ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’art. 578 c.p.p. tra Sezioni unite e Corte costituzionale
di Aniello Nappi
Dopo l’intervento delle Sezioni unite del 2009 la giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel senso che «allorquando, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova». Sicché è indiscusso che «all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p.».
Nel 2021 è tuttavia intervenuta in tema la Corte costituzionale, affermando che l’art. 578 c.p.p. non viola il diritto dell'imputato alla presunzione di innocenza, «perché nella situazione processuale che vede il reato estinto per prescrizione e quindi l'imputato prosciolto dall'accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure "incidenter tantum", un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili», ma «nel decidere sulla domanda risarcitoria, anziché verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, deve accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)».
Si è dunque prospettata la possibilità che la decisione della Corte costituzionale abbia così contraddetto la giurisprudenza di legittimità, che in presenza della parte civile esige sempre l’accertamento pieno in ordine alla responsabilità penale dell’imputato nonostante la sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
Con ordinanza dell’8 giugno 2024 la Quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha dunque rimesso la questione alle Sezioni unite, ritenendo che il principio di diritto enunciato nel 2009 dalla sentenza Tettamanti potrebbe appunto essere ormai incompatibile con la sopravvenuta decisione della Corte costituzionale del 2021.
Risolvendo la questione loro rimessa, le Sezioni hanno però ribadito ora, con sentenza depositata il 27 settembre 2024, che «nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l'estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l'assoluzione nel merito».
Ha precisato la Corte che «la situazione processuale oggetto della pronuncia della Consulta riguarda il caso in cui “il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere — in applicazione della disposizione censurata — sull'impugnazione ai soli effetti civili”»; mentre «il principio espresso da Sez. U, Tettamanti opera, invece, nel caso in cui non sia venuta meno per il giudice dell'impugnazione penale la cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato». Sicché «l'esigenza di tutela della presunzione d'innocenza nei rapporti tra proscioglimento in rito dall'accusa penale e potere cognitivo del giudice dell'impugnazione sugli interessi civili non si pone nell'ambito applicativo del principio espresso da Sez. U, Tettamanti, concernente la possibilità per il giudice penale di privilegiare l'assoluzione nel merito dall'accusa penale sulla declaratoria di prescrizione, con parallela revoca delle statuizioni civili».
Tuttavia la Corte non ha chiarito a quali condizioni il giudice dell’impugnazione possa ritenersi “spogliato” «della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia)». Infatti l’esercizio da parte del giudice dell'impugnazione penale della cognizione piena sulla responsabilità penale dell'imputato dovrebbe escludere che quello stesso giudice possa pervenire alla dichiarazione di estinzione del reato limitando la sua cognizione all’illecito civile.
Come ha rilevato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unte, non è che «dapprima debba essere condotta l’indagine secondo le direttive della Sez. U. Tettamanti e successivamente, ove esclusa la possibilità di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.». nel merito, dovesse farsi applicazione di quelle dettate dalla Corte costituzionale».
In realtà la decisione delle Sezioni unite è corretta, perché non è un’impossibile cesura tra i due accertamenti a rendere la sentenza Tettamanti compatibile con la decisione della Corte costituzionale, ma è l’effetto devolutivo dell’impugnazione a determinare l’ambito della cognizione del giudice adito.
Infatti l’accertamento pieno ai fini dell'eventuale assoluzione nel merito, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità «anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie», presuppone che al giudice dell’impugnazione sia devoluto appunto l’accertamento della responsabilità dell’imputato, ai sensi dell’art. 597 o dell’art. 606 c.p.p.: presuppone ad esempio che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione ai fini penali proposta dall’imputato che neghi la sua colpevolezza. Mentre può accadere che il giudice dell’impugnazione sia chiamato a pronunciarsi su questioni che non pongano in discussione la colpevolezza dell’imputato, con la conseguenza che in tal caso potrebbe trovare applicazione solo l’art. 129 comma 2 c.p.p., laddove prevede che anche «quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». E in questi casi il giudice, esclusa l’evidenza della non colpevolezza dell’imputato, potrà pronunciarsi sulla sola azione civile in conformità alla decisione della Corte costituzionale.
Potrà accadere ad esempio che, quando il solo P.M. abbia impugnato una sentenza di condanna anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile (lamentando ad esempio l’erronea esclusione di un’aggravante a effetto speciale o l’irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato), il giudice dell’impugnazione, non sia chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato e dunque, ove sopravvenga comunque l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia e non risulti applicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p., dovrà pronunciarsi sull’azione civile ai sensi dell’art. 578 c.p.p.; e potrà allora ribadire la condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata in realtà da escludere indipendentemente dall'estinzione del reato, perché, come chiarito da C. cost., n. 182/2021, il giudice dovrà in tal caso attenersi alle regole di giudizio e allo standard probatorio del processo civile.
Ma anche quando fosse l’imputato a impugnare la sentenza di condanna, per lamentare ad esempio solo l’eccessività della pena o il mancato riconoscimento di un’attenuante, la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o amnistia renderebbe possibile un proscioglimento nel merito solo in applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p.; e dunque il giudice dell’impugnazione, esclusa l’evidenza di non colpevolezza dell’imputato e dichiarato estinto il reato, dovrebbe ribadire la decisione in favore della parte civile, eventualmente anche solo in applicazione delle regole di giudizio e dello standard probatorio del processo civile.
Si deve pertanto concludere che correttamente le Sezioni unite hanno escluso l’ipotizzabilità della dedotta incompatibilità tra la giurisprudenza di legittimità e la decisione della Corte costituzionale, perché, per gli effetti devolutivi delle impugnazioni, C. cost., n. 182/2021 risulterà applicabile solo quando non sia applicabile la sentenza Tettamanti.
Per leggere la sentenza: https://www.cortedicassazione....
La certezza del diritto penale e l’incertezza del resto: la nozione di pubblico servizio tra diritto penale e altri diritti
Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il punto di vista della legge penale – 3. L’incertezza del resto – 4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale - 5. L’attività “BANCOPOSTA” - 6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo.
1. Introduzione
Spesso l’interprete affronta acque perigliose quando deve risolvere problemi applicativi che coinvolgono ambiti e materie diverse, ciascuna connotata da profili peculiari: così è per l’interprete penale che deve risolvere, spessissimo, il problema dell’applicabilità delle norme che puniscono condotte del pubblico ufficiale e dell’esercente un pubblico servizio. In casi come questo, gli strumenti interpretativi del diritto penale sostanziale si intersecano, indubitabilmente, con quelli propri del diritto amministrativo. Verrebbe da dire che nel mondo del perfetto sistema, del legislatore unico e quasi “creatore” di un mondo perfetto, tutto dovrebbe corrispondere e nessun problema dovrebbe sorgere nella concreta casistica applicativa. Ma, indubbiamente, la realtà giuridica vive di regole, eccezioni e diversità e l’operatore penale, ogni volta che si trovi ad applicare una fattispecie inclusa tra i reati contro la pubblica amministrazione, deve verificare se il soggetto che esercita una determinata attività percepita e disciplinata secondo le regole del servizio pubblico sia un esercente un pubblico servizio. Proprio così: perché non è così scontato che ad ogni servizio pubblico corrisponda un esercente un pubblico servizio quale descritto dall’art. 358 c.p.
2. Il punto di vista della legge penale
Sia consentita una premessa preliminare: il codice sostanziale non prevede una nozione universalmente valida né di pubblico ufficiale né di pubblico servizio. Tanto è vera questa premessa, che sia l’art. 357 c.p. che il successivo art. 358 c.p. contengono un inciso chiarificatore: “agli effetti della legge penale”. E ciò si comprende alla luce del fatto che scopo della norma penale è quello di individuare soggetti e condotte di soggetti meritevoli di sanzione penale.
Il legislatore, pertanto, con le disposizioni citate si riferisce alla materia penale e pone dei confini precisi. Quanto ai pubblici ufficiali dispone:
Quanto invece agli incaricati di un pubblico servizio:
L’osservazione che si può fare, sulla base del dato letterale della norma, è che il punto di vista del legislatore penale oltre ad essere metodologicamente mirato all’ambito strettamente penale, è altresì indubbiamente connotato da una prevalente dimensione sostanzialistica. Sia il pubblico ufficiale che l’incaricato (cioè, chi riceve un incarico) di pubblico servizio tali sono in quanto svolgono una determinata attività.
Quanto alle caratteristiche di tale attività essa, sia nel caso del pubblico ufficiale che nel caso del pubblico servizio, di sicuro può dirsi che le stesse rivestano un interesse ultra individuale le cui insopprimibili esigenze di tutela sono proprio quelle che giustificano inasprimenti sanzionatori (si pensi alle differenza tra appropriazione indebita e peculato) o previsioni di sanzioni penali per comportamenti altrimenti di mero rilievo civilistico (turbativa d’asta e violazione di regole concorrenziali) o meramente amministrativo.
Ebbene, l’impostazione sostanzialistica delle anzidette nozioni è evidentemente desumibile dal tenore letterale degli articoli citati, e ciò vale sia per la pubblica funzione che per il pubblico servizio. Quanto alla funzione pubblica, posto che nessun particolare dubbio ponevano le funzioni legislativa e giudiziaria, il legislatore del 1992 ha inserito nell’art. 357 c.p. il secondo comma, specificatamente rivolto alla funzione amministrativa, elencando una serie di indici rivelatori della natura pubblica di una funzione di amministrazione (ulteriori rispetto alla natura pubblicistica delle norme che la disciplinano) ovvero: l’agire per atti non paritari rispetto al destinatario, il contenuto tendenzialmente volitivo di questi atti ed il loro estrinsecarsi mediante poteri autoritativi o certificativi (o entrambi) .
La declinazione della nozione di pubblici ufficiali a fini penali si è per l’effetto attuata, nella applicazione giurisprudenziale, attraverso percorsi che possono definirsi condivisi: si riconosce la qualità di pubblici ufficiali (alle condizioni previste dalla legge) agli appartenenti alle forze armate e alle forze dell’ordine che commettano fatti previsti dalla legge come reato nell’esercizio delle loro funzioni, ai docenti universitari, di scuole statali e di istituti parificati nell’esercizio delle attività certificative e autorizzative e, alle stesse condizioni, ai dipendenti degli enti locali (si pensi al dipendente del Comune addetto all’ufficio tecnico) ed al personale delle aziende sanitarie e del servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla tipologia di attività svolta (Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 16/12/2019, n. 9393 (Rv. 278665-01), così massimata: “L'infermiere operante in una struttura sanitaria privata, anche se non accreditata con il servizio sanitario nazionale, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto l'attività svolta, come evidenziato anche dall'art. 1 della legge 10 agosto 2005, n. 251, persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute individuale e collettiva ed esercita, quindi, un'attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del pubblico ufficiale quando redige la cartella o la scheda infermieristica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen. per le false attestazioni compiute in una scheda infermieristica di una casa di cura privata, in quanto atto destinato a confluire nella cartella clinica, condividendone, quindi, la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata).”
Più problematica, nello stesso approccio ermeneutico, la nozione a fini penali dell’incaricato di pubblico servizio. Il secondo comma dell’art. 358 c.p. sebbene non contenga lo stesso inciso di rinvio “ agli effetti penali” deve intendersi riferito e limitato ad essi e specifica la nozione non mediante l’utilizzo del verbo essere (come sarebbe delle definizioni, laddove ogni cosa o concetto è o non è altra cosa o un altro concetto astratto) bensì attraverso una “convenzione”: dice infatti la legge che “…Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.”
Nel definire si dice sia cosa “deve essere” (un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione”) sia cosa “non deve essere”, ovvero una semplice mansione di ordine o una prestazione di opera meramente materiale.
Nel diritto penale, diritto vivente e del fatto, la declinazione di pubblico servizio (ulteriormente declinata con riferimento ai servizi di pubblica necessità ex art. 359 c.p.) prescinde dall’inserimento del soggetto attivo in un determinato contesto soggettivo pubblicistico: nell’art. 358 c.p. la legge, infatti, espressamente prevede che l’esercente un pubblico servizio è tale a prescindere dal titolo in ragione del quale svolga l’attività riconducibile al canone definitorio (posto che il primo comma della norma prevede che “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.”). Sotto tale profilo, indubbiamente, il legislatore ha delineato una nozione oggettiva di pubblico servizio, derivante dalla disciplina normativa dell'attività considerata, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto da cui l'attività è svolta. A confortare la declinazione oggettiva delle definizioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, vale altresì citare il disposto dell’art.360 c.p., “Cessazione della qualità di pubblico ufficiale” a norma del quale ove il fatto reato sia commesso da soggetto che riveste la qualità, ovvero anche solo aggravato in ragione della stessa, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato[1].
Simmetricamente, quindi, il pubblico ufficiale è tale quando agisce nell’esercizio dei poteri legislativo, giudiziario, amministrativo e l’esercente un pubblico servizio tale è quando svolga un’attività (non di mero ordine né meramente materiale) che sia disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione.
Questa premessa ci induce a ritenere che, delle molte possibili (e particolarmente care al diritto amministrativo, che tradizionalmente declina la nozione di pubblico servizio secondo impostazioni soggettive, oggettive o miste), il legislatore penale abbia inteso fare propria una nozione sostanzialistica del pubblico servizio.
3. L’incertezza del resto
Il diritto amministrativo conosce la categoria del pubblico servizio e del servizio pubblico locale, ed ancora del servizio pubblico essenziale (art. 43 Cost.) sebbene fatichi, e non poco, ad approdarne ad una definizione esaustiva e finale dell’uno e dell’altro.
Si sono nel tempo variamente confrontate tra loro nozioni di pubblico servizio (locale e non) improntate ad una prevalente dimensione soggettiva, ovvero oggettiva o, infine, mista.
Nella presente riflessione non si pretende certo di individuare una nozione condivisa in quell’ambito, piuttosto, da interprete penale, si tenta di raccogliere, con sporadiche incursioni nel diritto pubblico, indizi che possano risultare altresì utili a declinare la corrispondente nozione penalistica.
Ebbene, alla nozione di servizio pubblico fa senz’altro riferimento l’art. 43 della Costituzione per il quale “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”: la norma certamente collega la nozione di servizio e quella di impresa, con una connotazione in termini di rilievo ultra individuale ed economico dell’attività svolta e, altresì, individua, tra i servizi pubblici, un sottoinsieme dedicato ai servizi pubblici “essenziali”. L’impostazione costituzionale sembrerebbe quindi optare per una nozione del pubblico servizio in senso oggettivo
In via di prima approssimazione interpretativa, può certamente affermarsi che la nozione di “servizio pubblico” è comunque declinata dal legislatore costituzionale in correlazione con la funzionalizzazione di una determinata attività al soddisfacimento di bisogni di carattere collettivo.
Così letta, la norma costituzionale sembra superare (anche in ragione della natura della fonte) l’originaria impostazione della legge Giolitti (legge 29 marzo 1903 n. 103), che istituiva le aziende municipalizzate e del TU n. 2578 del 1925, e conteneva, all’art. 1[2], un elenco dei servizi pubblici (che il Comune poteva assumere) ripartiti in n. 19 categorie : la legge citata seguiva, quindi, un’impostazione prevalentemente soggettiva del servizio pubblico al contempo temperato dalla elencazione di attività finalizzate al soddisfacimento di bisogni collettivi (acqua, luce, fognature, trasporti ecc. ecc.).
