Il lavoro di pubblica utilità: quel che il reo toglie, il reo restituisce
di Fabrizio Guercio
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’evoluzione normativa dell’istituto - 3. Gli ambiti di operatività del L.P.U. - 3.1 Sanzione sostitutiva delle pene detentive brevi (post ‘‘Riforma Cartabia’’) - 3.2 Sospensione del procedimento con messa alla prova (M.A.P.) – 3.3 Sospensione condizionale della pena – 3.4 Istituto trattamentale dei detenuti e degli internati – 3.5 Reati di competenza del Giudice di Pace – 3.6 Violazione del Codice della Strada – 3.7 Violazione della disciplina normativa in materia di stupefacenti – 3.8 Altri ambiti settoriali – 4. Le ragioni sottese all’estensione della portata applicativa dell’istituto.
1. Introduzione
Il lavoro di pubblica utilità (d’ora in avanti indicato con l’acronimo L.P.U.) consiste nello svolgimento di un’attività non retribuita in favore della collettività, da effettuarsi presso lo Stato o gli altri territoriali (Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni) ovvero presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato.
A norma dell’art. 1 del Decreto Ministeriale 26 marzo 2001, il L.P.U. può consistere in prestazioni di opera intellettuale o manuale, profondamente diverse per tipologia: dalla manutenzione del verde urbano all’assistenza di persone vulnerabili. Nello specifico:
1. «prestazioni di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato operanti, in particolare, nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex-detenuti o extracomunitari;
2. prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, ivi compresa la collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche;
3. prestazioni di lavoro in opere di tutela della flora e della fauna e di prevenzione del randagismo degli animali;
4. prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia;
5. altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato».
Ai sensi del comma 2 del medesimo testo normativo, le attività di pubblica utilità sono prestate sulla base di apposite convenzioni stipulate dall’Ente ospitante con il Ministero della Giustizia o, su delega dello stesso, con il Presidente del Tribunale competente per territorio.
Tanto premesso, appare opportuna una breve ricostruzione dell’evoluzione storica del L.P.U.[1], prima di effettuare una compiuta ricognizione dei suoi ambiti di operatività e di esaminarne la cangiante natura giuridica: pena principale, pena sostitutiva, sanzione accessoria, obbligo del condannato, istituto trattamentale, condizione di estinzione del reato, condotta riparatoria o riabilitativa.
Infine, verranno analizzate le ragioni che – a parere dello scrivente – hanno indotto il Legislatore ad ampliare sempre più la portata applicativa del L.P.U., nelle sue molteplici sfaccettature.
2. L’evoluzione normativa dell’istituto
Dopo una prima, timida, apparizione nel nostro ordinamento con la Legge n. 689/1981, che ha previsto (agli articoli 102 e 103) la possibilità di convertire le pene pecuniarie in L.P.U., quest’istituto – ancora considerato come un ‘‘oggetto misterioso’’, cui guardare con diffidenza – è stato riproposto, a distanza di oltre un decennio, dalla Legge n. 122/1993, come sanzione accessoria facoltativa per le ipotesi di condanna per uno dei reati di cui all’art. 3 della Legge n. 654/1975 («Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale») ovvero per uno dei delitti previsti dalla Legge n. 962/1967, in materia di «Prevenzione e repressione del delitto di genocidio».
Soltanto col primo rintocco del terzo millennio il L.P.U. ha trovato una vera e propria consacrazione nel nostro ordinamento giuridico, seppur limitatamente ai reati di competenza del Giudice di Pace.
Il suo ambito di operatività, quindi, è stato progressivamente esteso: dapprima, ad alcune specifiche ipotesi delittuose e, successivamente, come obbligo dell’imputato o del condannato, per qualunque tipologia di reato, nelle ipotesi di «sospensione del procedimento con messa alla prova» e sospensione condizionale della pena.
Questo lento processo legislativo di valorizzazione dell’istituto in commento ha recentemente raggiunto il suo culmine con l’entrata in vigore della Legge n. 150/2022 (c.d. ‘‘Riforma Cartabia’’), che ha elevato il L.P.U. a sanzione sostitutiva delle pene detentive brevi.
3. Gli ambiti di operatività del L.P.U.
Terminato questo breve excursus normativo (in chiave diacronica), è possibile focalizzare l’attenzione sugli ambiti applicativi del L.P.U. e sulla sua eterogenea natura giuridica.
3.1. Sanzione sostitutiva delle pene detentive brevi (post ‘‘Riforma Cartabia’’)
L’art. 545 bis c.p.p., inserito dal D.Lgs. n. 150/2022 e rubricato «condanna a pena sostitutiva», stabilisce che «quando è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale, subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all'articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ne dà avviso alle parti».
