Intervista a Luciano Violante di Paola Filippi e Roberto Conti
Onorevole Violante, Lei è entrato in magistratura nel 1966 e né è uscito nel 1983.
È stato magistrato in un periodo di transizione fondamentale. Da magistrato ha vissuto l’Italia della contestazione degli anni 70’, il riflusso degli anni ‘80 e infine il terrorismo. Com’era la magistratura alla fine degli anni ‘60 e come era quando l’ha lasciata? Quanto ha cambiato la magistratura l’ingresso delle donne?
Luciano Violante: sono stato giudice istruttore sino al 1977, poi all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia sino al 1979, anno in cui sono stato eletto per la prima volta alla Camera. Mi sono dimesso nel 1983, dopo aver vinto la cattedra di istituzioni di diritto e procedura penale. In magistratura c’era una forte divisione tra la componente prevalentemente giovane che si sentiva impegnata per un’applicazione totale della Costituzione e quella prevalentemente più anziana che considerava con sospetto questa tendenza, ritenuta politicizzata. La mia generazione era la prima interamente educata in età repubblicana ed era naturalmente propensa alla innovazione. Aggiunga il più generale spirito modernizzatore di quegli anni. Ci sentivamo portatori di uno spirito diverso dal passato. Eravamo fortemente integrati con l’Università; cito a caso le intense discussioni sui caratteri del diritto nuovo con Stefano Rodotà, Alessandro Baratta, Franco Bricola, Giorgio Ghezzi. Pietro Barcellona, Giorgio Marinucci. Al centro ponevamo la critica alla neutralità del diritto e alla sacralizzazione del ruolo. La più intensa stagione di riforme mai vissuta nella storia repubblicana cancellava l’autorità maritale, l’adulterio della donna, il delitto d’onore, stabiliva che l’adozione serviva per dare una famiglia a un bambino e non un bambino a una famiglia. Lo statuto dei diritti dei lavoratori e il processo del lavoro rovesciavano i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Il terrorismo bloccò questo processo. Le divisioni si posero quindi su un altro piano. Tra coloro che ritenevano giuste tutte le misure restrittive, quelli che valutavano caso per caso (io ero tra questi) e quelli che le ritenevano sempre e comunque incostituzionali.
Era comunque forte il senso di far parte di una aristocrazia della Repubblica; anche perché questo ti insegnavano i capi migliori. La cortesia, la buona educazione, specie a Torino, erano componenti essenziali della professione. Alcuni intendevano un privilegio corporativo l’essere considerati come un’aristocrazia; altri la intendevano come un sovrappiù di responsabilità.
Quanto alle donne, mia moglie é una delle otto prime donne entrate in magistratura. Siamo stati la prima coppia di magistrati e il CSM non sapeva che regole applicare; ci suggerirono di scegliere una grande città; decidemmo per Torino. All’inizio per le donne non fu facile; non c’ertano neanche i bagni per loro. Ma anche in questo campo valeva una distinzione generazionale.
È stato pretore mandamentale e poi giudice istruttore, le stesse funzioni di Giorgio Falcone e Paolo Borsellino, una funzione che condivideva il ruolo requirente con quello giudicante, erano altri tempi e il rito era quello del codice Rocco, indagare e poi rinviare a giudizio rendeva i processi meno giusti? Il referendum (che propone l’eliminazione del passaggio) e il DDL in discussione al Senato sulla riforma ordinamentale (che riduce il passaggio ad un’opzione da esercitarsi entro sei anni dalla prima legittimazione) hanno riacceso il dibattitto, mai sopito, sulla separazione dei pubblici ministeri dai giudici. Qual è il suo pensiero in proposito? L’appartenenza all’ unico ordine, quello dell’art. 104 Cost., ritiene possa effettivamente minare l’indipendenza dei giudici e ledere il principio del giusto processo?
Luciano Violante: Non ho mai fatto il pretore. Fui prima giudice a latere in tribunale e poi giudice istruttore. Aver fatto l’esperienza della valutazione delle prove mi è stato utile quando ho dovuto raccoglierle. Certo il giudice istruttore che faceva l’istruttoria e poi decideva se assolvere o rinviare a giudizio (e a volte, grazie a un escamotage, esercitava anche l’azione penale) era una figura assolutamente anomala. Credo che la separazione delle professioni sia un errore. A maggiori esperienze corrisponde un migliore bagaglio professionale. In Francia e in Germania, ad esempio, è un merito aver esercitato diverse funzioni.
Negli ultimi sedici anni il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto 2 magistrati su mille, quello inverso 3 su mille (compresi passaggi in corte di appello e in Cassazione) secondo lei come può sostenersi che la separazione delle carriere (questo l’effetto dell’introduzione dell’opzione entro un termine), potrebbe influire positivamente sul processo penale?
Luciano Violante: Non c’entra nulla. Se si considera l’alta percentuale di proscioglimenti e di assoluzioni, ci si rende conto che quello della subalternità del giudice al pm è un sospetto infondato.
