ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Paesaggio, ambiente e transizione ecologica
di Paolo Carpentieri, Consigliere di Stato
Sommario: 1. Premessa. 2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”. 3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”. 4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”. 5. I punti essenziali della distinzione. 6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea. 7. Unificazione o differenziazione delle competenze. 8. Decarbonizzazione e paesaggio. 9. Conclusioni.
Abstract
Sulla premessa della ancora valida – ma non da tutti condivisa – distinzione giuridica tra “ambiente” e “paesaggio”, lo scritto si domanda se l’idea della “transizione ecologica” (oggi inveratasi nella trasformazione del Ministero dell’ambiente, già “dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”, in, per l’appunto, “Ministero della transizione ecologica”) non rischi di “fagocitare”, nell’inseguimento di chimerici obiettivi su scala “globale” di lotta ai gas climalteranti, la funzione (naturalmente “locale”) di tutela del paesaggio, presa nella trappola logica del “pensare globale – agire locale” (lo slogan degli ambientalisti industriali), in forza della quale si sacrifica quied ora, concretamente e attualmente, la bellezza dei paesaggi italiani, in nome di una speranza di riduzione su scala globale - eventuale, indiretta, futura e incerta - dei gas ad effetto serra, e dietro la quale agiscono in realtà molto concreti e potenti interessi economici locali delle imprese del settore (finanziati con lauti incentivi statali, a carico della finanza pubblica e delle bollette dei consumatori).
La conclusione è che – ferma restando l’urgenza della lotta al mutamento climatico, la condivisibilità dell’idea dell’economia circolare[1], etc. – sarebbe auspicabile evitare che questa transizione ecologica finisca per tradursi in un ulteriore pregiudizio per la qualità dei paesaggi italiani e in un ulteriore depauperamento delle risorse ecosistemiche (e non solo alimentari) dell’agricoltura.
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1. Premessa.
Il Green Deal europeo e l'avvio della transizione ecologica, sotto la spinta soprattutto del diritto dell’Unione europea, con la creazione, nel nostro Paese, del nuovo Ministero della transizione ecologica, chiamato a svolgere un ruolo cardine nel piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), riattualizza la distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” e, lungi dal ricucire e ricomporre, allarga il contrasto che oggettivamente divide questo due campi di materia, che esprimono visioni delle cose molto diverse, anche se a tratti complementari.
Vale la pena, dunque, tornare con alcune brevi annotazioni su questo tema, per indagare le ragioni profonde di questa distinzione e per derivarne alcune considerazioni di più attuale interesse.
2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”.
L’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” rispetto a quella di “ambiente”, dopo la Convenzione europea del paesaggio di Firenze del 2000 e dopo il codice di settore del 2004, non richiede (forse) di essere riaffermata, né qui illustrata[2].
Tale autonomia, se può dirsi sostanzialmente acquisita sul piano dogmatico-ricostruttivo, non è tuttavia condivisa e unanimemente accettata sul piano delle conseguenze ordinamentali del quadro distributivo delle competenze.
Essa, inoltre, non è compresa (e viene spesso criticata) dalle professioni non giuridiche che si occupano di territorio, di urbanistica, di paesaggio, che oppongono alle distinzioni giuridiche la comprensione olistica del territorio nelle sue varie componenti e nei suoi diversi aspetti e interessi, che (a loro dire) non possono essere compresi e gestiti se non in modo unitario.
Sennonché è proprio del diritto e della logica giuridica distinguere e separare (de-cidere). Nel diritto il concetto segue il regime giuridico, mentre nelle altre scienze sociali il concetto è frutto della sintesi, che segue l’analisi. In tanto si può introdurre un concetto autonomo, nel diritto, in quanto vi sia un regime giuridico unitario ed omogeneo che ne giustifichi la posizione. Nelle altre scienze sociali che si occupano di paesaggio, invece, è la pluralità dei dati dell’esperienza che conduce a formare, nella sintesi, un concetto, che dunque deriva dalla considerazione unitaria delle interrelazioni tra i diversi approcci e punti di vista. Nel diritto è il bisogno di tutela e sono i modi per il suo soddisfacimento che definiscono gli istituti giuridici. E, per il paesaggio, il bisogno di tutela e i modi per il suo soddisfacimento sono in tutto e per tutto omologhi a quelli che caratterizzano il regime di tutela dei beni culturali.
Non ci si deve meravigliare più di tanto, dunque, del dissidio strisciante tra la visione giuridica del paesaggio e quella degli architetti pianificatori e degli urbanisti. I tecnici vedono le interrelazioni e le connessioni. I giuristi vedono i diversi valori-beni-interessi in conflitto e devono fornire strumenti di decisione per stabilire un criterio di prevalenza (nessun valore è neutro; i valori valgono solo se prevalgono[3]; non ci sono pasti gratis in questo conflitto[4]). Per gli architetti pianificatori e gli urbanisti il territorio è uno e una deve essere la sua disciplina e l’autorità chiamata a farla applicare[5]. Per i giuristi il territorio è sede di una molteplicità di interessi (di usi alternativi) in conflitto tra loro e la sintesi – che pure deve essere trovata – non è sempre facile da definire. La nota tesi delle “tutele parallele degli interessi differenziati”[6] resta valida, anche se va corretta nella formula delle “tutele convergenti degli interessi differenziati”.
Se la nozione lata e onnicomprensiva di “ambiente” (da amb – ire, andare intorno; ciò che ci sta intorno, che ci circonda) può andar bene per le scienze della natura, nella sua eccessiva ampiezza di denotazione essa si rivela inutile per il giurista, che da sempre ne ha cercato utili specificazioni e distinzioni, sin dal fondamentale contributo di Massimo Severo Giannini del 1973, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici[7].
Si osserva in senso contrario che grazie a un’inedita convergenza di scienze umane e scienze naturali che si va delineando in questi ultimi anni, la parola chiave sarebbe, oggi, “interconnessione”. “Antropologi e biologi, genetisti e filosofi riconoscono nel disegno della natura e in quello della storia una potente tendenza all'interconnessione (interconnectedness è la parola-chiave, che - è vero - è diventata di moda, ma con ottime ragioni dato quel che esprime)”[8]. Si ricorda l’idea goethiana della cultura come “seconda natura”[9], per cui “dobbiamo partire dalla cultura, intesa non come somma di inclusioni – ambiente, paesaggio, patrimonio, salute – ma come interconnessione fra questi diversi aspetti”[10]. Si aggiunge che “Ormai salute, economia e cultura scientifico-umanistica sono un tutt’uno sistematico” e che “La verità è nell’holon, che in greco significa «tutto», ovverossia l’ambiente”[11]. Le Encicliche di Papa Francesco, ad esempio, parlano di una ecologia integrale. Tutto vero, niente da obiettare. C’è però il rischio di cadere in tal modo nell’indiscernibile, nell’uno/tutto (“l’uno non è”[12]), ciò che rischia di portare – specialmente quando si tratta di individuare il regime giuridico applicabile – alla confusione, alla notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere[13], a un unico regime giuridico indifferenziato per tutte le cose, ciò che è la negazione dell’utilità dei concetti e degli istituti giuridici.
Si sostiene, da parte di autorevoli Autori, che la separazione delle competenze, soprattutto a livello statale, legata alla distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” (ma anche e soprattutto con riguardo alla materia dell’urbanistica – governo del territorio), sia la causa prima e più grave del fallimento della tutela e della complicazione burocratica che caratterizza negativamente lo svolgimento di tali funzioni[14]. Da più parti si auspica pertanto l’unificazione delle competenze (e, si badi, sia da parte di chi sinceramente si erge a paladino della tutela e ne persegue e rivendica il potenziamento e il miglioramento, sia da parte di chi mira a depotenziare il ruolo della tutela nell’ottica della semplificazione e della sburocratizzazione, spesso intesa come abolizione dei controlli ambientali).
Occorre tuttavia ricordare che la sintesi e la riconduzione sotto un unico centro decisionale di ambiente e di paesaggio è una sintesi che non si fa a somma zero, ma che comporta necessariamente il ridimensionamento o il sacrificio degli uni aspetti rispetto agli altri (o viceversa). Resto pertanto convinto, contro l’opinione dominante, che sia preferibile il modello della differenziazione e del contraddittorio tra gli interessi pubblici in conflitto, per evitare che alcuni di questi interessi (i più deboli politicamente) siano fagogitati da quelli più forti (quelli più vicini alla tecnica e agli interessi industriali della crescita e dello sviluppo). Chi indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale, non si avvede che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica sopraffà e annulla la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone, poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio.
D’altra parte la distinzione – culturale e storica, per certi aspetti, come vedremo, anche epistemologica – che separa “ambiente” e “paesaggio” è testimoniata dallo stesso dibattito sull’esigenza (da taluni avvertita, da altri avversata) di aggiungere la tutela dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione, a fianco alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione[15].
3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”.
È dunque utile (forse) spendere ancora qualche parola sul tema della distinzione tra “paesaggio” e “ambiente”, che non è affatto scontata e, come si è visto, mostra profili problematici.
Vorrei in particolare evidenziare che questa distinzione, come ho sostenuto in un mio recente contributo[16], affonda le sue radici (per così dire) nel jus, ossia in una risalente e ricca tradizione, culturale prima ancora che giuridica, sostanzialmente diversa rispetto a quella da cui è germogliata (più di recente) l’idea della tutela ambientale (e la nozione giuridica di “ambiente”), sicché, anche al di là della lex scripta (oggi nel codice del 2004 e nella Convenzione di Firenze del 2000), l’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” e la sua distinzione da quella di “ambiente” riceve una sua speciale legittimazione “forte” proprio nella diversità e specialità dell’humus storico-culturale da cui si è generata l’una, rispetto all’altra.
Insomma, si tratta a ben vedere di due linee di pensiero e di due tradizioni culturali marcatamente differenti tra loro. Ed è proprio in questa diversità genetica che vanno ricercate le cause dell’attuale assetto giuridico, complicato, forse, più che complesso, della materia, così come le ragioni profonde dei ricorrenti e irrisolti conflitti.
La tutela del paesaggio nasce, in sostanza, da un movimento di idee più antico rispetto a quello, più recente, che sta alla base della tutela dell’ambiente-ecosfera e dell’odierno diritto dell’ambiente. Il paesaggio nasce e vive – pressoché esclusivamente – nell’ambito delle scienze umane e mantiene (nonostante il materialismo storicistico e l’antropo-sociologismo imperanti nella seconda metà del Novecento) un nucleo essenziale estetico[17]. L’ambiente, invece, nasce e vive pressoché esclusivamente nell’ambito delle scienze esatte e della tecnica. Il paesaggio esprime un profilo qualitativo, mentre l’ambiente esprime un punto di vista soprattutto quantitativo. Naturalmente queste affermazioni costituiscono delle generalizzazioni affrettate, qui consapevolmente proposte solo per sintesi e per chiarezza espositiva, poiché le cose sono in realtà molto più complicate e le distinzioni non sono mai così nette e marcate. Così come è vero, alla stessa stregua, che la dicotomia “scienze umane “comprendenti” vs. scienze esatte”, pur essendo superata in ambito epistemologico, rimane tuttora valida euristicamente in ambito giuridico[18] e non è scalfita dalla nota e ricorrente considerazione che la quasi totalità del paesaggio italiano è paesaggio antropico e che la distinzione tra natura e cultura va relativizzata e rivista (poiché, come già osservato, la cultura in Italia è in realtà una “seconda natura” e l’uomo, da quando Prometeo gli ha regalato il fuoco, non ha fatto altro che addomesticare la natura rendendola un ambiente artificiale adatto a sopperire alle sue carenze innate[19], secondo il mito raccontato nel Protagora di Platone)[20].
Per evidenziare questa radice “culturale” della nozione di paesaggio è ricorrente il richiamo – quasi ormai un luogo comune nelle trattazioni della materia – della lettera del Petrarca del 1336 sull’ascesa al Monte Ventoso, che costituirebbe una delle prime attestazioni di una nozione autonoma di “paesaggio”. Altrettanto comune è in tal senso il richiamo degli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena (quello di Guidoriccio da Fogliano, attribuito a Simone Martini, e quelli dell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti)[21].
In realtà l’idea di “paesaggio” affonda le sue radici nel topos, nell’archetipo junghiano del giardino dell’Eden, comune a molte cosmogonie e religioni nel mondo, quale luogo mitico di un’origine di equilibrio e di purezza e nel contempo fine ultimo cui tendono le speranze dell’uomo di redenzione e di raggiungimento di un orizzonte escatologico di pace e di ri-equilibrio, dopo l’alienazione terrena. Un archetipo, si deve notare, che reca in sé un’impronta estetica, insita naturalmente nell’immaginazione mitica e nella contemplazione religiosa. “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”, recita la Bibbia[22]. Ma è un’immagine comune alla più antica mitologia delle civiltà mesopotamiche e a molte religioni orientali[23]. Analoga è l’immagine dei campi elisi della cultura greca, come analogo è l’atteggiamento spirituale sotteso al culto, diffusissimo in tutta l’antichità greca e romana, dei boschi sacri a ninfe o altre divinità, un’idea, un modo di essere dello spirito che ha ricevuto successive elaborazioni poetiche e che si può compendiare sotto il nome riassuntivo del mito dell’Arcadia, che ritroviamo in Esiodo, poi in Virgilio, in Ovidio e in tanti altri poeti dell’antichità e, risalendo nei secoli, fino al suo ritorno rinascimentale[24], nel romanticismo, nello spirito dei viaggiatori del Grand Tour e nelle scuole dei paesaggisti dell’800 (dalla maniera del paesaggio ideale e del “ruinismo” di Claude Lorrain e Nicolas Poussin alla scuola di Barbizon in Francia, da Caspar David Friedrich a Carl Blechen in Germania, da Constable e Turner e dai Preraffaelliti in Inghilterra ai macchiaioli e divisionisti in Italia[25]), fino – guardando alla storia recente italiana - al Bel Paese dell’abate Stoppani, al Touring Club Italia e al CAI[26], o all’iniziativa dei “luoghi del cuore” del FAI (che esprime, in fondo, un’idea estetico-soggettiva di godimento di luoghi capaci di evocare sentimenti, ricordi, sensazioni piacevoli, legata all’elaborazione culturale e alla conoscenza).
Sullo stesso piano di una fruizione estetico-intellettuale si colloca anche un altro filone spirituale che alimenta l’idea di paesaggio, quello della nostalgia per la wilderness, che pure ha rivestito un rilievo di primo piano nello sviluppo dell’idea della tutela paesaggistica[27], in contrappunto all’ideale del giardino governato e conchiuso, un piccolo eden in cui l’uomo può ritrovare la serenità e astrarsi dai traffici vacui del mondo[28].
Il sentimento estetico è dunque essenziale nella nozione di “paesaggio” ed è stato un errore quello dello storicismo materialistico degli ultimi settanta anni, che ha voluto imporre una visione “oggettivante” socio-antropologia del paesaggio e ha preteso di “depurare” la nozione di “paesaggio” dall’elemento estetico, pur così essenziale, tacciato di vieto “idealismo crociano”[29], che pure aveva caratterizzato l’approccio all’ambiente fino a tutta la prima metà del Novecento. Un punto di vista, questo, forse ingiustamente e troppo frettolosamente accantonato nel secondo dopoguerra con l’affermarsi dell’egemonia del punto di vista storico-sociale, di impronta marxiana, che ha condotto anche, parallelamente, all’evoluzione della nozione di “bene culturale”, da “cosa d’arte” alla antropologistica “testimonianza avente valore di civiltà”)[30].
Insisto dunque nella mia critica alla Convenzione di Firenze del 2000, che nega questo dato essenziale e assume una visione socio-antropologica di “paesaggio” per cui tutto il territorio è paesaggio, ossia, come già detto, nulla è paesaggio. Certamente, come ci spiega molto bene sempre Edgar Morin[31], l’estetica generalizzata odierna mescola insieme il bello e il brutto, per cui anche la periferia degradata, a modo suo, ha un pregio estetico (del resto la street art è posta oggi, un po’ assurdamente, al vertice dell’interesse e del canone artistico contemporaneo). Ma una cosa è la democratizzazione del canone estetico e la sua evoluzione, contro ogni pretesa elitaria, ad abbracciare punti di vista più ampi e meglio diversificati, altra e diversa cosa è il rifiuto del punto di vista estetico, che resta invece essenziale e ineliminabile nella nozione di “paesaggio”, anche del paesaggio “identitario” delle periferie degradate e compromesse (che esprimono e rappresentano, a loro modo, una nuova e diversa potenzialità estetica)[32]. Va bene, dunque, il così detto “paesaggio identitario”[33], ma non dobbiamo dimenticare, né sottovalutare il nucleo estetico della nozione.
Questo naturalmente non significa un impossibile ritorno al 1922 o al 1939. L’apporto – fondamentale – dell’antropologia e dello storicismo, con i concetti di “beni culturali-ambientali” della Commissione Franceschini del 1966 e di paesaggio “integrale” come forma del territorio di Alberto Predieri[34] del 1969, restano irrinunciabili e costituiscono un necessario completamento e arricchimento della comprensione della nozione polisemica di “paesaggio”. Per non dire della già più volte richiamata Convenzione europea di Firenze del 2000. Ma – questo è il punto che vorrei sottolineare – questo arricchimento non deve andare a discapito del nucleo essenziale estetico, in senso gnoseologico, del “paesaggio”, altrimenti si rischia di perdere il nocciolo duro della nozione, il suo cuore pulsante, e si apre a inevitabili confusioni (verso l’urbanistica-governo del territorio o la nozione onnicomprensiva di “ambiente”, per l’appunto).
Tornando alla nostra veloce carrellata sullo sviluppo dell’idea di “paesaggio”, dando uno sguardo alla storia del pensiero, vale la pena di ricordare che nell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert il paesaggio, nella voce redatta da Louis Chevalier de Jaucourt, era presentato come un “genere di pittura che rappresenta le campagne e gli oggetti che vi s’incontrano”[35], mentre per Alexander von Humboldt il paesaggio è l’impressione complessiva di un luogo[36].
Anche guardando ai principali paesi esteri, in particolare all’esperienza tedesca, francese, anglosassone e nordamericana, è possibile ricostruire una linea unitaria che, già a partire dal ‘700 e, soprattutto, dall’800, lega la prima sensibilità “ambientale” a un’idea lato sensu “romantica”, a tratti anti-modernista e di critica al macchinismo industriale, incentrata dunque su un’idea di “ritorno alla natura”, di nostalgia per la wilderness e di ricerca del sublime, su un’ideale di conservazione del volto amato della Patria e di tutela della casa (oikos[37]), una sensibilità nella quale la componente estetica della bellezza svolge un ruolo spesso centrale[38].
Si pensi a Goethe, a Humboldt e a Burckhardt in Germania, dove si è sviluppata l’idea dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste, che pone i monumenti della natura sullo stesso piano di quelli della cultura e della storia (idea poi recepita nell’art. 150 della Costituzione di Weimar); si pensi, sempre con riguardo alla Germania, al movimento giovanile dei Wandervogel, a Ernst Rudorff, che coniò il concetto di Heimatschutz, come tutela del paesaggio tedesco[39]. Si pensi, guardando alla Francia, a Victor Hugo[40], alla nostalgia per la natura incontaminata nel Rousseau dell’Emilio e delle Fantasticherie di un passeggiatore solitario[41], ad Antoine Quatremére de Quincy[42], alla filosofia contadina di Gustave Thibon. Si pensi, guardando all’Inghilterra, a Edmund Burke, a John Evelyn, a Gilbert White (fondatore della Selborne Societynel 1885), ai movimenti che condussero alla fondazione nel 1907 del National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty e della Campaign to Protect Rural England del 1926. Si pensi, infine, guardando agli Stati Uniti, a Henry David Thoreau, a John Ruskin, John Muir, John Burroughs e George P. Marsh, a Ralph Waldo Emerson e Theodore Roosevelt[43].
Guardando al profilo giuridico, questa vera e propria “Repubblica europea dello Spirito”[44]espresse un comune sentire che produsse frutti anche sul piano legislativo, come bene ricordato dal Pres. Severini nei contributi citati[45].
Anche l’emersione di un “bisogno” di tutela, nella storia più recente, che data alla fine dell’800 e ai primi del ‘900, appare legato, non solo in Italia, soprattutto a una percezione estetica delle bellezze paesaggistiche, a partire dal momento in cui presero a esser frequentate e amate da una cerchia sempre più ampia di persone, grazie alle prime forme di turismo “di massa” (o, forse, non più solo elitario)[46].
Non è dunque un caso se, sin dalle prime leggi dell’Italia unita sul patrimonio culturale dei primi del Novecento, le misure di tutela dei beni culturali e dei beni paesaggistici si siano conformate entro il medesimo stampo logico-giuridico (che noi oggi chiamiamo della “eccezione del patrimonio culturale”, e che può variamente declinarsi in termini di limiti al diritto di proprietà, di dominio eminente pubblico giustapposto a quello utile privato, oppure, più di recente, nella logica dei così detti “beni comuni”). Le une e le altre misure rispondono, infatti, a un medesimo bisogno di tutela e presentano modalità analoghe di soddisfacimento di tale bisogno. E non è un caso che l’art. 9 della Costituzione parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (e non parla di “ambiente”).
La logica di fondo degli strumenti di tutela a tal fine forgiati è la stessa: rispondere a un bisogno di conservazione di un patrimonio estetico-identitario minacciato di dispersione e di distruzione. È la logica della legge Rava del 1905 sulla tutela della pineta di Ravenna e già il Presidente della Cassazione Mariano D’Amelio[47] aveva chiarito, in un contributo del 1912, come la legge Rosadi del 1909, benché “monca” delle disposizioni sul paesaggio (proposte, ma non approvate per l’opposizione del Senato), fosse in realtà senz’altro applicabile anche al “paesaggio storico” italiano, e ciò proprio in forza della stretta commistione, sul territorio, tra monumenti culturali e naturali, tra cose di interesse storico, artistico e architettonico e cose di interesse paesaggistico[48]. È significativo, d’altra parte che la legge “Croce” 11 giugno 1922, n. 778 fosse intitolata “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico” e avesse ad oggetto non solo “le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale” e le “bellezze panoramiche”, ma anche le cose immobili meritevoli di tutela per la “loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”.
4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”.
Affatto diversa pare essere invece la genesi del concetto giuridico di ambiente e della tutela ambientale.
Il punto di partenza dell’attuale diritto dell’ambiente-ecologia si può forse rinvenire nel famoso rapporto sui limiti dello sviluppo redatto dal Club di Roma (fondato nell'aprile del 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali). Il rapporto, elaborato sulla base della prima riunione, svoltasi a Roma, presso la sede dell'Accademia dei Lincei, venne commissionato al MIT dal Club di Roma e fu pubblicato nel 1972, a cura di Donella Meadows.
Si inaugura in tal modo una linea di pensiero che mostra un approccio soprattutto quantitativo-matematico alle tematiche ambientali, incentrato sul calcolo dei limiti alla crescita (il rapporto era basato sulla simulazione al computer per predire le conseguenze della continua crescita della popolazione sull'ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana)[49].
Ma già nel 1961 era stato fondato il WWF (World Wildlife Fund, Fondo mondiale per la vita selvatica), con la finalità di “bloccare la degradazione dell'ambiente naturale del pianeta e di costruire un futuro in cui l'uomo vivrà in armonia con la natura”, preservando la biodiversità, favorendo la sostenibilità dell'utilizzo delle risorse naturali, promuovendo misure dirette alla riduzione dell'inquinamento e degli sprechi di risorse.
E già il libro del 1962 Silent Spring, di Rachel Carson, comunemente ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista, presentava un approccio che avrebbe voluto essere scientifico e che si concentrava sull’esame degli effetti nocivi degli inquinanti (basandosi su ricerche e analisi scientifiche relative ai danni provocati dal DDT e dai fitofarmaci)[50].
Nel 1971 inizia le sue pubblicazioni la rivista Ecologia fondata e diretta da Virginio Bettini[51]. Nel 1972 venne organizzata a Stoccolma la prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, su iniziativa di Olof Palme, in dialogo con Barry Commoner[52] e un gruppo di scienziati ed ecologisti. È del 1973 la Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, promossa dall’Eni e prodotta dalla società Tecneco[53]. Nel 1979 viene fondata la Lega per l’Ambiente dell’ARCI, che farà proprio lo slogan “pensare globale, agire locale”[54]. Al 1987 risale la presentazione del rapporto Brundtland[55], che introdusse il concetto di “sviluppo sostenibile”, che è divenuto l’architrave del pensiero ambientalista scientifico (concetto non a caso non particolarmente apprezzato dai paesaggisti, che hanno sempre nutrito una profonda diffidenza verso questo termine, profondamente ambiguo, forse un ossimoro, una contraddizione in termini[56]). L’impostazione culturale dell’IPPC (International Panel on Climate Change, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, emanazione dell’ONU) è marcatamente scientifica[57]. Anche un non recente contributo italiano degli anni ’70 del secolo scorso (A. Todisco, Breviario di ecologia, Milano, 1974), si segnala per aver posto (forse per la prima volta in Italia) il tema del bilancio ambientale.