La disposizione normativa da ultimo citata, radicalmente riscritta dal summenzionato D.Lgs. n. 150/2022, annovera tra le ‘‘pene sostitutive’’ anche il lavoro di pubblica utilità, prevedendo in particolare che, «Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di» tre anni, tenuto conto dell’eventuale aumento di pena di cui all’art. 81 c.p., può sostituirla con il L.P.U.
Tanto premesso, ai sensi della seconda parte dell’art. 545 bis co. 1 c.p., «Se l'imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, acconsente alla sostituzione della pena detentiva con una pena diversa dalla pena pecuniaria (...) il giudice, sentito il pubblico ministero, quando non è possibile decidere immediatamente, fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all'ufficio di esecuzione penale esterna competente; in tal caso il processo è sospeso».
In base al comma secondo della disposizione normativa in commento «Al fine di decidere sulla sostituzione della pena detentiva e sulla scelta della pena sostitutiva ai sensi dell'articolo 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni relative, il giudice può acquisire dall'ufficio di esecuzione penale esterna e, se del caso, dalla polizia giudiziaria tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell'imputato» e può richiedere all’U.E.P.E., altresì, «il programma di trattamento (...) del lavoro di pubblica utilità con la relativa disponibilità dell'ente».
Quindi, una volta «acquisiti gli atti, i documenti e le informazioni di cui ai commi precedenti, all'udienza fissata, sentite le parti presenti, il giudice, se sostituisce la pena detentiva, integra il dispositivo indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti (…) In caso contrario, il giudice conferma il dispositivo».
Infine, a mente del succitato art. 53 L. 689/1981, «con il decreto penale di condanna, il Giudice, su richiesta dell’imputato o del condannato, può sostituire la pena detentiva determinata entro il limite di un anno, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità».
3.2. Sospensione del procedimento con messa alla prova (M.A.P.)
L’art. 168 bis c.p., introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 3 co. 11 Legge n. 67/2014, prevede che «Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale, l'imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova».
La ‘‘probation’’, che può essere concessa una sola volta, è necessariamente subordinata – ai sensi del comma 3 della succitata disposizione normativa – al L.P.U. e, in particolare, ad «una prestazione non retribuita (...) di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi», per un massimo di otto ore al giorno.
Inoltre, il L.P.U. deve svolgersi, ove possibile, tenendo conto delle «specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato» e, comunque, «con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute».
L’esito positivo della messa alla prova estingue il reato (art. 168 ter c.p.).
3.3. Sospensione condizionale della pena
Ai sensi dell’art. 165 co. 1 c.p., così come modificato dalla Legge. n. 145/2004, se il condannato non si oppone, il Giudice può (discrezionalmente) subordinare la sospensione condizionale della pena – quale causa di estinzione del reato – alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, secondo le modalità indicate nella sentenza e per un tempo comunque non superiore alla durata della pena sospesa.
Il successivo comma 2, inoltre, prevede che, se il beneficio de quo è concesso a chi ne abbia già usufruito in passato, la sospensione condizionale dev’essere necessariamente subordinata all’adempimento di uno degli obblighi indicati al comma precedente, tra cui – come anzidetto – il L.P.U.
Ne consegue che:
- nell’ipotesi in cui il condannato non abbia già beneficiato in passato del beneficio in commento, il Giudice può subordinare la pena al L.P.U. solo nel caso in cui il reo, espressamente interpellato sul punto, non abbia manifestato la propria opposizione;
- ove invece il condannato abbia già beneficiato della sospensione condizionale della pena, non occorre un suo espresso atto di assenso o dissenso, in quanto – per pacifica giurisprudenza – «la richiesta incondizionata di tale beneficio, avanzata dall'imputato che ne abbia già usufruito, implica la non opposizione di quest'ultimo alla subordinazione della misura all'adempimento di uno degli obblighi previsti dall'art. 165, comma primo, cod. pen. e non necessita, quindi, di un'espressa manifestazione in tal senso, trattandosi di beneficio che può essere accordato per legge solo in maniera condizionata» (cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, n. 12079/2020).