In Magistrati, Lei ha affermato che “bisogna fissare il principio dello stare decisis”, invocando anche ragioni di natura economica. Una parte consistente della magistratura, critica aspramente la proposta di riforma ordinamentale che prevede la creazione del fascicolo delle c.d. performance. Si sottolinea che una valutazione parametrata all’esito degli atti e dei provvedimenti, nelle successive fasi rischia di minare l’indipendenza e ingessare il diritto vivente, svuotandone il ruolo propulsivo, fino a introdurre un sistema contrario al dettato costituzionale (art.101 Cost.) e gerarchico, come lei lo definì nello stesso saggio. Non intravede il pericolo che un sistema di valutazione della professionalità fondato sulle verifiche degli esiti dei procedimenti rischi di produrre l’effetto di trasformare il giudice da interprete dei principi costituzionali e delle carte dei diritti fondamentali a mero ratificatore del precedente per evitare che la sua decisione, magari innovativa, sia censurata e che l’effetto finale sia, per eterogenesi dei fini, quello dell’abbassamento dell’impegno a cambiare la giurisprudenza per la migliore tutela possibile dei diritti fondamentali?
Luciano Violante: Sono anche io critico sul cosiddetto fascicolo. È la proposta di chi non sa che cosa è un processo. L’ordinamento che prevede tre gradi di giudizio presuppone che siano possibili valutazioni diverse. Tuttavia ci sono state troppe iniziative penali avventate che hanno distrutto senza fondamento la reputazione e la vita di troppe persone e di troppe famiglie. Gli errori si pagano sempre. E poi, guardi non è che le decisioni innovative siano di per sè corrette. Possono anche essere delle emerite sciocchezze. Lei comunque tocca un punto di fondo. Compito principale del giudice è la riforma dell’ordinamento o l’equa risoluzione dei conflitti? Io penso che la riforma sia compito primario delle istituzioni politiche.
Pensi alla vicenda della procreazione medicalmente assistita, alla quale sono seguiti diversi interventi del giudice costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne confermarono pienamente le ragioni di base. Non la considera, paradossalmente, una conferma di quella sua affermazione “Il diritto che non riconosce il valore creativo della contestazione alla legge non progredisce, statico” che Lei stesso scrive in Giustizia e mito, insieme a Marta Cartabia. Non crede che la naturale vocazione del diritto ad implementarsi per effetto dell’interpretazione innovativa dei giudici, al quale concorre quella dei pubblici ministeri degli affari civili costituisca un valore fondamentale dei moderni sistemi democratici?
Luciano Violante: Purché il magistrato comprenda che lui non é il sagace inventore di nuove intelligenti interpretazioni, ma il custode della certezza dei diritti. Cito il caso Stamina. Molti uffici giudiziari disapplicarono direttamente il decreto legge Balduzzi, senza ricorrere alla Corte Costituzionale. Fu un abuso grave.
Il nostro ordinamento prevede come mezzo per contestare la legge il ricorso alla Corte Costituzionale. Questa è la via per fare evolvere il diritto. In ogni caso tra il puro arbitrio interpretativo e il subalterno ossequio al precedente ci sono molte vie di mezzo. Puoi certamente discostarti da una interpretazione dominante, ma devi spiegarne accuratamente le motivazioni. Nei paesi di common law il giudice è vincolato al precedente non per questo è meno indipendente di un giudice europeo. Il cittadino ha diritto di sapere prima, non dopo, che cosa può fare e che cosa non può fare. Il nostro ordinamento, come altri in Europa, si sta evolvendo verso il diritto giurisprudenziale, che dà centralità alla sentenza piuttosto che alla legge; questo cambiamento esige un di più di responsabilità e di professionalità. E forse anche una riflessione più attenta da parte della stessa magistratura sulle trasformazioni che sono in corso.
Lei ha dedicato un libro ai doveri dell’uomo e, nel suo più recente “Senza vendette”, si duole del fatto che la nostra sia un’era che tende verso i diritti senza riflettere adeguatamente sui doveri, tanto cari a Mazzini. Qual è, secondo lei, il dovere più pregnante al quale il magistrato – sia giudice che pubblico ministero- non può e non deve sottrarsi: ricercare la verità, osservare la legge, salvaguardare i diritti? Oppure quale?
Luciano Violante: Il dovere di pensare che potrebbe sbagliare.
Non pensa che nel dovere di fedeltà alla Repubblica, sul quale pure Lei ha insistito, imponga ad ogni magistrato l’impegno di rendere viva la Costituzione nella infinita varietà delle vicende giudiziarie? Quale potrebbe e dovrebbe essere la sintesi fra diritti fondamentali dell’uomo e certezza del diritto, se mai si possa giungere ad una sintesi?
Luciano Violante: Dal punto di vista procedurale lo strumento é sempre il ricorso alla Corte. Ma non basta. Il magistrato acquisisce, attraverso l’esercizio colto, non puramente burocratico, della professione, un complesso di competenze e di valutazioni che lo legittimano come intellettuale capace di affrontare anche sul piano della letteratura scientifica le questioni che lei pone. Ho l’impressione che la magistratura debba riconquistare un proprio protagonismo nella cultura giuridica.