La materia risulta oggi ampiamente trattata nel Decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 201, “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, sempre però con un occhio assolutamente privilegiato alla dimensione, appunto, economica del servizio: ebbene la citata dimensione economica non risulta invece necessariamente valutata come coessenziale ai fini del diritto penale, rispetto al quale, ad esempio, valgono piuttosto, oltre al rilievo ultra individuale dell’interesse sotteso, la presenza di eventuali poteri attestativi, certificativi, valutativi e di controllo connaturati all’attività svolta (come nel caso del capocantiere Anas, cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 3342 del 20/12/2023 Ud. (dep. 26/01/2024) Rv. 285906 – 01, così massimata: “In tema di reati contro la pubblica amministrazione, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il "capo cantiere sorvegliante" dipendente di Anas s.p.a., il quale non è assegnatario di semplici mansioni d'ordine, né prestatore di opere meramente materiali, ma svolge attività disciplinate nella stessa forma della pubblica funzione, essendo titolare di numerosi compiti di guida, sorveglianza e vigilanza sull'operato degli altri lavoratori, di sottoscrizione di verbali di accertamento, di redazione di un rapporto settimanale dei lavori eseguiti.”.
Altri “indizi”, potenzialmente utili all’interprete penale (ferma restando l’impostazione definitoria del legislatore penale attuata attraverso l’inciso “a fini penali”) li ritroviamo nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36), in particolare, nel capo dedicato al partenariato pubblico privato di tipo contrattuale o istituzionale (anche menzionato come PPP) disciplinato dagli artt. 174-208. Il raccordo, non intuitivo, tra il concetto di servizio pubblico e quello di partenariato pubblico privato diviene evidente avuto riguardo alla declinazione della relativa nozione, contenuta nell’art. 174 del decreto legislativo citato[3],: indubbiamente la norma segue una impostazione sostanzialistica e privilegia una valutazione di tipo economico dell’istituto (basti pensare che il legislatore al riguardo prevede una programmazione, ed altresì la valutazione di fattibilità ed efficienza, art. 175 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 36 citato).
Resta ferma la assoluta rilevanza del tema relativo alla individuazione della nozione di servizio pubblico nel diritto processuale amministrativo, posto che l’art. 133 del codice di quel processo espressamente prevede che tale materia costituisca ipotesi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo (in particolare la lettera c) del citato articolo testualmente prevede che siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: “c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità;…”.
Quanto alle fonti eurounitarie, l’art. 106 del TFUE prevede al secondo paragrafo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Le citate fonti sovranazionali paiono quindi approcciare ad una prevalente valutazione della dimensione economica del servizio/prestazione, astrattamente idonea a soddisfare una “missione” di rilievo ultra-individuale (e perciò di interesse pubblico).
Concludendo, queste rapide e senz’altro sintetiche incursioni nel diritto pubblico interno e nel diritto euro unitario, di certo non sembrano risolvere i dilemmi dell’interprete penale (cui il legislatore ha indicato, come detto, una via “riservata”): in esse, tutte, prevale, all’evidenza, una valutazione economica del servizio pubblico (inteso come attività che produce prestazioni o beni di interesse per la collettività) che non risulta del tutto corrispondente a quella utilizzata in sede penale.
4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale
Premessa la nozione di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p., valutata la sua diversità rispetto alle nozioni proprie del diritto amministrativo, pare doveroso verificare in quali casi concreti la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto sussistente la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
La prima e più ampia categoria certamente comprende i dipendenti di enti che svolgono un pubblico servizio: così è stato affermato che fosse incaricato di pubblico servizio il gestore del servizio di ambulanza, il gestore del servizio di soccorso stradale, il depositario di veicoli coinvolti in incedenti stradali, il ricevitore autorizzato a ricevere giocate, il custode del cimitero, l’addetto alle casse dell’azienda sanitaria locale ed altre variegate ipotesi.
Si osserva che di frequente si ritiene ricorra tale particolare qualifica nei casi in cui il soggetto movimenti denaro proveniente dallo Stato o da enti locali (così ad esempio l’amministratore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti beneficiaria di erogazioni finanziarie pubbliche vincolate) ovvero sia preposto alla raccolta dai privati di somme di denaro destinate all’erario (il caso più evidente quello del soggetto autorizzato alla raccolta delle giocate, con specifico riferimento al versamento del c.d. PREU).
Questo, si intende, perché in ipotesi di tale specie senz’altro risulta agevolmente individuabile la norma che impone comportamenti doverosi analoghi a quelli previsti per la pubblica funzione, ovvero una norma che vincola l’agire del soggetto nell’interesse di una collettività e segna le direzioni dei suoi comportamenti.
Così, ad esempio, nel caso del soggetto esercente attività di raccolta di giocate, la convenzione sottoscritta tra il predetto e l’ente concessionario dei monopoli, impone all’esercente tanto le modalità della raccolta tanto l’esazione del PREU ed il suo successivo pagamento all’Erario.
Sembra quindi possa affermarsi che, dopo la riformulazione dell’art. 358 c.p. ad opera del legislatore del 1990, si è adottato un criterio oggettivo-funzionale per la definizione del pubblico servizio, sicché la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde dalla natura dell'ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell'impiego. Possiamo altresì affermare, con un certo grado di convinzione, che un ulteriore indice rivelatore della qualità di pubblico servizio e del soggetto incaricato risiede nella disciplina dell’attività ad esso correlata: deve essere quindi possibile rinvenire una norma di natura pubblicistica che indichi un comportamento doveroso per il soggetto che lo esercita al precipuo fine di consentire la realizzazione di interessi propri della collettività (in ciò il servizio è pubblico). Se il soggetto è totalmente libero nella realizzazione di una determinata attività, nella scelta del contraente, nella individuazione dei propri scopi di impresa e delle modalità con cui perseguirli, sarà ben difficile che lo stesso possa ritenersi incaricato di pubblico servizio, anche se l’ambito in cui opera sia di interesse pubblico.
Certamente questa conclusione costituisce approdo certo della giurisprudenza della Corte di la quale ha recentemente affermato che “Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata, con esclusione in ogni caso dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).” (cfr. Cass. Sez. 6, sent. N. 21624 del 2022)
5. L’attività “BANCOPOSTA”
La questione relativa all’ambito di operatività della nozione di esercente un pubblico servizio si è recentemente posta con specifico riferimento alla attività c.d. di “BANCOPOSTA” svolta dal Poste s.p.a.: come noto la soluzione della questione, ritenuta controversa, circa la natura dell’attività bancoposta è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Corte (notizia di decisione n. 10/24).
Poste S.p.a., ente avente forma giuridica di società per azioni, nel nostro sistema può svolgere attività “bancaria” o “finanziaria”, attività oggi pacificamente privatistica sebbene vigilata dalle competenti Autorità (Banca d’Italia, in particolare, per il settore dell’attività bancaria e Consob per quello del mercato finanziario): entrambe tali attività si estrinsecano in negozi giuridici sottoposti a regime privatistico, nonostante l’interesse delle Autorità di Vigilanza al rispetto di determinati standard di tutela finalizzati ad assicurare sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed i controlli necessari e opportuni per l’attività finanziaria.
Tuttavia, non si ritiene di poter affermare che Poste svolga attività bancaria in regime parificabile a quello degli altri operatori, rispetto ai quali le attività di vigilanza sono comunque successive e di gestione ed estranee alla concreta disciplina dei singoli rapporti: ed invero, in virtù di una specifica normativa Poste s.p.a. svolge tale attività in regime “concessorio” da Cassa Depositi e Prestiti ed è proprio la relazione genetica con tale ente che deve essere valutata al fine di verificare se dalla stessa sorgano obblighi comportamentali e precetti di disciplina che realizzano proprio quella particolare condizione cui la giurisprudenza della Corte riconnette l’operatività dell’art. 358 c.p., ovvero quella “regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata”. La questione, come noto, è controversa ed oggetto di una recente rimessione alle Sezioni Unite, proprio al fine di scongiurare pronunce tra loro contrastanti sul punto.
Ebbene, tornando alla eventuale esistenza di una regolazione pubblicistica, l’analisi delle norme vigenti pare fornire elementi indizianti in tal senso: ciò varrebbe, in particolare, proprio con riferimento a quella attività di raccolta del risparmio che si estrinseca attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi (cfr. sul punto Cass. Sent. Sez. 6 n. 44146 del 22 giugno 2023) e tanto si desume dalla circostanza che tali forme di risparmio abbiano un regime fiscale agevolato e l’esenzione da taluni oneri in materia successoria e, ancor prima, che tale attività sia svolta per conto della Cassa Depositi e Prestiti, anch’essa ente con forma societaria sebbene con una “spiccata vocazione al sostegno degli investimenti pubblici”.
Quanto a tale ultimo aspetto, val la pena considerare che l’art. 5, comma 7) lett. a) del DL 30 settembre 2003 n. 269 (convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326) prevede tra l’altro che “La CDP S.p.A. finanzia, sotto qualsiasi forma:
Risulta quindi, per quanto di interesse ai fini della individuazione della rilevanza della qualifica di esercente un pubblico servizio, la circostanza che a monte dell’attività Banco Posta ci sia una norma primaria che prevede espressamente che Cassa depositi e prestiti nello svolgimento delle proprie finalità si finanzi attraverso prodotto nominativamente definiti (libretti di risparmio postale, buoni fruttiferi postali) assistiti dalla garanzia dello stato e distribuiti attraverso Poste Italiane Spa. Tanto significherebbe, altresì, che quale mera distributrice il prezzo di distribuzione non sia necessariamente determinato da Poste: se nel contratto tipico di offerta al pubblico dei predetti prodotti si rinvenissero disposizioni limitative della concreta volontà contrattuale non tanto dell’acquirente ma dell’offerente-distributore Bancoposta, ecco che si invererebbe proprio la condizione già ritenuta dalla cassazione come coessenziale alla natura del pubblico servizio.
Dalla consultazione del sito delle Poste è possibile acquisire ulteriori informazioni: si tratta di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti che appunto li distribuisce attraverso Poste spa, con agevolazione fiscale sia su interessi che su eventuali premi (con tassazione al 12,50%) e che sono esenti da imposte di successione.
Va da sé che già per esempio la determinazione ad opera di CDP del prezzo di vendita del prodotto potrebbe costituire argomento utilizzabile al fine di ritenere che la libertà contrattuale di Poste non sia del tutto priva di limiti, non sia una libertà contrattuale piena e che, per l’effetto, vi siano i presupposti per ritenere che l’attività relativa alla collocazione sul mercato di quel tipo di prodotti si sostanzi nell’esercizio di un pubblico servizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 c.p. : tuttavia, occorre ben ponderare, in ottica più ampia, la circostanza che anche nei rapporti giuridici privati sono possibili vincoli contrattuali in virtù dei quali un determinato soggetto assume l’obbligo di collocare sul mercato beni o servizi a prezzi predeterminati dalla propria controparte contrattuale. Il discrimine potrebbe, quindi, rinvenirsi nella circostanza che la ratio del vincolo contrattuale risponda ad interesse non meramente individuale, ovvero ad interesse collettivo, senza peraltro trascurare che comunque attraverso la vendita di tali prodotti CDP, ente che svolge attività di rilievo ed interesse pubblicistico, si finanzia.
La questione di diritto (controversa) del “Se, nell'ambito delle attività di "bancoposta" svolte da Poste Italiane s.p.a., ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la "raccolta del risparmio postale”, (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata per conto della Cassa depositi e prestiti art. 2 comma 1 lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999 n. 284) -, abbia natura pubblicistica e, in caso positivo, se l'operatore di Poste Italiane s.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen.” risulta, come detto, di recente rimessa alle Sezioni Unite della Corte con l’ordinanza n. 31605 del 29 maggio 2024.
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, pare ragionevole affermare comunque che proprio la correlazione dell’attività bancaria svolta da Poste Spa rispetto a quella della Cassa Depositi e Prestiti, unitamente alla circostanza che quella specifica categoria di prodotti sia presidiata da garanzia dello Stato, porta ad evidenziare a monte una “vocazione pubblicistica in senso oggettivo” dell’attività bancaria svolta da Poste e relativa a questi prodotti.
Si verte, quindi, nel caso di specie di una duplice corrispondenza tra l’attività bancoposta ed il pubblico servizio, trattandosi di attività che da una lato è relativa, anche se in senso ampio, al patrimonio destinato dello stato, dall’altro finalizzata, in senso oggettivo, al finanziamento dello stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico, attività che ex se e in senso oggettivo integra un pubblico servizio (anche prescindere dall’utilizzo che gli enti destinatari facciano di queste risorse).
Il regime di tassazione agevolata, l’esenzione dalle imposte di successione e, ultimo ma non per importanza, la strumentalità dell’attività Bancoposta al raggiungimento dell’obiettivo senz’altro di rilievo pubblicistico, di finanziare soggettività di rilievo pubblico, in particolare, concreta quella particolare ipotesi di delimitazione esterna del pubblico servizio che vincola l'operatività dell'agente (se non Poste spa, strumento di collocazione sul mercato di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti, direttamente quest’ultima, vincolata ad utilizzare la provvista ricavata per il surriferito finanziamento pubblico) e che costituisce presupposto per l’operatività dell’art. 358 c.p., limitatamente all’attività di collocamento sul mercato dei prodotto emessi da CDP.
6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo
Posta la non corrispondenza tra i concetti di esercente un pubblico servizio in ambito penale e quello in materia penale, è interessante chiedersi se possano esservi incompatibilità tra norme che disciplinano l’esercizio del servizio pubblico nella declinazione propria del diritto amministrativo e norme che mirano ad individuare condotte sanzionabili penalmente poste in essere dall’esercente ex art. 358 c.p.
Ora, questa distanza tra i due sistemi, astrattamente configurabile ad esempio con riferimento a comportamenti “efficienti” (in ambiti nei quali è ammessa discrezionalità) non pienamente conformi alle previsioni di una norma di rango qualificato, deve pur trovare un momento di applicazione coerente.
In tali casi, se di certo non può giungersi a ritenere lecito per il diritto amministrativo un comportamento meramente predatorio posto in essere dall’esercente un pubblico servizio, potrebbe valutarsi invece lecito il caso in cui l’esercente un pubblico servizio tenga un comportamento diverso da quello previsto dalla norma che disciplina l’attività, senza recare nocumento ( ed anzi recando un vantaggio all’amministrazione): si ponga il caso di scelta non conforme ad un criterio predefinito ma vantaggiosa (e non illecita, posto che l’illiceità costituisce sempre ragione di anno per l’amministrazione).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione dimostra come questo potenziale conflitto sia stato già affrontato: il caso che si vuole richiamare è quello risolto (in senso favorevole all’imputato) dalla Corte di legittimità con la sentenza delle sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023 Ud. (dep. 09/06/2023) Rv. 284790 – 01). In essa, si afferma tra l’altro , per quanto di interesse in questa sede quale concetto condiviso, che il legale rappresentante di una società a totalitaria partecipazione pubblica, deputata allo svolgimento di attività di pubblico servizio corrispondente a quello affidato all'ente pubblico controllante riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio e che parimenti rivesta la medesima qualità anche il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, interamente controllata da una società "in house", deputata all'espletamento di attività di carattere tecnico che si pongano in rapporto ausiliario e strumentale rispetto ai compiti pubblicistici perseguiti dalla società controllante. Tuttavia, riconosciuta la sussistenza del profilo soggettivo, nel merito la Corte è giunta ad escludere la configurabilità del cd. peculato per distrazione nella condotta di uno degli imputati in ragione di una destinazione da questi impressa a somme di denaro che, sebbene non corrispondente a quella astrattamente prevista, non giungeva comunque ad integrare un fatto appropriativa in senso stretto, in ragione della sussistenza di un interesse pubblico anche alla diversa e non prevista destinazione (ovviamente destinazione non privatistica).
Ecco, quindi, che il sistema già dimostra di essere in grado di porre rimedio a quei potenziali conflitti interni (derivanti dalla diversità tra regole amministrative di efficiente amministrazione e regole penali) valorizzando l’esistenza di un concreto vulnus quale presupposto essenziale per l’operatività della sanzione penale.