3.4. Istituto trattamentale dei detenuti e degli internati
Ai sensi dell’art. 20 ter della Legge sull’ordinamento penitenziario (la n. 354/1975), inserito dall’art. 2 co. 1 lett. c) D.lgs. n. 124/2018, «1. I detenuti e gli internati possono chiedere di essere ammessi a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell'ambito di progetti di pubblica utilità, tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative. 2. La partecipazione ai progetti può consistere in attività da svolgersi a favore di amministrazioni dello Stato, regioni, province, comuni, comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, sulla base di apposite convenzioni stipulate ai sensi dell'articolo 47, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Le attività relative ai progetti possono svolgersi anche all'interno degli istituti penitenziari e non possono in alcun caso avere ad oggetto la gestione o l'esecuzione dei servizi d'istituto (...) 4. La partecipazione a progetti di pubblica utilità deve svolgersi con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei condannati e degli internati». Il comma 6 della disposizione in commento, inoltre, prevede delle apposite ‘‘cautele’’, in modo da contemperare lo svolgimento di tale attività risocializzante con le esigenze di pubblica sicurezza (ad esempio, «I detenuti e gli internati per il delitto di cui all'articolo 416 bis del codice penale e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste non possono essere assegnati a prestare la propria attività all'esterno dell'istituto»).
3.5. Reati di competenza del Giudice di Pace
Come sopra accennato, il L.P.U. irrompe nel nostro ordinamento – ancorché limitatamente ai reati di competenza del giudice di Pace – con il D.Lgs. n. 274/2000, i cui articoli 54 e 55 lo configurano, rispettivamente, come pena principale (alternativa a quella detentiva) e come pena sostitutiva.
A norma dell’art. 54, il Giudice di Pace può applicare – per i reati di sua competenza rationae materiae – la sanzione del L.P.U., purché l’imputato ne faccia espressa richiesta.
La prestazione dell’attività di pubblica utilità – da svolgersi presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, ma comunque nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato – «non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi» e non può eccedere le sei ore settimanali (salvo che il condannato richieda diversamente) e le ore otto ore giornaliere. Il L.P.U., inoltre, deve aver luogo «con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato».
Stando al disposto del comma 5, «ai fini del computato della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro».
Le modalità di svolgimento del L.P.U. – la cui definizione è demandata dal successivo comma 6 al Ministro della giustizia, con decreto d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 281/1997 – sono state concretamente determinate con il D.M. 26.3.2001 di cui al paragrafo 1).
La verifica periodica sull’osservanza degli obblighi connessi al L.P.U. spetta – in base a quanto disposto dal successivo art. 59 – all’Ufficio di Pubblica Sicurezza competente per territorio o, in mancanza, al comando territoriale dell’Arma dei Carabinieri.
La mancata presentazione nel luogo in cui il L.P.U. dev’essere svolto o l’abbandono dell’attività integra, in assenza di un «giusto motivo», un’autonoma fattispecie delittuosa, punita «con la reclusione fino a un anno» (art. 56 co. 1); alla stessa pena soggiace chi violi reiteratamente e senza giustificato motivo gli obblighi o i divieti inerenti al L.P.U. (ad esempio, presentandosi in ritardo o non osservando le direttive impartitegli, per almeno due volte).
***
L’art. 55 del testo normativo de quo, invece, configura il L.P.U. come una pena sostitutiva di carattere doppiamente residuale, in quanto richiede che la pena pecuniaria – per uno dei reati di competenza del Giudice di Pace – non sia stata eseguita, per insolvibilità del condannato, entro il termine di novanta giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione (ex art. 660 c.p.p.), e che lo stesso condannato vi faccia richiesta: in tale ipotesi, la pena pecuniaria si converte «in lavoro di pubblica utilità da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell'articolo 54». Per espressa previsione normativa, inoltre, «Ai fini della conversione un giorno di lavoro di pubblica utilità equivale a 250 euro di pena pecuniaria» e, in caso di violazione del L.P.U. ‘‘sostituito’’, «la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell'obbligo di permanenza domiciliare secondo i criteri di ragguaglio indicati nel comma 5».
Il condannato, tuttavia, può far cessare in qualunque momento la pena sostitutiva del L.P.U. pagando la pena pecuniaria, «dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata» (art. 55 ult. co.).
3.6 Violazione del Codice della Strada
A mente dell’art. 224 bis del Codice della Strada (D.lgs. n. 285/1992), introdotto dall’art. 6 della L. n. 102/2006, nelle ipotesi di delitti colposi commessi con violazione delle norme in materia di circolazione stradale (segnatamente, nei casi di cui agli artt. 589 bis, 590 e 590 bis c.p.), nel pronunciare sentenza di condanna a pena detentiva, il Giudice può disporre la sanzione amministrativa accessoria del L.P.U., la cui durata non può essere inferiore a un mese (tre, in caso di recidiva) né superiore a sei mesi. Per espressa previsione di legge, inoltre, «L'attività è svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato», il quale, tuttavia, può richiedere di svolgere il L.P.U. per più di sei ore settimanali. In ogni caso, la durata della prestazione lavorativa giornaliera non può superare le otto ore.