Ma, ben vedere, già l’origine della parola “ecologia” è legata a un contesto squisitamente scientifico. Ernst Haeckel (al quale pare si debba l’introduzione del termine “ecologia” nel 1866), era infatti un importante biologo e scienziato prussiano, che coniò il termine “ecologia” per significare lo studio scientifico della natura in quanto oikos, casa, ambiente degli uomini[58].
Insomma, “La tutela dell’ambiente può essere gestita dagli scienziati che, rilevando e interpretando i risultati delle analisi, individuano le misure da adottare per eliminare le disfunzioni. Esistono degli incaricati di misurare i parametri ambientali dell’acqua, del suolo, dell’aria, nonché di elaborare strategie per mantenersi all’interno di essi. Il territorio è ripartito tra questi enti per l’acqua e il terreno che sono monitorati da scienziati specializzati. Dunque la tutela dell’ambiente è l’obiettivo delle moderne scienze ingegneristiche e naturali”[59]
L’idea scientista e globalista si è poi vieppiù affermata e rafforzata in ambito ambientalista sull’abbrivio della nota teoria di Gaia, il pianeta vivente, attribuita a James Lovelock[60], ma presente già da molto tempo in illustri Autori meno recenti[61].
Anche questa, va sottolineato, è una differenza profonda di approccio, che contribuisce a spiegare molti dei conflitti tra ambiente e paesaggio: l’ambiente pensa globale e agisce locale; il paesaggio pensa locale e agisce localmente, legato alla dimensione territoriale.
La politica europea in materia ambientale nasce su questo tronco culturale e ne costituisce una prima sintesi ed elaborazione giuridica[62]. È nota la centralità della spinta del diritto comunitario per lo sviluppo del diritto dell’ambiente e non è certo questa la sede per una sua trattazione. Si parla in proposito di una “progressiva evoluzione di un vero e proprio “diritto costituzionale europeo dell’ambiente”[63]. Ma non deve dimenticarsi, né sottovalutarsi l’imprinting mercatista del diritto ambientale europeo, nato come standardizzazione dei costi ambientali internalizzati nella produzione (“chi inquina paga”) per scopi di garanzia della concorrenza e del buon funzionamento del mercato comune[64]. Oggi il principio generale contenuto nell’art. 11 del TFUE (ex articolo 6 del TCE, per cui “Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”) è significativamente confermato dall’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali, collocato nel Capo IV, sulla Solidarietà.
Più in generale, nel diritto internazionale la progressiva genesi e formazione del concetto – oggi oramai onnipresente, quasi “infestante” nella sua incontrollata diffusività – di “sviluppo sostenibile”, come è stato acutamente osservato[65], è stata fondata sui tre pilastri, ambientale, sociale ed economico, lasciando fuori ogni riferimento alla cultura (e, dunque, alla nozione di paesaggio, se e in quanto non ridotta a un sottoinsieme dell’ambiente).
L’approccio soprattutto quantitativo-scientifico del diritto dell’ambiente è rivelato dalla (e racchiuso nella) nozione di inquinamento, centrale nella legislazione di tutela ambientale, oggi contenuta nella lettera i-ter) dell’art. 5 del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006), dove è così definita: “l'introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell'aria, nell'acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell'ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell'ambiente o ad altri suoi legittimi usi”.
La legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente, costituisce l’approdo istituzionale di questo percorso.
5. I punti essenziali della distinzione.
La sopra sunteggiata evoluzione di distinte elaborazioni culturali ci rafforza nella conclusione che il paesaggio è percezione, è elaborazione culturale che l’uomo fa dell’ambiente che lo circonda, e non è mai puro e semplice sostrato fisico-chimico-biologico[66]. L’esaminato retroterra filosofico culturale ci porta a dire che il paesaggio è qualcosa che attiene, per così dire, alla res cogitans, più che alla res extensa, alla semiosfera, più che alla ecosfera, riguardando la comprensione identitaria del contesto, più che la tutela delle matrici ambientali. Il paesaggio si collocherebbe (volendo operare un richiamo alla nota teoria dei tre mondi di Popper[67]), nel “mondo 3” (il mondo dei contenuti oggettivi di pensiero), piuttosto che nel “mondo 1” (il mondo degli oggetti e degli stati fisici). Il senso più profondo della distinzione “paesaggio-ambiente” può essere esplicitato nella differenza di prospettiva tra i punti di vista della prima e della terza persona, per cui l'ambiente costituisce la prospettiva della terza persona - le cose, il mondo fisico che descriviamo in modo oggettivo - mentre il paesaggio rappresenta la prospettiva della prima persona - il significato del territorio per come lo percepiamo in modo soggettivo[68]. Il paesaggio è il significato che io-noi percepiamo nel territorio, per le sue caratteristiche significanti (come bene evidenziato nella stessa definizione data dall’art. 131 del codice di settore). La nozione giuridica di paesaggio nasce, dunque, non (solo) per un atto positivo d’autorità normativa (lex), ma come prodotto della confluenza e della sintesi di diverse tradizioni e nozioni metagiuridiche sul tema e vanta pertanto profonde radici epistemiche e logiche, oltre che storiche (ius).
Esiste, dunque, alla base della distinzione tra paesaggio e ambiente, una diversità sostanziale di orientamento di pensiero: un punto di vita soggettivo (proprio delle scienze dello spirito), e qualitativo, dal lato del paesaggio; un punto di vista oggettivo e quantitativo (proprio delle scienze esatte e della tecnica) dal lato dell’ambiente-ecologia. C’è anche una componente antilluministica e antiscientista nella genesi culturale del concetto di paesaggio[69], che si contrappone al modello illuministico-tecnologico che condurrà poi all’ambientalismo industriale.
Ciò nondimeno – ed è, questo, il retroterra culturale della Convenzione europea del paesaggio del 2000 – la comprensione del paesaggio deve mettere insieme tutti i diversi saperi e punti di vista che concorrono alla sintesi dell'azione di fattori naturali, umani e delle loro interrelazioni che, come recita l’art. 131 del codice di settore (riprendendo la formulazione della Convenzione europea del 2000), contribuiscono a dare la nozione complessa e plurivoca di “paesaggio”[70].
6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
È noto che nell’ultimo scorcio del secolo scorso la Corte costituzionale (dopo avere forgiato, nei decenni precedenti, il concetto della primarietà del valore estetico-culturale, ex art. 9 Cost., come limite alle competenze regionali in materia urbanistica[71]) ha introdotto (nonostante le avvertenze di autorevole Dottrina circa i diversi aspetti giuridici della nozione di ambiente[72]) una nozione unitaria di “ambiente”, comprensiva anche del paesaggio, con l’idea dell’endiadi unitaria, per cui “la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria”[73]. In altre pronunce coeve[74] la Consulta ha poi proposto una nozione di paesaggio più ampia, comprensiva di “ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio”, fino all’affermazione[75] che la tutela del paesaggio va intesa nel senso lato della tutela ecologica e si identifica con la conservazione dell’ambiente. Parimenti orientata nella direzione di una sostanziale unitarietà delle nozioni di ambiente e di paesaggio è l’ulteriore giurisprudenza costituzionale[76] sulla tutela del paesaggio improntata a globalità e integralità.
La Corte costituzionale, dunque, se, da un lato, nel dirimere i conflitti di competenza tra lo Stato e le Regioni, ha introdotto riflessioni e concetti utili alla distinzione (sentenze n. 359 del 1985, n. 151 del 1986, n. 183 del 1987, n. 417 del 1995, n. 262 del 23 luglio 1997), dall’altro lato ha sempre posto l’accento sulla necessaria unitarietà e sintesi di visione (con la sentenza n. 478 del 26 novembre 2002, richiamando le precedenti sentenze n. 85 del 1998 e n. 378 del 2000). Più di recente, a partire dalla sentenza n. 367 del 2007[77], la Corte ha meglio distinto i diversi campi di materia («Sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali»). In plurime sentenze ha altresì qualificato in termini di norme di grande riforma economico-sociale le previsioni del codice in tema di aree vincolate ex lege (art. 142), di co-pianificazione paesaggistica (art. 143), di preminenza gerarchica del piano paesaggistico (art. 145) e di autorizzazione paesaggistica (art. 146).
Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di recente di ammettere la distinzione giuridica tra ambiente – materia nella quale l’Unione ha una sua propria competenza – e paesaggio – materia nella quale, invece, l’Unione è priva di una sua competenza. Con la sentenza della Sez. decima, 6 marzo 2014, nella causa C-206/13, nel dichiararsi "incompetente", perché non attinente con il diritto dell'Unione, sulla questione del possibile conflitto dell’art. 167, comma 4, lett. a), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. e con il principio di proporzionalità, ha respinto la prospettazione del remittente (Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), secondo la quale la nozione di “ambiente”, rilevante ai fini del diritto europeo, includerebbe anche il paesaggio. La Corte UE ha invece ritenuto la materia della tutela del paesaggio sostanzialmente estranea all'ambito di operatività del diritto dell'Unione ("né le disposizioni dei trattati UE e FUE richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano. Gli obiettivi di tali normative e del decreto legislativo n. 42/2004 non sono i medesimi, anche se il paesaggio è uno degli elementi presi in considerazione per valutare l’impatto ambientale di un progetto, ai sensi della direttiva 2011/92, e rientra tra gli elementi presi in considerazione dalle informazioni in materia di ambiente, di cui alla Convenzione di Aarhus, al regolamento n. 1367/2006 e alla direttiva 2003/4")[78].
7. Unificazione o differenziazione delle competenze.
Sul tema – di centrale rilievo - della differenziazione delle competenze mi permetto di rinviare per sintesi a un mio non recente contributo[79] nel quale ho sostenuto la tesi che, nell’ambito del confronto dialettico tra più interessi pubblici coinvolti in un affare amministrativo, il principio di differenziazione di cui all’art. 118 Cost. (che non si appiattisce su quello di adeguatezza, ma presenta una sua propria e autonoma rilevanza) si coniuga con il principio del contraddittorio, enunciato nell’art. 111 Cost. e ormai riferibile anche al procedimento amministrativo (sempre più processualizzato, come processual-procedimento[80]). Con la conseguenza che i “tre diversi aspetti” in cui si declina la nozione lata e onnicomprensiva di ambiente - ossia il paesaggio, l’ambiente/ecosfera e l’urbanistica/governo del territorio - devono avere ciascuno un proprio rappresentante, un soggetto che esprima e dia voce al diverso punto di vista di ciascuno di questi “aspetti” e che sappia difenderlo nel caso, frequente, di conflitto. Questa impostazione si lega poi all’idea, che pure sostengo da anni, che il Comune – ma penso soprattutto ai piccoli Comuni – non è il posto giusto per fare tutela, poiché il principio di prossimità e di sussidiarietà verticale vale solo per l’amministrazione erogatrice di beni e servizi, non anche per l’amministrazione di tutela, che deve mantenere una fisiologica “distanza” dal conflitto politico locale.
Se scorriamo l’indice del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006) vediamo che la gran parte dei settori e degli ambiti materiali in esso ricompresi presentano un’evidente caratterizzazione tecnico-scientifica e non pongono particolari problemi di sovrapposizione diretta e di possibile confusione con il campo materiale proprio del paesaggio. È sufficiente a questo scopo leggere l’art. 1 del così detto “codice ambiente”, che definisce il suo Ambito di applicazione: “Il presente decreto legislativo disciplina . . . le materie seguenti: a) le procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC); b) la difesa del suolo e la lotta alla desertificazione, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche; c) la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti contaminati; d) la tutela dell'aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera; e) la tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente”.
Certamente, è ovvio, tutti gli interventi che si realizzano sul territorio – un depuratore, il movimento delle terre per la bonifica di un sito inquinato, etc. - possono avere una qualche incidenza paesaggistica, ma queste interferenze indirette non alterano la nitida distinzione dei concetti (e, in tesi, delle possibili competenze).
Vi sono, sì, anche alcuni punti di maggiore e più frequente contatto tra “paesaggio” e “ambiente”, che sono costituiti dalla VIA e dalle aree naturali protette. Alla complessità delle relazioni tra ambiente e paesaggio corrisponde l’emersione e la presenza di una pluralità di conflitti.
La stessa, ampia e onnicomprensiva tematica del contenimento del consumo di suolo e del suo uso razionale, che pure potrebbe dare l’occasione di una sintesi virtuosa e di un ritorno all’unità, si presta a due diverse declinazioni, una più “ambientale” – incentrata sull’impermeabilizzazione, il Soil Sailing – l’altra più “paesaggistica” (o, se vogliamo, anche urbanistica) – incentrata sull’uso del suolo, sulla sua occupazione e trasformazione antropica, il Land Take.
8. Decarbonizzazione e paesaggio.
Sicuramente il settore che ha dato luogo a maggiori conflitti tra ambiente e paesaggio e che rende più immediatamente percepibile la diversità di approccio di questi due campi di materia, confinanti, ma distinti, è quello dello sviluppo degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: eolico, fotovoltaico, biomasse, mini-idroelettrico.
Soprattutto l’eolico ha generato forti conflitti e vede normalmente su fronti opposti i difensori del paesaggio (soprattutto del paesaggio appenninico) e i difensori della lotta al mutamento climatico, che oggi si chiama “decarbonizzazione”. Ma questo discorso vale anche per il fotovoltaico, quando, anziché essere realizzato su gray field, su aree industriali, su capannoni aziendali, su aree già impermeabilizzate, aggredisce terreni verdi sottraendoli all’agricoltura e sostituisce ai girasoli o ai campi di grano ettari di pannelli fotovoltaici.
È un conflitto che è stato avvertito sin dall’inizio, da quando sono scattate le norme di incentivo alla realizzazione dei vari obiettivi proclamati in sede europea e internazionale (l’obiettivo del 20-20-20), e che mostra in assoluta evidenza la divaricazione culturale che separa il “pensare globale, agire locale” dell’ambientalismo globalista industriale dalla tradizione di conservazione dei paesaggi, che è alla radice dell’odierna tutela paesaggistica.
Ho personalmente sviluppato queste considerazioni in miei non recentissimi contributi, che però mi sembrano ancora attuali e ai quali mi permetto perciò di rinviare, per non appesantire ulteriormente il discorso[81].
Ricordiamo che il d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 qualifica (art. 12) le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio di tali impianti, quali opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti (previsione già contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, recante Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia), aggiungendo che gli impianti possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, così spianando la strada all’espropriazione per pochi soldi delle aree agricole.
Il punto centrale delle mie precedenti riflessioni si compendiava nella critica – che sembra oggi ancor più valida a attuale - di tre evidenti illogicità: l’illogicità del sistema della negoziazione (a livello europeo) e della definizione (a livello di piani energetici nazionali) a priori e in astratto di quote, di percentuali, di obiettivi quantitativi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili senza una preventiva istruttoria tecnica e verifica sul campo su dove e come realizzare questi impianti; l’illogicità degli incentivi indifferenziati, “ciechi” e “muti” riguardo agli impatti negativi indotti sui territori e concessi al di fuori di ogni logica di pianificazione razionale; l’illogicità di una certa giurisprudenza, che sembrava prendere corso nei primi casi applicativi del decreto legislativo, secondo la quale l’interesse sotteso alla realizzazione del “parco eolico” (o del campo fotovoltaico) fosse non già quello economico imprenditoriale del soggetto privato a realizzare un investimento produttivo, bensì quello “pubblico” di tutela ambientale, con conseguente bilanciamento non tra l’art. 9 e l’art. 41 della Costituzione, ma tra l’art. 9 e la tutela ambientale, soprattutto nella sua declinazione eurounitaria e internazionalistica, capace di dare a tale valore – la lotta al climate change – una forza maggiore ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost.
Questo modo di ragionare incappa in un evidente errore logico, prima ancora che giuridico, poiché pone a raffronto termini (e valori-concetti) evidentemente non comparabili perché collocati su scala diversa: la "speranza", futura, eventuale, incerta e del tutto indiretta, che (un domani) il fotovoltaico o l'eolico possano contribuire alla lotta (globale) ai gas climalteranti, da un lato; dall'altro lato, il danno certo, immediato, reale, attuale al paesaggio, che si realizza qui ed ora.
L’errore logico, dunque, si risolve nella comparazione di fenomeni che si collocano a scale (spaziali e temporali) del tutto diverse e non seriamente comparabili. Proporzionare le valutazioni alla scala corretta di riferimento è un principio che non vale solo per il diritto, ma per tutti i campi della conoscenza umana. Anche nella fisica, in attesa della Grande Teoria unificante (che è di là da venire), coesistono tre teorie diverse (forse tra loro integrabili o forse contraddittorie), che si applicano alle diverse scale quantitative dei fenomeni osservati: la teoria dei quanti per il microcosmo delle particelle subatomiche, la teoria newtoniana (semplice e chiara) per la scala umana, la teoria dello spazio-tempo a quattro dimensioni della relatività generale einsteiniana per il macrocosmo[82]. Ma nessuno si sognerebbe di spiegare il flusso del traffico veicolare su un’autostrada con la teoria dei quanti o con la curvatura spazio-temporale. La nostra giurisprudenza, invece, pretende di bilanciare i concetti-valori-interessi in campo raffrontando il pensare globale della lotta al cambiamento climatico – che si colloca sulla scala futura dell’intero pianeta – con la tutela dei nostri paesaggi italiani (che si colloca alla scala locale e attuale delle specifiche porzioni territoriali interessate dai progetti di trasformazione antropica).
Qui assistiamo – in una maniera davvero chiarissima ed emblematica – allo scontro tra due visioni opposte delle cose: da un lato, l’ambientalismo industriale globalista, che vede all’attacco imprese industriali che, sventolando il vessillo di Kyoto e della lotta al mutamento climatico, perseguono loro immediati e concreti ritorni economici di profitto e mirano a realizzare parchi eolici sull’Appennino e campi di pannelli fotovoltaici nelle pianure; dall’altro lato chi ama e difende la qualità dei paesaggi agrari e montani italiani, insieme alle comunità di heritage territoriali, che faticosamente vorrebbero riscoprire e rivalutare le loro radici culturali, la loro identità, legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri tradizionali, e che puntano a un tipo di sviluppo diverso, più equilibrato, basato sulla filiera eno-gastronomica di eccellenza, sull’agriturismo, sullo sviluppo di modi nuovi di abitare, sulla rivitalizzazione degli antichi borghi, e perciò difendono il contesto paesaggistico che esprime e rispecchia questa cultura tradizionale. È in questi ambiti che si manifesta in tutta la sua evidenza la scivolosità del concetto evanescente e intrinsecamente contraddittorio di “sviluppo sostenibile”. Ed è qui che i valori in campo confliggono, poiché bisognerebbe capire quale “sostenibilità” si intende perseguire, se la sostenibilità di uno sviluppo locale autentico, legato alle comunità di heritage di cui parla la Convenzione di Faro, fondata sulla riscoperta della autentica e profonda identità culturale di quei territori, o di una sostenibilità “globale” che, intanto, qui ed ora, si concretizza nello stravolgimento di una tradizione culturale locale.
Purtroppo si riscontra una scarsa percezione di questi problemi nella giurisprudenza attuale, forse ancora affascinata dall’idea della transizione ecologia e della lotta al climate change. Dalla Corte costituzionale[83], che persiste nel voler difendere il “principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili” e nel negare - contro ogni logica - il potere regionale di razionale pianificazione del territorio mediante la previsione di limiti generali, al Giudice amministrativo[84], che insiste nel pretendere una motivazione rafforzata quando si oppongano valori di tutela paesaggistica alla realizzazione di impianti FER, esigendo “una severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi”, che “non può ridursi all'esame dell'ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ciò in quanto la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici”.
9. Conclusioni.
Ricapitolando brevemente gli snodi principali del ragionamento sin qui svolto, si è osservato in primo luogo che la distinzione – culturale e giuridica – tra “ambiente” e “paesaggio”, pur ormai acquisita nell’opinione prevalente, tuttavia si confronta e si scontra, ancora oggi, con un’opposta visione, che potremmo dire “integrale”, “unitaria”, o “olistica” del territorio, che indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale.
Questa visione però sembra non avvedersi del rischio che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica possa inglobare e annullare la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone (poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, ma anche gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio).
Peraltro, al di là di alcuni segmenti che presentano una evidente sovrapposizione (parchi, VIA), la distinzione tra i due campi di materia appare abbastanza netta e chiara già sul piano epistemologico (la tutela delle matrici ambientali dagli inquinamenti si occupa, come è noto, prevalentemente di quantità fisico-chimiche e dei loro effetti biologici sull’ecosistema da un punto di vista oggettivo; la tutela del paesaggio opera prevalentemente a livello di percezione e di interpretazione da un punto di vista soggettivo).
La distinzione poggia, dunque, sulla natura della logica interna – e dunque sulla natura del tipo di discrezionalità (tecnica) - che connota lo svolgimento delle funzioni di tutela paesaggistica rispetto a quella che caratterizza lo svolgimento delle funzioni di tutela ambientale, inquadrandosi le une in un contesto di logica formale proprio delle scienze comprendenti dello spirito, le altre in un contesto di logica formale proprio delle scienze “esatte” matematizzanti.
Tale diversità della logica interna determina rilevanti conseguenze sul regime giuridico delle decisioni amministrative “paesaggistiche” rispetto a quelle “ambientali”, sia sul piano del tipo di semplificazione possibile (si possono autocertificare i fatti, non le opinioni), sia sul piano della tutela giurisdizionale (in termini di ambito e di tipo di sindacato possibile)
Queste riflessioni non costituiscono un astratto esercizio classificatorio o dogmatico, ma hanno ricadute operative ed effettuali di straordinario rilievo, in particolare oggi, nel momento in cui la politica è chiamata a decidere come articolare e declinare il Green New Deal e la così detta “transizione ecologica” verso la “decarbonizzazione”, se in una logica puramente industrialista e globalista (che vedrebbe le esigenze paesaggistiche soccombere al dilagare dei campi fotovoltaici, dei parchi eolici, delle dighe nei fiumi e nei torrenti, etc.) o in una (più equilibrata) logica di attenzione (locale) alla qualità dei territori, orientata soprattutto nella direzione della manutenzione dei territori, di una rigenerazione delle aree compromesse e degradate delle periferie urbane, della prevenzione del dissesto idrogeologico e del risanamento e recupero dei borghi appenninici nelle aree interne.
È significativo (e allarmante) il fatto che nella copiosa produzione normativa e para-normativa dell’Unione europea sul Green New Deal non siano menzionati neanche una volta il paesaggio e il patrimonio storico e artistico e che l’attenzione sia interamente assorbita dalla linea di pensiero dell’ambientalismo industriale[85]. Ma non ci si può certo meravigliare di questa impostazione, che si pone in perfetta coerenza con la genesi e la storia del diritto comunitario dell’ambiente, che, come detto, è nato come forzoso “ritaglio” nel quadro delle competenze della Comunità in materia di concorrenza e di mercato.
Si ha, in conclusione, la sensazione che la “transizione ecologica” finirà come al solito per risolversi in un grande greenwashing del vecchio refrain della “Crescita&Sviluppo”, con sacrificio ulteriore dei paesaggi del già “Bel Paese”[86].
La questione di fondo, come al solito, è culturale: forse la transizione ecologica “vera” non è quella della così detta green economy, che è totalmente organica e interna alle vecchie logiche del profitto e della crescita del PIL, ma è prima di tutto quella, mentale e culturale, basata su un nuovo modo di pensare e di guardare al mondo, su un nuovo stile di vita, sul recupero del senso del limite e su un profondo ripensamento della scala dei valori, con l’abbandono del consumo fine a se stesso e del falso slogan contradditorio dello “sviluppo sostenibile”, nella ricerca di un equilibrio stabile e duraturo. La vera transizione ecologica è probabilmente quella che porta i giovani a tornare alla terra, non quella che usa la terra per togliere l’agricoltura e mettere i pannelli solari per alimentare il business dell’auto elettrica. Ma questa visione nuova sembra essere completamente al di fuori della portata del comune pensiero politico attuale.
[1] F. de Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in L. Carbone, G. Napolitano e A. Zoppini, La disciplina della gestione dei rifiuti tra ambiente e mercato, Bologna, Il Mulino, 2018, 23 ss. M. Cocconi La regolazione dell’economia circolare. Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2020
[2] La Convenzione europea del paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000, ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, impone, come è noto, agli Stati parte della convenzione (art. 5, lett. a), di “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” e definisce il paesaggio (art 1, lett. a) come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Tale nozione è stata quindi tradotta e recepita dall’art. 131, commi 1 e 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
[3] C. Schmitt, La tirannia dei valori, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2008.
[4] “Non si distribuiscono pasti gratis” è la quarta delle quattro leggi fondamentali dell’ecologia indicate da Berry Commoner (Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano, 1972).
[5] P. Stella Richter, I principi fondamentali del diritto urbanistico, Giuffrè, Milano, 2002; Id., I principi del diritto urbanistico, 2^ ed., Giuffré, Milano, 2006, par. 42 dal titolo “Un territorio, un piano”, 168 ss.
[6] V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 389 e 427 ss.; P. Urbani, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi differenziati, in Regioni, 1986, 665; Id., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell’assetto territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urb., 1990, 609; V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, 2^ ed., Torino 1994, 210 ss.; P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 1/2015, 51 ss. Id., I rapporti tra disciplina urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, vol I, 20 ss.