Il principio di offensività, unito alla valutazione della sussistenza del dolo quale elemento psicologico che connota i delitti contro la pubblica amministrazione, costituiscono strumenti attraverso i quali risolvere le pur configurabili diversità tra comportamenti doverosi nelle diverse sedi penale e amministrativa. Ovvia la considerazione (finale) che ogni intervento normativo che “riempia” le fattispecie incriminatrici in tema di reati contro la pubblica amministrazione di elementi connotanti (l’intenzionalità del dolo, la sussistenza del danno) costituisce strumento di ausilio per l’interprete nella individuazione del discrimine tra incriminazioni di pura forma ed incriminazioni rispondenti al principio di offensività, oltre a garantire, al contempo, la giusta reazione del sistema rispetto a condotte invece pacificamente meritevoli di rilievo nella sede penale.
[1] Interessante sul punto la recente sentenza della Corte di Cassazione sez 6, n. 33016 del 2024 udienza 11 luglio 2024 in tema di peculato dell’amministratore di sostegno così massimata “ …La ratio sottesa all'art. 360 cod. pen. è volta ad estendere gli effetti della qualifica pubblicistica, anche ad un periodo successivo alla sua cessazione, nella misura in cui sussiste un rapporto di strumentalità tra la qualifica precedentemente ricoperta e il reato commesso, la cui realizzazione deve essere stata possibile proprio sfruttando la pregressa posizione.”
[2] “Art. 1 I Comuni possono assumere, nei modi stabiliti dilla presente legge, l'impianto e l'esercizio diretto dei pubblici servizi, e segnatamente di quelli relativi agli oggetti seguenti: 1° costruzione di acquedotti e fontane e distribuzione di acqua potabile; 2° impianto ed esercizio dell'illuminazione pubblica e privata; 3° costruzione di fognature ed utilizzazione delle materie fertilizzanti; 4° costruzione ed esercizio di tramvie, a trazione animale o meccanica; 5° costruzione ed esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale; 6° impianto ed esercizio di farmacie; 7° nettezza pubblica e sgombro di immondizie dalle case; 8° trasporti funebri, anche con diritto di privativa, eccettuati i trasporti dei soci di congregazioni, confraternite ed altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali; 9° costruzione ed esercizio di molini e di forni normali; 10° costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione, anche con diritto di privativa; 11° costruzione ed esercizio di mercati pubblici, anche con diritto di privativa; 12° costruzione ed esercizio di bagni e lavatoi pubblici; 13° fabbrica e vendita del ghiaccio; 14° costruzione ed esercizio di asili notturni; 15° impianto ed esercizio di omnibus, automobili, e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni; 16° produzione e distribuzione di forza metrico idraulica ed elettrica e costruzione degl'impianti relativi; 17° pubbliche affissioni, anche con diritto di privativa, eccettuandone sempre i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità; 18° essicatoi di granturco e relativi depositi; 19°stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.”
[3] Art. 174
Art. 174 “Nozione”:
1.Il partenariato pubblico-privato è un'operazione economica in cui ricorrono congiuntamente le seguenti caratteristiche: a) tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati è instaurato un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico;
b) la copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata, anche in ragione del rischio operativo assunto dalla medesima; c) alla parte privata spetta il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l'attuazione;
d) il rischio operativo connesso alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi è allocato in capo al soggetto privato.
2. Per ente concedente, ai sensi della lettera a) del comma 1, si intendono le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all'articolo 1 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.
3. Il partenariato pubblico-privato di tipo contrattuale comprende le figure della concessione, della locazione finanziaria e del contratto di disponibilità, nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. L'affidamento e l'esecuzione dei relativi contratti sono disciplinati dalle disposizioni di cui ai Titoli II, III e IV della Parte II. Le modalità di allocazione del rischio operativo, la durata del contratto di partenariato pubblico-privato, le modalità di determinazione della soglia e i metodi di calcolo del valore stimato sono disciplinate dagli articoli 177, 178 e 179. 4. Il partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale si realizza attraverso la creazione di un ente partecipato congiuntamente dalla parte privata e da quella pubblica ed è disciplinato dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, e dalle altre norme speciali di settore. 5. I contratti di partenariato pubblico-privato possono essere stipulati solo da enti concedenti qualificati ai sensi dell'articolo 63.
“Marie Gulpin” di Marco Mantello l’inedito camouflage dell’odio. Recensione di Paola Filippi
In Francia, in un futuro distopico, l’estrema destra è al potere.
È Marie Gulpin che guida il paese, la leader del partito Figli della Patria.
È arrivata al potere cavalcando le paure e le insicurezze dei francesi. Il collante lo ha facilmente rinvenuto nell’odio razziale che ha sapientemente coltivato, insieme a populismo e complottismo.
Tutti i francesi sono con lei, uniti contro i neri, contro gli immigrati e soprattutto contro i musulmani. Nell’immaginario collettivo, manipolato da Gulpin e dai suoi sodali, gli stranieri sono i nemici mortali della Francia, e il popolo francese è saldamente unito nel comune sentimento di rabbia e istinto di prevaricazione contro il diverso.
La leader del partito Figli della Patria – come già è accaduto in altri paesi europei dove i fasciti sono al governo e il sovranismo ha vinto – reintroduce in Francia la pena di morte.
Chi sarà il primo decapitato, dopo l’introduzione della ghigliottina? Sarà Luigi Gulpin, il figlio, appena diciottenne, di Marie? È lui che, con i suoi amici, ha organizzato il poussez le mannequin e gettato Abdel Hakim Hadiudi, un anziano immigrato di origine tunisina, tra le rotaie del metrò? Abdel Hakim Hadiudi meritava di morire?
Il romanzo di Marco Mantello, scrittore e poeta romano che vive tra Parigi e Berlino, autore del romanzo “La rabbia”, finalista al Premio Strega nel 2012, inizia così, con il drammatico poussez le mannequin, e di lì si dipana, almeno apparentemente, secondo gli ordinari schemi del thriller psicologico; nessuno dei personaggi è veramente come appare, la realtà è presentata su diversi piani e differenti angoli visuali.
Immagini carpite da misteriose riprese video, spedite al narratore Cesare Cannelutti, terzo marito di Marie Gulpin, da un mittente anonimo, restituiscono vicende inaspettate e sconvolgenti. Rappresentazioni di vita vissuta che modificano repentinamente i tratti dei personaggi e i loro ruoli. La storia si fa sempre più avvincente.
Marco Mantello, con “Marie Gulpin”, in maniera magistrale, offre al lettore, intrecciandole in un'unica storia, tre diverse narrazioni: quella che si dipana nel thriller; quella che affronta i temi legati all’ascesa dell’estrema destra, al populismo nazionalista, all’ossessione identitaria e antislamica che attraversa l’Europa, quella che descrive, senza veli, la personalità e l’ascesa della leader sovranista.
Il giallo è intrigante: Luigi Gulpin sarà condannato? Ci saranno altri morti? Chi è veramente Davide? Il Soleil Noir esiste? Quale è il ruolo assegnato all’ultimo discendente dei boia, chiamato a rimettere in funzione la Petite Louison?
L’analisi politica dell’ascesa dell’estrema destra è estremante lucida: la paura droga la ragione, l’odio razziale è il nuovo oppio che obnubila il popolo francese.
Il sovranismo, con la proclamazione dell’obiettivo dell’esclusione è il vessillo che rassicura gli animi. La solidarietà è bandita e i diritti fondamentali sono sostituiti dai valori della patria. Ma in cosa consistono i valori della patria? Quali sono questi valori proclamati e da difendere strenuamente? Ebbene, si tratta di valori dei quali si sa solo che sono da difendere; alla loro mera enunciazione corrisponde il vuoto; un vuoto potente perché riesce a cancellare non solo l’egalité – cancellazione scontata per i diversi – ma anche la liberté e la fraternité.
In questo nuovo regime gli showman e i pagliacci diventano, a pieno titolo, uomini politici di successo, nella facile declinazione di una ideologia populista, senza idee, senza rispetto dei diritti fondamentali dei diversi ove solo i francesi possono ridere, essere felici e vivere. I giudici sono sostituiti dai talkshow.
Il processo mediatico delle vittime è formalizzato – diventa Cour d’Assises con il nome di Giudice delle vittime. Secondo la filosofia per cui “il sangue non si nutre di una colpa dei carnefici ma di un sentimento diffuso di colpevolezza attribuito alla vittima” l’immigrato, vittima, diventa imputato. Il sistema penale è particolarmente repressivo con l’introduzione di crimini tipici dei regimi di polizia, la giustizia oltre che mediatica è sommaria. I nuovi crimini sono quelli da strada, mentre, contestualmente, i reati dei colletti bianchi vengono depenalizzati.
La descrizione della Francia è desolante, trapela come scenario di fondo un occidente ripiegato su stesso, chiuso nelle proprie ossessioni, sterile e contaminato da “democrazie identitarie” e “sovranismi”.
Nella descrizione di Mantello – alla fine non così immaginaria – l’Occidente è in pericolo. Non sono i neri, gli immigrati o l’Islam a collocarlo sull’orlo del baratro quanto piuttosto è l’Occidente che è in fase di autoeliminazione; processo iniziato con la drastica sostituzione della politica dell’esclusione alla politica della solidarietà e dell’accoglienza, con la sostituzione dei principi di Jean-Jacques Rousseau con i vacui valori della patria.
In questo nuovo occidente – con la o minuscola – tutto ruota attorno al doppelwirKung, come scrive nella sua tesi Davide Cannelutti, figlio del narratore e amico di Luigi Gulpin, con lui nel poussez le mannequin. La nuova cristianità che anima l’occidente ha sostituito Dio con il culto dell’apparire, del piacere e della ricchezza; in nome di divinità commerciali e ha poi trovato la regola per autoassolversi da ogni delitto. L’odio verso il diverso è giustificato dall’amore verso l’uguale o l’assimilato. L’introduzione della pena di morte è un atto di amore di Gulpin verso la Francia. In nome della sicurezza degli uguali è stata elaborata la distinzione tra costi umani e omicidi. Il terrorismo islamico è omicida mentre l’occidente è innocente per definizione, perché agisce a difesa di sé stesso e, per il resto, i danni sono effetti collaterali, non importa se le vittime sono civili innocenti o addirittura bambini.
L’intento di Marco Mantello è quello di «recuperare la vista» sulle identità collettive e la violenza in Europa, per accendere i riflettori sui «pericoli insiti in una mentalità collettiva che si alimenta in modo ossessivo del terrore prodotto dagli “altri”»[1].
L’occidente descritto da Mantello è un occidente con la “o” minuscola, che non ha fatto i conti con il suo lato oscuro, che non ha preso le distanze da fenomeni politico-culturali come il nazismo e il fascismo.
La terza narrazione che si intreccia nel racconto riguarda nell’intimo Marie Gulpin.
Gulpin si svela come una donna qualunque, solo ben “lanciata”, altro non è che un marchio di successo, il cui slogan è tratto dall’ancestrale paura della morte.
È instabile e psicotica – straordinario il suo rapporto con il boia della Bastiglia, lo gusterà il lettore – ma ciò non altera il rapporto della Gulpin con il suo popolo. È significativo che la leder del partito nazionalista sia una donna. Come ha scritto Marco Mantello «È un qualcosa di altamente manipolativo, perché si usano argomenti condivisi per rendere incontestabile il fine, reazionario, attraverso la condivisione del mezzo, progressista»[2].
Il messaggio è che chiunque, con un buon lancio pubblicitario, può diventare un leader sovranista, un dittatore; tutto inevitabilmente si snoda attorno al pericolo correlato alla desertificazione della cosa pubblica, al disinteresse per il collettivo e all’abbandono della politica.
Il messaggio di Marco Mantello è chiaro: la partecipazione politica va costantemente coltivata per impedire che vengano occupati da uno solo al comando – una sola nel nostro caso – gli spazi che, in uno Stato democratico devono, necessariamente, essere occupati da una pluralità di soggetti.
Le idee vanno coltivate con il confronto; le ideologie non possono essere sostituite dai c.d. valori della patria, concentrati esclusivamente attorno all’identità nazionale, il centro dell’etica della polis è l’essere umano, senza distinzioni riferite a diversità, come recita la Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo.
La pochezza di Marie Gulpin, l’assenza di un’ideologia contro la quale confrontarsi, l’inconsistenza dei valori della patria, cuciti con la stessa stoffa del vestito dell’imperatore[3], avvertono che non è poi così difficile che un leader fascista prenda il potere. La ricetta è sempre la stessa fomentare la paura e assicurare sicurezza e protezione.
Il romanzo di Marco Mantello, con questa stupenda descrizione di una surreale Francia fascista, che purtroppo richiama criminalizzazioni, depenalizzazioni, razzismi e nuove diseguaglianze del nostro quotidiano, richiama alla memoria il monito di Primo Levi “È accaduto, quindi può di nuovo accadere”.
“Marie Gulpin” va letto.
Marco Mantello, "Marie Gulpin", Neri Pozza, 2023.
https://www.ibs.it/marie-gulpi...
Inedito camouflage dell’odio è un’espressione tratta dal titolo dell’intervista a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023 https://media.gruppoathesis.it/media/attach/2023/05/il_manifesto.pdf
[1] V. Marco Mantello e l’inedito camouflage dell’odio dal titolo dell’intervista di Guido Caldiron a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023.
[2] V. nota 1.
[3] Il vestito della fiaba danese di Hans Christian Andersen - Keiserens Nye Klæder.
L'immagine è un’installazione dalla serie «Human condition» di Antony Gormley
Applicare i principi fondamentali, rispettando le regole.
Con le sentenze gemelle n. 128 e n. 129 del 16 luglio 2024 continua la revisione costituzionale dei licenziamenti come disciplinati dal Jobs Act
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Oronzo Mazzotta
V. A. Poso. Continuano gli interventi demolitorio-ricostruttivi della Corte costituzionale sul “contratto a tutele crescenti” (d.lgs. n. 23 del 2105). I più recenti sono le sentenze 16 luglio 2024, n. 128 e n.129.
In estrema sintesi, con la sentenza n. 128 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage). Mentre con la sentenza n. 129 è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice in base alla quale deve essere disposta la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda solo sanzioni conservative.
Tutto inizia con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 oggetto – come spesso accade in materie come questa – di letture contrastanti. Tu cosa ne pensi? Il tuo giudizio su questa sentenza costituzionale è positivo?
O. Mazzotta. La sentenza del 2018 è di grande rilevanza perché tocca il nucleo duro dell’intervento legislativo. Si tratta del cuore delle cc.dd. “tutele crescenti”. L’idea che fa da sfondo alla legge si riannoda alla ormai antica prospettiva (se si pensa che risale ai primi anni Ottanta) secondo cui la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro all’interno dell’impresa avrebbe dovuto favorire maggiore occupazione, attraendo gli investitori esteri. Per smentire la fondatezza della prospettiva in questione forse sarebbe sufficiente acquisire che, nonostante il fatto che tali politiche siano state messe in atto da oltre 40 anni, la situazione dell’occupazione non si è molto modificata; anzi in alcuni settori è aumentata la precarizzazione del lavoro.
Più nello specifico la legge intendeva segnalare agli imprenditori due cose: (a) che, dopo il 7 marzo 2015, licenziare un lavoratore sarebbe costato molto meno rispetto al passato e (b) che comunque il costo del licenziamento (tendenzialmente monetizzato) avrebbe potuto essere millimetricamente calcolabile a priori. Infatti, come è noto, le “tutele crescenti” questo sono: lungi dal rappresentare un nuovo modello negoziale (il famoso “contratto a tutele crescenti”) consistono in nient’altro che in una tecnica per determinare l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo, entità che viene ancorata agli anni di servizio. Punto e basta. Il coté nobile di tale presupposto di fondo è quello di assicurare la certezza del diritto, quello un po’ meno nobile risponde al nome di “giustizia predittiva”.
