un referendum su giustizia e potere di Aniello Nappi,
La riforma costituzionale della magistratura. 10 domande e 10 risposte di Riccardo Ionta,
Il giudice che i cittadini hanno diritto di avere secondo Costituzione di Giuliano Scarselli,
Riforme e assetto costituzionale della magistratura di Giuseppe Santalucia,
In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri di Giuseppe Iannaccone,
L'unità della magistratura un interesse della collettività di Giovanni Salvi,
Confessioni di un civilista (separazione delle carriere e dintorni) di David Cerri,
Riforma costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale: procedura e obiettivo di Giovanni Di Cosimo,
Indipendenza della magistratura e Stato costituzionale di diritto di Francesco Merloni,
Brevi note sull’Alta Corte disciplinare di Giuseppe Santalucia.
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