[7] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, 15 ss. Contrapposta alla tesi gianniniana è quella di A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1985, 33 ss., secondo il quale era necessario pervenire a una nozione unitaria di “ambiente”, nella logica del diritto soggettivo alla salubrità ambientale a livello individuale. Su questi profili si veda, di recente, P. Colasante, La ricerca di una nozione giuridica di ambiente e la complessa individuazione del legislatore competente, in Federalismi.it, 24 giugno 2020.
[8] Così S. Settis, La Carta di Roma. La città del futuro è testa e popolo, Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2020, pagg. 1 e 17.
[9] J. W. Von Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano, 1983 (ristampa 2010), 122 (“Salito a Spoleto, mi sono recato all’acquedotto che fa da ponte tra una montagna e l’altra . . . Una seconda natura, intesa alla pubblica utilità, questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto”). Sul tema cfr. S. Settis, Architettura e democrazia, Einaudi, Torino, 2017, cap. IV, Eine zweite Natur, 97 ss.
[10] Così A. Carandini, La bellezza abbracciata alla «salute», in Il Sole 24 Ore, Domenica, 18 ottobre 2020, XVII, che parla di “una prima e una seconda natura mai da contrapporre ma da bilanciare e ricomporre alla radice” e sottolinea l’esigenza, sempre più avvertita, di recuperare “il senso del contesto e quindi del tutto, composto sia dalle scienze della natura che da quelle della storia: due culture oggi ancora così divise, che trattano ambiente e cultura come universi estranei” (concetti sviluppati dall’Illustre A. in La forza del contesto, Laterza, Laterza, Roma-Bari, 2017).
[11] A. Carandini, La potenza culturale della nostra Italia, Domenica de Il Sole 24 Ore del 28 febbraio 2021, pag. XI. Su queste idee si insiste nel XXV convegno del Fondo ambiente italiano (Fai) del 20 marzo 2021. Il già citato Presidente del Fai, Carandini, ad esempio, afferma che “Il Fai concepisce l’ambiente come un tutto . . . [il Fai è] votato a riequilibrare la storia e la natura, a promuovere la coscienza di luogo tramite racconti e altre concrete azioni riguardo a educazione e pianificazione” e che “C’è una formazione per integrare la cultura della natura e quella del paesaggio, della storia e dell’arte”. Aggiunge (Alberi e colonne meritano davvero uguale attenzione, in Domenica de Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2021, XII) “Insomma, a ciascuno il suo, a seconda della vocazione e della missione, ma tutti uniti per cui, tramite i vari spicchi, possiamo ricomporre l’arancio intero”.
[12] Alain Badiou, L’essere e l’evento, trad. di G. Scibilia, a cura di P. Cesaroni, M. Ferrari e G. Minozzi, Mimesis, Edizioni, Milano – Udine, 2018. Osserva M. Aime (Classificare, separare, escludere, Einaudi, Torino, 2021, 14 e 15) che “Di fatto ogni cultura è un tentativo di conferire un certo ordine alla natura e al mondo che ci sta intorno” e che, con riguardo soprattutto alla mente occidentale (C. Bollas, La mente orientale (Psicoanalisi e Cina), trad. it. di M. P. Nazzaro, Milano, 2011), “Una delle prime operazioni di riordino del mondo è stata la divisione netta tra natura e cultura”.
[13] Ho svolto questa critica sia a proposito della Convenzione europea del paesaggio, sia della Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società: dire che “tutto è paesaggio” – o che tutto è patrimonio culturale – equivale a dire, sul piano giuridico, che nulla è paesaggio (e che nulla è patrimonio culturale). Si vedano P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G. F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007, 135 ss.; Id, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, n. 4/2017, 22 febbraio 2017, al sito http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=33604, e, da ultimo, G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro «sul valore del patrimonio culturale per la società»: politically correct vs. tutela dei beni culturali?, in Federalismi.it, n. 8/2021, 24 marzo 2021.
[14] S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino, 2014, 97; Id., Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2010, 222 ss. (cap. VI, L’Italia si fa in tre: paesaggio, territorio, ambiente). Il Presidente del Tar di Lecce, A. Pasca, un tribunale particolarmente impegnato sulle tematiche paesaggistiche e ambientali, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, in data 20 marzo 2021, ha osservato come “L’inscindibile relazione che lega il paesaggio all’ambiente, nonché le frequenti ipotesi di conflitto degli interessi tra le due succitate materie, conducono ad auspicare una sintesi delle competenze sotto un unico centro decisionale”.
[15]. Si veda da ultimo il disegno di legge costituzionale A.S. 1203 recante Modifica dell'articolo 9 della Costituzione in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, protezione della biodiversità e degli animali, promozione dello sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni, discusso nella 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) del Senato in sede referente congiuntamente ai disegni di legge A.S .83, 212,.1532, 1627, 1632, 938 e 2160 nella seduta del 14 aprile 2021.
[16] P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, 8 giugno 2018, al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/paesaggio-dir-amm_%28Diritto-on-line%29/).
[17] Estetico in senso letterale (dal greco αἴσθησις, “sensazione”, αἰσθάνομαι, “percepire attraverso i sensi”) e in senso gnoseologico [nel senso del trattato Aesthetica del 1750 di Alexander Gottlieb Baumgarten (Lezioni di estetica, Aesthetica edizioni, 2020), cui si deve l’introduzione della “gnoseologia” come teoria della conoscenza (distinta in logica ed estetica), e nel senso dell’“estetica trascendentale” come dottrina della percezione sensibile nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant o del così detto “più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco” (attribuito a Hegel, ma forse di Holderlin o Shelling), datato 1797, secondo il quale “l’idea che unifica tutte le altre, l’idea della bellezza, assumendo il termine nel più alto significato platonico. Io sono ora convinto che l’atto supremo della ragione, in quanto abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che verità e bontà solo nella bellezza sono congiunte”; o nel senso dell’Estetica di Hegel e di Friedrich Schiller (i cui scritti sull’estetica sono stati ora raccolti nel volume L’educazione estetica, Aesthetica edizioni, 2020)]. Una declinazione della nozione di “paesaggio” in chiave soprattutto estetica in R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, Giannini, Napoli, 1973; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, Bulzoni, Roma, 1981.
[18] Resta sottinteso – in quanto ovvio – che la distinzione tra “scienze esatte” e “scienze deboli”, come quella storicistica tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, è una distinzione ormai superata nel dibattito filosofico (si veda, ad esempio, H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004). Essa, tuttavia, presenta ancora un profilo euristicamente fecondo sia ai fini della riflessione sulle diverse matrici storico-culturali del diritto dell’ambiente-cultura (paesaggio) rispetto al diritto dell’ambiente-natura (ambiente-ecosfera), sia ai fini di una migliore comprensione della logica formale interna del sillogismo che viene ad essere costruito nell’esercizio delle funzioni e nelle determinazioni amministrative di tutela ambientale (accertamenti tecnici). Questa impostazione è approfondita in P. Carpentieri, Interesse paesaggistico e procedimenti autorizzativi, in Riv. giur. urb., n. 2 del 2015, e, più di recente, Id., La decisione amministrativa discrezionale. Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale, in Giust.Amm.it, n. 1 - 2020 [6096], 19 gennaio 2020.
[19] L’idea che la minorità fisica e naturale dell’uomo sia stata la condizione necessaria per lo sviluppo adattivo della memoria dell’esperienza e, quindi, della riflessione, fino alla conoscenza e al linguaggio, consentendo all’uomo di creare un ambiente a sua misura, dominando il mondo con la tecnica; è stata sviluppata soprattutto da A. Ghelen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, a cura di V. Rasini, trad. it. di E. Tetamo, Mimesis, Milano, 2016, ma è già in Samuel Pufendorf, 1672, De iure naturae et gentium libri octo, così come in Bacone, in Herder (secondo cui l’uomo supplisce alla mancanza dell’istinto con la riflessione), nonché in Max Sheler, Helmut Plessner, Hans Georg Gadamer
[20] Sul superamento della dicotomia “natura-cultura” si veda il recente contributo di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau, L’istituzione della natura, a cura e con un saggio di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata, 2020. Andy Clark e David Chalmers, The Extendend Mind, in Analysis, vol. LVIII, n. 1, 1998, sostengono che quando le nostre tecnologie si adattano a noi in modo attivo, automatico e continuo, così come noi ci adattiamo a loro, allora la linea che separa lo strumento dal suo utilizzatore diviene incerta. Rifiutano l’identificazione ontologica ed epistemologica tra mentale e cerebrale. Rifiutano l’identificazione tra biologico e naturale da un lato e tra tecnologico e artificiale dall’altro. Tutto questo ha a che vedere anche con il “modello della mente estesa” della più recente scienza della mente, secondo la quale “la mente non è all’interno del cervello, ma si diffonde nel corpo e nell’ambiente” (M. Di Francesco, L’io esteso. Il soggetto tra biologia e cultura, in M. Di Francesco, M. Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano, 2009, 170.
[21] Sulla lettera del Petrarca sull’ascesa al Monte Ventoso cfr. da ultimo A. Vedaschi, R. Grazzi, Il paesaggio e il consumo del territorio: dalla tutela alla valorizzazione, in S. Lo Nardo e A.Vedaschi (a cura di), Consumo del territorio, crisi del paesaggio e finanza locale, Gangemi, Roma 2011, 105-124, nonché H. Küster, Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, 2010, 4. Sui paesaggi storici italiani si veda l’ampia rassegna di Arnold Esch, Viaggio nei paesaggi storici italiani, trad. di Flavia Paoli, Leg Edizioni, Gorizia, 2020 (il paesaggio toscano del ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli nella cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, gli sfondi delle opere del Pollaiolo con la valle dell’Arno, la Crocifissione di Antonello da Messina conservata al Koninkdijk Museum di Anversa, con lo sfondo del paesaggio dello Stretto, etc.).
[22] Genesi, 2, 6, 15 (La sacra Bibbia della CEI, editio princeps, 1971, ristampa 2006, RCS Quotidiani s.p.a., Milano, Antico Testamento, Pentateuco I, parte I, 56). Illuminante sul punto la prolusione tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della prima giornata degli Stati generali del paesaggio, il 26 ottobre 2017, in Roma, intitolata «Pose l’uomo nel giardino per coltivarlo e custodirlo. Paesaggio, spiritualità e cultura». Temi, questi, sviluppati in modo più ampio in G. Ravasi, Il Grande Libro del Creato. Bibbia ed Ecologia, Edizioni San Paolo, 2021.
[23] È noto che l’immagine dell’Eden è presente già nella tradizione sumera del dio Enki, nel poema assiro-babilonese Enuma Elish e nel mito di Gilgamesh e dell'ultimo uomo sopravvissuto al diluvio, Utnapishtim, sul quale si veda di recente R. Calasso, La tavoletta dei Destini, Adelphi, Milano, 2020. Sulla diffusione di questo archetipo in molte religioni orientali cfr. A Graf, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, Loescher, Roma, 1892-1893, ora riedito in versione integrale a cura di C. Allasia e W. Meliga, prefazione di M. Guglielminetti, saggi introduttivi di E. Artifoni e C. Allasia, Bruno Mondadori, Milano, 2002.
[24] Si pensi alla ripresa del mito virgiliano dell’Arcadia come paesaggio spirituale, dal ciclo dei dipinti del Guercino (Et in Arcadia ego) all’Accademia fondata nel 1690 in Roma dal Crescimbeni attorno a Cristina di Svezia (sul movimento poetico letterario nel XVIII sec. si vedano M.L. Doglio, M. Pastore Stocchi, Rime degli Arcadi I-XIV, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020, e AA.VV., Canoni d’Arcadia, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020). Ma si pensi anche all’idea di paesaggio del progetto della “Platonopoli” plotiniana del circolo mediceo riunito nella villa di Careggi, come disegno razionale del territorio secondo schemi ideali superiori. Un ruolo centrale, un file rouge continuo, che lega insieme tutto lo sviluppo storico dell’idea di paesaggio, è costituito dall’idea del giardino, dell’eden, dalla Roma antica (ma dalla Mesopotamia) fino ad oggi.
[25] Si ricordino, tra i pittori di paesaggio tedeschi, oltre a Carl Blechen (Le rocce di Tiberio a Capri, 1828-29), Carl Feuerbach, Hans Thoma, Franz von Lenbah. Sul ruinismo cfr. Alain Schnapp, Une histoire universelle des ruines. De origines aux Lumières, Edition du Seuil, 2021.Tra i Preraffaelliti John Everett Millais, James Tissot, Dante Gabriel Rossetti, George Frederic Watts, John Singer Sargent ed Edward Burne-Jones, Lawrence Alma-Tadema.
[26] L’espressione il “Bel Paese” risale a Dante («del bel paese là dove 'l sì suona», Inferno, canto XXXIII, verso 80) e Petrarca («il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe», Canzoniere, CXLVI, versi 13-14). Su questi profili si vedano i fondamentali contributi chiarificatori di G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, 59 ss., soprattutto 60-61 e nota n. 2, in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Atti del Convegno «Il “paesaggio” di Alberto Predieri. A cinquant’anni dal “Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio», svoltosi a Firenze l’11 maggio 2018, Passigli Editore, Firenze, 2019, nonché Id, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, in Federalismi.it, 27 maggio 2020, rielaborazione della relazione tenuta al 65° Convegno di Studi amministrativi, Dall’urbanistica al governo del territorio: valori culturali, crescita economica, infrastrutture pubbliche e tutela del cittadino, Varenna, 19-20-21 settembre 2019, in corso di pubblicazione anche nei relativi “Atti”. Si veda anche P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Garzanti, Milano, 1992. Illustra bene il rapporto di reciproco influsso tra una certa idea di paesaggio e lo sviluppo di un primo turismo di massa il saggio L’Orco, il Monaco e la Vergine. Eiger, Mömch, Jungfrau e dintorni. Storie dal cuore di ghiaccio d’Europa, di P. Paci, Corbaccio, Milano, 2020, che descrive lo sviluppo del turismo inglese nell’Oberland bernese nell’Ottocento. Sulla nascita, alla fine del Settecento, del culto delle Alpi, con il diffondersi della moda del viaggio a scopi estetici, cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 130.
[27] La nostalgia per la wilderness è spesso nostalgia per una natura più selvaggia, legata a un ideale romantico (Ch, Thacker, The Wilderness Pleases, London-Camberra, New York, 1983). Per H. Küster (Piccola storia del paesaggio, cit., 94) il culto della wilderness non era biologia ma desiderio di un paesaggio “più selvaggio”. Si veda anche R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, 2008.
[28] Sull’interesse di Goethe per i giardini (che partecipò allo sviluppo del parco di Weimar e dell’orto botanico di Jena) cfr. R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), Il Mulino, Bologna, 2020, 278. Sul ruolo centrale che l’estetica del giardino ha rivestito nello sviluppo dell’idea di paesaggio si vedano C. Moore, W. Turnbull jr, W.J. Mitchell, The poetics of gardens, Cambridge (Mass.), London 1988, nonché Culture and nature. International legislative texts referring to the safeguard of natural and cultural heritage, ed. C. Añón Feliú, Firenze 2003, quinto volume dedicato a Giardini e paesaggio. Traggo queste citazioni da F. Zagari, voce Paesaggio, in X Appendice dell’Enciclopedia Italiana, volume secondo, L-Z, Roma, 2020, 249.
[29] L’estetica di Croce coglie dunque un elemento centrale della nozione di “paesaggio”, e questo aspetto andrebbe rivalutato, valorizzando le origini “crociane” della nostra legislazione nella materia, a partire dalla fondamentale legge 11 giugno 1922, n. 778. È noto che per Croce l’estetica è una disciplina filosofica, anzi è uno dei pilastri della filosofia, che coglie uno dei modi della conoscenza, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Autonomia dell’arte orientata alla bellezza nell’autonomia dell’arte, che non ha scopi utilitaristici, concettuali o moralistici, ma ha un carattere contemplativo e disinteressato e viene fuori dalla sintesi a priori tra forma e contenuto: l’arte è, infatti, intuizione pura (B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. Teoria e storia, 1965).
[30] La commissione Franceschini, nella dichiarazione XXXIX della relazione finale, definiva i beni culturali ambientali come “le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività” (F. Franceschini, Relazione della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 119, nonché in Per la salvezza dei beni culturali, Roma, 1967).
[31] E. Morin, op. cit., 27 ss.
[32] Non necessariamente un’estetica del “brutto” (Karl Rosenkranz Estetica del brutto, Aesthetica edizioni, Sesto San Giovanni, Milano, 2020). In Rosenkranz il brutto assume un ruolo di mediazione nella dialettica realizzativa del bello. Si veda, in tema, anche R. Bodei, Le forme del bello, cit., soprattutto 141 ss.
[33] E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati’, in Riv. giur. urb., 2009, Id., Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. e app., 2008, n. 7, 797 ss.
[34] Sul fondamentale contributo di Alberto Predieri (A. Predieri, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, nonché Id., voce Paesaggio in Enc. Dir., vol. XXXI, Milano, 1981, pag. 514.) si veda il già richiamato volume a cura di G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit.
[35] C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, 2007, 35.
[36] H. von Humboldt, Quadri della natura, trad. di G. Melucci, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
[37] Roger Scruton definisce oikophilia l’amore per la casa (Beauty: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford, 2009 - citazione tratta da F. Giubilei, op. cit., 102). Per un esame di queste posizioni cfr. S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012, 153 ss.
[38] R. Scruton, Beauty: A Very Short Introduction, cit; G. Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma, 2006; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, cit.; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, cit.; P. D’Angelo, Filosofia del paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2010; C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Roma, 2005; R. Milani, L’arte del paesaggio, Il Mulino, Bologna, 2001; Id., L’arte della città, Il Mulino, Bologna, 2015; I. Baldriga, Estetica della cittadinanza. Per una nuova educazione civica, Le Monnier, Firenze.
[39] Sul modello tedesco dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste si veda S. Settis., Architettura e democrazia, cit., 31 ss., nonché, da ultimo, anche con riferimento alla legislazione francese, con la consueta profondità e completezza, G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Su Ernst Rudorff (Heimatschutz, Erstdruck, 1897) cfr. C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., 57. Su Humboldt cfr. A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, Luiss Univ. Press, Roma, 2017
[40] Il richiamo a Victor Hugo è tratto da G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit., nota n. 3.
[41] Su questi profili si veda R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), cit., cap. VII, Solitudine e oblio, 211 ss. Sulla nozione di “sublime” nell’evoluzione dell’estetica cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 122 ss.
[42] Essai sur la nature, le but et les moyens de l'imitation dans les beaux-arts, 1823. Il testo del 1815 Considérations morales sur la destination des ouvrages de l'art, ou de l'influence de leur emploi sur le génie et le goût de ceux qui les produisent ou qui les jugent contribuì agli sviluppi del dibattito in Francia intorno alla legittimità delle spoliazioni e della raccolta di beni in Francia, dibattito che è probabilmente alle origini della nascita della nozione di patrimonio culturale, come chiarito da S. Settis, Paesaggio, costituzione, cemento, cit., 88 ss.
[43] A Henry David Thoreau – autore del famoso Walden; or, Life in the Woods, 1854 (Walden. Vita nel bosco, trad. it. di S. Proietti, Donzelli, Roma, 2005) – sembra si debba il topos del paesaggio come “volto amato della patria”. John Muir (1838 – 1914) è il fondatore nel 1892 del Sierra Club, uno dei primi movimenti ambientalisti, ed è considerato il padre dei primi parchi nazionali degli USA (nel 1903 convinse Theodore Roosevelt ad avviare la costituzione dei parchi nazionali, Yosemite Park e Sequoia Park, lungo i quali ancora oggi c’è il Muir Trail, fino alla cima del monte Whitney; di Muir è uscita di recente una nuova edizione del libro Andare in montagna è andare a casa, Piano B Edizioni, Prato, 2020). George P. Marsh, primo ambasciatore nel Regno d’Italia degli Stati Uniti, è famoso per il suo Man and Nature, del 1864, tradotto in italiano dallo stesso Autore nel 1870.
[44] Una vera e propria “Repubblica delle Lettere” per il paesaggio, espressione di un unico milieu culturale omogeneo, nel quale il paesaggio è prima di tutto storia e identità culturale (mutuando, si licet, l’idea di una “Repubblica delle Lettere”, che costituì già nel tardo Medioevo e nel Seicento la vera forza di coesione dell’Europa,temi sui quali si veda Marc Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, trad. it. di G. Cillario e M. Scotti, Milano, 2005, Autore scomparso a Parigi il 24 giugno 2020, ricordato da Carlo Ossola su La Domenica del Sole 24 Ore del 28 giugno 2020, che ricorda come Fumaroli parlasse di “diplomazia dello spirito”, come l’insieme delle credenze che fanno di una popolazione una comunità naturale).
[45] G. Severini, soprattutto in L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, cit, dove l’illustre A. richiama l’omogeneità della visione europea della tutela del paesaggio agli inizi del Novecento, espressa in Italia dalla legge sulla pineta di Ravenna n. 411 del 1905 e dalla legge Croce del 1922, in Francia nella legge Beauquier 21 aprile 1906 sui paesaggi pittoreschi, «organisant la protection des sites et monuments naturels de caractère artistique», in Prussia dall’analoga legge 15 luglio 1907 «gegen die Verunstaltung von Ortschaften und landschaftlich hervorragenden Gegenden» (contro le deturpazioni degli abitati e dei paesaggi eccellenti), anticipata da quella del 2 giugno 1902 e da norme degli Stati germanici.
[46] Il punto, di grande rilievo, direi essenziale per la comprensione della nascita e dell’evoluzione della tutela paesaggistica e ambientale in Italia, è ricostruito da G. Severini in Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Si veda anche F. Giubilei, Conservare la natura (Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori), Giubilei Regnani, Roma-Cesena, 2020, 3096-97, che riconnette a questi primi movimenti turistici la spinta verso la costituzione dei primi parchi nazionali, quello dell’Abruzzo (1921), del Circeo (1934) e dello Stelvio (1935). Alla lista deve ovviamente aggiungersi il Parco nazionale del Gran Paradiso, nato nel 1922.
[47] M. D’Amelio, La tutela giuridica del paesaggio, in Giur. It., 1912, 129 ss.
[48] Non può non ricordarsi, infine, in questo discorso, che la legge Rava – Rosadi n. 411 del 16 luglio 1905 era intitolata “per la conservazione della Pineta di Ravenna” e si proponeva, quale suo scopo precipuo, la difesa dei luoghi cantati da Dante nella Divina Commedia [“la divina foresta spessa e viva” del Canto XXVIII del Purgatorio, luogo narrativo poi ripreso anche dal Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti del Decamerone (V, 8)]. Si veda in proposito, il volume di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti, la legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, ed. del Senato della Repubblica, Bologna, 2003, 435 e 436. Sulla legge “Croce” n. 778 del 1922 si veda la bella prolusione di S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio, tenuta il 3 ottobre 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, reperibile al sito http://www.unive.it/media/allegato/infoscari-pdf/Croce-Ca_Foscari1.pdf.
[49] Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update, è stato pubblicato il 1º giugno 2004 dalla Chelsea Green Publishing Company. L’aggiornamento si apre sottolineando che l'impronta ecologica (tecnica introdotta da Mathis Wackernagel e altri nel 1996) ha iniziato a superare intorno al 1980 la capacità di carico della Terra e la supera attualmente del 20%. Cfr. J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013.
[50] N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard Univesity Press, Boston, 1971, introdusse il concetto di bioeconomia (traggo il riferimento da F. Giubilei, op. cit., 71).
[51] Virginio Bettini (1942 – 2020) è stato un politico italiano, esponente dei Verdi Arcobaleno e della Federazione dei Verdi. A lui si deve la prima critica alla “ideologia borghese dell’ecologia”, la “ecologia delle contesse”, ossia a quella tradizione, fondamentalmente elitaria, che vedeva la tutela ambientale come tutela del volto amato della Patria, dei bei paesaggi e del Belpaese.
[52] Barry Commoner, biologo ed ecologo statunitense (New York 1917- 2012), professore di fisiologia vegetale all’Università di Washington, ha applicato un rigoroso approccio scientifico ai problemi ambientali ed ha fondato nel 1966 il Center for biology of natural system di New York.
[53] Sulla Relazione Tecneco e sulla sua impostazione “panurbanistica”, intesa a ricondurre la materia “ambiente” nelle competenze regionali, con vis actractiva sul paesaggio, cfr. S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., 225 ss. ed ivi un’attenta analisi dei testi dei primi statuti regionali del 1970 – 1971 e dei riferimenti in essi contenuti alla tutela dell’ambiente.
[54] In Wikipedia si legge che “La frase originale "Think global, act local" è stata attribuita all’urbanista scozzese e attivista sociale Patrick Geddes. Anche se la frase esatta non appare in Geddes, 1915, libro 'Le città in evoluzione' . . . Il primo uso della frase in un contesto ambientale è contestata. Alcuni dicono che è stato coniato da David Brower, fondatore di Friends of the Earth, come uno slogan per FOE quando è stata fondata nel 1969, anche se altri lo attribuiscono a René Dubos nel 1977. Il "futurista" canadese Frank Feather ha anche presieduto una conferenza chiamata "pensare globalmente, agire localmente" nel 1979 e ha rivendicato la paternità dell'espressione. Altri includono tra i creatori possibili il teologo francese Jacques Ellul”. Sul cortocircuito del fenomeno “glo-cal”, tra globale e locale, cfr. G. Marramao, Kairòs, Apologia del tempo debito, ed. ampliata, Bollati Boringhieri, 2020, Torino, Prefazione alla nuova edizione, 19 (che richiama Marshall McLuhan, che “aveva caratterizzato il «villaggio globale» come contrassegnato da una dinamica ambivalente: di unificazione planetaria e di «decentralizzazione tribale»”).