I miei (meno di) venticinque lettori conoscono le obiezioni che ho formulato nei confronti di tale prospettiva.
V. A. Poso. Ce le puoi ripetere?
O. Mazzotta. In primo luogo, tutti i barocchismi sul costo del licenziamento si infrangono contro una constatazione assai banale: un licenziamento legittimo non costa nulla. Ne deriva che tutta l’enfasi politica riposta sulla riforma si riduce in nient’altro che in un espediente per restituire al datore di lavoro un potere di libera recedibilità un po’ (un bel po’ dopo il decreto dignità) più costoso.
In secondo luogo, mi continua a sfuggire la ragione per cui l’imprenditore, quel capitano coraggioso che affronta impavido i mille rischi che il mercato gli propone (dal costo delle materie prime alle insidie della concorrenza) debba poter misurare con il bilancino del farmacista quanto gli costerà un licenziamento illegittimo.
La verità è ovviamente un’altra. La pianificazione del costo del licenziamento è nient’altro che l’altra faccia del timore dell’intervento del giudice in materia, quel timore che il c.d. “collegato lavoro” del 2010 aveva cercato maldestramente di attutire se non di evitare del tutto.
Sennonché la discrezionalità giudiziale (e quindi la conseguente incertezza circa l’esito delle relative liti) è strutturalmente inevitabile perché è lo stesso legislatore che ha affidato il potere di liberarsi dal vincolo obbligatorio di lavoro a delle norme (o clausole) generali, che, al pari della buona fede, della correttezza, della diligenza, etc., sono gli strumenti giuridici meno controllabili a priori. E la ragione è ovvia: è lo stesso legislatore che non potendo risolvere una volta per tutte il conflitto fra le due parti del rapporto di lavoro, ha rinviato la soluzione di tale conflitto ad un’altra autorità, per l’appunto quella giudiziale.
Ecco, dunque, che si ritorna al punto di partenza del discorso, che il legislatore del 2015 ha cercato invano di eludere: il licenziamento è atto irriducibilmente individuale inserendosi all’interno della dinamica di un singolo rapporto di lavoro e la reazione sanzionatoria in termini economici non può essere standardizzata ed applicata a tutte le (diversissime) situazioni che quella dinamica presenta. È questo il messaggio più profondo che ci lancia la Corte costituzionale, che, non a caso, senza intaccare la scelta per l’indennizzo economico, invita a tener conto, nella sua determinazione, di una serie di parametri che restituiscono il senso della individualità e specificità del singolo recesso e che sono poi quelli descritti dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. Per la Corte, infatti, e giustamente, è irragionevole e fonte di diseguaglianze trattare allo stesso modo situazioni profondamente diverse.
In questo senso la Corte è rispettosa dell’insegnamento mengoniano che vuole che il ricorso al “sistema”, per non ricadere nel vizio di arbitrarietà, sia ammissibile solo in presenza di una lacuna dell’ordinamento; che è quanto ha fatto la Consulta evitando di creare nuovi parametri, ma limitandosi ad importare quelli già esistenti in materia di licenziamento.
V. A. Poso Da quanto dici traggo la conclusione secondo cui il “difetto” della disciplina introdotta nel 2015 è originario, se tanti sono stati gli interventi della Corte Costituzionale.
O. Mazzotta. È quanto mi sembra di poter dire, anche rispetto ad altre decisioni altrettanto importanti.
V. A. Poso. Tralasciando la sentenza, non meno importante, n. 150 del 16 luglio 2020, meramente conseguenziale rispetto alla prima, c’è stata, qualche anno dopo, la sentenza 22 febbraio 2024, n. 22 con la quale la Corte Costituzionale (in maniera del tutto condivisibile, secondo me) ha risolto il problema delle nullità – testuali e virtuali – ampliando la platea delle ipotesi alle quali consegue la reintegrazione nel posto di lavoro con integrale risarcimento dei danni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con te. In questo caso direi che la Corte è stata assai rispettosa della volontà del legislatore, essendosi basata sull’evidente eccesso di delega (la legge di delegazione non distingueva infatti fra nullità espresse e nullità virtuali). A mio avviso avrebbe anche potuto ritenere del tutto irragionevole la scelta di limitare la reintegrazione alle sole ipotesi di nullità espressa.
La distinzione fra nullità virtuali ed espresse poggia su basi assai poco solide. Si tratta di una contrapposizione che non costituisce un discrimine negativo, tale da escludere alcune fattispecie, collocabili certamente entro lo spettro della nullità, dalla relativa sanzione. Essa ha la sola funzione di distinguere fra nullità espresse e nullità rimesse alla valutazione del giudice in punto di “violazione di norma imperativa”. In sostanza mentre nel primo caso il compito del giudice è alleggerito dalla circostanza che il legislatore ha sancito la sanzione applicabile alla specie, nel secondo il medesimo legislatore ha rinviato all’interpretazione giudiziale la verifica del carattere imperativo della norma violata. Mai invece si dà che una nullità possa essere considerata in sé e per sé non sanzionabile con gli effetti che le sono propri (la caducazione dell’attività del privato).
In effetti deve valere l’aureo (e permanentemente vigente) principio secondo cui ogni atto di autonomia che si ponga in violazione di norma imperativa è affetto dalla sanzione della nullità ex art. 1418 cod. civ., salvo che non sia diversamente disposto dalla legge. Si ribalta quindi l’idea del legislatore del 2015: non deve la legge prefigurare le conseguenze della nullità in modo “espresso”, ma queste sono ricollegate direttamente dai principi civilistici, salvo che non venga esplicitamente negatatale conseguenza.
Ciononostante – con apprezzabile senso del proprio ruolo – la Corte costituzionale sposa l’idea che il legislatore delegato fosse andato oltre l’incarico conferitogli dal Parlamento delegante, nel momento in cui ha voluto introdurre l’avverbio “espressamente”, laddove nel criterio direttivo della legge di delega manca del tutto la distinzione fra nullità espresse e nullità non sanzionate come tali, con la conseguenza che la reintegrazione deve far capo ad ogni ipotesi di licenziamento riconducibile alla categoria della nullità. E dunque sotto questo profilo non mi pare che si possa rimproverarle nulla.
V. A. Poso Si tratta di capire, a questo punto, come incide questa sentenza nella concreta applicazione dei giudici comuni.
O. Mazzotta. Non mi pare complicato. È la Corte stessa che, nell’ampia motivazione, con pazienza certosina, elenca tutte le ipotesi di nullità del licenziamento, nel gioco combinato di legislazione e (soprattutto) giurisprudenza, fra le quali colloca, fra l’altro, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia; quello per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ.; quello ritorsivo sulla base della normativa di cui alla l. 179/2017 (il c.d. whistleblower); quello in violazione del blocco dei licenziamenti disposto durante il periodo del Covid; il licenziamento in violazione dell’art. 4 della l. 146/90 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; quello in violazione della disciplina degli stupefacenti (art. 124, 1° co. d.p.r. 309/90), etc.
V. A. Poso. Tornando agli aspetti generali, sistematici, mi sembra che passi indenne dalle censure il discrimen temporale dell’assunzione a far data dal 7 marzo 2015.
O. Mazzotta. Il punto è quello meno discutibile. Si tratta di una pacifica applicazione del principio, da sempre invalso nella giurisprudenza della Corte costituzionale (si pensi alla materia pensionistica), secondo cui la diseguaglianza di trattamento va valutata in maniera sincronica e non diacronica. E nel caso il legislatore del d.lgs. 23/2015 ha applicato la disciplina solo ai nuovi assunti, la cui posizione non è comparabile con quella dei lavoratori già in forza al momento dell’entrata in vigore della legge.
V. A. Poso. Torniamo alle ultime due sentenze costituzionali. Prima di tutto la n. 128/2024 che ricompone il requisito dell’ “insussistenza del fatto” cercando di omogeneizzare la disciplina riguardante i licenziamenti economici e quelli disciplinari. È proprio così o ci sono margini di incertezza?
O. Mazzotta. Direi che è proprio così. Il filo conduttore che guida le due importanti decisioni della Consulta è proprio la nozione di “fatto”. Lo scopo è quello di rendere omogenee le discipline riguardanti l’illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive e soggettive eliminando le evidenti storture, in termini di lesione del principio di eguaglianza, causate dalla differenziazione di regimi. Alla base del discorso c’è l’idea, cui ho fatto già cenno in precedenza, secondo cui il licenziamento è un fatto traumatico che incide sulla vita del lavoratore e la cui regolamentazione deve di necessità rispettare la dignità del lavoratore colpito da un evento così devastante.
V. A. Poso. In termini generali cosa si intende per “fatto” al fine di potere apprezzare la sussistenza o no dello stesso.
O. Mazzotta. Il “fatto” è nient’altro che la proiezione in termini concreti della descrizione che ne fornisce la legge per giustificare la rottura del vincolo. È una species concreta di una definizione astratta (di qui l’espressione “fattispecie”). Esso va quindi inquadrato entro la definizione normativa per coglierne la rilevanza e legittimare il recesso.
V. A. Poso. Mi sembra evidente che, in base ai criteri generali dell’onere della prova in tema di licenziamento, sia il datore di lavoro, e non il lavoratore, a dover dimostrare la sussistenza del fatto, di un fatto genuino e rilevante, posto a fondamento del recesso per motivi oggettivi.
O. Mazzotta. Sono perfettamente d’accordo; questo è quanto de plano risulta dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966.
V. A. Poso. La Corte, però, considera fuori dalla nozione di “fatto” rilevante ai fini della tutela reintegratoria l’obbligo di repêchage la cui violazione da parte del datore di lavoro comporta solo una compensazione indennitaria del danno. Ciò, peraltro, in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.
O. Mazzotta. Il contrasto è solo apparente. Il primo passaggio argomentativo ruota intorno all’idea della necessaria causalità del recesso datoriale (sostenuta, se fosse necessario, dai riferimenti costituzionali al diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme). Da questa idea – ripeto: sostenuta dal richiamo a fondamentali principi costituzionali – scaturisce la logica conseguenza, pur nel rispetto della discrezionalità del legislatore, di una “adeguata e sufficiente” dissuasività della sanzione avverso il licenziamento illegittimo.
Messa in questi termini la questione, risulta evidente la discrasia fra giustificazione soggettiva e giustificazione oggettiva in termini di sanzione applicabile al licenziamento illegittimo. Nel primo caso il legislatore del 2015 lascia uno spazio alla tutela reintegratoria in talune situazioni specificamente individuate, nel secondo appiattisce la sanzione, sempre e comunque, al piano meramente indennitario. Ed è qui che si annida il sospetto di incostituzionalità. In sostanza è l’irrilevanza del requisito della “insussistenza del fatto” che risulta contraria ai principi fondamentali, per due assorbenti ragioni. La prima ragione è che, così facendo, si viola proprio l’essenziale presupposto della causalità del recesso. La seconda è che si lascia il datore di lavoro arbitro di qualificare ed etichettare il licenziamento a suo libito (nella gran parte dei casi celando un licenziamento arbitrario dietro la parvenza di una giustificazione oggettiva). Ne deriva che il licenziamento per g.m.o. in cui il fatto sia insussistente (in cui cioè non vi sia una effettiva soppressione del posto e/o manchi del tutto il nesso di causalità con la posizione del lavoratore) è addirittura equiparabile ad un licenziamento pretestuoso e/o discriminatorio.
Ecco, dunque, che l’allargamento della tutela reale al fatto insussistente anche nell’ambito del licenziamento economico si traduce, in termini sostanziali, in una sorta di alleggerimento per il lavoratore dell’onere della prova (sempre complicato) della discriminatorietà e/o pretestuosità.
V. A. Poso. Secondo una prima lettura, se “fatto materiale” è espressione equivalente, nella sostanza, a “fatto (in senso ampio)”, e se quest'ultimo ricomprende, per come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità, anche il repêchage, non sembra possibile che nell’area del “Jobs Act” la prospettiva possa mutare. Condividi questa opinione?
O. Mazzotta. Mi rendo conto che l’idea che, rispetto alla disciplina del contratto a tutele crescenti, il concetto di “fatto” non inglobi anche il c.d. repêchage può apparire eterodossa rispetto all’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 125 del 2022, da subito fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, a proposito dell’art. 18 dello statuto. Sennonché nel diverso caso delle tutele crescenti c’era da rispettare la volontà legislativa diretta a valorizzare, in linea di massima, la sanzione indennitaria. Di qui la decisione della Corte di restringere la tutela reale ad ipotesi apparentabili al licenziamento pretestuoso, per lasciare in tutti gli altri casi la tutela indennitaria.
Del resto, che l’obbligo di repêchage costituisca l’anello debole dei requisiti giustificativi del g.m.o. è pacifico. È sufficiente riandare alle perplessità manifestate dal nostro comune Maestro Giuseppe Pera nello storico saggio apparso all’indomani della legge n. 604 del 1966 e che ha costituito la base di tutti i ragionamenti successivi sul tema.
V.A. Poso. Nel dispositivo della sua sentenza la Corte Costituzionale, mutuando la locuzione utilizzata dal Legislatore per i licenziamenti disciplinare, fa riferimento alle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro”. Sembrerebbe, questa, una scelta consapevole adottata dai giudici costituzionali che consente di lasciare ogni operazione interpretativa affidata ai giudici comuni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con questa lettura.
V.A. Poso. Ritieni che i principi accolti dalla Corte nella sentenza n. 128/24 possano modificare l’atteggiamento circa l’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per i licenziamenti collettivi? Ricorderai che, allo stato, la Consulta ha rigettato i dubbi di legittimità costituzionale con la sentenza n. 7 del 2024.
O. Mazzotta. Non credo proprio che l’atteggiamento della Corte rispetto ai licenziamenti collettivi possa modificarsi. Proprio nella sentenza da te richiamata vi è una lunga motivazione diretta a diversificare strutturalmente le due vicende, se pure accomunate dall’espressione “licenziamenti economici”. L’argomento forte per i giudici della Consulta, al di là dei nominalismi (su cui vi sarebbe molto da discutere, ma non è qui il luogo), è che le due vicende non possono essere parificate non foss’altro perché non l’ordinamento non prevede un controllo di merito sulla sussistenza delle ragioni invocate per la riduzione di personale, ma solo un controllo di natura procedurale. Il che risponde alla ben nota acquisizione secondo cui mentre nel licenziamento individuale il controllo è successivo ed affidato al giudice, nei licenziamenti collettivi il controllo è preventivo ed è affidato alle parti sociali.
Quanto al piano della deterrenza della sanzione economica la Corte, anche nella sentenza n. 7 del 2024 (oltre che in varie altre decisioni), ha ribadito che un indennizzo, che nel massimo attinge a 36 mensilità, è esente da vizi di costituzionalità, perché realizza un «adeguato contemperamento degli interessi in conflitto».
V. A. Poso. Passando all’esame della sentenza n. 129/2024 (particolarmente apprezzabile anche per la completa ricostruzione normativa e giurisprudenziale dei licenziamenti disciplinari) al punto 7.3 (nel richiamare i punti 6 e 7 della sentenza n. 44 del 19 marzo 2024), la Corte ribadisce che lo “scopo” complessivo del legislatore del 2015 è stato quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Ritieni condivisibile questa affermazione, anche alla luce della applicazione giurisprudenziale e degli sviluppi che si sono verificati nel mercato del lavoro?
O. Mazzotta. In generale rilevo che è vero che nella sentenza n. 129/24 l’atteggiamento della Corte è maggiormente attento alla ratio normativa, nel momento in cui essa richiama lo scopo complessivo del d.lgs. 23/2015 diretto a favorire l’allargamento dell’occupazione.
Se mi chiedi però se tale finalità è legittimamente perseguibile intervenendo in maniera restrittiva sulla tutela contro i licenziamenti arbitrari e/o illegittimi il mio dissenso è abbastanza netto, per ragioni di metodo e di merito.
Sul piano del metodo ritengo che l’allargamento dell’occupazione – come del resto hanno dimostrato i fatti successivi – è legato a fattori che poco o niente hanno a che fare con la disciplina dei licenziamenti. Una disciplina restrittiva delle tutele può solo consentire una riduzione dei costi per l’impresa, ma non c’è alcuna garanzia che a tale riduzione di costi si accompagni un allargamento della base occupazionale. Del resto, la vicenda del licenziamento si inserisce all’interno di un contratto privatistico che deve trovare un punto di equilibrio al proprio interno, un equilibrio che deve tenere in conto le aspettative che le parti individuali ripongo sulla relazione giuridica, aspettative che niente hanno a che fare con problemi occupazionali.
Sotto altro profilo poi – e vengo al merito – la riduzione delle tutele deve comunque trovare un punto di equilibrio fra le posizioni e le aspettative delle parti (si ripete: individuali), rispettoso dei diritti fondamentali cioè del diritto alla libera gestione dell’attività di impresa, da una parte, e della protezione delle aspettative di reddito del lavoratore nonché della sua dignità.
V. A. Poso. Nel merito della motivazione, sono due, a detta della Corte, le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare nel regime del Jobs Act: «la qualificazione del fatto come “materiale” e l’espressa esclusione, ai fini della individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva».
O. Mazzotta. Non attribuirei particolare rilievo alla enfatizzazione del concetto di “materialità” del fatto, dal momento che l’opinione comune ritiene che l’attributo “materiale” nulla toglie e nulla aggiunge al concetto di fatto, come ho detto prima.
Più importante è rilevare che in realtà al centro della discussione c’è il tema della proporzionalità della sanzione, del quale la Corte ribadisce la centralità nella vicenda del licenziamento disciplinare e l’eterodossia di una legge che intenda prescindervi.
Ciò posto però l’intervento ablativo non si spinge fino al punto di eliminare la scelta legislativa ripristinando in pieno il rilievo del principio, ma si assesta su una linea per così dire intermedia.
V. A. Poso. Infatti, nel momento in cui il legislatore considera applicabile la tutela reintegratoria attenuta in caso di “fatto materiale insussistente”, resta del tutto irrilevante, a questi fini, il giudizio di proporzionalità. Scrive la Corte: «Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato».
O. Mazzotta. Certamente. Sotto questo profilo il giudizio della Corte è ampiamente rispettoso della volontà legislativa.
Vi si discosta soltanto quando l’irragionevolezza della scelta tracima in una violazione dell’art. 39 Cost., ledendo quella autonomia collettiva che, proprio in materia disciplinare, da sempre svolge una funzione essenziale che preesiste alle scelte legislative.
Senza voler ricercare il fondamento teorico di tale scelta nella teoria giugniana dell’ordinamento intersindacale è sufficiente ricordare il contributo di Luigi Montuschi, il massimo studioso del potere disciplinare, che riconosceva all’autonomia collettiva proprio il ruolo di edificatrice della tipicità del potere disciplinare, una tipicità che si afferma anzitutto sul piano sociale per poi rifluire sul piano legislativo.
Va comunque anche ricordato che la Corte, per affermare tale principio, si avvale di uno strumento, almeno formalmente, meno traumatico rispetto ad un intervento ablativo, dal momento che ritiene sufficiente una interpretazione adeguatrice, che guarda proprio al ruolo essenziale dell’autonomia collettiva in materia disciplinare.
La conseguenza più che condivisibile del ragionamento è che se il fatto materiale imputato al lavoratore è per così dire del tutto atipico, cioè non previsto da alcuna fonte come passibile di sanzione conservativa, la tutela (pur in presenza di una sproporzione) sarà solo indennitaria. Ove invece il fatto sia rubricato dalla contrattazione collettiva come suscettibile di sanzione minore, la violazione del principio di proporzionalità comporterà la tutela reale.
V. A. Poso. Ritieni complessivamente che nelle due sentenze del luglio 2024 la Corte Costituzionale abbia scavalcato i compiti interpretativi della Corte di legittimità?
O. Mazzotta. Ho già risposto di volta in volta ai vari profili tematici. Vedrei solo un problema di coordinamento con la giurisprudenza in materia di g.m.o., avendo particolare riferimento al problema del c.d. repêchage, rispetto al quale nella interpretazione dell’art. 18 dello statuto (come novellato nel 2012) la Corte costituzionale e sulla sua scorta il giudice di legittimità, hanno inserito tale elemento nel “fatto” posto a base del licenziamento economico.
Sennonché, nella diversa temperie del contratto a tutele crescenti, si giustifica bene una diversificazione all’interno del concetto di fatto rilevante, dovendosi comunque assegnare un qualche significato all’alternativa fra tutela reale e tutela indennitaria. Sarebbe stata certamente più grave e foriero di ben più aspre polemiche l’appiattimento della protezione sul solo piano della tutela reintegratoria.
V. A. Poso. Più in generale anche con il Jobs Act la Corte Costituzionale, pur affermando, come in altre occasioni, il suo self restraint nei confronti del legislatore, ha però pronunciato un monito invitandolo ad intervenire, pena il successivo intervento costituzionale. Mi riferisco alle sentenze n. 150 del 2020, n. 183 del 2022, n. 7 del 2024, n. 22 del 2024. Come giudichi questa doverosa apertura della Corte Costituzionale?
O. Mazzotta. La giudico così come la giudichi tu stesso, che, non a caso, giustapponi al sostantivo “apertura” l’aggettivo “doverosa”. La Corte che è stata indotta ad intervenire su molti profili problematici posti sia dalla riforma Monti che dalla riforma Renzi, ha portato a compimento un’opera ablativa e (parzialmente) ricostruttiva entro i limiti delle proprie funzioni.
È chiaro che solo il legislatore potrà rimettere mano (e sperabilmente ordine) nell’universo dell’apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti. Ovviamente in quest’opera di riedificazione non potrà ignorare i ripetuti moniti della Consulta circa il carattere di necessaria deterrenza che deve rispettare un apparato sanzionatorio per essere indenne da censure di incostituzionalità.
In questo ambito però mi pare che il sentiero per l’ipotetico legislatore non sia così stretto. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale può infatti dedursi agevolmente che, ferma la sicura deterrenza della tutela reale, una tutela indennitaria, così come è risultata corretta dal decreto dignità, sia altrettanto esente da censure.
V. A. Poso. Una battuta finale. La CGIL ha promosso il referendum per l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (ma anche dell’art. 8 della l. n. 604 del 15 luglio 1966). È questa la soluzione di tutti i problemi?
O. Mazzotta. Credo proprio di no. Si tratta di problemi complessi che non possono essere risolti solo con un tratto di penna. A parte il significato politico che la CGIL annette all’iniziativa, vi potrebbe essere l’arrière-pensée che, ove il referendum passi il vaglio di ammissibilità, magari il legislatore metta mano ad una riforma, come già avvenuto in passato.
Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945)
di Clara Silvano
Sommario: 1. La vicenda oggetto del contenzioso. 2. L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali 3. L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione. 4. E la condanna da parte del giudice. 5. Conclusioni.
1.La vicenda oggetto del contenzioso
La sentenza qui in esame presenta spiccati profili di originalità rispetto al tipo di tutela normalmente riconosciuta al soggetto privato nei confronti del silenzio-inadempimento[1] della pubblica amministrazione e alla conseguente natura da riconoscersi all’azione contro il silenzio esperita ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a.[2], ponendosi per entrambi questi aspetti, come si vedrà, in discontinuità rispetto agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti.
Il caso di specie è originato dal ricorso presentato da due Associazioni – la Clientearth Aisbl e la Lega Italiana Protezione Uccelli Lipu Odv[3] - avanti al T.a.r. Lazio per la dichiarazione dell’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio sull’istanza-diffida a provvedere presentata in data 15.06.2022 dalle medesime alla Regione Lazio e, per quanto di competenza, all’Ente Monti Cimini – Riserva Naturale regionale del lago di Vico, avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligo di adozione delle opportune misure volte a evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024 e, in subordine, dell’obbligo di avvio della relativa istruttoria[4].
Tale ricorso si inserisce in un quadro di articolate iniziative, procedimentali e giurisdizionali, portate avanti dalle Associazioni a seguito delle quali è già intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato n. 8897 del 2023[5], che ha accertato l’obbligo della Regione Lazio di esercitare i propri poteri sostituivi, ai sensi dell’art. 152 del d.lgs. n. 152 del 2006, al fine di assicurare l’avvio delle azioni preventive e correttive per contrastare il fenomeno della proliferazione delle alghe nel lago di Vico, nonché la sentenza del T.a.r. del Lazio n. 1926 del 2023[6], che ha accertato l’obbligo di provvedere della Regione Lazio in ordine alla designazione di una Zona Vulnerabile ai Nitrati corrispondente all’intero bacino idrografico del lago di Vico, ai sensi della Direttiva 91/676/CEE.
Con sentenza del 3 febbraio 2023 n. 1925[7], il T.a.r. Lazio rigettava il ricorso in ragione dell’inesistenza di un’inerzia imputabile all’amministrazione, atteso che con la nota di risposta sub. prot. n. 692791 del 13 luglio 2022 la Regione aveva dato conto dell’attività istruttoria e delle valutazioni compiute con specifico riferimento al degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024, escludendone peraltro la eventuale natura soprassessoria[8].
Avverso tale decisione le ricorrenti hanno proposto appello, evidenziando, in primo luogo, come la nota di riscontro regionale si limitasse ad una elencazione esemplificativa delle attività e valutazioni svolte negli anni per il lago di Vico, senza però dare conto delle misure imposte ex paragrafo 6.2 della Direttiva Habitat[9], come trasposto dall’art. 4 comma 1, D.P.R. n. 357 del 1997[10], né di azioni volte a contrastare il fenomeno di degrado in atto degli habitat 3130 e 3140.
In seconda battuta, le ricorrenti hanno impugnato la sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex artt. 39 c.p.a. e 112 c.p.c.[11], in quanto il T.a.r avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di annullamento della nota regionale, presentata in via subordinata, e di valutare se la stessa avesse o meno preso in esame gli elementi di degrado e le misure obbligatorie di cui si invocava l’adempimento. Secondo le appellanti, infatti, anche lì dove il T.a.r. avesse invece ritenuto di rigettare implicitamente la domanda di annullamento[12] presentata in via subordinata dalle ricorrenti, avrebbe errato perché la nota della Regione non contiene alcun riferimento alle misure ex art. 6.2. della Direttiva Habitat.
Prima di analizzare la sentenza del Consiglio di Stato, si ritiene opportuno tracciare i caratteri essenziali dell’azione contro il silenzio della pubblica amministrazione, così come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, per poter cogliere al meglio i profili di novità della pronuncia qui in commento.
2.L’azione contro il silenzio: caratteri essenziali
In seguito all’approvazione del d.lgs. 4 luglio 2010, n. 104, l’azione contro il silenzio si trova oggi disciplinata dall’art. 31 c.p.a. e dall’art. 117 c.p.a che ne specifica il rito[13].
L’art. 31 delimita espressamente l’oggetto del giudizio all’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere violato dall’amministrazione nel caso di specie e alla conseguente condanna a provvedere[14]. Al fine di esperire questa azione, è dunque necessario che sussista un obbligo di provvedere, che l’amministrazione sia rimasta inerte[15], e che il ricorrente abbia interesse a tale azione[16].
Nella generalità dei casi, quando il giudice condanna la p.a. a provvedere, non dispone nulla circa l’esito finale del procedimento da concludere[17]
Una pronuncia maggiormente satisfattiva per il ricorrente può essere ottenuta nei casi in cui il giudice può pronunciarsi sulla pretesa dedotta in giudizio[18], ossia, secondo quanto espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 31, «quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».
Pertanto, il ricorrente potrà modellare il ricorso contro il silenzio sulla base del proprio bisogno di tutela[19], limitandosi a chiedere l’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere dalla amministrazione, con conseguente condanna[20], oppure chiedendo al giudice, una volta valutata la fondatezza della propria pretesa, l’emanazione di quello specifico provvedimento dal quale dipende la soddisfazione dell’interesse finale.
La valutazione in merito alla fondatezza della pretesa del ricorrente va effettuata entro i limiti imposti dall’art. 31, comma 3, c.p.a., la cui interpretazione si rivela, allora, di importanza centrale[21] per comprendere l’attuale ampiezza dell’oggetto del giudizio avverso il silenzio.
A tal proposito, si riscontra in giurisprudenza un’interpretazione estremamente restrittiva degli spazi riconosciuti al giudice per poter sondare la fondatezza della pretesa del ricorrente, con la tipica cautela che caratterizza il sindacato del nostro giudice amministrativo nei confronti dell’azione della pubblica amministrazione[22].
In primo luogo, la giurisprudenza, riprendendo peraltro un orientamento interpretativo già esistente ante codicem[23], ritiene che l’accertamento relativo alla fondatezza della pretesa potrà essere utilmente svolto all’interno del giudizio disciplinato dall’art. 31 c.p.a, unicamente nei casi in cui la fondatezza (o l’infondatezza)[24] sia manifesta[25] e quindi facilmente accertabile anche in un giudizio caratterizzato da un rito accelerato, svolto in camera di consiglio[26].
Oltre alle ragioni legate al rito, il giudice amministrativo opera un deciso self-restraint del proprio sindacato in merito alla verifica della fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di attività vincolata, sia quando richiedono l’accertamento di fatti semplici sia in presenza di fatti complessi[27].
I limiti, già noti, del giudice amministrativo rispetto all’accertamento del fatto nel processo sono acuiti nel caso del giudizio contro il silenzio proprio dalla circostanza per cui è estremamente probabile che l’accertamento dei fatti non sia stato proprio compiuto dall’amministrazione nella preposta fase istruttoria, dal momento che quest’ultima è rimasta, per l’appunto, inerte.
Tale circostanza pone l’ulteriore questione interpretativa volta a definire quali sono gli adempimenti istruttori che il giudice amministrativo ritiene possano essere utilmente e legittimamente eseguiti o completati in sede giudiziaria e quali invece sono qualificati quali “adempimenti istruttori necessari” che possono essere compiuti solo dall’amministrazione.
Dall’analisi della giurisprudenza[28] si può constatare come per il giudice amministrativo gli adempimenti istruttori che non sono stati svolti dall’amministrazione a causa della sua inerzia, siano in realtà tutti “adempimenti istruttori necessari” che la stessa deve svolgere in prima persona. In altri termini la giurisprudenza non opera alcun reale distinguo tra le ipotesi in cui concretamente si tratti di adempimenti istruttori che, per la loro complessità o per caratteristiche peculiari, debbono essere compiuti solo ed esclusivamente dalla amministrazione, da quelli che possono essere svolti in giudizio, nel pieno rispetto della giurisdizione di legittimità.
Ancora si segnala un’ulteriore tendenza della giurisprudenza amministrativa, opportunatamente segnalata dalla dottrina[29], in virtù della quale alla richiesta del privato di vagliare la fondatezza della propria pretesa si oppone l’esistenza di un potere discrezionale dell’amministrazione, fondato su esigenze organizzative o comunque su valori di stampo generalissimo, come, ad esempio, l’esigenza di garantire il servizio nel suo complesso, o l’esigenza di rispettare la corretta modulazione della spesa pubblica[30].