[55] Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED,) istituita nel 1983, introdusse, nel rapporto «Our common future», l’idea del «sustainable development», con un’impostazione sostanzialmente recepita nel 1989 dall’Assemblea generale dell’ONU.
[56] Ho sostenuto che il concetto di “sviluppo sostenibile” sia un ossimoro in un mio non recente contributo (La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, n. 3/2006, 99 ss.). Apprendo da F. Giubilei, Conservare la natura, cit., 155, che questa considerazione sarebbe stata formulata da Alain de Benoiste e da Serge Latouche, nell’ambito della teoria della decrescita felice. Una critica analoga anche in E. Goldsmith, The Earth Report, Mitchell Bezley, Londra, 1992. Per certi aspetti l’idea di sviluppo sostenibile sembra rievocare echi hegeliani, nel richiamo dei “pilastri” fondamentali della dialettica: contraddizione e sviluppo, storia orientata verso un fine lontano, sacrificio del presente in favore del futuro (R. Bodei, Scomposizioni, cit., 389, il quale osserva anche – ivi, 287 - come l’ideale della Bildung e della metafisica dello sviluppo siano sorti in funzione dell’oltrepassamento dei limiti). Da ultimo E. Comelli, E. Bianchetti, Tocca a noi, Siamo stati il problema, possiamo essere la soluzione, Edizioni Ambiente, 2020, osservano condivisibilmente che al posto del concetto di “sviluppo sostenibile” occorrerebbe parlare di “equilibrio”, poiché quella di “sviluppo sostenibile” è una “definizione che ha fatto il suo tempo e che porta in sé tutta l’ambiguità in cui ci siamo cullati negli ultimi decenni”, e che certamente non può continuare a essere inteso nel senso praticato finora, come “crescita a tutti i costi, fatturato, PIL, remunerazione, ricchezza”.
[57] L’8 agosto 2019 l’IPCC ha pubblicato un nuovo rapporto sul clima, approvato a Ginevra dalle delegazioni di 195 Paesi.
[58] Per Haeckel l’ecologia è “la scienza complessiva delle relazioni di un organismo con l’ambiente circostante” (così riferisce G. Ieranò, Le parole della nostra storia, Marsilio, Venezia, 2020, 188).
[59] H. Küster, op. cit., 102.
[60] J. Lovelock, La rivolta di Gaia, Rizzoli, 2006. Riprende la teoria di Gaia Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, prefazione di Luca Mercalli, trad. di Donatella Caristina, Meltemi, 2020.
[61] Forse una radice di questa teoria è da ricercare in Alexander Von Humboldt, il quale, nella narrazione dei suoi viaggi in America del Sud (Personal Narrative, letto e ammirato da Darwin) sviluppò l’idea che la Terra fosse un unico grande organismo vivente in cui tutto è interconnesso (come evidenziato da A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, cit.). La teoria di Gaia – come, del resto, molti temi ambientalisti di oggi – sembra trovare peraltro illustri antecedenti in Spinoza, Shelling e, forse, in Anassimene di Mileto (546-525 a.C.), filosofo della scuola Ionica, discepolo di Anassimandro, secondo il quale il mondo è un animale gigantesco che respira. La base filosofica migliore del pensiero ambientalista va ricercata nel libro di Hans Jonas Il principio responsabilità, che è del 1979 (H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Torino, 2009). Habitat è la terza persona singolare del verbo Habitare (habitus, da cui abitudine, che ne è il participio passato). La oikos di economia e di ecologia, nella sua radice etimologica che richiama il concetto di “casa”, è in qualche modo alla base sia del paesaggio, sia dell’ambiente-ecologia, solo che per il primo la casa da difendere è questa, dei nostri territori, nei quali noi siamo insediati e attraverso i quali edifichiamo la nostra identità; quella dell’ambiente-ecologia, soprattutto negli ultimi decenni, è invece quella globale e si identifica con il mondo intero, Gaia, il pianeta vivente.
[62] Sulla stretta derivazione delle politiche comunitarie dalle scienze e dalle tecniche ambientali cfr. M. Cecchetti, La Corte costituzionale davanti alle “questioni tecniche” in materia di tutela dell’ambiente, in Federalismi.it. 13 maggio 2020. Più in generale, osserva condivisibilmente l’A. che “che la produzione pubblica del diritto dell’ambiente consiste pressoché sempre – e, soprattutto, nei suoi contenuti più tipici e qualificanti – in un’attività di “normazione tecnica”, ossia nella produzione di “regole tecniche” in senso stretto, ovvero di regole giuridiche elaborate sulla base o in funzione di presupposti e di dati conoscitivi di natura “tecnico-scientifica”, per cui “non ci si può occupare del diritto ambientale se non facendo i conti con le elaborazioni delle c.d. “scienze dure”.
[63] M. Cecchetti, Le politiche ambientali tra diritto sovranazionale e diritto interno, in Federalismi.it, n. 7/2020, 27 marzo 2020.
[64] Si rinvia in proposito alla più diffusa manualistica di diritto dell’ambiente (Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno ed E. Picozza, vol. I, Principi generali; A. Gustapane, Tutela dell’ambiente (dir. interno), in Enc. Dir., Milano 1992, 413 ss.; P. Dell'Anno, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1998; A. Crosetti, R. Ferrara, N. Olivetti Rason, Diritto dell'ambiente, Laterza, Bari, 2002; B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna 2005; F. Fonderico, Ambiente (Dir Amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Giuffré, Milano 2006, 204 ss.; Id., Ambiente (tutela dell’). I) Diritto amministrativo, in Enc. Giur., Agg., XVI, Roma 2008; L. R. Perfetti, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv. giur. ambiente, 2009, 1 ss.; F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in M. Renna e F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, 433 ss.
[65] C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro, Torino, 2018.
[66] La polisemia della nozione (metagiuridica) di paesaggio è, come noto, arricchita da numerosi apporti, provenienti da i più vari e diversificati ambiti culturali. Per una efficace panoramica sull’ampiezza ed eterogeneità della nozione metagiuridica di paesaggio si vedano A. Clementi (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Roma, 2002; L. Scazzosi (a cura di), Politiche e culture del paesaggio (esperienze internazionali a confronto), Roma, s.d., ma 1999; E Turri., Antropologia del paesaggio, Milano, 1974; Id., Semiologia del paesaggio italiano, Milano, 1979; C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., che ripercorre in sintesi i diversi apporti rinvenibili nella storia, a partire dalla pittura murale e dalla cultura dei giardini di età romana fino al Rinascimento italiano, da Ruskin a Mérimée, da von Humboldt a Buckhardt, da Carl Ritter a Ratzel, fino all’idea del territorio come sedimento storico dell’Università di Lipsia del Meitzen; dall’Heimatschutz di Ernst Rudorff alla storiografia anglosassone di Marc Bloch e alla geostoria di Braudel; dagli studi di Vittorio Sereni sul paesaggio agrario fino alla strutturalismo di Biasutti e Gambi; dalla teoria dei sistemi fino all’ermeneutica di Joachim Ritter, Massimo Quaini, Rosario Assunto, etc. Fondamentale è anche il richiamo - 94 e 95 – alla scuola italiana del restauro di Roberto Longhi e Giovanni Urbani, che, sin dalla metà del Novecento, aveva posto l’accento sulla necessità di tutelare il bene culturale nel suo contesto ambientale, tesi ora ripresa da Bruno Zanardi, che propone un Piano nazionale per la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all’ambiente, sulla premessa teorica per cui il detto patrimonio costituisce una componente ambientale antropica – Giovanni Urbani, 1982 – costituente “una totalità indissolubile dalla totalità dell’ambiente”.
[67] K. R. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero, Bologna, 2012.
[68] R. Scruton, Il volto di Dio, Milano 2013, 37, in particolare cap. V, Il volto della terra, 113 ss. Per H. Küster, op. cit., 11, “al paesaggio appartiene sempre anche una dimensione riflessiva”. Küster sottolinea anche il valore metaforico del paesaggio (op. cit. cap. V, Il paesaggio come metafora, 70 ss.).
[69] Uno dei “campioni” dell’anti-illuminismo, Johann Georg Hamann, era contemporaneo e amico di Goethe.
[70] Sul punto sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, cit., e ai contributi contenuti in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit. H. Küster, Piccola storia del paesaggio, cit., 113, osserva che “Paradossalmente, lo studio scientifico del paesaggio ha avuto inizio proprio nel periodo in cui le discipline che avrebbero dovuto collaborare all’analisi di questo tema sono state separate e associate alle facoltà umanistiche e a quelle delle scienze naturali. Questo accadeva nel XIX secolo. Oggi è evidente che la divisione delle scienze in due regni non ha giovato allo studio complessivo del paesaggio. Per legittimare la scienza del paesaggio come disciplina c’è bisogno di saperi che afferiscono a entrambi i campi: la storia, l’estetica e la storia dell’arte, la filosofia, la geografia, la geologia, l’ecologia, la sociologia, l’economia, le scienze agrarie, la pianificazione del territorio e l’architettura paesaggistica”.
[71] Sentenze 1° aprile 1985, n. 94; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 22 luglio 1987, n. 183; 28 luglio 1995, n. 417; 23 luglio 1997 n. 262; 25 ottobre 2000, n. 437 (tutte le pronunce della Corte costituzionale richiamate in questo contributo sono consultabili sul sito ufficiale della Corte o sul sito Consulta on line).
[72] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, cit.
[73] Sentenza 26 novembre 2002, n. 478 (che richiama la precedente n. 378 del 2000).
[74] Sentenze 27 luglio 2000, n. 378, nonché nn. 39 e 153 del 1986 e n. 529 del 1995.
[75] Sentenze 3 ottobre 1990, n. 430 e 11 luglio 1989, n. 391.
[76] Sentenza 20 febbraio 1995 n. 46 che richiama la legge “Galasso” del 1985 e richiama le precedenti sentenze 359 del 1985, 67 del 1992, 269 del 1993.
[77] Seguita da una coerente serie numerosa di pronunce successive: nn. 180 e 232 del 2008; n. 164 del 2009; nn. 101 e 193 del 2010; nn. 235 e 309 del 2011; n. 66 del 2012; nn. 139, 211 e 238 del 2013; nn. 197 e 210 del 2014; nn. 64 e 99 del 2015; nn. 11 e 210 del 2016; n. 103 del 2017.
[78] Per una disamina critica dell’ordinanza di remissione del Tar Sicilia, sopra citata, cfr. P. Carpentieri, Paesaggio e Corti europee (in margine a Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), nella rivista on line Giust.Amm.it (al sito http://www.giustamm.it), 3 maggio 2013.
[79] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 3 del 2007, 71 ss. Per una visione opposta si veda soprattutto P. Stella Richter, da ultimo in Relazione generale al Convegno AIDU 29-30 settembre 2017 (Udine) La perequazione delle disuguaglianze tra paesaggio e centri storici, in Id. (a cura di), Studi del XX Convegno nazionale AIDU, Giuffré, Milano, 2018, 1 ss., nonché in Il principio comunitario di coesione territoriale, in G. De Giorgi Cezzi, P.L. Portaluri (a cura di), La coesione politico-territoriale, in L. Ferrara, D. Sorace (a cura di), A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana – Studi, vol. II, Firenze, 2016, 468.
[80] E. M. Marenghi, Giusto procedimento e processualprocedimento, in Dir. proc. amm., n. 4 del 2008, 961.
[81] P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urbanistica e Appalti, n. 8 del 2005, 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 1 del 2008, 322 ss. La giurisprudenza che ha subito chiamato in causa, contro l’interesse paesaggistico, le finalità di interesse pubblico di riduzione delle emissioni di gas serra in esecuzione del Protocollo di Kyoto è citata nel primo dei due scritti ora citati (Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2005, n. 971; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 4 febbraio 2005, n. 150). Più di recente si veda la sintesi, su questi temi, di M. Santini, Ambiente e paesaggio tra conflitti valoriali ed istituzionali, in Urbanistica e Appalti, n. 3 del 2020, 302 ss.
[82] “Nonostante la nostra ricerca di leggi fisiche universali, i limiti del riduzionismo ci fanno intravedere che a volte il mondo si comporta in maniera molto diversa a scale diverse, e per descriverlo e spiegarlo dobbiamo usare il modello e la teoria appropriati. A esempio, sulla scala dei pianeti, delle stelle e delle galassie, la gravità domina su tutto: controlla la struttura del cosmo. Ma non ha alcun ruolo pratico su scala atomica” (Jim Al-Khalili, Il mondo secondo la fisica, trad. di L. Servidei, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 40).
[83] Corte cost. 3 dicembre 2020, n. 258, nonché sentenze n. 106 del 2020, n. 286 del 2019, n. 148 del 2019, n. 86 del 2019 e n. 177 del 2018.
[84] Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3696 (in tema di eolico); Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2983 (in tema di fotovoltaico, secondo la quale la comparazione non avverrebbe tra tutela del paesaggio “rispetto ad un mero interesse economico, bensì con riferimento all’interesse pubblico alla realizzazione degli impianti FER”).
[85] Pe un’analisi puntuale di questi documenti si veda G. Severini, U. Barelli, Gli atti fondamentali dell’Unione europea su “transizione ecologica” e “ripresa e resilienza”: prime osservazioni, pubblicato nel sito della Giustizia amministrativa, 22 aprile 2021. I sei indicatori ambientali e il principio «non arrecare un danno significativo» enunciati nel regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili non hanno nessun riferimento al paesaggio e al patrimonio storico e artistico. Principi, questi, fatti propri dal regolamento (UE) 2021/241 che “istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”.
[86] È significativo il fatto che il progetto di riforma normativa per la razionalizzazione del consumo di suolo sia praticamente già fallito. Il testo unificato dei disegni di legge recanti Misure per la rigenerazione urbana A.S. n. 1131, 985, 970, 1302, 1943, 198AS n. 1131 è bloccato nelle commissioni riunite 9ª (Agricoltura e produzione agroalimentare) e 13ª (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato. Rigenerazione urbana, Ddl sommerso da critiche e 2mila emendamenti, titola Il Sole 24 Ore del 27 aprile 2021, pag. 9, e riferisce che “il Ddl era stato sommerso da critiche delle imprese (Confindustria, Ance, Assoimmobiliare), della Conferenza delle Regioni e dell'Anci. Critiche anche Inu e Legambiente”. È evidente che la politica non ha nessuna intenzione seria di limitare il consumo di suolo. È al contrario probabile che, dopo il Covid-19, l’idea sia quella di alimentare e di spingere la ripresa e la crescita con la solita espansione dell’edilizia e del consumo di territorio e di paesaggio.
Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio (nota a Cons Stato, Sez. IV, 18 03 2021, n. 2335) di Roberto Fusco
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La natura giuridica del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e la contestabilità dei provvedimenti commissariali. – 3. Il ruolo e i poteri del commissario ad acta nell’ambito del giudizio avverso il silenzio. – 4. Il decisum della sentenza: l’assenza del potere di autotutela della pubblica amministrazione sui provvedimenti commissariali. – 5. La permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
La sentenza in commento[1] si sofferma sul tema dell’annullabilità in autotutela dei provvedimenti adottati dal commissario ad acta nominato, in sostituzione della pubblica amministrazione, nell’ambito del giudizio avverso il silenzio inadempimento. Il potere di autotutela in relazione ai provvedimenti commissariali presuppone plurime questioni tra loro interconnesse riguardanti la figura del commissario, ossia: la sua natura; le relazioni intercorrenti tra il commissario, il giudice che lo nomina e l’ente sostituito; le differenze del suo ruolo nel giudizio di ottemperanza e in quello avverso il silenzio; e, infine, la natura dei provvedimenti commissariali e i relativi strumenti utilizzabili per la loro contestazione.
Si anticipa sin d’ora che il Consiglio di Stato, confermando la propria giurisprudenza prevalente sul punto, ha negato la sussistenza del potere della pubblica amministrazione di incidere in autotutela sugli atti adottati in sua vece dal commissario ad acta, prevedendo che per la loro contestabilità l’amministrazione debba esperire, al pari del privato, il rimedio del reclamo.
Il caso di specie, da cui origina la pronuncia in commento, riguarda l’impugnazione di una sentenza del T.A.R. per il Molise[2] che ha accolto il ricorso avverso il provvedimento dirigenziale con il quale il Comune di Campobasso ha annullato in autotutela il provvedimento di un commissario ad acta[3]. La sentenza di primo grado ha negato all’ente comunale il potere di incidere in autotutela sull’atto commissariale, ritenendo che la relazione intercorrente tra il commissario (nominato nell’ambito di un giudizio avverso il silenzio-inadempimento) e l’ente sostituito abbia carattere inter-soggettivo e non semplicemente inter-organico. Sulla base di tale impostazione sono stati annullati i provvedimenti con i quali l’amministrazione comunale aveva rimosso in autotutela il provvedimento commissariale e l’atto comunale che aveva preannunciato il rigetto dell’istanza di rilascio del titolo edilizio. L’ente comunale ha proposto appello avverso la succitata sentenza, sostenendo che gli atti commissariali emanati sarebbero stati imputabili al Comune e, quindi, ordinariamente annullabili d’ufficio dallo stesso, essendo il potere di autotutela dell’amministrazione un potere “immanente” e non “espropriabile”. Inoltre, sempre secondo l’amministrazione appellante, la procedura di reclamo non sarebbe applicabile al rito avverso il silenzio rifiuto e, in ogni caso, non priverebbe l’amministrazione del suo potere di autotutela.
L’adito Collegio, dopo aver rigettato la richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza avanzata dall’appellante in sede cautelare[4], ha respinto il proposto appello ritenendo fondato il primo motivo di ricorso svolto in prime cure secondo il quale, alla luce del rapporto inter-soggettivo tra il commissario e l’ente sostituito, alla pubblica amministrazione non può essere riconosciuto il potere di autotutela sugli atti commissariali.
2. La natura giuridica del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e la contestabilità dei provvedimenti commissariali.
La nomina del commissario ad acta[5] costituisce la principale modalità attraverso la quale il giudice amministrativo, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, si sostituisce alla pubblica amministrazione per dare attuazione alle sentenze di merito e agli altri provvedimenti ad esse equiparati ogniqualvolta la pubblica amministrazione ometta di darvi esecuzione[6].
L’indagine sulla natura giuridica del commissario nominato in sede di ottemperanza è da sempre stata fondamentale al fine di individuare il regime giuridico dei provvedimenti commissariali[7]. Come icasticamente evidenziato in dottrina, infatti, il commissario ad acta può essere rappresentato come “un punto di sutura e di saldatura tra attività giurisdizionale e attività amministrativa”[8].
Prima dell’adozione del codice del processo amministrativo la dottrina e la giurisprudenza avevano elaborato tre principali teorie circa la natura giuridica del commissario ad acta di nomina giudiziale[9].
Una prima teoria qualifica il commissario come organo ausiliario del giudice. Questa tesi poggia su due fondamentali pronunce della Corte costituzionale[10] e del Consiglio di Stato[11] secondo le quali l’attività sostitutiva del giudice dell’ottemperanza ha natura giurisdizionale e l’attività del commissario è strumentalmente connessa ad essa; gli atti del commissario, in quanto riconducibili all’ufficio giudiziario, devono essere qualificati della stessa natura (giudiziale) e, pertanto, la loro contestazione spetta al giudice dell’ottemperanza che ha l’obbligo di accertarne la rispondenza al giudicato[12].
Una seconda teoria qualifica il commissario come un organo straordinario dell’amministrazione resistente, che deve operare secondo le logiche (e le regole) dell’attività amministrativa, ponendo in essere atti imputabili alla pubblica amministrazione[13]. Da questa impostazione discende che l’impugnazione dei provvedimenti da parte dei privati debba essere effettuata mediante un’autonoma azione annullatoria e non rivolgendosi direttamente (con reclamo) al giudice dell’ottemperanza. Inoltre, l’ente sostituito, non avendo la legittimazione ad impugnare un atto proprio, sarebbe stato privo di tutela nei confronti degli atti commissariali[14], eccetto il potere di autotutela sugli stessi[15].
Infine, occorre dar conto di una terza teoria che qualifica il commissario come un organo misto, ossia un organo che è allo stesso tempo organo ausiliario del giudice dell’ottemperanza (in quanto deputato alla funzione di attuazione del giudicato promanante dal giudice) e organo straordinario dell’amministrazione sostituita (in quanto inserito coattivamente nelle strutture organizzative dei quest’ultima per provvedere in sua vece)[16]. Esso va inteso come un soggetto dalla doppia natura, che da un lato è un delegato (ausiliario) del giudice e opera come suo alter ego e, dall’altro lato, svolge una funzione sostanzialmente amministrativa in sostituzione dell’amministrazione inadempiente[17]. In adesione a questa “bivalenza” della figura del commissario, parte della giurisprudenza ha affermato che il commissario sarebbe organo ausiliario del giudice oppure organo straordinario dell’amministrazione a seconda dell’ampiezza (minore o maggiore) dello spazio che il giudicato lascia alla sua azione: qualora il giudice demandi al commissario il compito generale di sostituirsi alla pubblica amministrazione inadempiente, il commissario dovrebbe considerarsi come organo straordinario della stessa; laddove, invece, il giudice gli attribuisca un compito ben preciso e delimitato, esso dovrà ritenersi come un suo ausiliario[18].
Il codice del processo amministrativo, con gli articoli 21 e 114, ha recepito esplicitamente la tesi (già prevalente) del commissario ad acta quale organo ausiliario del giudice[19]. A riprova di un tanto, dopo l’entrata in vigore del codice, il giudice amministrativo ha confermato in numerose pronunce come il commissario ad acta debba essere considerato un ausiliario del giudice e che lo stesso sia titolare di un potere che trova un fondamento diretto nella pronuncia del giudice dell’ottemperanza[20].
Nonostante tale espressa presa di posizione del codice sulla natura del commissario, non si può dire che l’impianto normativo sia risultato idoneo a sgombrare il campo da tutti i dubbi relativi all’attività compiuta dallo stesso e ai mezzi esperibili per contestare i suoi atti.
Infatti, il codice prevede un duplice regime di rimedi avverso gli atti del commissario a seconda di quale sia il soggetto che intenda impugnarli[21]: qualora siano le parti a voler contestare il provvedimento commissariale è ammesso il reclamo dinanzi al giudice dell’ottemperanza; qualora, invece, si tratti di terzi estranei al giudicato, gli atti commissariali sono impugnabili con il ricorso al giudice amministrativo secondo il rito ordinario[22]. Laddove si fosse imposto anche ai terzi estranei lesi dalle determinazioni commissariali l’obbligo di rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, si sarebbe rischiato di infrangere il principio del (tendenziale) rispetto del doppio grado di giudizio (ove il giudice competente per l’ottemperanza fosse stato il Consiglio di Stato) ma, più ancora, di ledere il loro diritto di difesa, poiché per loro l’attività commissariale è “res inter alios”[23].
È lecito, quindi, chiedersi se l’impugnabilità degli atti del commissario da parte dei terzi estranei al giudicato li trasforma in atti di natura amministrativa, ossia se dalla duplicità di rimedi possa discendere una duplicità di natura giuridica (amministrativa e giudiziale) degli atti commissariali[24].
3. Il ruolo e i poteri del commissario ad acta nell’ambito del giudizio avverso il silenzio.
La questione della natura del commissario ad acta e dei suoi rapporti con il giudice che lo nomina e con l’amministrazione sostituita assume una connotazione diversa con riferimento al commissario nominato in sede di giudizio avverso l’inerzia della pubblica amministrazione[25].
Con la nomina del commissario ad acta nel rito del silenzio, infatti, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza ma piuttosto un’ottemperanza “anomala” o “speciale”, dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dall’attuazione di un provvedimento giudiziale[26].
La giurisprudenza e la dottrina si interrogano se al commissario ad acta nominato nell’ambito del rito avverso il silenzio vadano attribuiti poteri e natura differenti dal commissario dell’ottemperanza o se l’istituto vada inteso in termini di unitarietà nella sua disciplina codicistica che lo definisce come ausiliario del giudice[27].
Secondo alcune pronunce, mentre il commissario ad acta nominato in sede di giudizio di ottemperanza costituisce un organo ausiliario del giudice, diverso sarebbe il caso del commissario nominato nell’ambito del giudizio avverso l’inerzia dell’amministrazione, non avendosi in tal caso un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant'è che il codice del processo amministrativo non rinvia alle norme su tale tipo di giudizio, limitandosi a prevedere la nomina di un commissario ad acta[28]. Seguendo questa impostazione l’attività del commissario nominato nel giudizio sul silenzio non si limiterebbe al completamento e all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma si tradurrebbe in un’attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente, collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima. L’attività del commissario ad acta sarebbe, dunque, qualificabile come sostitutiva rispetto a quella dell’amministrazione, piuttosto che di stretto ausilio al potere esecutivo del giudice[29].
Sul punto, però, c’è da registrare anche una recente posizione contraria del Consiglio di Stato secondo la quale la qualificazione del commissario ad acta come sostituto della pubblica amministrazione non sarebbe sostenibile alla luce dell’art. 117, comma 4, c.p.a. che attribuisce alla cognizione del giudice tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto. Il commissario, pertanto, è costretto a muoversi in un “contesto governato dal giudice”, dovendosi escludere che esso vada a sostituire l’amministrazione[30].
Tale dibattito rileva anche nel caso di specie laddove la qualificazione del commissario come organo sostituto dell’amministrazione è propugnata dall’amministrazione appellante, secondo la quale vi è una distinzione ontologica tra il giudizio di ottemperanza “classico” di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a. e la ottemperanza “atipica” di cui all’art. 117, comma 6, c.p.a. Soltanto nel caso dell’ottemperanza vera e propria il commissario assumerebbe il ruolo di mandatario del giudice, in quanto da quest’ultimo chiamato all’attuazione di un proprio decisum a monte deliberato. Nella diversa ipotesi del giudizio avverso il silenzio inadempimento ex art. 117 c.p.a., invece, l’organo commissariale sarebbe chiamato a pronunziarsi per la prima volta sull’istanza rimasta inevasa dalla pubblica amministrazione, sulla base di un comando giudiziario finalizzato a superarne l’inerzia. Vi sarebbe, perciò, una profonda differenza strutturale tra il ruolo che il commissario riveste nei due tipi di giudizio: ossia, sarebbe ausiliario del giudice nell’ottemperanza classica e organo sostituto all’amministrazione nell’ottemperanza atipica. In quest’ultimo caso gli atti commissariali emanati sarebbero ordinariamente annullabili in autotutela in quanto atti imputabili all’ente comunale e in quanto costituenti l’espressione del primo esercizio del potere amministrativo da parte dell’amministrazione (rectius da parte del commissario per conto dell’amministrazione).
Il Collegio, però, richiamando un proprio recente precedente[31], dichiara di non condividere tale impostazione sostenendo che, qualora il giudice abbia stigmatizzato come illegittimo (rectius antigiuridico) il silenzio-inadempimento serbato dall’amministrazione, esso ben può provvedere, a mezzo del commissario ad acta, alla ponderazione comparativa, anche discrezionale, illegittimamente omessa dall’amministrazione in violazione del generale dovere di concludere il procedimento.
4. Il decisum della sentenza: l’assenza del potere di autotutela della pubblica amministrazione sui provvedimenti commissariali.
La possibilità o meno per l’amministrazione di agire in autotutela sugli atti commissariali è una questione particolarmente attuale, soprattutto con riferimento al giudizio avverso il silenzio dove il commissario ad acta si trova a dover provvedere per la prima volta (in sostituzione dell’amministrazione) sull’istanza del privato rimasta inevasa.
La giurisprudenza prevalente è propensa a negare detto potere di autotutela, poiché la pubblica amministrazione si trova, rispetto ai provvedimenti commissariali, in una sorta di posizione di sovranità limitata[32] e poiché la natura intersoggettiva tra commissario e amministrazione sostituita impedisce che quest’ultima possa rimuovere in autotutela un atto commissariale[33].
Anche in dottrina è stata esclusa la possibilità di rimuovere in autotutela i provvedimenti commissariali poiché l’amministrazione, così facendo, realizzerebbe uno “straripamento di potere” nei confronti dell’autorità giudiziaria, vanificando la tutela ottenuta dal ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale[34]. Infatti, ammettere il potere di rimozione degli atti commissariali da parte del soggetto pubblico risultato soccombente in un giudizio pregresso finirebbe per svuotare di valore l’adottata decisione giudiziale a lui favorevole[35].
La sentenza in commento si sofferma sulle ragioni che depongono per l’assenza, in capo alla pubblica amministrazione sostituita, del potere di rimuovere in autotutela i provvedimenti del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio avverso il silenzio inadempimento.
L’analizzata natura del commissario come ausiliario del giudice è il primo argomento in base al quale viene negato detto potere di autotutela all’amministrazione. A parere del Collegio tale ragionamento non può essere messo in dubbio neanche dalla diversità funzionale del giudizio avverso il silenzio nel quale il commissario eserciterebbe per la prima volta un potere amministrativo in maniera libera o, meglio, svincolata dall’attuazione di un giudicato. Nel caso del giudizio avverso il silenzio, infatti, l’illegittima inerzia dell’autorità amministrativa costituisce il presupposto per l’intervento del giudice che può sostituirsi alla pubblica amministrazione rimasta inerte attraverso il commissario ad actache, per il fatto di pronunciarsi in prima battuta in luogo dell’amministrazione rimasta silente, non perderà la sua natura di organo ausiliario del giudice. Infatti, è al giudice stesso (per mezzo del commissario) che compete, dopo aver stigmatizzato come illegittimo il silenzio inadempimento dell’amministrazione, il potere di provvedere a quella ponderazione comparativa, anche discrezionale, illegittimamente omessa dall’amministrazione, in violazione del generale dovere di conclusione del procedimento[36].
Un altro elemento che depone per l’assenza del potere di autotutela è il rapporto tra commissario e amministrazione sostituita che viene declinato in termini inter-soggettivi più che inter-organici. La natura inter-soggettiva del rapporto, infatti, esclude che l’atto impugnato possa essere imputato all’ente sostituito e, conseguentemente, che possa essere inciso dal potere di autotutela della pubblica amministrazione. Infatti, quantomeno il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990, che rileva nel caso di specie, è generalmente spendibile solo nei confronti di atti emessi dalla stessa pubblica amministrazione ovvero da altro soggetto sotto-ordinato. L’amministrazione sostituita, quindi, non viene espropriata dal potere di autotutela perché detto potere non le compete in radice, essendovi un rapporto inter-soggettivo e non inter-organico tra l’amministrazione sostituita e il commissario[37].
Analogamente a quanto affermato da autorevole dottrina[38], il Collegio afferma che ammettere l’autotutela avverso i provvedimenti commissariali determinerebbe “da un lato la mortificazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e ribadito dal c.p.a. proprio nella disposizione di apertura, dall’altro la violazione del principio di separazione dei poteri, consentendosi altrimenti la sterilizzazione amministrativa dell’intervento giurisdizionale”.
A supporto di tale impostazione viene richiamato anche il dettato dell’art. 117, comma 4, c.p.a.[39] in base al quale sarebbe evidente la ratio legis di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati[40].
Tale espressa scelta legislativa, inoltre, sarebbe confermata dalla “strutturale natura giuridica del commissario”, figura che promana dal giudice, che svolge funzioni ausiliarie allo stesso e di cui costituisce la longa manus.
Infatti, il Collegio ritiene che il dato decisivo per dirimere questione relativa alla sussistenza o meno del potere di autotutela in capo alla pubblica amministrazione non vada indagato nel tipo di attività (ampiezza della valutazione discrezionale) che il commissario è chiamato a svolgere a seconda che lo stesso sia nominato nel giudizio di ottemperanza o in quello avverso il silenzio; quello che rileva è che i suoi atti non sono mai geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio dell’attività amministrativa essendo, invece, espressione dell’attività giurisdizionale. Il commissario ad actadeve considerarsi sempre una figura distinta dall’amministrazione e la sua attività deve essere qualificata in ogni caso come “attività soggettivamente giurisdizionale pur se calata in una forma amministrativa”.
5. La permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario.
Una questione diversa, ma che presenta indubbi punti di contatto con l’annullabilità in autotutela dei provvedimenti commissariali, è quella relativa alla persistenza del potere di provvedere in capo all’amministrazione dopo la nomina del commissario ad acta nell’ambito del rito avverso il silenzio, questione che attualmente risulta al vaglio dell’Adunanza Plenaria[41].
L’ordinanza con cui la Sezione IV del Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Plenaria da adeguatamente conto dei diversi orientamenti formatisi sul punto nella giurisprudenza[42].
Secondo una prima risalente impostazione il potere-dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla pronuncia giurisdizionale verrebbe meno già dopo la nomina del commissario ad acta[43].
Per un secondo orientamento, divenuto maggioritario nella giurisprudenza più recente, il c.d. esautoramento dell’organo inottemperante (rectius inadempiente) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale (o, per dirla diversamente, dopo il suo insediamento) che attuerebbe il definitivo trasferimento del munus pubblico dall’ente, che ne è titolare per legge, a quello che ne diviene titolare in ragione della sentenza del giudice amministrativo[44].
Seguendo un terzo orientamento, meno diffuso nella giurisprudenza più recente, la competenza commissariale rimarrebbe concorrente con quella dell’amministrazione che continuerebbe ad operare nell’ambito delle attribuzioni che la legge le riconosce e che verrebbero estinte con l’insediamento del commissario[45].
Esposti i termini della questione, la Sezione IV prende motivatamente posizione a favore della tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario, tesi che troverebbe conferma in una serie di principi (anche di rilievo costituzionale), tra cui il principio di legalità in connessione con l’art. 97 cost., il principio di certezza dei rapporti giuridici e il principio di responsabilità dei titolari dei pubblici uffici in connessione con l’art. 28 cost.[46].
È ben vero che nell’ordinanza di remissione il quesito riguarda l’interrogativo “se l’amministrazione possa provvedere tardivamente rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad acta eserciti il potere conferitogli”. Il potere concorrente di commissario ad acta e pubblica amministrazione riguarderebbe il momento antecedente e non successivo all’adozione dell’atto commissariale come nel caso di specie. Ed è altrettanto vero che il potere di provvedere in prima istanza non è assimilabile al potere di provvedere in autotutela: il potere di autotutela, per esempio, può essere esercitato nei confronti del silenzio assenso, situazione in cui il potere della pubblica amministrazione di agire è spirato, ma in tal caso la possibilità di agire in autotutela è espressamente attribuita alla pubblica amministrazione dalla legge[47].
Quindi, pur nella consapevolezza della profonda differenza tra le due questioni (permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario e annullabilità in autotutela degli atti commissariali) pare di poter affermare che, qualora fosse accolta l’impostazione della Sezione rimettente prevedente la competenza concorrente di commissario e amministrazione sostituita, tale circostanza potrebbe riaprire qualche dubbio a favore della sussistenza di un qualche potere da parte dell’amministrazione sostituita sugli atti commissariali. Infatti, il riconoscere la persistenza di un potere dell’amministrazione di agire anche dopo la nomina del commissario ad acta sembrerebbe “ritagliare” uno spazio di azione alla pubblica amministrazione sostituita i cui confini (estensibili fino all’annullamento in autotutela degli atti commissariali stessi?) non appaiono al momento di certa delimitazione.
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
La sentenza in commento, che si inserisce senza soluzione di continuità nel solco della più recente giurisprudenza sul tema, nega alla pubblica amministrazione sostituita il potere di autotutela sugli atti commissariali attraverso il seguente impianto concettuale: 1) il commissario ad acta nominato dal giudice è un organo ausiliario dello stresso e non un organo straordinario dell’amministrazione; 2) gli atti commissariali non sono geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa, ma all’attività del giudice amministrativo investito della questione; 3) l’amministrazione non può agire in autotutela avverso atti che non siano stati emessi da essa stessa almeno con riferimento all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990; 4) gli atti del commissario ad acta non possono che essere sindacati dal giudice amministrativo che ha nominato il commissario, come testualmente previsto dalle disposizioni codicistiche.
Pare opportuno evidenziare, però, come la sussistenza di poteri di secondo grado in capo all’amministrazione sostituita resti comunque legata (rectius condizionata) alla qualificazione che si ritenga di dare alla figura del commissario ad acta e al regime giuridico dei suoi atti. Infatti, pur essendo la più recente giurisprudenza orientata a riconoscere il carattere giurisdizionale all’attività del commissario, bisogna comunque segnalare che tale assioma non appare così granitico, soprattutto nell’ambito del giudizio avverso il silenzio[48].
In ragione di un tanto, sarebbe quantomai auspicabile che l’Adunanza plenaria, nel risolvere la appena sollevata questione sulla permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario, decidesse di incidentalmente di indagarne funditus la natura di quest’organo e il rapporto che lo lega all’amministrazione sostituita nell’ambito del giudizio avverso il silenzio, per poter risolvere “definitivamente” anche la questione dell’autotutela sui provvedimenti commissariali.
Ad ogni modo, pare potersi affermare che il potere di autotutela, anche a prescindere dal tipo di rapporto che lega il commissario all’amministrazione e dalla qualificazione giuridica da attribuire agli atti commissariali (quali atti amministrativi o giurisdizionali), sia un potere che mal si attaglia ad essere esercitato dalla pubblica amministrazione sostituita dal commissario ad acta. Questo poiché la ratio dei poteri di secondo grado ad esito eliminatorio è quella di consentire alla pubblica amministrazione titolare del potere di intervenire su di un proprio precedente provvedimento e non di contestare un provvedimento amministrativo aulinde adottato, anche se in propria vece. Per la contestazione degli atti commissariali, infatti, l’ordinamento prevede diversi strumenti di tutela giurisdizionale (reclamo o giudizio autonomo) a seconda dei soggetti potenzialmente pregiudicati dagli stessi (parti del giudizio o soggetti terzi), non venendosi a creare un vuoto di tutela per la pubblica amministrazione che voglia contestare i provvedimenti commissariali, dovendosi ritenere superata dal codice del processo amministrativo quella giurisprudenza (già minoritaria) che negava la legittimazione della pubblica amministrazione ad impugnare gli stessi in quanto atti propri.
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[1] Cons. St., Sez. IV, 18 agosto 2021, n. 2335, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, 18 maggio 2017, n. 185, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Il provvedimento del commissario ad acta aveva ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire mai concesso dall’amministrazione rimasta inerte e avverso la quale era stato presentato ricorso avverso il silenzio. Detto commissario è stato nominato dal medesimo T.A.R. con sentenza non definitiva T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, 4 dicembre 2015, n. 452, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2017, n. 3860, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Sulla figura del commissario ad acta si rinvia ai contributi di: D. VAIANO, Il commissario ad acta nel sistema dei giudizi di ottemperanza, Roma, 1996; G. ORSONI, Il commissario ad acta, Padova, 2001; A. CIOFFI, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 2001, 1, II, p. 1 ss.; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Commissario ad acta, in Enc. giur., Agg., Vol. VI, Milano, 2002, p. 284 ss.; S. D’ANTONIO, Il commissario ad acta nel processo amministrativo: qualificazione dell’organo e regime processuale, Napoli, 2012; S. PIGNATARO, Il commissario ad acta nel quadro del processo amministrativo, Bari, 2019.
[6] Sul giudizio di ottemperanza in generale, tra i moltissimi contributi, si segnalano senza alcuna pretesa di esaustività: F.G. SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, in AA.VV, Il giudizio di ottemperanza (Atti del XXVII Convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna), Milano, 1983; R. VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., n. 3/1989, p. 369 ss.; A. TRAVI, L’esecuzione della sentenza, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo speciale, Vol. V, Milano, 2003, p. 4605 ss.; C.E. GALLO, Ottemperanza (giudizio di), in Enc. giur., Milano, 2008, Annali, II, p. 818 ss.; G. MARI, Giudice amministrativo ed effettività della tutela, Napoli, 2013; M. SANINO, Il giudizio di ottemperanza, Torino 2014; S. TARULLO, Ottemperanza (giudizio di), in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2017, p. 559 ss.; F. MANGANARO, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Napoli, 2018, p. 119 ss.; F. FRANCARIO, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3/2018, p. 171 ss.
[7] A. DAIDONE - F. PATRONI GRIFFI, Artt. 112-115, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 1072.
[8] M. CLARICH, Il giudicato e l’esecuzione, in A. SANDULLI (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Vol. 7, in S. CASSESE (diretto da), Corso di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 313.
[9] Per un’approfondita ricostruzione del dibattito si rinvia a S. PIGNATARO, op. cit., p. 65 ss.
[10] Corte cost., 12 maggio 1977, n. 75, in Giur. it., 1978, I, p. 980 ss.
[11] Cons. St., Ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23, in Giur. it., 1979, III, p. 26 ss. Per un commento alla pronuncia si segnala F.G. SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, p. 4 ss.
[12] In tal senso in dottrina si sono pronunciati tanti autorevoli studiosi tra i quali si segnala M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo d'ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p. 115.
[13] Tale orientamento è stato sostenuto da Cass. civ., SS.UU., 19 marzo 1999, n. 9709, in Giust. civ., 199, I, p. 3347 ss., con nota di M.A. VISCA, Giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità amministrativo-contabile del commissario ad acta, ivi. Tra le sentenze amministrative (non numerosissime) che hanno seguito tale impostazione vedasi: C.G.A.R.S., 17 giugno 1982, n. 24, in Riv. amm., 1982, III, p. 644 ss.; Cons. St., Sez. V, 3 marzo 1988, n. 125, in Foro amm., 1988, p. 1464; e, più di recente, T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, in Foro amm. - T.A.R., 2009, p. 830. In dottrina, a favore di questa tesi, si sono schierati: G. VACIRGA, L’impugnazione dei provvedimenti adottati dal commissario giudiziale ad acta, in Foro amm., 1982, I, p. 258-259; A. IANNOTTA, La natura giuridica del commissario ad acta e il regime di impugnazione dei suoi atti, in I Tribunali amministrativi regionali, 1993, II, p. 414; G. ORSONI, op. cit., p. 99.
[14] Come si dirà poi, il codice del processo amministrativo, all’art. 114, comma 6, ha esplicitamente riconosciuto il potere di presentare reclamo alle “parti nei cui confronti si è formato il giudicato” e, quindi, anche alla pubblica amministrazione sostituita dal commissario ad acta.
[15] Sul riconoscimento del potere di autotutela dell’amministrazione nei confronti degli atti commissariali vedasi T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, cit.
[16] L’elaborazione di tale teoria si deve in primis alla giurisprudenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, con le sentenze C.G.A.R.S., 25 febbraio 1981, n. 1, in Cons. di St., 1981, I, p. 188 e C.G.A.R.S., 21 dicembre 1982, n. 92, in Foro amm., 1983, p. 372. Tra la dottrina che ha condiviso tale ricostruzione si segnalano: S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, in Giur. amm. sic., 1988, II, p. 36 ss. e in www.lexitalia.it (par. 6); L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, p. 253; C.E. GALLO, op. cit., p. 835.
[17] M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 540.
[18] In questi termini si segnalano: Cons. St., Sez. VI, 30 dicembre 2004, n. 8275, in Foro amm. - C.d.S., 2004, p. 3607; Cons. St., Sez. V, 28 dicembre 2011, n. 6953, in Urb. e app., n. 5/2012, p. 561 ss., con commento di M. ANDREIS, Commissario ad acta, regime dei suoi atti e nuovo codice del processo amministrativo, ivi, p. 565 ss.
[19] L’art. 21 c.p.a., rubricato “Commissario ad acta” prevede che “Nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta. Si applica l'articolo 20, comma 2”. Per un commento a tale norma si rinvia a F.G. SCOCA, Commento all’art. 21, V. LOPILATO - A. QUARANTA (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, p. 231 ss. Inoltre, l’art. 114, comma 4, lett. d), c.p.a. ha prescritto che “Il giudice [dell’ottemperanza], in caso di accoglimento del ricorso: … d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta”.
[20] In tal senso, tra le tante, si segnalano: Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2015, n. 52, Cons. St., Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 4299, Cons. St. Sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5667, Cons. St., Sez. V, 27 novembre 2018, n. 6724, Cons. St., Sez. V, 21 maggio 2018, n. 3039, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Tale dicotomia è delineata in maniera chiara da P.M. VIPIANA, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., n. 10/2015, p. 1055.
[22] Secondo l’art. 114, comma 6, c.p.a. “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta. Avverso gli atti del commissario ad acta le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell’ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni. Gli atti emanati dal giudice dell’ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato ai sensi dell’articolo 29, con il rito ordinario”.
[23] In questi termini Cons. St., Sez. V, 13 gennaio 2015, n. 52, in Urb. e app., n. 5/2015, p. 1049 ss, con nota di P.M. VIPIANA, op. cit., ivi, p. 1053 ss.
[24] P.M. VIPIANA, op.cit., p. 1055, risponde negativamente a tale quesito affermando che “l’impugnabilità di un atto davanti al giudice amministrativo non ne implica necessariamente la natura di atto amministrativo” e che “non pare sostenibile la duplice natura degli atti commissariali”.
[25] Sul tema si segnalano i contributi di: L. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 986 ss.; G. MARI, L’azione avverso il silenzio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Vol. I, Milano, 2013, p. 250 ss.; M. RAMAJOLI, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., n. 3/2014, p. 709 e ss.; A. CIOFFI, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. ROMANO (a cura di), L’Azione amministrativa, Torino, 2016, p. 134 ss.; F. SCALIA, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in federalismi.it, n. 10/2016; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in Giustizia insieme, 1° luglio 2020.
[26] In questi termini si esprime S. CAREGGI, op. cit. Secondo Cons. St. Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602, in www.giustizia-amministrativa.it, si parla di un’ottemperanza “anomala o speciale” in quanto “si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio” e in quanto l’attività del commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”. Il Consiglio di Stato evidenzia anche che “se per il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il dibattito è, invece, tutt’ora aperto per quella speciale figura di commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione”.
[27] Non è questa la sede per darne un’adeguata ricostruzione delle diverse posizioni della giurisprudenza e della dottrina, per la quale si rinvia al contributo di F. SCALIA, op. cit.
[28] In questi termini si esprime Cons. di St., Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo tale pronuncia il commissario ad acta sarebbe un organo sostitutivo dell’amministrazione e non un mero ausiliario del giudice in quanto “l’attività del commissario ad acta, posta in essere in esecuzione della sentenza che rimuova la situazione di inerzia imputabile alla pubblica amministrazione, non si limita - come nel vero e proprio giudizio di ottemperanza - al completamento e all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma si atteggia come attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente ed è collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima; … l’attività del commissario ad acta, munito di piena autonomia decisoria, appare, dunque, qualificabile come sostitutiva rispetto a quella dell’amministrazione, piuttosto che di stretto ausilio al potere esecutivo del giudice, il quale potrà esclusivamente vagliare l’effettivo adempimento finale da parte del commissario in relazione all’ordine contenuto nella pronuncia giudiziale”.
[29] T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. I, 26 gennaio 2017, n. 82, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso sostanzialmente analogo si esprime anche la recente sentenza T.A.R. Puglia (Bari), Sez. III, 18 settembre 2020, n. 1180, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] Cons. St., Sez. IV, 22 ottobre 2019, n. 7172, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo tale pronuncia deve escludersi che il commissario ad acta, nominato nell’ambito del giudizio avverso il silenzio, possa essere legato all’ente da una relazione inter-organica; quindi, le parti “possono, e debbono, contestare gli atti del commissario ad acta soltanto attraverso il rimedio processuale disciplinato dal citato art. 114, comma 6, secondo periodo, mentre l’attivazione di un giudizio secondo il rito ordinario è riservata esclusivamente ai terzi estranei al giudicato”.
[31] Cons. St., Sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006, in www.giustizia-amministrativa.it.
[32] T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VI, 13 settembre 2006, n. 8072, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso sostanzialmente analogo vedasi anche T.A.R. Veneto (Venezia), Sez. I, 1° febbraio 2011, n. 188, in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] In tal senso vedasi anche la recente Cons. St., Sez. VI, 11 agosto, 2020, n. 5006, cit. Depone, invece per l’annullabilità dei provvedimenti commissariali T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, cit.
[34] V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2013, p. 1010.
[35] S. PIGNATARO, op. cit., p. 234-235.
[36] Sul tema si rinvia su tutti al contributo di A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, p. 273 ss.
[37] In sostanza non c’è un atto amministrativo emanato dallo stesso ente (o da un ente sotto-ordinato) su cui la pubblica amministrazione possa esercitare il potere di annullamento d’ufficio secondo il paradigma normativamente previsto per tale potere di secondo grado dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Per un inquadramento sui poteri di autotutela si segnala M. IMMORDINO, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2019, p. 301 ss. Sul potere di annullamento d’ufficio, che rileva nel caso di specie, si rinvia a C. DEODATO, L’annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, p. 1173 ss.
[38] In tal senso V. CAIANIELLO, op. cit., p. 1010.
[39] Secondo l’art. 117, comma 4, c.p.a. “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.
[40] Il Collegio precisa che lo strumento del reclamo, previsto dall’art. 117, comma 4, c.p.a., evita che si venga a creare un vuoto di tutela per la pubblica amministrazione sostituita, la quale potrà sempre contestare gli atti commissariali presentando apposito reclamo al giudice competente.
[41] Per un approfondimento del dibattito sulla questione antecedente alla recente rimessione della questione all’Adunanza Plenaria si rinvia a S. PIGNATARO, op. cit., p. 223 ss.
[42] Cons. St., Sez. IV, 10 novembre 2020, n. 6925, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un commento all’ordinanza di rimessione si vedano A. SCOGNAMIGLIO, Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in Giustizia insieme, 19 gennaio 2021 e G. BROLLO, Gli effetti della nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio: permane o si consuma il potere di provvedere dell’Amministrazione silente?, in www.giustamm.it, n. 12/2020.