Infine, il giudice amministrativo, a sugello della propria interpretazione restrittiva, invoca il divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati, sancito dall’art. 34, comma 2, c.p.a[31].
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali fin qui analizzati, si evince come l’azione contro il silenzio porti, nei casi di suo accoglimento, ad una condanna dell’amministrazione inerte ad un generico provvedere dalla quale deriva unicamente un obbligo procedimentale e strumentale, consistente nel portare a conclusione il procedimento[32].
Il dictum giudiziale che si intende portare in esecuzione[33] è dotato di un potere conformativo poco incisivo rispetto alla successiva azione della pubblica amministrazione che dovrà attuarlo, la quale è chiamata solo a provvedere entro il nuovo termine assegnatole, senza che dalla sentenza le derivino ulteriori vincoli[34].
Come anticipato, la sentenza qui in esame sembrerebbe offrire ai ricorrenti una tutela maggiormente piena ed effettiva, discostandosi dagli orientamenti giurisprudenziali propri dell’azione contro il silenzio.
Si tratta allora di verificare se effettivamente tale impressione è confermata da un’analisi più puntuale della sentenza e, soprattutto, quali sono le specificità del caso di specie che hanno consentito al giudice di allargare il proprio raggio di azione.
3.L’azione contro il silenzio nel caso di specie: in particolare la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione
Una prima peculiarità del caso qui in esame rispetto alla configurazione classica dell’azione contro il silenzio è rappresentata dal fatto che il silenzio si sarebbe formato su una domanda volta a sollecitare l’esercizio di poteri officiosi riconosciuti alla Regione ai fini della tutela degli habitat naturali e non quindi rispetto all’esercizio di poteri attivabili su istanza di parte.
Con riferimento a questo profilo, la sussistenza di un obbligo di provvedere da parte della Regione nel caso di specie, e soprattutto della sussistenza di un interesse differenziato e qualificato delle due associazioni ricorrenti in relazione all’attivazione dei suddetti poteri, non sono messe in discussione, né dal T.a.r. né dal Consiglio di Stato, accreditando così un’interpretazione estensiva dell’obbligo sancito all’art. 2 della L. 241/90 anche ad ipotesi non specificamente previste dalla legge, nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’obbligo per la pubblica amministrazione di attivarsi e di dare così riscontro all’istanza del privato; ciò avviene tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione[35]. Pur nella varietà delle ipotesi nelle quali il giudice amministrativo riconosce l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere su istanze atipiche[36], l’obbligo di attivarsi per la pubblica amministrazione si concretizza, però, solo quando l’istante si assume portatore di un interesse giuridico differenziato e qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è richiesto l’esercizio del potere amministrativo, come è stato evidentemente giudicato nel caso di specie.
Acclarato, almeno in via implicita, l’esistenza dell’obbligo di provvedere in capo alla Regione Lazio, nel caso di specie la verifica dell’inadempimento da parte dell’amministrazione rispetto all’obbligo di provvedere richiede un’analisi più approfondita da parte del giudice rispetto ai casi di pura inerzia, in quanto, come visto, l’amministrazione competente non è rimasta inerte, ma ha emanato un proprio atto amministrativo[37].
È allora rispetto a tale atto che il Consiglio di Stato è chiamato a verificare se lo stesso, come sostenuto dal giudice di prime cure, costituisca effettivo adempimento degli obblighi previsti dall’art. 6.2. della Direttiva Habitat.
Per inquadrare correttamente quanto previsto da tale articolo, si ricorda che la Direttiva Habitat, in maniera coordinata con la Direttiva Uccelli, si propone di salvaguardare la biodiversità – considerata patrimonio naturale e comune dell’Unione europea, identitario e unificante dei suoi popoli – a fronte delle molteplici ed eterogenee minacce, naturali e sempre più frequentemente antropiche, che minano la conservazione degli habitat e delle specie selvatiche, compresi gli uccelli[38].
Per conseguire tale obiettivo, il legislatore comunitario ha previsto la costituzione di una rete ecologica europea di zone da conservare denominata rete Natura 2000 che comprende al suo interno i Siti di Importanza Comunitaria (SIC)[39],che possono essere designati a livello nazionale quali Zone Speciali di Conservazione (ZSC)[40] e le Zone di Protezione Speciale (ZPS)[41].
Nelle Zone Speciali di Conservazione, qual è l’area relativa al bacino del lago di Vico, gli Stati membri sono tenuti ad adottare apposite misure di conservazione che la normativa distingue in misure proattive, previste dal paragrafo 1[42], e quelle preventive, disciplinate dal paragrafo 2, rilevanti nel caso qui in esame.
Le misure relative al paragrafo 2 – in attuazione del principio di prevenzione[43] – sono volte a evitare, che si realizzi del tutto o che possa proseguire, il “degrado degli habitat” e la significativa “perturbazione delle specie” per i quali i siti sono stati designati e inclusi all’interno della rete Natura 2000.
La Corte di Giustizia, nel definire la natura delle misure opportune che ciascuno Stato membro deve adottare per prevenire o comunque per evitare il peggioramento del degrado di un habitat[44], ha evidenziato come debba trattarsi di un regime giuridico specifico, coerente e completo, in grado di garantire la gestione sostenibile e la protezione efficace dei siti interessati[45].
Inoltre, si tratta di misure che, nel caso di degrado già in atto, devono essere misure “attive” e “anticicliche”, in grado di invertire il processo che, in assenza di tali iniziative, proseguirebbe in maniera irreversibile[46].
Chiarita la portata del paragrafo 2 dell’art. 6 della Direttiva Habitat e degli obblighi sussistenti in capo alle amministrazioni nazionali per realizzare gli obiettivi di suddetta direttiva, in punto di fatto, il Consiglio di Stato evidenzia come, nel caso di specie, sia stata ampiamente documentata in corso di causa l’esistenza di una situazione di degrado dell’ecosistema del lago di Vico, dovuta, in particolare, al fenomeno della c.d. “eutrofizzazione”[47].
Ravvisati quindi, in fatto e in diritto, i presupposti che avrebbero dovuto condurre la Regione Lazio ad adottare le misure imposte dall’art. 6, par. 2, della Direttiva, il Consiglio di Stato ritiene, a differenza del giudice di prime cure, che la Regione sia stata inadempiente rispetto a tale obbligo.
In particolare, il giudice dell’appello ravvisa come le misure adottate dalla Regione Lazio nel caso di specie[48], richiamate nella nota del 13 luglio 2022 n. 692791 e oggetto peraltro di un apposito approfondimento istruttorio in sede giudiziale[49], «riguardano le misure di conservazione, e quindi le disposizione relative alle attività ammesse o vietate ai fini dell’ordinaria gestione del sito e della tutela della biodiversità, per le finalità stabilite dall’articolo 6, paragrafo 1, della Direttiva Habitat, ma non contengono misure ai sensi del paragrafo 6.2., ovvero misure proattive tali da invertire efficacemente il trend attuale, e quindi specificamente indirizzate a prevenire e contrastare il progressivo deterioramento del sito, ovvero ad assicurare il ripristino delle caratteristiche ecologiche esistenti al momento della sua designazione quale sito di importanza comunitaria, in particolare per quanto concerne gli habitat 3140 e 3130»[50].
Accertata la fondatezza nell’an dell’originario ricorso avverso il silenzio-inadempimento della Regione Lazio, il compito del giudice, secondo la classica configurazione dell’azione contro il silenzio richiamata al paragrafo che precede, dovrebbe ritenersi concluso.
Invece, nel caso di specie, il Consiglio di Stato, in maniera innovativa, si interessa espressamente anche dei «contenuti e del quomodo dell’adempimento», con delle conseguenze rilevanti rispetto alla particolare forza del giudicato proprio della sentenza di condanna emessa.
4.E la condanna da parte del giudice
La sentenza di condanna emanata dal Consiglio di Stato nel caso di specie non assume le vesti di una condanna a un generico provvedere, quanto piuttosto una condanna della Regione Lazio e dell’Ente Monte Cimini ad «adottare – per quanto di rispettiva competenza – le “opportune misure” di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat per evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel SIC/ZSC IT6010024».
Questo perché, sebbene il giudice, nella generalità dei casi, non possa «pronunciarsi nel merito della pretesa azionata, essendo tale eventualità limitata ai soli atti vincolati e a quelli in relazione ai quali si sia effettivamente esaurito lo spettro di discrezionalità riconosciuto all’Amministrazione e per i quali, al contempo, non siano necessarie attività istruttorie»[51], nel caso in esame «appare chiara al Collegio l’esistenza dei presupposti dell’obbligo di adottare le misure di cui al paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat».
Il Consiglio di Stato aggiunge poi che, sebbene il contenuto delle misure di prevenzione e di contrasto al degrado degli habitat protetti sia di natura tecnico-discrezionale e pertanto l’individuazione del loro contenuto specifico compete alle amministrazioni competenti a emanare le suddette misure, tale discrezionalità è ridotta dall’interpretazione della Corte di Giustizia rispetto alla portata di queste misure, che, come sopra visto, devono risultare “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.
Nello specifico, «a fronte dell’accertato stato di crescente compromissione ambientale del Lago di Vico, la Regione Lazio è tenuta ad adottare misure attive e non solo conservative, ovvero misure idonee a invertire chiaramente il processo di degrado attraverso un adeguato sistema di protezione, per impedire che la prosecuzione tout court delle attività umane incorso produca ulteriori deterioramenti degli habitat e perturbazioni delle specie di interesse. Solo tali misure “anticicliche” ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, possono ormai migliorare lo stato dell’ecosistema, che nel caso di specie – come si è già detto – non si presenta stabile (il che renderebbe sufficienti le misure conservative del paragrafo 1), ma denota un preciso trend di degrado (il che, si ripete, impone l’attivazione anche delle misure proattive del paragrafo 2)».
Pertanto, oltre a condannare la Regione ad adottare le misure opportune ai sensi dell’art. 6.2. della Direttiva Habitat, il Consiglio di Stato precisa, con efficacia di giudicato[52], come devono essere queste misure nel senso sopra visto.
Il contenuto tecnico specifico delle misure suddette rimane, invece, appannaggio dell’amministrazione e ciò anche tenendo in considerazione la domanda delle ricorrenti, che non «era volta ad imporre alla Regione l’adozione di misure aventi un contenuto determinato, o comunque di specifiche soluzioni tecniche, quanto a stimolarne l’iniziativa, al fine di assicurare l’adozione di “opportune misure” conformi all’articolo 6, paragrafo 2, della Direttiva Habitat, nei sensi dianzi precisati»[53].
In definitiva, la sentenza di condanna assicura una tutela maggiormente effettiva alle ricorrenti, in quanto, in esecuzione del giudicato derivante dalla sentenza suddetta, la Regione Lazio è obbligata non solo ad adottare le misure opportune per contrastare il degrado del Lago di Vico, ma tali misure devono avere le caratteristiche richiamate dalla sentenza e risultare quindi “effettive”, “efficaci”, “adeguate”, con effetti misurabili.
Qualora le ricorrenti ritenessero che le future misure adottate dalla Regione o dal commissario ad acta in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione competente in esecuzione della sentenza suddetta non avessero i requisiti sopra richiesti, potrebbero infatti chiedere l’accertamento della nullità del provvedimento adottato per violazione e/o elusione del giudicato ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. c) del c.p.a. nel più disteso termine di 10 anni previsto per l’actio iudicati[54].
5.Conclusioni
La maggior tutela riconosciuta al privato all’esito del presente giudizio azionato contro il silenzio della pubblica amministrazione rappresenta certamente il frutto del sapiente utilizzo da parte del giudice amministrativo dei propri poteri di cognizione, unitamente a quelli istruttori, rispetto ad una attività dell’amministrazione di natura vincolata.
Se, infatti, si va ad analizzare la norma europea e la sua trasposizione nazionale che disciplina l’obbligo dell’amministrazione competente di emanare le misure opportune ad evitare il degrado di una zona protetta, ci si avvede di come si tratti di una norma costruita come “norma-fatto-effetto”[55], per cui, una volta accertata la sussistenza della situazione di degrado, l’amministrazione è vincolata ad adottare le misure opportune.
Nel caso di specie, come visto, il giudice ritiene dimostrata la situazione di degrado del sito relativo al lago di Vico, dalla quale sorge necessariamente il conseguente obbligo posto in capo alla Regione per interrompere il processo di degrado in atto.
Tuttavia, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, non si è limitato ad accertare lo stato di degrado del sito – peraltro riconosciuto dalla stessa amministrazione regionale in suoi diversi provvedimenti e non contestato in sede giudiziale – ma ha compiuto un sindacato estremamente pregnante rispetto alle misure asseritamente adottate dalla Regione per adempiere a tale obbligo.
In altre parole, il giudizio sul silenzio si è trasformato in un giudizio sull’atto – nello specifico sulla nota della Regione Lazio del 13 luglio 2022, n. 692791 – al fine di verificarne la rispondenza al modello normativo europeo, alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, vincolante per il giudice e, ancora prima, per le amministrazioni dei singoli Stati membri[56].
Si ritiene dunque, in primo luogo, che la maggior incisività del sindacato operato dal giudice derivi proprio dalla circostanza che il giudizio, nel caso qui in esame, non è un “classico” giudizio sul silenzio dell’amministrazione, ma ha al suo centro l’esame di un atto, proponendo così uno schema all’interno del quale il giudice amministrativo si muove con maggior disinvoltura[57].
In secondo luogo, la vincolatezza nell’an, che si traduce nell’obbligo della Regione di adottare le misure opportune ai sensi del paragrafo 6.2. della Direttiva Habitat in presenza di uno stato di degrado, si espande anche al contenuto di queste “misure opportune” che devono avere le caratteristiche enunciate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Infine, in via più generale, è possibile che la maggior tutela riconosciuta al ricorrente nel caso di specie derivi anche dal fatto che il contezioso si è sviluppato in una materia quale quella ambientale in cui gli spazi di tutela riconosciuti, anche proprio grazie all’influenza del diritto europeo[58], sono più ampi.
Per rispondere allora al quesito che ci si è posti nel titolo del presente contributo, in conclusione si può certamente affermare che la sentenza qui in esame si discosta dagli orientamenti giurisprudenziali formatasi in relazione alla tutela contro il silenzio, fornendo ai ricorrenti una tutela maggiormente effettiva.
Il Consiglio di Stato, diversamente dal giudice di primo grado, non si è limitato a verificare se la Regione Lazio avesse provveduto o meno in merito all’istanza-diffida presentata dalle ricorrenti, ma una volta verificato che rispetto a quella istanza vi era stata una risposta da parte dell’amministrazione ha voluto verificarne il contenuto e, soprattutto, la sua rispondenza alla norma, così come interpretata a livello europeo.
Ciò è stato fatto senza alcuna indebita ingerenza nel campo di azione riservato all’amministrazione, dal momento che il contenuto specifico e tecnico delle “misure opportune” che dovranno essere adottate rimane di stretto appannaggio della Regione Lazio.
Si tratterà allora di verificare se gli approdi raggiunti nella pronuncia qui in esame saranno generalizzati anche ad altri casi di giudizio contro il silenzio oppure se la sentenza qui esaminata rimarrà un unicum isolato, frutto delle speciali e specifiche condizioni che hanno potuto condurre il giudice amministrativo ad una pronuncia di tal fatta.