[43] In relazione a tale orientamento il Collegio precisa che “Andrebbe verificato comunque se tale tesi, espressa con riferimento al commissario nominato all’esito del giudizio di ottemperanza, si potrebbe applicare anche all’ipotesi del commissario nominato per provvedere in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione”. In tal senso viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. V, 10 marzo 1989, n. 165, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] Vedasi ex multis: Cons. St., Sez. V, 5 giugno 2018, n. 3378, Cons. St., Sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1300 e Cons. St., Sez. IV, 9 novembre 2015, n. 5081, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Nell’ambito di questo secondo orientamento viene anche citata la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019 la quale (pur non occupandosi funditus della questione) al par. 5.6 ha previsto che “L’insediamento del commissario ad acta … nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell'amministrazione inadempiente surrogata, priva quest’ultima della potestà di provvedere”.
[45] Per questo orientamento vengono richiamate le pronunce: Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764, Cons. St., Sez. V, 21 novembre 2003, n. 7617, Cons. St., Sez. V, 8 luglio 1995, n. 1041, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] A. SCOGNAMIGLIO, op. cit., par. 2. Si rinvia poi anche al par. 5 del medesimo contributo per un’interessante (e condivisibile) analisi sul metodo e sulle conclusioni dell’ordinanza di rimessione.
[47] L’art. 20, comma 3, l. n. 241/1990 prevede espressamente che “Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.
[48] Al paragrafo n. 24.3 dell’ordinanza di rimessione Cons. St., 10 novembre 2020, n. 6925, cit. viene posto il dubbio se l’impostazione dell’Adunanza plenaria n. 1/2002, prevedente l’imputabilità degli atti commissariali all’amministrazione sostituita (e non al giudice), sia da intendersi (o meno) superata dall’entrata in vigore dell’art. 117, comma 4, c.p.a. Sul punto, in questa sede, ci si limita a precisare che la sentenza Cons. St., Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in Dir. e giust., n. 7/2002, p. 54 ss., è stata emanata in un contesto normativo in cui i poteri cognitori e decisori del giudice nel giudizio avverso il silenzio erano diversi rispetto a quelli attualmente previsti dal codice del processo amministrativo.
L’arte del giudizio. A proposito del valore sociale della sentenza sul vincolo storico alla casa di Rosario Livatino.
(nota a Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sez. giurisdizionale, 15 febbraio 2021)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Introduzione. La dimensione artistica della sentenza – 2. Un quadro dipinto: il racconto della casa di Rosario Livatino, tra privato e pubblico – 3. Il giudice e la parola.
1. Premessa. La dimensione artistica della sentenza
Ci sono volte in cui la delicatezza della materia del contendere in un giudizio si riflette - quasi come in uno specchio - nel linguaggio e nello stile della sentenza, che quel giudizio chiude. Ci sono volte in cui la significatività sociale, umana, etica dei fatti di causa, chiede - e anzi, richiede - che se ne parli, giudicandola, con egual profondità, rispetto e potenza comunicativa. Questa per così dire “simbiosi” tra sostanza e forma, tra oggetto e stile, tra il cosa e il come, senza dubbio traspare ed emerge con grande forza nella decisione che qui si annota, relativa alla legittimità del vincolo amministrativo posto alla “Casa di Famiglia del giudice Rosario Livatino”, in quanto bene di straordinario valore storico e culturale. Sembra quasi che i giudici sentano e assumano interamente, anche nelle forme del decidere, la responsabilità morale e sociale del messaggio che implicitamente la decisione fa pervenire alla collettività.
In questa decisione, e nella narrazione che vi è contenuta, vi è, a parere di chi scrive, una chiara presenza artistica, che merita di essere posta in luce; non nel senso di artificialità o retorica (qualità che, nell’arte, impoveriscono, piuttosto che arricchire, il prodotto), ma nel senso pieno e alto di autenticità, attenzione e cura nell’uso delle parole, capaci in questo caso di trasmettere valori e costruire consapevolezze. La sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa che qui si annota, più che parlare, dipinge; non si limita a decidere, a distribuire il torto o la ragione, ma bensì evoca – come vedremo - quel contesto domestico del Giudice Rosario Livatino, ne abbozza la personalità, argomenta con particolare efficacia il valore simbolico, e quindi collettivo, posto al servizio di tutti, della Sua abitazione. Il linguaggio qui si fa testimone del contenuto.
I filosofi, d’altronde, da tempo sanno che la parola (e quindi il racconto, la narrazione) costruisce mondi, costruisce la realtà sociale, costruisce verità. Il linguaggio costruisce insomma la nostra casa, il luogo in cui abitiamo. Differenti forme del dire comportano differenti visioni del mondo[1]. E così anche l’arte, che è, in fondo, un linguaggio, dà forma (in-forma) al nostro vivere; influenza o, ancor più, costruisce - tramite le parole, le raffigurazioni, la musica - la realtà nella quale viviamo.[2]
La sentenza - e questa sentenza in particolare – può allora esser vista come un atto artistico (e quindi creativo), soprattutto quando la bellezza del linguaggio, la scelta delle parole, le figure che evoca, le sfumature del discorso non sono fini a sé stesse, ma sono poste al servizio di un messaggio sociale più ampio il cui destinatario è la collettività (v. in fine).
Sia consentita, a questo proposito, una brevissima divagazione. Non saremo certo i primi a guardare alle sentenze sotto l’aspetto estetico[3]. Nell’universo di common law, e specialmente in Inghilterra, ad es., è ampiamente riconosciuto il valore letterario di certe judicial opinions, e molto spesso la scrittura, lo stile, identifica già dalle prime battute il giudice estensore. Il linguaggio, là, è spesso estensione della personalità. La sentenza ben può esser trattata come un genere letterario, studiato e indagato con i metodi della critica letteraria[4]. Ciò, nella tradizione di civil law, non si dà storicamente, perché il giudice non è (rectius: non si vuole che sia) un individuo, un soggetto in carne ed ossa, bensì una istituzione: egli non agisce in quanto persona con nome e cognome (come i giudici di common law: Lord Denning, Lord Diplock, ecc.), ma in quanto membro istituzionalizzato (“questo Tribunale, questa Corte, questo Collegio”). Nella cultura continentale non è il giudicante davvero che decide – è stato laconicamente detto – ma il Codice (la legge)[5]. Grandissima finzione, questa, che però perdura a livello declamatorio: ecco il perché dello stile solitamente molto asciutto, non emotivo, impersonale, formale, tecnico, burocratico, delle sentenze di civil law[6].
La sentenza in esame smentisce, attraverso l’uso di un linguaggio appassionato, caloroso – assai giustamente, assai opportunamente – questa pretesa s-personalizzazione della funzione giudicante. Più in generale, tramite le parole, viene qui rivelato il significato più autentico del giudicare: che non è e non deve mai tradursi in una operazione meccanica e indifferente, ma è, e deve rimanere, atto realmente umano, e quindi “com-partecipe” delle vicende che si agitano. In ogni frase della sentenza si manifesta, appare – giustamente – un giudice partecipe. Che è, poi, l’alto concetto della funzione che avevano i patres del diritto processuale civile italiano. Mi sono imbattuto, recentemente, in un’affermazione di Salvatore Satta, il quale rimarcava il bisogno di un giudice che «si immetta nell’azione, sia veramente un attore del dramma di vita che solo apparentemente si svolge fra le sole parti, un giudice che non sia un ricercatore di norme in un povero codice sempre malfatto, ma che arrivi a realizzare il miracolo di sentire l’interesse altrui come proprio (perché indubbiamente è suo proprio)[7]». Parole che ci sembrano distantissime dalle correnti del pensiero odierno, ma che invece meritano di essere recuperate.
2. Un quadro dipinto: il racconto della casa di Rosario Livatino, tra privato e pubblico
Con il provvedimento qui in commento, il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia si pronuncia - confermando quanto già deciso dal T.A.R. Sicilia - sull’esistenza e la giustificazione del vincolo amministrativo posto sulla “Casa di Famiglia del giudice Rosario Livatino” (a Canicattì, in provincia di Agrigento) e ai beni ivi contenuti, in quanto di “interesse storico, artistico, architettonico e etnoantropologico particolarmente importante”. L’oggetto della causa in sé è semplice; la vicenda, considerata nella sua obbiettività fattuale, è quasi routinaria (parrebbe una delle migliaia di controversie amministrative sulla legittimità di vincoli posti dagli enti locali), gli aspetti tecnico-giuridici, seppur significativi, non sono particolarmente intricati; ma l’intensità etica e l’eccezionalità umana della vicenda che sta dietro la decisione rende non solo interessante, ma persino doveroso, soffermarsi su quanto deciso. Ciò di cui si discorre è, infatti, la dimora di famiglia del giudice Rosario Livatino, profondissimo credente, la cui vita - come tristemente noto – fu spenta da un agguato mafioso in auto il 21 settembre 1990, quando Egli aveva 38 anni e prestava servizio come Giudice presso la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Agrigento[8]. «Martire della giustizia e, indirettamente, della fede» – secondo le parole di San Giovanni Paolo II - La Chiesa ha riconosciuto il suo martirio avvenuto «in odium fidei». Il processo canonico di Beatificazione, in quanto Servo di Dio, avviato nel 2011, giunge, ora, a compimento[9].
Come detto, non mi soffermerò sugli aspetti tecnici della decisione, ma bensì su quelli letterari (e quindi artistici), nel senso definito in apertura[10]. Tutto il giudizio ruota attorno al valore personale e simbolico della casa di Rosario Livatino, nella quale Egli viveva con la sua famiglia. La casa, naturalmente, è molto di più di un semplice edificio: da contesto privato e riservato, da nido del Magistrato, potremmo dire, viene ad assumere una valenza pubblica e sociale di estrema potenza. È in questi passaggi che la sentenza, non solo descrive, ma offre immagini.
Le parole, scelte con cura e con vicinanza affettiva, trasmettono magistralmente questa duplicità di aspetti dell’abitazione, privata prima e pubblica poi. Apprendiamo dal provvedimento che quella casa rappresentava il contesto esistenziale del giudice, il suo nucleo più intimo. La sentenza insiste molto su questa dimensione personalistica, individuale: «In quell’appartamento – citiamo testualmente – si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine e indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato». Le parole sono selezionate con estrema accuratezza. La “riservatezza”, innanzitutto, è caratteristica caratteriale di Rosario Livatino che i Giudici richiamano e valorizzano in più punti. Cito sempre dal provvedimento: «La morte di quel giovane magistrato, fino a quel momento conosciuto solo nel suo ambiente di lavoro a motivo della sua estrema riservatezza»; e poco oltre: «L’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza…»; e ancora oltre: «La breve vita del magistrato si è consumata all’interno della dimensione famigliare (…). All’interno dell’immobile oggetto del presente provvedimento viveva, in riservatezza e solitudine, il giovane giudice». E nel primo passaggio su ricordato la Sua riservatezza è definita adamantina, cioè trasparente, senza macchia, innocente e pulita, che tanto più risalta nel contrasto con la brutalità dell’agguato. Prestiamo ancora attenzione alle parole: i valori della rettitudine e della indipendenza sono da Lui interpretati; cioè non semplicemente accolti, accettati, scelti, ma bensì - più intensamente – vissuti (interpretare è attribuire un significato: in questo caso esistenziale, vitale), incarnati si sarebbe anche potuto dire, fatti cioè oggetto di esempio personale, fino al sacrificio.
La sentenza riporta poi vari passi della Relazione Tecnica che accompagnava il decreto di apposizione del vincolo; passi che riteniamo di riportare qui a nostra volta perché capaci di evocare anche fisicamente quell’ambiente, quel clima domestico, quasi come se stessimo guardando un quadro delicato: « l’arredamento risulta sobrio e semplice, tutti gli oggetti, le suppellettili, i libri e gli arredi, amorevolmente preservati dalla famiglia, trasmettono al visitatore un’atmosfera emotiva di casa Livatino ». Anche qui, nessuna parola è lasciata al caso, con in un quadro nessuna pennellata è un di più, nessuna mano di colore è inutile. Gli oggetti non sono solo preservati, ma lo sono amorevolmente, il che ci lascia intuire una unità famigliare indistruttibile. Così poi la Relazione prosegue: « Tra gli oggetti personali si annoverano: il Vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice)…». Come si nota, siamo lontanissimi dal linguaggio spersonalizzato, anonimo e burocratico con il quale supponiamo vengano redatte le relazioni degli esperti e delle Soprintendenze, ed entriamo invece in un universo umano. Ci sembra di aver bussato alla porta di Casa Livatino, di aver chiesto sommessamente permesso, di esser entrati nelle stanza in punta di piedi. Alla fredda e burocratica dicitura, si sostituisce un linguaggio quasi poetico. Senza nessuna retorica: poetico è – tecnicamente - quel linguaggio che vuol dire di più di ciò che dice: ed è esattamente questa la sensazione che ci trasmette il provvedimento. Dalla descrizione della casa e degli oggetti intuiamo quel di più, che riguarda il tratto umano ed esemplare di Rosario Livatino. L’elenco degli oggetti riportato non è formalistico e pignolo; si vede che non è una pura somma di cose fatta a scopo di inventario, ma è più un vero ritratto che ci dice molto sul Giudice. Ci immaginiamo una normalità della vita che contrasta, verrebbe da dire, con il sacrificio del Magistrato; ma il contrasto svanisce presto, se si pone a mente come l’autentico eroismo (anche qui, uso questa parole senza nessuna retorica) proviene da chi è stato capace di vivere la propria vocazione con umiltà e serietà. La normalità di questa casa è anzi proprio il suo valore. Oltre alla riservatezza, la normalità difatti è l’altro grande segno di Rosario Livatino che il Giudici evidenziano. Cito ancora dal testo: «nell’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la sua “normalità”, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso»; e più avanti: « è dovere dello Stato, di cui Livatino è un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore della casa del Giudice e il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia», enfasi nostra. La straordinarietà si nasconde, o meglio, si rivela, proprio nella normalità di chi si dedica (si dà, si offre) allo studio, al lavoro, di chi si prende cura della propria missione, del proprio intorno innanzitutto, e quindi della propria integrità.
Vediamo benissimo, dai passi che ho citato, come la sentenza proceda per rappresentazioni: come in un racconto d’alta fattura, ci permette di figurarci nella nostra mente quella stanza e le persone che la abitavano. Leggendola, ci pare quasi d’esser lì, di vederla.
Nella seconda parte della decisione, vi è poi il passaggio decisivo dal privato al pubblico, cioè dalla dimensione intima e personalistica del focolare domestico, così ben descritto, a quella sociale. Vi è una trasformazione, una conversione, che la sentenza riesce a rendere bene (compito linguisticamente non facile). Così continua il testo, sempre riportando i passi della relazione di accompagnamento: «La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nella sua immobile integrità dai genitori, custodi ed artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana e istituzionale dell’uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, al ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere (…). Costituisce già un avamposto per la legalità (…)». “Immobile integrità” dicono i Giudici: ci sono cose che non si toccano, perché sono il tramite tra il passato e il futuro; e in questo loro essere tramite, cessano di appartenere al passato, per assumere la valenza di qualcosa che vive in un eterno presente. Sono un monito (un “avamposto”, nelle parole dei Giudici), qualcosa che sta e deve permanere fisso. Sono, in maniera ancora più pregnante, una testimonianza. È questa l’immaterialità del bene (che è e rimane pur sempre un oggetto materiale), cioè la sua «attitudine (…) ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà», quali quelli che Rosario Livatino ha sicuramente incarnato. Questi valori – afferma ancora la sentenza - «si incardinano inscindibilmente» nella cosa oggetto di tutela, divengono cioè tutt’uno col bene. Non è un concetto per nulla facile da rendere.
Traspare dalle argomentazioni la dimensione chiaramente simbolica dell’oggetto. La casa di Livatino è – diremo noi, e lo dice anche la sentenza – un simbolo, ma nel senso pieno ed etimologico del termine: “simbolo” deriva dal greco antico “sym-ballo”, cioè “gettare con”, “lanciare qualcosa insieme” e quindi “riunire in uno solo due elementi distanti”. Il simbolo è qualcosa che sta al posto di, e la cui semplice visione o ricordo ci “getta” in un altrove. I Giudici siciliani assai opportunamente, a questo proposito, usano la parola “rimando”; «il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato». Il vocabolo “rimando” esprime bene questa finalità del simbolo, questo “gettare oltre”, come una freccia che si diparte dall’oggetto e finisce per indicarci il valore[11].
3. Il giudice e la parola
La bellezza del testo scritto ci permette di fare qualche osservazione più ampia sul giudicare. Il giudizio è, naturalmente, fenomeno linguistico (scritto o parlato). Le questioni di linguaggio e di stile non solo occupano un posto fondamentale, e non vanno perciò intesi come meri ornamenti, ma sono bensì elementi strutturali del giudicare. Quello che voglio dire è che, nel processo (così come spesso nell’arte), il come è costitutivo del cosa; lo stile è costitutivo del contenuto: non c’è vera separazione tra i due poli. Pensiamo all’architettura: possiamo distinguere una costruzione in sé (il cosa) da come (cioè dallo stile in cui) è costruita?[12] No. Un edificio “è” il suo stile. La forma è già la sostanza, e la sostanza è nient’altro che la forma concretizzatasi.
Qualcosa di simile potrebbe essere detto per la sentenza. Ora, la decisione che si è annotata avrebbe potuto decidere nella stessa maniera (e cioè ribadendo la legittimità del vincolo) con altre parole: senza indugiare sulle immagini, senza evocare i tratti esistenziali e personali del Giudice, senza la stessa cura negli avverbi e negli aggettivi, senza soffermarsi così lungamente sul passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica della casa, senza insistere così tanto sul simbolismo etico e morale del luogo fisico che si fa testimonianza. Avrebbe potuto, sì: il valore precettivo sarebbe stato lo stesso, ma sarebbe stata una differente sentenza. Non semplicemente la stessa sentenza detta con parole differenti, ma bensì un differente atto, con una differente portata.
Per capire questo punto bisogna porre a mente che il contenuto di una sentenza non si esaurisce nel suo precetto, ossia nel comando. Questo è certamente il messaggio esplicito, lo ius dicere, il “dire il diritto” nel caso sottoposto a giudizio, che risolve il conflitto e che si rivolge quindi alle parti (nella nostra vicenda: alla parte appellante, condannata alle spese, e all’Autorità amministrativa, a cui si ordina l’esecuzione). Ma vi è, accanto a quello, anche un altro messaggio, implicito, che si rivolge alla collettività. La sentenza ha sempre – in maggior o minor misura – una vocazione alla generalità. La sentenza (che è atto pubblico, dotato di autorità) ha in sé la tendenza ad andare oltre e al di là del caso di specie, a irradiare i propri effetti all’intero ordinamento. Gli interlocutori di questo messaggio non sono più i litiganti, ma la generalità dei consociati. E ciò non è vero solo con riguardo alle statuizioni giuridiche (nel senso che la sentenza vuole sempre comunicare al pubblico come il diritto è, o come dovrebbe essere, in casi analoghi a quello deciso), ma anche con riguardo al più ampio messaggio sociale che intende veicolare. Questo è il suo valore sociale, che nel provvedimento che qui si è commentato assume un carattere preponderante. È un messaggio - quello della nostra decisione - morale ed etico, che ci parla del significato del sacrificio, della virtù della dedizione, della superiorità del Bene, che tanto più brilla tanto più lo si accosta a ciò che oscuro. Tutto questo non si esprime (né potrebbe) sotto forma di comando, ma necessita di un apparato linguistico, creativo e quindi diciamo pure artistico, in grado di trasmettere e ispirare, in grado di costruire, e che sarebbe un errore trascurare.
Se il giudice - come ritengo - è non solo solutore di conflitti, ma interprete di valori, non può restare neutrale davanti a questi. E questa sua non-neutralità (che è poi la responsabilità del giudizio, che egli certamente ha[13]) si manifesta necessariamente anche nella dimensione letteraria. Di questo, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana si sono dimostrati non solo consapevoli ma, anzi, pienamente responsabili.
[1] J. Bruner, The Narrative Construction of Reality, in Critical Inquiry, 1991, 1 e seg.
[2] Sull’attitudine dell’arte a “creare mondi” (veri), v. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, trad. it. a cura di C. Marletti, con prefazione di A. Varzi, 2 ed. (ed. or., 1978), Roma-Bari, 2008 («c’è un mondo per ogni diverso modo di combinare e costruire sistemi simbolici. C’è un mondo per ogni versione e visione che se ne dà nelle diverse teorie scientifiche, nelle opere di artisti e narratori differenti, nelle nostre percezioni in quanto influenzate da quelle opere e teorie, oltre che dalle circostanze»; (enfasi nostra). Così A. Varzi, Mondo-versione e versioni del mondo, dall’Introduzione). V. anche, sempre di Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, trad. it. a cura di F. Brioschi (ed. or., 1968), Milano, 2017.
[3] V., ad es., quanto detto da G. Policastro, intervistata da B. Capponi, sull’aspetto creativo-linguistico della sentenza, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1571-bruno-capponi-intervista-gilda-policastro, che cita, sul punto, il libro di P. Bellucci, A onor del vero (fondamenti di linguistica giudiziaria) (con introduzione di T. De Mauro), Torino, 2005.
[4] Nel contesto anglosassone, R. A. Ferguson, The Judicial Opinion as Literary Genre, in Yale Journal of Law & Humanities, 1990, 200 e seg.
[5] « The American judge is somehow expected to judge, really to judge. In France, the Code is supposed to have already judged » (la frase, che prende ad esempio la cultura statunitense e quella francese come emblemi, rispettivamente, della tradizione di common law e di quella di civil law, è riportata da M. Lasser, Judicial (Self-)Portraits: Judicial Discourse in the French Legal System, in Yale Law Journal, 1995, 1325 e seg.
[6] Per tutti, M. Taruffo, voce “Motivazione”, in Enc. giur. Treccani, 1990, 2: « Negli ordinamenti di civil law il modello prevalente è quello della motivazione burocratica ed impersonale, logicamente strutturata e imperniata sulle argomentazioni di diritto, concettualistica e tecnicizzata. Influiscono al riguardo fattori quali (…) l’assoluta preminenza del giudice burocrate, la concezione della sentenza come Staatsakt, solenne e impersonale, imputabile all’organo e mai alle persone (…)».
[7] Così S. Satta, in E. Allorio et al., Atti dell’incontro fra magistrati, professori universitari e avvocati per lo studio del tema Il giudice istruttore nel processo civile dati di esperienza ed eventuali proposte di emendamenti. Milano Palazzo Serbelloni 11 e 12 giugno 1955, Milano, 1955, 228-229.
[8] I dolorosi momenti e i tratti della personalità di Rosario Livatino sono ripercorsi nella bella intervista a cura di R. G. Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Catania), Livatino ieri e oggi, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1297-livatino-ieri-e-oggi-sacrificio-di-un-giudice-e-giurista-d-altri-tempi-o-testimonianza-limpida-di-un-magistrato-di-ogni-tempo-al-servizio-della-societa (21 settembre 2020).
[9] Cfr. il contributo di Don Baldo Reina, Rosario Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”, in Giustizia Insieme
[10] Sul punto, v. l’approfondita disamina, anch’essa assai “sentita”, di P. G. Portaluri, Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini, in Giustizia Insieme
[11] Si rimanda, per questi concetti, alle dotte considerazioni di P. G. Portaluri, Amara Sicilia e bella, cit., spec. Par. 4 e 5.
[12] Traggo l’esempio da N. Goodman, The Status of Style, in Critical Inquiry, 1975, 799 e seg.
[13] Cfr. ancora l’affermazione di Salvatore Satta: «Ci si potrebbe chiedere da che cosa deriva questo valore alla sentenza del giudice. (…) La risposta che di solito si dà è in relazione alla autorità del giudice, ma io non credo sia pienamente esatto. L’autorità è anzi della dottrina, quando ce l’ha, e non vedo come un umile pretore possa dirsi più autorevole di Carnelutti. La ragione che noi riconosciamo al giudizio del giudice è piuttosto nella responsabilità (che è poi la sola cosa che dà valore all’azione umana)» (enfasi nostra), in La vita della legge e la sentenza del giudice (8 giugno 1952), ora in Il mistero del processo, Milano, 1994, 50.
Il bambino sa quello che fa?
Coscienza e responsabilità nell’infanzia: tra diritto e neuroscienze
di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo
Sommario: 1. Premessa - 2. Cosa prevedono le norme? - 3. La consapevolezza secondo le neuroscienze - 4. Le tappe della coscienza di sé nel mondo - 5. La coscienza si può raccontare?
1. Premessa
La capacità di intendere e volere e la capacità di testimoniare nell’infanzia pongono al diritto e alla psicologia quesiti che vengono ricondotti a “soglie” temporali: 14 anni è la soglia entro la quale non si è giuridicamente responsabili per il diritto penale minorile; nelle cause civili fino a 12 anni l’ascolto è demandato alla valutazione delle capacità di “discernimento”, e così via.
Va dichiarato non responsabile un ragazzino tredicenne ingaggiato e lautamente stipendiato per il trasporto di pacchetti di polvere bianca, che sa bene non essere borotalco. Ad un figlio undicenne si può non chiedere cosa pensa riguardo a conflitti familiari in cui è direttamente coinvolto, con la motivazione di “non turbarne l’equilibrio”.