[1] In dottrina è d’obbligo il rimando a F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1963, il quale mette a nudo la natura fattuale del silenzio, quale omissione rispetto al dovere giuridico di emanare il provvedimento, costruendo la sua teoria sul silenzio sulla base del concetto di funzione. Si vedano in particolare pp. 31- 32 nelle quali l’Autore scrive: «È partendo dal concetto di funzione che si può e si deve arrivare alla qualificazione giuridica del silenzio. Questo, considerato come una pausa dell’azione amministrativa, come inerzia della Pubblica Amministrazione mantenuta di fronte allo scopo dell’attuazione dell’interesse pubblico, deve essere inteso come punto di crisi nello sviluppo della funzione amministrativa». La tesi del silenzio come inadempimento rispetto all’obbligo di provvedere incontrò il favore di diversi autori; si veda in particolare F. La Valle, Profili giuridici dell’inerzia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 360; Id., Azione di impugnazione e azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, 159; S. Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1962, I, 34; A.M. Sandulli, Sull’impugnabilità giurisdizionale del silenzio serbato dall’amministrazione sul ricorso straordinario, in Giust. Civ., 1962, II, 179; F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 163 e ss.
[2] A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti dell’azione di condanna, in Dir. proc. amm., 2/2017, 450; C. Guacci, La tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione secondo il codice del processo amministrativo, Torino, 2015.
[3] La legittimazione delle due associazioni a proporre il ricorso non costituisce una questione controversa nel giudizio in esame e si ricava dalla qualificazione delle due associazioni, in particolare che: «La ClientEarth AISBL, quale organizzazione non-profit con sede in Bruxelles avente con finalità di protezione degli ecosistemi, le persone ed il pianeta, nonché la Lega Italiana Protezione Uccelli – Lipu ODV, a sua volta in qualità di associazione ambientale riconosciuta, ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349, mediante decreto del Ministero dell’Ambiente (oggi, della Transizione Ecologica), con scopo di conservazione della biodiversità e promozione della cultura ecologica». In merito alla legittimazione degli enti posti a presidio dei c.d. interessi collettivi si confronti la recente Adunanza Plenaria del 20 febbraio 2020 n. 6. In tale sentenza il Consiglio di Stato, chiamato a definire se «alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore» osserva che: «il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela». Per un meditato commento di questa sentenza si confronti P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 135 e ss.
[4] In merito alla portata di questi obblighi si rimanda al par. 3 del presente contributo.
[5] Cons. St., sez. IV, 12 ottobre 2023, n. 8897.
[6] T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1926.
[7] T.a.r. Lazio, Roma, sez. V, 3 febbraio 2023, n. 1925.
[8] La giurisprudenza ha riconosciuto al privato la legittimazione a impugnare i c.d. atti soprassessori, emanati dall’amministrazione in elusione al proprio dovere di provvedere, mediante il rito contro il silenzio. Si confronti sul punto Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2013, n. 2511, nel quale si compie una corretta distinzione tra atti endoprocedimentali che comportano un arresto del procedimento e atti soprassessori, prima invece accomunati dalla giurisprudenza con riguardo alle modalità di impugnazione. In particolare si sottolinea che: «Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l’ipotesi di azione avverso l’inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell’eventuale fondatezza dell’istanza (già previsti dall’art. 6 bis della legge n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l’azione sul silenzio: e ciò sul presupposto che siffatto atto non costituisca il provvedimento terminativo del procedimento, che l’amministrazione ha l’obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L’atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l’istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell’obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l’attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell’obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. È evidente tuttavia che poiché l’interesse a ricorrere deriva non dall’inerzia assoluta ma dal comportamento soprassessorio, l’azione è ritualmente introdotta attraverso l’impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell’obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell’inerzia. L’impugnazione è cioè strumentale ad una pronuncia che constatata la natura soprassessoria dell’atto e dichiarata la permanenza dell’obbligo di provvedere, condanni l’amministrazione ad emanarlo immediatamente».
[9] Art. 6, par. 2 della c.d. Direttiva Habitat (Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) «Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva».
[10] Art. 4, comma 1, del Decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano assicurano per i proposti siti di importanza comunitaria, le opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie, nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi del presente regolamento».
[11] Sull’operatività di questo principio nel processo amministrativo si confronti V. Domenichelli, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1/2020, 26 e ss.
[12] Sulla differenza tra il vizio di omessa pronuncia e il rigetto implicito della domanda nel processo amministrativo si confronti M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio, in Dir. proc. amm., 2/2020, 347 «La presenza di una pluralità di domande in giudizio comporta innanzitutto che il vizio di omessa pronuncia si possa configurare, oltre che nella forma della trattazione parziale della domanda, anche nella forma più grave dell’omissione della pronuncia su una delle domande proposte, perché tale omissione, pur in assenza di extra petizione, non impedisce di pervenire comunque ad una sentenza cui sia riferibile il vizio. Il silenzio del giudice su una delle domande cumulativamente proposte non integra però l’omessa pronuncia quando la domanda rimasta senza espressa decisione sia da intendere comunque implicitamente decisa, in ragione dei rapporti sussistenti tra la stessa e quella o quelle espressamente decise. In particolare, è implicitamente decisa (nel senso del rigetto) la domanda il cui accoglimento sia precluso dalla decisione assunta in relazione ad un’altra domanda, in ragione dei nessi obiettivi di pregiudizialità-dipendenza, accessorietà, incompatibilità, alternatività tra le stesse».
[13] Esprime biasimo rispetto alla scelta del legislatore di non aver dedicato alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio della pubblica amministrazione una disciplina organica e omogenea, disseminata invece in diversi capi del codice, C. Guacci, La tutela, cit., 62. Per un’analisi della disciplina dell’azione contro il silenzio prima dell’entrata in vigore del c.p.a. si confronti B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione (voce), in Digesto Pubbl., 1999, XIV, 156; S. Mirate, Silenzio della pubblica amministrazione e azione di condanna: riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo nel giudizio ex art. 21 bis della L. 1034/71, in Giur.it., 2001, I, 1993.
[14] Secondo A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 456 «La giurisprudenza pratica attribuisce all’azione contro il silenzio una natura mista e ne afferma la scindibilità concettuale in due distinte domande. La prima è rivolta a ottenere una pronuncia dichiarativa, la quale ha ad oggetto l’accertamento della violazione da parte dell’amministrazione dell’obbligo di definire il procedimento entro il termine prescritto dalla normativa legislativa o regolamentare. La seconda è inquadrabile nelle azioni di condanna ed è diretta a ottenere una pronuncia che impartisca un ordine alla pubblica amministrazione» che, secondo l’Autrice, nella maggior parte dei casi, ha ad oggetto un «ordine a provvedere, quale che sia il contenuto del provvedimento».
[15] Come ribadito in una recentissima sentenza del T.a.r. Napoli (sez. VI, 06 giugno 2024 n. 3587), per giurisprudenza costante «l’azione contro il silenzio-inadempimento ex art. 31 e 117 c.p.a. non è esperibile avverso qualsiasi tipologia di inerzia dell’Amministrazione ma solo quando l’obbligo di provvedere implichi l’esercizio di una potestà autoritativa. La possibilità di contestare davanti al giudice amministrativo il silenzio serbato dall'Amministrazione costituisce, infatti, uno strumento processuale che non determina un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovendosi avere riguardo invece, in ordine al riparto, alla pretesa sostanziale cui si riferisce la dedotta inerzia amministrativa (cfr., tra le altre, Cons. Stato, sent. n. 987 e 860 del 2016; n. 4689 del 2018; Tar Campania, Napoli, sent. n. 3031 del 2018, n. 5999 del 2018, n. 5127 del 2015)».
[16] Su questi profili dell’azione contro il silenzio si confronti S. Franca, L’azione di condanna a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, in P. Cerbo, G. D’Angelo, S. Spuntarelli (a cura di), Amministrare e giudicare. Trasformazioni ordinamentali, 2022, 76 e ss.
[17] N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo. Principi e regole, Napoli, 2024, 275.
[18] Osserva giustamente C. Guacci, La tutela, cit., 155-156, «Cognizione del giudice non è la fondatezza dell’istanza, come originariamente previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990, bensì la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. La modifica non ha una valenza puramente terminologica, conseguenza della decisione del legislatore di voler utilizzare un termine tecnicamente più preciso, ma possiede una portata normativa di ordine sostanziale. Quando si parla di “fondatezza dell’istanza” si fa riferimento alla richiesta formulata all’amministrazione, vale a dire all’istanza che avrebbe dovuto dare corso al procedimento rimasto interrotto. Invece, quando si parla di fondatezza della pretesa dedotta in giudizio si fa riferimento alla domanda processuale e, in particolare, a quella parte dell’istanza rimasta inevasa dall’amministrazione, che il ricorrente ha ritenuto di coltivare in sede giurisdizionale. Il giudice conosce quello che è oggetto della domanda giudiziale e, quindi, conosce l’istanza inoltrata all’amministrazione se e nella misura in cui il ricorso giurisdizionale lo abbia investito della sua cognizione».
[19] Sottolinea questo aspetto A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 471, per la quale la pluralità dei rimedi messi a disposizione dei soggetti lesi dall’azione o dall’inazione della pubblica amministrazione «comporta la libertà per il ricorrente di individuare, tra gli strumenti forniti dal legislatore, quello più acconcio rispetto alla propria specifica esigenza».
[20] Evidenzia A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere. Riflessioni sul processo amministrativo fondato su una pluralità di azioni, in Dir. proc. amm., 1/2018, 201, nota 56, come sia che la decisione del g.a. si sostanzi nella mera declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione a provvedere, sia a fortiori nel caso in cui indichi il contenuto del provvedimento richiesto, ciò che interessa al ricorrente non è la sussistenza di un obbligo a provvedere in quanto tale, ma l’ottenimento (perlomeno) di un provvedimento esplicito, se non (ricorrendone i requisiti) del provvedimento richiesto. In ogni caso, dunque, si riscontrano quei caratteri che permettono di qualificare l’azione in esame come azione di condanna.
[21] Come, infatti, osserva P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del codice del processo amministrativo), in Dir. proc. amm., 2/2013, 391 «Ed è proprio intorno alla possibilità che il giudice si sostituisca (sin dalla fase di cognizione) all’amministrazione, ordinandole di adottare un determinato atto, che si avvolge il nodo problematico più importante e interessante in tema di azione di adempimento nel diritto processuale amministrativo».
[22] Osserva S. Franca, L’azione di condanna, cit., 89 per il quale «i limiti posti dall’art. 31, co. 3, c.pa. si mostrino più funzionali a mantenere consistenti sacche di insindacabilità dell’operato della pubblica amministrazione, piuttosto che preservare, come talvolta argomentato, il principio di divisione dei poteri».
[23] È noto, infatti, che nel momento in cui il giudizio contro il silenzio si trasformò in un giudizio che aveva per oggetto non l’impugnazione di un ipotetico atto fittizio, ma un giudizio sul comportamento inerte della pubblica amministrazione, si crearono all’interno della giurisprudenza due distinti orientamenti in relazione all’oggetto di questo giudizio: all’indirizzo più restrittivo, che riteneva che il giudice dovesse limitarsi ad acclarare l’inosservanza del dovere di provvedere gravante sull’amministrazione, se ne affiancò un altro, per il quale l’oggetto della cognizione del giudice doveva spingersi anche alla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, nei casi di provvedimenti vincolati o a basso contenuto di discrezionalità. Il dibattito si è riproposto in termini identici anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento del rito speciale contro il silenzio, avvenuta per mezzo dell’articolo 2 della legge n. 205/2000 che ha aggiunto l’art. 21-bis alla legge n. 1034/1971, ed è culminato nell’emanazione della sentenza n. 1/2002 da parte dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato In controtendenza rispetto all’ordinamento prevalente, l’Adunanza plenaria accolse l’interpretazione restrittiva, ritenendo che il giudizio disciplinato dall’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 fosse diretto ad accertare se il silenzio violi l’obbligo di adottare un provvedimento esplicito sull’istanza del privato e che il giudice, in nessuna fase del giudizio, si potesse sostituire all’Amministrazione, limitandosi ad accertare se il silenzio fosse o meno illegittimo, e nel caso di accoglimento del ricorso imporre all’amministrazione medesima di provvedere sull'istanza entro il termine assegnato. Approvano il tenore della decisione A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, 227; F. Saitta, Impugnativa del silenzio e motivi di merito, in Foro amm. C.d.S., 2002, 49. Si esprimono criticamente sulla scelta della Plenaria F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e tutela soggettiva, in Dir. proc. amm., 4/2002, 936; E. Sticchi Damiani, La diffida a provvedere nel giudizio avverso il silenzio dell’amministrazione, in Foro amm., T.a.r., 2002, 4217 ss.; Id, L’accertamento della fondatezza dell’istanza nel giudizio sul silenzio, in Foro amm., T.a.r., 2005, 3365 ss., il quale, in quest’ultimo saggio afferma come la pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 1/2002 costituisca un arretramento sul versante della tutela, iscritto in una complessiva logica conservatrice, volta a ribadire la natura attizia e impugnatoria del processo amministrativo; S. Mirate, La natura del giudizio ex art. 21 bis l. 1034/1971: l’Adunanza plenaria limita il sindacato del giudice amministrativo all’illegittimità del silenzio, in Giur.it., 2002, III, 1285.
[24] Nei casi in cui il giudice amministrativo ravvisi la manifesta infondatezza della pretesa, non accerta l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere, ma rigetta semplicemente il ricorso, ritenendo diseconomico obbligare la pubblica amministrazione a provvedere nei casi in cui il privato non avrebbe comunque diritto a ottenere quel bene della vita. Come però giustamente osserva A. Carbone, L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 112, «in tal modo, il giudizio avverso il silenzio, di regola volto a valutare il mero inadempimento dell’autorità amministrativa, si estende alla fondatezza dell’istanza solo “in malam partem”, solo laddove, cioè, ciò sia necessario per negare l’accoglimento del ricorso». Ritiene invece N. Posteraro, Riflessioni a proposito del rito avverso il silenzio inadempimento, in Foro amm., 2017, 802 e ss., che il giudice possa esprimere anche d’ufficio un giudizio sulla fondatezza della pretesa del privato nei casi in cui essa sia manifestamente infondata «in ossequio al principio di economicità e nell’ottica di un corretto bilanciamento interesse pubblico-interesse del privato», purché comunque si pronunci relativamente alla domanda volta a chiedere l’accertamento del silenzio della pubblica amministrazione. L’Autore conferma questa visione in N. Posteraro, L’azione avverso il silenzio-inadempimento, cit., 278.
[25] In verità, anche nei casi in cui la fondatezza della pretesa non sia immediatamente manifesta, sarà comunque possibile per il ricorrente chiedere al giudice di pronunciarsi su questa questione, proponendo contestualmente all’azione contro il silenzio l’azione di adempimento ex art. 34, comma 1, lettera c), che segue i ritmi più distesi del rito ordinario. Osserva giustamente A. Scognamiglio, Rito speciale, cit., 474, «al rito ordinario è del resto sicuramente soggetta l’azione di adempimento quando è proposta contestualmente a quella di annullamento del provvedimento negativo. Alla stessa conclusione si deve giungere quando la medesima è proposta contestualmente all’azione contro il silenzio. Un trattamento processuale differenziato, nelle due ipotesi, risulterebbe del tutto ingiustificato».
[26] L’art. 87 c.p.a., analogamente a quanto stabiliva l’art. 21 bis legge n. 1034/1971, prevede che il giudizio in materia di silenzio deve essere trattato in camera di consiglio. L’intento acceleratorio è percepibile, oltre che dalla scelta di trattare la causa in camera di consiglio, anche dalla disposizione (art. 117, comma 2), che prevede che il ricorso debba essere deciso con sentenza in forma semplificata. Critica questa interpretazione M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 3/2014,717, per la quale «l’introduzione di un rito speciale è divenuta strumento di diminuzione della tutela giurisdizionale: la specialità del rito è stata invocata per giustificare una cognizione limitata del giudice, con un cortocircuito tra accertamento della fondatezza della pretesa e carattere accelerato e semplificato del rito processuale».
[27] L’accertamento del fatto complesso nel processo amministrativo intreccia, inevitabilmente, il tema del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione. A dimostrazione di tale biunivoca corrispondenza, S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015 p. 208, nota 11: «nel giudizio amministrativo il rapporto tra giudice e fatto complesso è stato studiato, essenzialmente, in relazione al
controverso tema del sindacato sulla discrezionalità tecnica».
[28] T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 11 dicembre 2017, n. 12204; Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 736; T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, 16 febbraio 2015, n. 167, in www.giustiziamministrativa.it.
[29] P. Cerbo, L’azione di adempimento nel processo amministrativo e i suoi confini, in Dir. proc. amm., 1/2017, 21.
[30] P. Cerbo, op. ult.cit., 22.
[31] T.a.r.. Campania Napoli Sez. VII, 23 luglio 2018, n. 4892, dove si legge, «Il ricorso avverso il silenzio serbato dall'amministrazione su di un'istanza sulla quale essa ha l'obbligo di provvedere è finalizzato ad ottenere un provvedimento esplicito che elimini lo stato di incertezza ed assicuri al contempo al privato una decisione che investe la fondatezza della sua pretesa, fermo restando tuttavia che al giudice adito non è concesso di sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, dovendo egli limitarsi a valutare la astratta accoglibilità della domanda, senza sostituirsi agli organi dell'amministrazione quanto agli apprezzamenti, alle valutazioni ed alle scelte discrezionali, pronunciando quindi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati». Tuttavia, come puntualmente osservato da G. Corso, Commento all’art. 34, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 340 e A. Carbone, L’azione di adempimento, cit., 201 e ss., tale divieto si riferisce alle domande giudiziali con le quali il privato richiede un’inibitoria sull’esercizio di un potere futuro, oppure con le quali si chiede di condizionare un procedimento non ancora concluso, e mai può essere riferito all’ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione fatta valere tramite l'azione contro il silenzio, dal momento che, in questo caso, si è in presenza di un potere opportunamente sollecitato dal privato che, tuttavia, non è stato esercitato. In termini anche P. Cerbo, Il limite dei poteri amministrativi non ancora esercitati: una riserva di procedimento amministrativo? in Dir. proc. amm., 1/2020, 96.
[32] Cons. Stato, sez. V, 09 ottobre 2018, n. 5794, che rievoca quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 9 giugno 2016, n. 11, la quale ha statuito che dal giudicato «deriva solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell'opera). Utilizzando una distinzione offerta dalla dottrina civilistica, si può dire che dalla sentenze in esame deriva una obbligazione di mezzi (o, comunque, una obbligazione di risultato strumentale), non una obbligazione di risultato finale.", nonché, più ampiamente, "In quel giudizio (sul silenzio - inadempimento), come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l'attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla pubblica amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall’art. 31, 2° comma, cod. proc. amm., operante anche nella vigenza dell’art. 21 bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all'amministrazione nell'esercizio di valutazioni discrezionali».
[33] Con riferimento alle particolarità del giudizio di ottemperanza nelle ipotesi del giudizio contro il silenzio e del ruolo particolare assunto dal commissario ad acta che adotta l’atto al posto dell’amministrazione rimasta inerte, senza ricavare alcun vincolo o indicazione dalla sentenza del giudice, atteggiandosi alla stregua di un organo straordinario dell’amministrazione si confronti M. Ramajoli, Forme e limiti, cit., 742. Tale ricostruzione è stata però rivista dal Consiglio di Stato con l’Adunanza Plenaria 25 maggio 2021, n. 8. In tale pronuncia, ai fini che più interessano, si legge che: «la disciplina normativa, nel definire espressamente, come si è visto, il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo (straordinario)dell’amministrazione. E ciò ricorre anche nei casi in cui il commissario, più che dare seguito a specifici aspetti già definiti dalla pronuncia in un’ottica stricto sensu esecutiva, per le finalità del proprio incarico esercita poteri discrezionali, come nel caso in cui, stante la perdurante inerzia dell’amministrazione, egli debba provvedere sulla istanza del cittadino o dell’impresa, senza che la sentenza abbia determinato il contenuto del potere da esercitare». Con riguardo invece al rapporto tra commissario ad acta e amministrazione soccombente il Consiglio di Stato afferma che: «il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto», specificando che: «gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio». Per un commento alla sentenza si confronti A. Scognamiglio, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in Questa rivista, 16 settembre 2021,
[34] Ciò in verità non è altro che il riflesso dell’inidoneità della sentenza di condanna di definire compiutamente il rapporto tra privato e amministrazione sottoposto alla sua cognizione in presenza di poteri discrezionali (si confronti, ad esempio, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018, 123 e ss. Altra questione si pone quando il giudice, nei limiti previsti dall’art. 31, co. 3, c.p.a. arriva a pronunciarsi sulla fondatezza (o sull’infondatezza) della pretesa. In questa ipotesi, come puntualmente evidenziato da A. Carbone, L’azione di condanna ad un facere, cit., 234, «il giudice adotta una decisione idonea a ̕chiudere̕ definitivamente il potere amministrativo, operando nei suoi confronti come preclusione a porsi in contrasto con la determinazione della pretesa nel senso effettuato dalla sentenza».
[35] Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955; Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318; Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; Cons. Stato., sez. IV, 24 aprile 2012, n. 2468; Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2545; Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182; Cons. Stato, sez. IV, 29 maggio 2015, n. 2688; T.a.r. Roma, Lazio, sez. II, 4 gennaio 2016, n. 43; T.a.r. Salerno, Campania, sez. II, 19 dicembre 2017 n. 1765; Cons. St., sez. VI, 9 gennaio 2020, n. 183.
[36] Per le diverse ipotesi in cui la giurisprudenza rinviene l’obbligo di provvedere in presenza di istanze atipiche si confronti S. Vernile, Il provvedimento amministrativo in forma semplificata, Napoli, 2017, 54 e ss.
[37] Tale circostanza è estremamente rilevante perché consente al giudice di operare un sindacato maggiormente penetrante nel caso di specie. Sottolinea questa circostanza in via generale D. Vaiano, L’azione di adempimento nel processo amministrativo: prime incertezze giurisprudenziali, in Giur. it., 2012, 719, e cioè che «la situazione che si viene a delineare in un’azione di adempimento promossa nei confronti di un diniego espresso che sia già stato adottato dall’amministrazione è completamente diversa rispetto a quella che si presenta all’attenzione del giudice nel caso dell’azione nei riguardi del silenzio-inadempimento, nella quale ultima, non essendovi stata attività dell’amministrazione, non potendosi sindacare la congruità della motivazione apposta al diniego, non essendo intervenuti atti procedimentali in grado di orientare i ragionevoli esiti del procedimento amministrativo, ben si comprende come assai più raramente il giudice amministrativo potrà riscontrare la presenza dei presupposti necessari per pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa».
[38] Per un’analisi complessiva di queste due normative si segnalano A. Porporato, La tutela della fauna, della flora e della biodiversità, in A. Crosetti (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Vol. III, La tutela della natura e del paesaggio, Milano, 2014, pp. 737 ss.; A. Conio, F. Dinelli, Tutela della biodiversità e protezione della natura e del mare, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021.
[39] La ricomprensione di un determinato territorio all’interno di un SIC avviene mediante l’adozione da parte della Commissione Europea della Decisione contenente la lista dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC), elaborata sulla base delle liste nazionali proposte dagli Stati membri.
[40] Si tratta di zone individuate formalmente dagli Stati membri volte al mantenimento e al ripristino di differenti tipi di habitat (selezionati per le loro caratteristiche naturali o per le specie che vi vivono).
[41] Si tratta di territori idonei, per estensione e localizzazione geografica, alla conservazione degli uccelli selvatici e dell’avifauna migratoria, che vengono designate dagli Stati membri sulla base della Direttiva Uccelli.
[42] Art. 6, par. 1 della Direttiva Habitat «Per le zone speciali di conservazione, gli Stati membri stabiliscono le misure di conservazione necessarie che implicano all'occorrenza appropriati piani di gestione specifici o integrati ad altri piani di sviluppo e le opportune misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze
ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all'allegato I e delle specie di cui all'allegato II presenti nei
siti». Secondo la “Guida all’interpretazione dell’art. 6 della direttiva 92/43/CEE (2019/C 33/01)”, elaborata dalla Commissione Europea, il paragrafo 1 dell’art. 6 «prevede misure di conservazione positive, che comportano, ove necessario, piani di gestione, e misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze ecologiche dei tipi di habitat naturali di cui all'allegato I e delle specie di cui all'allegato II presenti nei siti. A
tale proposito, l'articolo 6, paragrafo 1, si distingue dagli altri tre paragrafi dello stesso articolo che
prevedono misure preventive per evitare il degrado, la perturbazione delle specie e conseguenze
significative per i siti di Natura 2000».
[43] Sul principio di prevenzione si confronti F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia
di rifiuti, in Rivista quadrimestrale di diritto dell'ambiente, 2/2011, in particolare pp. 16-26; M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 1-2/2012, 77-78.
[44] Il valore delle statuizioni della Corte in relazione all’interpretazione delle disposizioni del diritto UE è riconosciuto dallo stesso Consiglio di Stato nella sentenza qui in esame, riconoscendo alle stesse «operatività immediata negli ordinamenti interni, vincolando il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita sia in sede di rinvio pregiudiziale che in sede di procedura di infrazione».
[45] Corte giust., sez. II, sentenza dell’11 dicembre 2008, Commissione/Grecia, C-293/07, EU:C:2008:706, punti 26–29; Corte giust., sez. IV, sentenza del 10 giugno 2010, Commissione / Italia, C-491/08, Corte giust., sez. IV, sentenza del 22 settembre 2011, Commissione europea/Regno di Spagna, C-90/10.
[46] Corte giust., sez. IV, sentenza del 24 novembre 2011, Commissione/Spagna, C-404/09, EU:C:2011:768, punto 135; più di recente Corte giust., sez. VI, 22 giugno 2022, Commissione/Repubblica slovacca, C-661/20, punti 98-111.
[47] Secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta di un «fenomeno di arricchimento trofico di laghi, di stagni e, in genere, di corpi idrici a debole ricambio; è dovuto al dilavamento dei fertilizzanti usati nella coltivazione delle terre circostanti o all’inquinamento organico prodotto dalle attività umane o a prodotti di rifiuto industriali. Provoca le cosiddette fioriture del fitoplancton che, abbassando il tasso di ossigeno, rendono l’ambiente inadatto per altre specie (per es., pesci)». Con riferimento al lago di Vico, il Rapporto ISPRA 2020 richiamato nella sentenza aveva evidenziato come le attività di coltivazione (in particolare del nocciolo) hanno comportato un continuo apporto di nutrienti nelle acque del lago, che ha alterato lo stato del corpo idrico, aggravandone l’eutrofizzazione, con conseguente progressivo costante degrado degli habitat tutelati e, in particolare, la contrazione o la scomparsa di molte comunità vegetali.
[48] Si tratta, nello specifico: della D.G.R. n. 162 del 14 aprile 2016 con la quale sono state adottate misure di conservazione specifiche per quanto concerne le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) IT6010023 “Monte Fogliano e Monte Venere” e IT6010024 “Lago di Vico”; della D.G.R. n.612 del 16 dicembre 2011 recente le misure di conservazione da applicarsi nelle Zone di protezione Speciale (ZPS) e nelle Zone Speciali di Conservazione (ZSC) della “Rete Natura 2000”, in sostituzione della D.G.R. 16 maggio 2008 n. 363;; della D.G.R. n. 795 del 23 novembre 2021 recente l’adozione definitiva del “Quadro di azioni prioritarie” (Prioritized Action Framework, PAF) per la programmazione 2021-2027 per la “Rete Natura 2000” nel territorio della Regione Lazio ai sensi dell’articolo 8 della Direttiva 92/43/CEE (c.d. Direttiva Habitat) e dell’art. 3, comma 4, del d.P.R. n. 357 del 1997; della Determinazione Dirigenziale n. G10519 del 4 agosto 2022 relativa al trasferimento d fondi all’Ente Monti Cimini Riserva naturale Lago di Vico finalizzati ad interventi per la salvaguardia ambientale del Lago. Tutti questi provvedimenti sono richiamati nella nota della Regione Lazione del 13 luglio 2022 n. 692791 e nella relazione istruttoria predisposta su richiesta del giudice secondo quanto precisato alla nota che segue.
[49] Con l’ordinanza collegiale n. 8865 dell’11 ottobre 2023 la Sezione aveva disposto incombenti istruttori nei confronti della Regione Lazio e dell’Ente Monti Cimini, consistenti nell’acquisizione di una documentata e dettagliata relazione di chiarimenti concernente le misure eventualmente adottate, o in corso di elaborazione, aventi il fine specifico di contrastare il degrado ambientale del lago di Vico.
[50] Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.1.
[51] Cons. Stato, n. 3945/2024, par. 11.5 che richiama quale autorevole precedente conforme Cons. St., Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, la quale, in relazione al giudizio contro il silenzio precisa che: «In quel giudizio, come è noto, il giudice amministrativo non può sindacare la fondatezza della pretesa e predeterminare il contenuto del provvedimento finale se non nei casi in cui l'attività sia vincolata o si siano comunque esauriti gli spazi di discrezionalità riconosciuti alla Pubblica Amministrazione. Si tratta di una regola, ora chiaramente enunciata dall'art. 31, comma 2, c.p.a., operante anche nella vigenza dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis. Tale limite al potere di cognizione del giudice è, infatti, la naturale conseguenza della natura della giurisdizione amministrativa che non ammette, tranne i casi eccezionali e tassativi di giurisdizione di merito, che il giudice amministrativo possa sostituirsi all'Amministrazione nell'esercizio di valutazioni discrezionali».
[52] Sull’efficacia oggettiva del giudicato e, in particolare, sull’estensione del giudicato oltre il dispositivo della sentenza, si confronti, da ultimo, il lavoro monografico di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, in particolare 232 e ss. Si confronti altresì C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 257 e ss.
[53] Ciò risulta in maniera chiara dalla sentenza di prime cure, ove si legge che il giudizio era volto all’accertamento e alla declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio e alla conseguente condanna della Regione a pronunciarsi sull’istanza presentata entro il termine di 30 giorni, senza la proposizione di una autonoma azione di adempimento ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.a.
[54] Sul punto si confronti G, Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo, cit., 681 e ss.
[55] Con l’opportuna precisazione che l’effetto giuridico non deriva direttamente dalla legge, ma pur sempre dall’esercizio del potere nonostante non sussista possibilità di scelta in ordine al contenuto del provvedimento. In questo senso si confronti F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottant’anni di M.S. Giannini, Milano, 1955, 278 per il quale: «da un lato c’è il potere di figurare (o disegnare) l’effetto, determinando la disciplina (il regolamento) degli interessi; dall’altro c’è il potere di costituire l’effetto, realizzando l’assetto di interessi prefigurato».
[57] A. Squazzoni., L’azione di accertamento con riferimento al silenzio-assenso: amministrare giudicando? Un’analisi della giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 4/2021, 764.
[58] Si ritiene, ad esempio che l’influenza del diritto europeo in materia ambientale abbia indotto il giudice amministrativo a disegnare la legittimazione e l’interesse a ricorrere in modo da garantire una maggiore effettività della tutela giurisdizionale. In merito si rimanda all’analisi di B. Marchetti, Il sistema integrato di tutela, in L. De Lucia, B. Marchetti
(a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Bologna, 2015, 199, che sottolinea come le modifiche ai
Trattati in punto di ampliamento della legittimazione dei privati siano guidate, per l’appunto, dal principio di effettività della tutela.
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