Il problema non è – come da più parti si dice – se convenga alzare o abbassare le soglie, fissate ai fini dei provvedimenti da prendere. Va invece trovato un rationale scientifico per adattare i provvedimenti possibili al livello di consapevolezza presente i quel minorenne, a prescindere di una soglia fissa per età, basandosi sulle risultanze delle recenti ricerche neuroscientifiche sullo sviluppo della mente umana e sui metodi di accertamenti messi a punto e validati.
2. Cosa prevedono le norme?
In ambito penale, l’art. 120 c.p.p. prevede che “non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento i minori degli anni quattordici”, anche se è stato autorevolmente precisato che questo non incide sulla sua capacità di testimoniare (che è disciplinata dal principio generale contenuto nell'articolo 196, comma 1, del c.p.p.), bensì sulla valutazione della attendibilità della testimonianza e, cioè, sulla sua attendibilità. Ed “è in tale prospettiva che opera lo speciale regime dettato dall'articolo 498, comma 4, del c.p.p. per l'esame del minore, affidato al presidente dell'organo giudicante e condotto sulla base di domande e contestazioni proposte dalle parti, eventualmente con l'ausilio di un familiare o di un esperto psicologo[1], salva la facoltà di consentire la deposizione in forma ordinaria, quando l'esame diretto non possa nuocere alla serenità del testimone”[2]. La stessa Corte di Cassazione riconosce: “… anche i bambini in tenera età sono in grado di ricordare ciò che hanno visto e soprattutto ciò che hanno subito con coinvolgimento diretto, pur spettando al giudice di valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l'attendibilità delle dichiarazioni. In una tale prospettiva, nel caso di minore-parte offesa (la cui deposizione ben può essere assunta anche da sola come fonte di prova della responsabilità[3]), si spiega, nella prospettiva di controllo sulla «credibilità soggettiva», la possibilità di procedere alla verifica dell'«idoneità mentale» (articolo 196, comma 2, del c.p.p.), rivolta ad accertare se il minore stesso sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in pregiudizio della sua persona e possa poi riferire in modo veritiero siffatti comportamenti”[4].
L'«idoneità mentale» a testimoniare viene accertata dal giudice mediante ricorso ad una perizia. Secondo il punto 16 della Carta di Noto (IV ed. del 14 ottobre 2017), la perizia dovrebbe precedere l'esame testimoniale. Tale raccomandazione, condivisa dalla comunità scientifica, non è però prevista dal codice, per cui non è precluso al giudice di ascoltare il testimone minorenne prima di effettuare la perizia. Si tratta di accertare “l'attitudine del bambino a testimoniare, sotto i profili intellettivo e affettivo” e la “credibilità” dello stesso.
Il primo aspetto concerne “l'accertamento della sua capacità di recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all'età, alle condizioni emozionali, che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari”, mentre il secondo è diretto ad esaminare il modo in cui il minore vittima di reati ha vissuto ed ha rielaborato la vicenda[5]. La valutazione sull'attitudine a testimoniare deve essere tanto più rigorosa quanto minore sia l'età del bambino, considerata la maggiore tendenza dei “minori in tenera o tenerissima età” al “condizionamento o alla suggestione”[6].
La più recente giurisprudenza stabilisce che i bambini piccoli possono essere attendibili se “lasciati liberi” di esprimersi, ma “diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni eteroindotte” tendendo a conformarsi alle aspettative dell'interlocutore[7]. Il bambino, senza volerlo, crea falsi ricordi e può considerare vissute come reali esperienze anche solo veicolate come tali da altri soggetti[8].
Una parte della giurisprudenza distingue tra dichiarazioni del bambino e quelle dell'adolescente: entrambi presenterebbero “una singolare attitudine alla fabulazione magica” creandosi un mondo secondo i loro desideri, ma mentre il bambino ricorre molto più facilmente a tale rappresentazione[9], l'adolescente è portato a colorare la realtà e a raccontare menzogne che potrebbero apparire veritiere a differenza delle menzogne dei bambini che, prive di malizia, sono facilmente smascherabili[10].
Sino al 2012 non erano previste specifiche tutele per l'audizione del minore durante le indagini preliminari. Solo con la L. 172/2012, che ha recepito la Convenzione di Lanzarote del 2007, è stato introdotto l'obbligo di servirsi di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile per sentire il minore durante le audizioni investigative di polizia giudiziaria, pubblico ministero e difensore.
Per cristallizzare l'apporto dichiarativo del minorenne e al contempo farlo uscire dal circuito giudiziario, che ne aggrava la vittimizzazione secondaria, e per permettere al minore stesso un percorso terapeutico nel quale rielaborare i fatti, si privilegia il ricorso all'incidente probatorio - quanto più vicino possibile cronologicamente ai fatti - disciplinato dall’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., che prevede alcuni presidi a tutela del minorenne: il giudice, per i gravi delitti ivi indicati, “stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all'incidente probatorio”, potendo l'udienza svolgersi “anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza, o, in mancanza, presso l'abitazione della persona interessata all'assunzione della prova” (c.d. esame protetto).
Ulteriori presidi a tutela del minore sono indicati dall'art. 498, comma 4-ter, c.p.p. (c.d. esame schermato), che prevede che l'esame del minore vittima di reati sessuali venga effettuato mediante l'uso di un vetro-specchio unidirezionale, unitamente ad un impianto citofonico, che impedisce all'accusante di vedere l'accusato, il quale si colloca al di là del vetro.
In ambito civile l’ascolto del minore, in quanto in grado di dare delle risposte ‘consapevoli’, è previsto in norme del codice relative a vari procedimenti, nonché in svariate leggi. L’art. 336-bis c.c. costituisce la norma generale della disciplina dei requisiti – minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento - e della modalità di ascolto, riprodotta in materia di separazione e divorzi nell’art. 337-octies.[11]
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’UE prevede all’art. 24, par. 1, l’ascolto dei minori laddove stabilisce che i minori possono esprimere liberamente la propria opinione e che questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità: disposizione questa di applicazione generale che non riguarda procedimenti specifici.
Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata, seppure indirettamente, della tutela e dell’ascolto del minore dichiarandone l’importanza nelle decisioni familiari che lo riguardano direttamente, diritto garantito da più strumenti giuridici internazionali[12].
L’audizione del minore, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziali che lo riguardano[13], quale riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere la propria opinione, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse[14].
Nessuna norma definisce la capacità di ‘discernimento’, essendo questo un concetto mutuato dalla scienza neuropsichiatrica. Anche rare sono le pronunce che forniscono elementi in ordine al questo concetto, perché è un elemento fattuale da valutare caso per caso e devoluto al libero e prudente apprezzamento del giudice che non necessita di specifico accertamento d’indole tecnica specialistica prima dell’audizione. Tale capacità non può essere esclusa solo col dato anagrafico del minore, ma può presumersi quando si tratti di minori soggetti per età ad obblighi scolastici e, quindi, normalmente in grado di comprendere l’oggetto del loro ascolto e di esprimersi consapevolmente[15].
L’art. 336-bis c.c. prevede espressamente che l’ascolto del minore sia condotto dal giudice anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I giudici di merito hanno largamente praticato la modalità dell’ascolto indiretto delegandolo a professionisti, quali gli operatori dei Servizi Sociali, il Consulente Tecnico d’Ufficio o un esperto psicologo, onde evitare fraintendimenti sulle risposte e interpretare correttamente la volontà del minore. Tale modalità di ascolto è stata avallata anche dalla Cassazione, che però ne ha posto precisi paletti imponendo al giudice l’obbligo di uno specifico e previo provvedimento contenente una vera e propria delega al riguardo, nonché l’obbligo di una esaustiva motivazione della scelta per cui abdica al suo dovere di ascolto a favore di una modalità indiretta[16].
L’ascolto del minore non va operato tutte le volte che sia ritenuto inopportuno o pregiudizievole per l’interesse ad un equilibrato sviluppo psicofisico[17], né tutte le volte che esso devia dalle finalità sue proprie, divenendo anche fonte di pregiudizio per il minore stesso (C. App. Catania 17 aprile 2015).
Recentemente la Corte di Cassazione, riprendendo un consolidato indirizzo[18], si è espressa ritenendo l'audizione del minore un adempimento previsto a pena di nullità in tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, incombendo sul giudice “che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda”.
Il fondamentale principio del contraddittorio si esplicita in senso pieno con l'attribuzione al minore della qualità di parte in senso formale e processuale. Ciò avviene nei procedimenti più incisivi di ablazione della responsabilità genitoriale e nei giudizi sullo status filiationis o per la dichiarazione di adottabilità, che incidono sui diritti fondamentali del minore e in cui il minore può vantare una specifica autonoma legittimazione nel processo. In questi casi le esigenze correlate al contraddittorio possono essere tutelate con la nomina di un curatore speciale.
Nei procedimenti più contenuti negli effetti, in cui il provvedimento giudiziario viene, comunque, a incidere nella sfera del minore (separazioni, divorzi e in genere le problematiche nascenti dalla crisi familiare che riguardano i minori), la qualità di parte che compete al minore non è in senso processuale ma sostanziale e il principio del contradditorio viene salvaguardato attraverso l'istituto dell'ascolto, la cui mancanza, in assenza di una adeguata causa giustificatrice esplicitata con idonea motivazione, integra un vizio sostanziale nella decisione[19].
L'ascolto del minore ha una portata diversa a seconda dei vari procedimenti e non è sempre obbligatorio, necessario e ineludibile. Così nel procedimento in tema di sottrazione internazionale del minore previsto dall’art. 7 L. 64/1994, il tribunale per i minorenni può ascoltare il minore capace di discernimento e trarre elementi ai fini della valutazione del fondato rischio di esporlo, per il fatto del suo ritorno, a pericoli psichici. Tale audizione, pur prevista dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta adempimento necessario ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, ma non è prescritta in via assoluta e il giudice può non ricorrervi privilegiando l’interesse superiore del minore.
Nel procedimento di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio ex art. 250 c.c. è previsto l’obbligo di ascolto del minore quattordicenne al fine del suo assenso e, nell’ambito dell’opposizione, l’obbligo di audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore ove capace di discernimento.
L’ascolto del minore, pur non essendo assimilabile alla testimonianza né ad alcuno dei mezzi di prova tipici, ha di fatto un grado di cogenza superiore specialmente in materia di sottrazione internazionale di minori, secondo la più recente giurisprudenza del Supremo Collegio[20].
I riferimenti alla idoneità mentale e alla capacità di discernimento del bambino sottendono la più generale nozione di consapevolezza. Ma cosa intendono le neuroscienze per consapevolezza?
3. La consapevolezza secondo le neuroscienze
Comprendere i correlati neurali della coscienza, studiando le basi neurocognitive delle rappresentazioni ed elaborazioni relative al Sé, è attualmente una delle maggiori sfide scientifiche[21].
Secondo Searle e Nagel[22] la consapevolezza sintetizza l’esperienza soggettiva di sensazioni personali, che vengono fuse in un’unica esperienza, e mantengono un significato al di là delle sensazioni fisiche del momento. Essa risulta dalla sintesi di elaborazioni attuate dalle diverse aree cerebrali[23], ma è una proprietà emergente del cervello, diversa da tutte le altre proprietà cerebrali. L’intenzionalità come manifestazione essenziale della consapevolezza comporta la capacità di progettare l’azione comprendendone il significato, e tutto questo è accessibile all’analisi empirica, usando tecniche appropriate.
La consapevolezza (definita dal termine inglese awareness) è diversa dall’arousal o pura “vigilanza”, o attivazione dell’attenzione su sé e sull’ambiente che ci circonda. Questo livello di awareness è presente anche negli animali, che sono capaci di riconoscersi allo specchio[24]; si sviluppa precocemente nel bambino, passando dalla primitiva confusione con l’ambiente esterno, alla minima differenziazione da esso, fino alla piena consapevolezza di sé[25].
Ma è la awareness è pure diversa dalla capacità di auto-rilevazione di sensazioni, pensieri, memorie, immaginazione, emozioni (self-consciousness), e al tempo stesso di comprendere quelle degli altri, come è dimostrato dagli studi sulla “teoria della mente” nel bambino[26]. Questo livello di coscienza si sviluppa progressivamente, e con tappe che non possono essere ricondotte ad intervalli temporali precisi, dipendendo dalla interazione tra maturazione neurobiologica e specifica stimolazione ambientale, che attiva meccanismi epigenetici differenziati tra una persona e l’altra.
Tradizionalmente la corteccia prefrontale è stata associata alla programmazione dell’atto volitivo cosciente. Di recente sono state scoperte aree corticali (alcune aree del lobo temporale e parietale) la cui attivazione è associata all’esperienza soggettiva di essere l’autore di una specifica azione, quello che viene definito senso di agency[27]. I processi di riflessione sui propri processi mentali e sulla programmazione cosciente di un atto impegnano tutto il cervello, come hanno dimostrato gli studi di neuroimaging.
L’auto-consapevolezza non si esaurisce nel riconoscersi come separati dal resto del mondo (caratteristica condivisa da varie specie animali e dai bambini molto piccoli), ma perviene alla riflessione critica su sé e sul proprio “essere pensanti e attivi nel mondo”.
“La coscienza non si esaurisce nell'intenzionalità diretta agli oggetti, ma, ripiegandosi, riflette su di sé. Come tale, essa non è solo coscienza, ma autocoscienza. L'io penso e l'io penso che sto pensando coincidono in modo da non poter esistere l'uno senza l'altro”[28].
“La capacità riflessiva distingue sul piano categoriale la coscienza dell’uomo da quella degli animali in quanto è indissolubilmente connessa al linguaggio umano, e alla capacità – pure tipicamente umana – di comunicarla con le parole oltre che con il linguaggio non verbale. Come è stato precisato dagli orientamenti fenomenologici, l’Io individuale diventa attore dei diversi gradi costitutivi della coscienza, fino al livello più elevato, che è quello dell’apertura al mondo in un orizzonte originale, costituito da gerarchie di valori e da decisioni prese tra necessità e libertà, ma sempre in modo peculiare per la persona che sceglie ed è consapevole delle proprie scelte”[29].
4. Le tappe della coscienza di sé nel mondo
Gli stati di coscienza emergono dall’attività neuronale, già in fasi precoci, e le neuroscienze descrivono come si sviluppa questa emergenza. Lo fanno ovviamente basandosi su rilevazioni dirette delle attività cerebrali, in quanto non è possibile avvalersi di report soggettivi di bambini molto piccoli. Ad esempio, in neonati fra 5 e 15 mesi sono stati identificati specifici eventi cerebrali analoghi a quelli che si verificano negli adulti mentre fissano coscientemente l’attenzione su un viso. Quindi già a pochi mesi esiste uno stadio di coscienza percettiva[30].
Damasio[31] parla di un passaggio dal proto-sé (non conscio, riguardante i sentimenti elementari di esistenza, e la capacità di sentire, con base neurologica nel tronco encefalico) alla coscienza nucleare, che fa percepire all’organismo le relazioni interne e quelle con il mondo esterno, producendo specifiche azioni e modificazioni sia cognitive che emozionali. Da questa fase ancora transitoria e labile di coscienza si passa poi alla coscienza estesa, che attraverso la memoria autobiografica registra e richiama le esperienze passate. Questo sé autobiografico, che utilizza le aree corticali, consente di riflettere sia sul passato che sul futuro e sulla sua programmazione in relazione al contesto. La mente cosciente diventa così “sé sociale”.
Già Stern[32], con riferimento alla fenomenologia dello sviluppo, poneva in sequenza il passaggio dal sé emergente e nucleare, a quello soggettivo e poi verbale e narrativo. Quest’ultimo si sviluppa a partire dai 3 anni come capacità di esternare la propria esperienza, riferita a dimensioni di carattere simbolico.
Altri studi neuroscientifici[33] distinguono la coscienza primaria, evolutivamente più primitiva sul piano evolutivo, come consapevolezza del proprio corpo e della realtà esterna, dalla coscienza superiore che consapevolmente organizza il tempo e gli eventi in esso vissuti, definibile “coscienza di essere coscienti”.
La coscienza sta nella mente, ma è non localizzabile in aree specifiche in quanto esperienza unitaria, che richiede un funzionamento “a rete” come le simulazioni con neural networks hanno dimostrato. “Il network non è un epifenomeno ma è strumento essenziale nella generazione di self-awareness”[34].
Proprio per l’efficienza di questo network che include i centri del linguaggio, la coscienza umana, a differenza da quella animale, è capace di meta-consapevolezza o – per riprendere un antico termine filosofico – auto-coscienza, esprimibile in termini linguistici[35].
5. La coscienza si può raccontare?
Se è vero che la coscienza può essere espressa linguisticamente, l’incapacità di esprimere a parole gli stati di coscienza non significa che siano assenti: problema che sul piano giuridico riguarda la testimonianza, più indirettamente la dichiarazione di capacità.
Il problema è trovare i mezzi idonei per far emergere, in modo attendibile, le capacità di riferire (o dimostrare con modalità non verbali) stati mentali interni. Esistono a tal riguardo strumenti di assessment che, se correttamente usati, consentono di accedere alla coscienza infantile anche ad età precoci; raccogliendo informazioni la cui accuratezza e attendibilità può essere accertata mediante verifiche incrociate fra diversi mezzi e strumenti di indagine[36].
Partendo da questo presupposto metodologico, e utilizzando le tecniche adatte, si può condividere la affermazione secondo cui “i bambini sono testimoni migliori di quello che comunemente si ritiene”[37]. Testimoni di eventi esterni che hanno visto e sentito con i propri sensi, ma anche di ciò che all’interno della propria mente pensano e programmano.
Purché – se si tratta di procedure giudiziarie - questo venga appropriatamente chiesto e accertato, evitando domande suggestive o induttive, controllando atteggiamenti di compiacenza o acquiescenza, distinguendo se e in che misura la narrazione linguistica dell’esperienza corrisponde all’esperienza effettivamente vissuta, e se non ci sono intrusioni di elementi cognitivi o emotivi che non corrispondono o distorcono le tracce effettivamente depositate in memoria. Senza però una sfiducia pregiudiziale nelle capacità psicologiche del minore che porterebbe ad una altrettanto pregiudiziale limitazione dei suoi diritti di essere ascoltato e tenuto in considerazione su questioni che riguardano la sua vita relazionale.
È essenziale “garantire l’attendibilità degli accertamenti effettuati da parte dei tecnici e la genuinità delle dichiarazioni” ma al tempo stesso “assicurando protezione psicologica al minore, tutela dei suoi diritti di relazione”[38].
Nel caso di un bambino piccolo, è necessario un “accertamento della sua capacità a recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle ed esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano la sua relazione con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei rapporti familiari.”[39]
E quindi va stabilito di volta in volta, senza automatismi che le neuroscienze dimostrano infondati, se il minorenne - quale che sia la sua età cronologica - è consapevole di ciò che vede e che fa, e quindi possa essere giudicato testimone attendibile e/o capace di intendere e volere, e di conseguenza possa essere dichiarato responsabile - in vario grado, ovviamente – di ciò che fa e che dice. E in base al grado accertato di questa responsabilità, andranno adottati i provvedimenti giuridici che lo riguardano.
[1] Lo psicologo assiste il giudice sia fornendo sostegno psicologico al minore sia indicando le modalità con cui devono essere preferibilmente poste le domande (v.si Cass. Pen., sez. III, 15 febbraio 2008, n. 11130), evitando che il dichiarante subisca suggestioni. Parte della giurisprudenza ritiene possibile l'esame del minorenne da parte del solo psicologo (v.si Cass. Pen., sez. III, 27 aprile 2012, n. 20886).
[2] Cass. pen., Sez. III, 28/02/2003, n. 19789.
[3] Ex multis Cass. Pen., sez. III, 29 gennaio 2020, n. 12027; Cass. Pen, sez. III, 5 aprile 2019, n. 20018. Altra parte della giurisprudenza considera necessari i relativi riscontri ove sia stata omessa la perizia che accerti l'idoneità a testimoniare o qualora la perizia non abbia rispettato i protocolli generalmente riconosciuti dalla comunità scientifica (v. Cass. Pen., sez. III, 23 giugno 2020, n. 21166).
[4] Cass. pen., Sez. III, 06 marzo2003, n. 36619.
[5] Cass. Pen, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 27192.
[6] Cass. Pen., sez. III, 9 luglio 2020, n. 23202; Cass. Pen., Sez. III, 21 luglio 2020, n. 25042.
[7] Cass. Pen., sez. III 29 gennaio 2020, n. 12027.
[8] Cass. Pen., sez. III, 18 dicembre 2013, n. 7510, che sottolinea anche il pericolo di “amnesia infantile”.
[9] Cass. Pen., sez. IV, 17 dicembre 2010, n. 2585; Cass. Pen., sez. III, 10 gennaio 2007, n. 8661; Cass. Pen., sez. III, 5 ottobre 2006, n. 41282.
[10] Cass. Pen., sez. III, 23 maggio 2007, n. 35224.
[11] L’art. 315 bis c.c. riconosce il diritto del bambino che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, ad essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano. L’art. 336 bis c.c. dispone che il minore sia ascoltato dal giudice nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo interessano, salvo il caso in cui l’ascolto sia in contrasto con il suo interesse o manifestamente superfluo.
[12] Di recente Corte EDU, M.K. v. Greece, 1° febbraio 2018, ricorso n. 51312/16.
[13] Cass.civ, SS. UU., 21 ottobre 2009, n. 22238; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32413, ord.; Cass.civ., 20 novembre 2019, n. 30191, ord.; Cass. civ., 4 novembre 2019, n. 28244, ord.; Cass. civ., 3 ottobre 2019, n. 24790, ord.; Cass. civ., 16 febbraio 2018, n. 3913.
[14] Cass. civ., 7 maggio 2019, n. 12018, ord.
[15] Cass. civ., 19 gennaio 2015, n. 752.
[16] Ex multis Cass. civ., 24 maggio 2018, n.12957, ripresa da Cass. 17 aprile 2019, n.10774.
[17] Cass. 2 luglio 2014, n. 15143.
[18] Cass., sez. I, 25 gennaio 2021, n. 1474, ord. (precedenti: Cass., SS: UU:, n. 22238/2009; Cass. n. 6129/2005; Cass. n. 12018/2019; Cass. n. 16410/2020).
[19] Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2020, n. 16410, ord.
[20] Cass. civ., 5 marzo 2014, n. 5237; Cass. civ., 26 settembre 2016, n.18846.
[21] Baars B. J., Ramsøy T.Z., Laureys S. Brain, conscious experience and the observing self, Trends in Neurosciences, 2003, 26, 671-675.
[22] Searle J. R., Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998; Nagel T., Mente e cosmo. Cortina, Milano 2015
[23] Dennett D.C. Contenuto e coscienza, Mulino, Bologna 1992.
[24] Gallup Jr G. G. e al. >span class="mixed-citation">(Eds) The cognitive animal: empirical and theoretical perspectives on animal cognition, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 325-333.
[25] Rochat P. Five levels of self-awareness as they unfold early in life, Consciousness and Cognition, 2003, 12, 717-731.
[26] Camaioni L. (a cura di) La teoria della mente. Origini, sviluppo e patologia. Laterza, Bari-Roma 2006.
[27] Chambon V., Sidarus N. Haggard P. From action intentions to action effects: how does the sense of agency come about? Frontiers in Human Neuroscience, 2014, 8, 320.
[28] Jaspers K. Philosophie, Springer, Berlin 1932; tr. it. Filosofia, Utet, Torino 1978 (cit. p. 117).
[29] Di Nuovo S. Prigionieri delle neuroscienze? Giunti, Firenze 2014, pp. 156-157.
[30] Kouider S. e al. A neural marker of perceptual consciousness in infants, Science, 2013, 340, 6130, 376-380.
[31] Damasio A. Il sé viene alla mente, tr. it. Adelphi, Milano 2012.
[32] Stern D. Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri 1992.
[33] Edelman G.M., Tononi G. Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione. Einaudi, Torino, 2002.
[34] Low H.C., Changeux J.P., Rosenstand A. Towards a cognitive neuroscience of self-awareness, Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 2017, 83.
[35] Perconti P. L'autocoscienza: cosa è, come funziona, a cosa serve, Laterza, Roma-Bari 2008.
[36] Gulotta G., Camerini G. Linee guida nazionali. L’ascolto del minore testimone, Giuffrè, Milano 2014.
[37] Castellani P., Pajardi D., La testimonianza. In: Quadrio A. (a cura di) Psicologia e problemi giuridici. Giuffrè, Milano 1991. Una ricerca sperimentale sull’argomento ha concluso: «Non abbiamo riscontrato differenze significative tra l’attendibilità dei bambini e la loro età: quindi, gli intervistati di 6, 7 e 8 anni sono risultati essere ugualmente attendibili nelle risposte alle domande aperte non suggestive» (Gulotta G., Ercolin D., La suggestionabilità dei bambini, uno studio empirico, Psicologia Giuridica, 2004, pp. 83-92).
[38] Aa. Vv. Linee guida per l’esame del minore. Carta di Noto (4a edizione) 14.10.2017.
[39] Cass. Pen. Sez. III, 3 ottobre 1997, n. 8962.
Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini
di Pier Luigi Portaluri
Sommario: 1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo - 2. Il giudizio di prime cure - 3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento - 4. Casa Livatino e vincolo testimoniale - 5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori.
1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo
Dopo la barbarie mafiosa del 21 settembre 1990, con un decreto del 2015 l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana dichiara «di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante» la casa dove, a Canicattì, la famiglia di Livatino viveva.
Il padre del «Giudice ragazzino» era scomparso nel 2010, per cui – «in assenza di ulteriori eredi che della famiglia Livatino conservassero il nome»[1] – l’immobile era pervenuto in eredità al soggetto ricorrente: il quale, ricevuto quel decreto di vincolo, lo impugna innanzi al TAR Palermo[2].
Due ordini di censure.
Anzitutto deduce che l’Assessorato non avrebbe preso in considerazione le osservazioni endoprocedimentali della ricorrente.
Ma è col secondo ordine di doglianze che si entra nel vivo della vicenda.
Il ricorrente ritiene infatti che «l’immobile non presenterebbe alcuno dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la dichiarazione di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante, sia sotto il profilo del valore culturale, sia con riferimento all’assenza di pregio dei beni mobili presenti all’interno dell’immobile»[3]: di qui l’asserita violazione degli artt. 10, comma 3, lett. a) e d) e 13, d.lgs. n. 42/’04.
2. Il giudizio di prime cure
Il Tar Palermo dapprima sospende il decreto impositivo atteso il «mancato esame delle osservazioni presentate dalla ricorrente, alle quali il provvedimento impugnato non fa il minimo cenno»[4]: dispone quindi per il riesercizio del potere.
Ma l’Assessorato non riadotta un nuovo decreto e sceglie invece la strada della difesa meritale del provvedimento.
La strategia è vincente. In sentenza[5] il primo Giudice cambia infatti idea e aderisce espressamente alla tesi sostanzialistica per cui – in caso di omessa considerazione degli apporti difensivi – la violazione delle norme sul contraddittorio non rileva se gli interessati non provano o non forniscono elementi, «ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo; sotto tale angolazione non si richiede che dal provvedimento stesso risultino formalmente esaminate le memorie e i documenti depositati nel corso del procedimento, ma che una tale valutazione sia stata sostanzialmente compiuta».
La censura di diritto procedimentale è dunque superata e il Tar può esaminare le doglianze sostanziali.
Al giudice territoriale bastano pochi passaggi ricostruttivi per accertare la legittimità del decreto regionale e dunque respingere il ricorso: la relazione che accompagna il provvedimento, e che ne è parte integrante, motiva in modo adeguato la scelta vincolistica.
Vediamo il percorso argomentativo.
Un primo profilo è meno convincente. Piuttosto debole. Concerne l’interesse storico-artistico particolarmente importante dell’immobile in sé ex art. 10, comma 3, lett. a), cit.: il giudice territoriale si limita a validare in modo abbastanza cursorio la relazione citata, dove la casa della famiglia Livatino «viene collocata temporalmente e storicamente dal punto di vista architettonico, nella parte in cui la stessa si fa risalire alle fine dell’ottocento senza interventi di ristrutturazione e con la presenza delle finiture originarie».
È vero, precisa subito prima il Tribunale rifacendosi al diritto vivente, che «…il giudizio, che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità». Ma di contro – osserviamo noi – una motivazione così vaga e stereotipa sul punto sarebbe bonne à tout faire.
Tutto questo conta poco, per fortuna. Il cuore della decisione è ovviamente altrove, nel secondo profilo motivazionale: ed è tutto – sottolinea il giudice di prime cure – nel «riferimento all’insieme dei beni complessivamente considerati (immobili e mobili) in quanto la p.a. ha ritenuto detti beni espressione di valori storico-culturali simbolici, e di un valore sociale connesso non tanto ai beni mobili in sé considerati, quanto piuttosto al valore simbolico che gli stessi assumono per le generazioni, anche in funzione di stimolo per la coscienza sociale e culturale di un determinato contesto storico». Valenza culturale, peraltro, che nella ricordata relazione tecnica allegata al decreto è attestata dal fatto che «tale dimora è luogo di incontro di associazioni antimafia […] il che implica l’attualità del collegamento con l’aspetto culturale inteso in senso ampio»[6].
3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento
Il soggetto proprietario appella la sentenza davanti al Consiglio di Giustizia, che tuttavia conferma[7] la pronuncia del TAR.
Il Consiglio di Giustizia scrive una sentenza particolarmente ariosa.
Ci parla in toni vividi di quel mattino tragico, dei quattro sicari che uccisero Livatino ad appena 38 anni per ordine della stidda agrigentina; di come quel delitto avesse avuto anche l’effetto di aiutare il risveglio delle coscienze nell’impegno contro la mafia. Si spinge anche oltre, il giudice. Un tocco polemico: nell’esaltare di Livatino «l’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza», sottolinea che in tal modo esso «assumeva valenze ulteriori a confronto delle deviazioni cui era andato incontro un certo modo di intendere e praticare l’iniziativa contro la mafia nella regione siciliana»[8].
Non manca in sentenza l’accenno al processo di beatificazione, che peraltro si concluderà fra pochissimi giorni, il prossimo 9 maggio 2021: per la Chiesa – ricorda il Consiglio – quel delitto è un martyrium in odium fidei[9].
Poi la descrizione – insistita – della casa di Livatino, degli arredi, delle semplici cose appartenutegli[10].
Infine – sempre tratta dalla relazione di accompagnamento al decreto – la conclusione: «la dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore».
Questo indugiare non è superfluo, nel ductus della decisione. Ne è anzi la base fondativa.
Tralascio qui le doglianze appellatorie di diritto procedimentale: il Consiglio le rigetta muovendosi sostanzialmente nella scia del TAR.
Più interessanti sono invece le considerazioni meritali. Il CGA muove, ancora una volta, dal contenuto dell’atto impugnato, condividendolo (come vedremo): Casa Livatino – aveva sostenuto la relazione assessorile – è un «connubio tra valenza architettonica e preziosa testimonianza di memoria storica e di avvenimenti socio-politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e della sua provincia», come tale tutelabile in base all’art. 10, comma 3, lett. a) e d). Per cui – afferma l’Assessorato siciliano – quella dimora è un bene culturale «particolarmente importante».
Per il nostro giudice d’appello si tratta quindi di «calibrare il valore semantico del termine “bene culturale”».
A questo fine, richiamato il concetto di patrimonio culturale introdotto dal Codice e la conseguente bipartizione in beni paesaggistici e culturali, la sentenza afferma che tra i caratteri comuni a tutti i beni culturali quello che rileva nel nostro caso è il carattere dell’immaterialità, intesa come l’attitudine a essere «testimonianza di superiori valori di civiltà». I valori – prosegue la pronuncia – «si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società». E ancora: «il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici»[11].
«Immaterialità». «Significazione altra». «Simbolo»[12]. Concetti sui quali devo ora soffermarmi.
4. Casa Livatino e vincolo testimoniale
Volgiamoci[13] allora alla norma centrale, quella con cui s’apre il capo sui beni culturali: l’art. 10 del codice[14]. Per garantire la tutela dei beni oggetto della nostra vicenda l’Assessorato siciliano ne ha utilizzato sopra tutto il comma 3, lett. d)[15], concernente «le cose immobili e mobili[16], a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose»[17].
Questi beni non devono presentare un interesse storico o artistico in sé. Sono rilevanti per un altro aspetto, per il loro legame con un evento storico o con una specifica epoca della civiltà: condizione sufficiente perché il bene sia vincolato.
I presupposti per l’imposizione del vincolo qui sono, in primo luogo, l’esistenza di un fatto della storia e della cultura collegabile al bene; poi, l’importanza particolare che la cosa assume per effetto del riferimento a quel fatto storico-culturale.
È il c.d. vincolo testimoniale (o storico-relazionale), sintagma molto elegante al quale la giurisprudenza ha attribuito carattere di specificità: «il vincolo appena descritto si distingue tradizionalmente da quello previsto in generale dallo stesso art. 10 a tutela delle cose di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’. Si afferma infatti, in sintesi estrema, che la cosa di interesse per riferimento con la storia di per sé non rivestirebbe alcun interesse culturale, ma lo assume nel caso concreto, perché collegata ad un qualche evento passato di rilievo: si fa l’esempio di un oggetto di fattura comune e di nessun pregio artistico, che però fosse caro al personaggio celebre che ne era proprietario. In questo senso si esprimono anche, in termini generali, le sentenze della Sezione 22 maggio 2008 n. 2430 e 24 marzo 2003 n. 1496, che si citano perché di rilievo, e riguardano due casi nei quali il vincolo in questione era stato apposto su un bene immobile. […] Nei termini descritti, si osserva che il riferimento con la storia non necessariamente coinvolge fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi della storia locale, come appunto la valorizzazione di un quartiere in precedenza disagiato, ovvero della storia minore, cui rimandano le mappe di un tratto di campagna. Si tratta però pur sempre di fatti specifici, bene individuati come tali. Si potrebbe anzi affermare che proprio in questo carattere specifico sta la differenza fra il vincolo in esame e quello storico-artistico, dato che, all’opposto, i valori artistici sono espressione del generico gusto di un’epoca, non necessariamente ricollegabile a fatti determinati»[18].
Il profilo d’importanza storica si colloca al di fuori del bene e prescinde da un requisito di vetustà del bene stesso[19]: il vincolo potrebbe essere applicato – come nel nostro caso – anche a beni di fattura recente, ma che meritano tuttavia di esser comunque tutelati a motivo del loro collegamento con fatti storici specifici.
5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori
Il riferimento alla storia politica, peraltro indipendente – come abbiamo appena visto – da una determinata data di costruzione del manufatto, rende questa norma di notevole rilievo per noi.
In base alla lett. d) in esame, infatti, la dichiarazione ex art. 13 del codice può riguardare un bene privato o pubblico, di realizzazione remota o moderna, pregevole o meno: nulla di tutto ciò rileva, ma solo l’esser protagonista o testimone di un accadimento cui si possa oggettivamente annettere rilievo storico-politico.
La natura puramente relazionale di questa tipologia di vincolo, e la vastità indefinita del parametro di valutazione cui esso appunto si riferisce e quindi ci riconduce (la generica rilevanza politica di un evento), sono strumenti che l’ordinamento offre a tutela di una categoria di beni assai estesa, proprio perché non circoscrivibile per qualità intrinseche.
Il rischio è anzi quello opposto: che ricadano nel perimetro del vincolo beni collocati in una “posizione segnica” troppo distante dall’evento cui dovrebbero riferirsi.
Per utilizzare una figurazione, l’accadimento – l’Ereignis – è generato da una serie virtualmente infinita di antecedenti causali. Può a sua volta immaginarsi come un punto d’impatto su di una superficie che disegna – a mo’ di cerchi concentrici – i segni dei suoi effetti. Non è semplice individuare il momento, a monte e a valle dell’evento, a partire dal quale si possa cominciare a ritenere segnicamente irrilevante la relazione – pur esistente per causa, effetto, vicinanza o somiglianza (come si dirà meglio più avanti) – fra una cosa-testo e l’evento stesso.
Un esempio costruito sul nostro caso. Nell’interminato novero delle cose che esibiscono oggettivamente un legame causale, effettuale (o relazionale in genere) con il tragico accadimento del 21 settembre 1990, quando si deve ritenere che quel legame sia così labile e lontano da non meritare l’apposizione del vincolo sulla res che si trova in una situazione siffatta? Il giudizio è foriero di non poche incertezze, esplicandosi nell’esercizio di un potere comunque discrezionale, sia pur connotato da valutazioni più o meno assise su criteri tecnico-scientifici[20].
Ciò deriva dal fatto che la funzione originaria del bene – la sua utilità[21] concreta – è infatti trascesa del tutto: l’oggetto acquista un nuovo significato, come frase di un testo diverso e più ampio.
Da qui si diparte poi un duplice, progressivo allargamento della prospettiva, ben sottolineato dal Consiglio siciliano.
Anzitutto, l’area semantica del bene vincolato si affranca dal suo riferimento a un oggetto specifico (materiale o meno, inteso dunque come Gegenstand), per assurgere a indicare un intero ambito di riflessione e d’interpretazione della realtà: un angolo visuale di lettura e comprensione dei processi reali.
Inteso come ‘campo’, quel bene induce poi alla costruzione di una teoria affidante intorno al modo con cui uno spazio-macchina[22] produttivo di segni crea un ambiente affatto immaginario, nonché intorno allo scopo ultimo cui esso è funzionale[23].
Sottrazione all’uso[24], protezione, pregio[25] e visibilità sono le caratteristiche evidenti e costanti dell’oggetto vincolato, che trae la sua rilevanza dall’ingresso in quello spazio-macchina, dal quale infatti non può più – regola abbastanza costante pur nell’infinita diversità di tempi, luoghi, modi, circostanze – uscire[26].
Questi beni esibiscono tutti una palese «omologia di funzioni»[27]. A differenza dei beni apportatori di utilità pratica (produzione, consumo, etc.), essi apportano un significato rimandando a ciò che non è immediatamente visibile/sensibile: sono cioè puri semiofori[28].
In sintesi, cose (utili) in opposizione a semiofori (significanti). Tali perché orientati nella direzione della loro funzionalizzazione a esigenze di elevazione culturale, di protezione e trasmissione dei fondamenti della civiltà di un popolo.
Non importa il pregio in sé del bene. Il segno di vita – e di morte – che questi oggetti tracciano come media simbolici è esso stesso momento di valore. Non può essere alterato.
L’oggetto è entrato in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio[29], divenendo «κτῆμα ἐς αἰεί»[30], acquisto perenne: la storia ne ha scolpito quel sembiante esteriore che noi – i sorteggiati a vivere ancora – possiamo oggi contemplare[31].
V’è qualcosa di sacrale. E un invito per il giurista-poeta[32]: queste cose restino sottratte al divenire. Tramandino per sempre il ricordo di un’ora tragica; di un’esistenza breve, piena di Grazia.
[1] Come si legge nella sentenza commentata.
[2] Uno dei più classici casi di dialettica fra interesse pubblico e (legittimo) interesse privato. Cfr. M.L. Torsello, Profili generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in giustizia-amministrativa.it: «l’interesse sotteso al bene culturale è intrinsecamente “debole”, nel senso cioè che è esposto più di altri a confliggere con valori diversi delle società contemporanee, quali quelli dell’industria e del profitto. Del resto è questo il senso della collocazione della tutela tra i principi fondamentali della nostra Costituzione».
[3] Anche questo passo è preso dalla sentenza del CGA.
[4] Ord. n. 172/’16.
[5] È la n. 2887/’16.
[6] Si pensi al «Centro Studi Rosario Livatino», che – come si legge nel sito (centrostudilivatino.it) – si occupa di «temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limiti della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale», attivandosi anche per iniziative di mobilitazione culturale.
[7] È la sentenza 15 febbraio 2021, n. 107, pubblicata qui.
[8] Molto bella, e sopra tutto molto autentica, l’intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore generale della Repubblica a Catania, il quale lavorò a contatto strettissimo con Livatino), pubblicata in questa rivista per il trentennale della morte del magistrato: Livatino ieri e oggi.
Non è per fortuna uno stucchevole ritratto agiografico da immaginetta sacra, da improbabile santino, quello che vien fuori dalle parole di Saieva: «La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri». Ancora, per descrivere le reazioni all’omicidio: «Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. […] E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre».
Come giustamente secca e impietosa è la descrizione del clima ambiguo e opaco cha caratterizzava le istituzioni del tempo, inclusa la magistratura: «noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente». Poi si ebbe finalmente la reazione dello Stato. Ecco il commento tagliente di Saieva: «[…] nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi».
Sulla figura di Livatino si v. ora il recentissimo volume di A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un Giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, il timone, 2021.
[9] Sia pure nella sua più recente accezione, indiretta e larga. Cfr. K.J. Wojtyla, Il sangue dei due missionari martiri costituisce le fondamenta della Chiesa cinese, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/1, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, p. 1245: «gli uccisori danno mostra di odiare la fede non solo quando la loro violenza si getta contro l’annuncio esplicito della fede [...], ma anche quando tale violenza si scaglia contro le opere di carità verso il prossimo, opere che obiettivamente e realmente hanno nella fede la loro giustificazione ed il loro motivo. Odiando ciò che sorge dalla fede, mostrano di odiare quella fede che è la sorgente».
[10] «Il vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice), una vecchia radio assieme ad una nutrita videoteca in VHS. Presenti anche la copia della tesi di specializzazione in Diritto regionale nonché alcuni capi di abbigliamento compresa la toga posta sulla bara il giorno dei funerali».
[11] Ho aggiunto io i corsivi che compaiono nelle frasi della sentenza riportate nel testo.
[12] Il CGA insiste sul concetto di simbolo: «il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice. […] A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia».
[13] Si noti: in assenza di altri documenti recanti criteri per l’identificazione di un bene culturale (uso un linguaggio attualizzato), per molto tempo la fonte – pur a maglie comunque assai larghe – cui la prassi amministrativa ha fatto ricorso anche per procedere alla ricognizione dell’esistenza di un interesse pubblico all’apposizione del relativo vincolo è stata la circolare 13 maggio 1974, n. 2718 del Ministero della pubblica istruzione (allora titolare della competenza in materia), in materia di esportazione delle cose di interesse artistico ed archivistico.
Frutto del contributo di personalità come Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Massimo Pallottino, gli indirizzi risentono di una duplice influenza, derivante sia dalla formazione culturale dei loro componenti, di natura prevalentemente storico-artistica, sia dallo Zeitgeist, vicino a una visione marxiana dei rapporti sociali. È infatti percepibile l’abbandono (pur se ancora in itinere) della concezione idealistico-estetica dell’intera materia. Così la circolare: «in sostanza può dirsi che mentre fino a qualche tempo fa le istanze prevalenti nella considerazione delle cose del passato erano quelle estetiche, ora pur conservando i valori estetici tutto il loro peso, se ne sono aggiunti ad essi molti altri che allargano notevolmente la sfera di interessi in cui tali cose possono rientrare». E vi affiorano le prime, ma già abbastanza strutturate teoricamente, consapevolezze circa la necessità di superare l’approccio sino a quel momento domi-nante: si delinea la traiettoria che condurrà poi, come vedremo, al modello – particolarmente interessante per la nostra riflessione – di apertura tendenziale nei confronti della possibilità di ravvisare i caratteri del bene culturale pressoché in ogni «testo» connotato da un particolare effetto di senso o valore.
[14] Di seguito, per comodità di lettura, riporto il testo dell’art. 10 (sul quale v. il commento di G. Morbidelli in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, III ed., Milano, 2019, 133 ss., il quale legge opportunamente il telaio normativo distinguendovi i beni culturali «per ragioni soggettive», «ope legis», «per dichiarazione amministrativa» ed «esemplificati»). «1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. 2. Sono inoltre beni culturali: a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all’articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. 3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1; b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale; d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose. Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale; d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione; e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.
4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio; e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio; f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico; g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico; h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico; l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale.
5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
[15] In questa vicenda il riferimento assessorile alla lett. a) ha – come abbiam visto – un ruolo chiaramente satellitare e di blando rinforzo motivazionale.
[16] Il codice ha opportunamente esteso la tutela anche ai beni mobili, esclusi invece dal previgente art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), secondo cui «sono beni culturali […] le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante».
[17] Così prosegue la lett. d) cit., a seguito della novella recata dall’art. 6, l. 12 ottobre 2017, n. 153 («Disposizioni per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio e dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri»): «Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale».
[18] Cons. Stato, VI, 14 giugno 2017, n. 2920: è il caso del cinema ‘America’ di Roma.
V. anche Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4399, secondo cui «la dichiarazione di particolare interesse storico-artistico di un immobile si deve basare su elementi pregnanti che ne illustrino uno specifico pregio o che ne attestino quantomeno la sua valenza testimoniale di un tipico e ben determinato stile architettonico».
[19] Questo profilo è oggetto di una censura dedotta in primo grado (ma che parrebbe non riproposta in appello). Il Tar Palermo la rigetta così: «non coglie nel segno neppure il riferimento alla circostanza che i beni mobili avrebbero meno di cinquanta anni, atteso che la disposizione normativa di riferimento è contenuta nell’art. 12, co. 1, del d.lgs. 42/2004, il quale – nel porre ope legis il vincolo sulle opere la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili – si riferisce ai soli beni mobili di cui all’art. 10, co. 1, d. 42/2004 e, quindi, ai soli beni pubblici o di enti privati riconosciuti, i quali non vengono in rilievo nel caso di specie».
[20] La sentenza evidenzia chiaramente questo aspetto: «il giudizio circa la sussistenza dei requisiti che legittimano l’emissione del provvedimento impugnato è certamente discrezionale e lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale».
Dobbiamo a G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in AA.VV., Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, un’attenta analisi sulle dinamiche del potere tecnico-discrezionale nelle vicende qui in esame. Premessa in generale l’estraneità di ogni processo ponderativo, dovendosi quel potere muovere – come viaggiando su una monorotaia, dice l’A. – verso la tutela del solo interesse commessogli dalla norma, egli sottolinea che «la particolarità delle “tecniche” da spendere in questo settore – storia, storia dell’arte, architettura, scienze del paesaggio e del territorio, ecc. – è di un marcato carattere di “non-scienza esatta” delle conoscenze specialistiche necessarie alla ricognizione per la dichiarazione di bene culturale o paesaggistico, ovvero alla stima di compatibilità dell’intervento concretamente immaginato». Per la tesi, non priva di qualche arditezza, secondo cui la considerazione e ponderazione di interessi altri «costituirebbe invece un sicuro argine al dilagare della notificazione di rilevante interesse, indice sintomatico di un modo di amministrare che non può essere condiviso» per l’asserito timore che l’eccesso conduca a una sostanziale vanificazione della tutela, v. B. Cavallo, op. cit., 122.
[21] Un «mondo strano da cui l’utilità sembra bandita per sempre»: così, a proposito dei musei e degli oggetti custoditi lì, inizia la sua analisi celebre e densissima, K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, Torino, 1978, 330 ss., spec. 330; cui adde ovviamente Id., Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, 2007.
[22] La casa di Livatino, nel caso nostro.
[23] Il riferimento d’obbligo è ai due lavori di Krzysztof Pomian già citati: a essi mi atterrò nel prosieguo.
[24] E dunque al circuito dello scambio economico in base all’utilità sua intrinseca, se e in quanto esistente.
[25] Poiché, pur essendo allo stato non utilizzabile, potrebbe comunque esser considerato un oggetto con valore di scambio, anche se non d’uso.
[26] Come le offerte agli dei nei templi greco-romani, dai quali non potevano essere distolte se non in situazioni estreme, onde ricavarne provviste finanziarie ritenute indispensabili per la salus rei publicae.
[27] K. Pomian, Collezione, cit., 341. Pomian analizza anzitutto i cc.dd. musealia dell’epoca premoderna (suppellettili funebri, offerte votive, tesori reali, etc.), ravvisandovi un tratto comune: consentire la comunicazione biunivoca tra il mondo visibile e quello invisibile (tramandato da miti, leggende, religioni: è il linguaggio a secernere i fantasmi dell’invisibile – osserva Pomian – in un mondo dove si muore e che induce a sperare che il visibile/sensibile sia soltanto una parte dell’essere), donde le quattro già viste loro caratteristiche dell’esser sottratti all’uso comune, protetti, pregiati, visibili. Poiché l’invisibile è di necessità ritenuto superiore al visibile, l’oggetto che col primo intrattiene una relazione di partecipazione, discendenza, vicinanza o somiglianza gode inevitabilmente di uno status privilegiato rispetto alle altre cose.
[28] K. Pomian, Collezione, cit., 350.
[29] «Preservata nel tempo nella sua immobile integrità»: così dice – come abbiam visto – la relazione assessorile a proposito di casa Livatino (e di tutto ciò che vi è conservato).
[30] Tucidide, Historiae, I, 20, 23.
[31] Onde il «vedere poetico» che rimanda a Hölderlin e da lui a Heidegger e Benjamin: «un’identificazione affettiva che consente di superare la distanza fra il mondo in cui sono le cose e il mondo in cui ne pronunciamo i nomi, cogliendo un’intimità con le cose stesse sentite non più come “oggetti opachi e chiusi” ma come intimamente partecipi alla nostra vita, ad un “destino creaturale” dove vita delle cose, vita dell’uomo, della natura sono necessariamente legati»: così A. Quendolo, op. cit., 47.
[32] Per il giurista che conosca e dica il diritto poietico, con M. Nussbaum, Giustizia poetica, Milano-Udine, 2012, su cui ora i profondi pensieri di G. Montedoro, Giustizia poetica, in apertacontrada.it («Un giurista concepito come mero tecnico ha meno chances di comprendere la complessità valoriale dell’ordinamento multilivello, di essere attrezzato per interpretare le diverse culture che ormai confluiscono nel mare magnum dell’esperienza giuridica sovranazionale, ha meno attenzione in definitiva per ogni aspetto dell’umano ed alla fine è meno capace di apprezzarne la concretezza con quel grado di eternità che è in ogni differenza»).
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