Ove il condannato violi gli obblighi connessi a tale sanzione, si configura– per effetto dell’espresso richiamato normativo – la summenzionata fattispecie delittuosa di cui all’art. 56 D.lgs n. 274/2000, che è punita «con la reclusione fino a un anno».
***
Ai sensi dell’art. 186 comma 9 bis del Codice della Strada (introdotto dalla Legge n. 120/2010), fuori dall’ipotesi in cui il conducente in stato di ebbrezza abbia provocato un incidente stradale, se non vi è opposizione dell’imputato, la pena detentiva e pecuniaria (ammenda e arresto) irrogata per uno dei reati previsti dal medesimo articolo («guida in stato di ebbrezza», nelle sue diverse ‘‘declinazioni’’, e «rifiuto di sottoporsi ad accertamenti») può essere sostituita, una sola volta, anche col decreto penale di condanna, con quella del L.P.U., «da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze».
In queste ipotesi, «In deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità».
Inoltre, con la sentenza o col decreto penale di condanna, il Giudice incarica l’U.E.P.E. o l’Ufficio di Pubblica Sicurezza del luogo di esecuzione della pena o il comando territoriale dell’Arma dei Carabinieri, di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.
Se il L.P.U. ha esito positivo, il Giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, disponendo altresì «la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato»; per contro, «In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede o il giudice dell'esecuzione, a richiesta del pubblico ministero o di ufficio (...) tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca».
***
Un’analoga previsione normativa è dettata dall’art. 187 comma 8 bis C.d.S., introdotto dalla Legge n. 120/2010, a tenore del quale, fatta salva l’ipotesi in cui il conducente in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope abbia provocato un incidente stradale, se non vi è opposizione dell’imputato, la pena detentiva e pecuniaria (ammenda e arresto) irrogata per i reati di cui ai commi 1 («guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope») e 8 (rifiuto di sottoporsi ad accertamenti») può essere sostituita, una sola volta, anche col decreto penale di condanna, con quella del L.P.U., «da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato», congiuntamente alla «partecipazione ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo del soggetto tossicodipendente».
Anche in questi casi:
- «In deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità»;
- con la sentenza o col decreto penale di condanna, il Giudice incarica l’U.E.P.E. o l’Ufficio di P.S. del luogo di esecuzione della pena o il Comando territoriale dell’Arma dei Carabinieri, di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità;
- se il L.P.U. ha esito positivo, il Giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, disponendo altresì «la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato»;
- «In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede o il giudice dell'esecuzione, a richiesta del pubblico ministero o di ufficio (...) tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca».
3.7. Violazione della disciplina normativa in materia di stupefacenti
A mente dell’art. 73 co. 5 bis del D.P.R. n. 309/1990 (così come modificato, da ultimo, dalla L. n. 79/2014), nel caso in cui una persona tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope riporti una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per fatti di lieve entità (ai sensi del comma 5 del medesimo testo normativo), qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, il Giudice, su richiesta dell’imputato e sentito il P.M., può applicare – in luogo delle pene detentive e pecuniarie – il L.P.U., secondo le modalità previste dall’art. 54 D.lgs. n. 274/2000, per una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata.
Sennonché, «In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dal citato articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, il giudice che procede, o quello dell'esecuzione (...) tenuto conto dell'entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita».
Ai sensi del successivo comma 5 ter (aggiunto dal D.L. n. 78/2013), poi, «La disposizione di cui al comma 5-bis si applica anche nell'ipotesi di reato diverso da quelli di cui al comma 5, commesso, per una sola volta, da persona tossicodipendente o da assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, per il quale il giudice infligga una pena non superiore ad un anno di detenzione, salvo che si tratti di reato previsto dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale o di reato contro la persona».
3.8. Altri ambiti settoriali
Oltre che nelle ipotesi sopra citate di cui alla Legge n. 689/1981 (come sanzione sostitutiva della pena pecuniaria, su richiesta del condannato[2]) e al D.L. n. 122/1993 (come sanzione accessoria irrogabile con la sentenza di condanna per uno dei reati previsti dall’art. 3 Legge n. 654/1975, con cui è stata ratificata ed eseguita la «convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale», o dalla Legge n. 962/1967, in materia di «Prevenzione e repressione del delitto di genocidio»)[3], il L.P.U. trova applicazione nei seguenti ambiti:
- come ‘‘condotta riabilitativa’’ in materia di «divieto di accedere a manifestazioni sportive» (D.A.SPO.), ai sensi del comma 8 bis dell’art. 6 L. n. 401/1989, come modificato dal D.L. n. 53/2019[4];
- come obbligo cui subordinare, in caso di mancata opposizione del condannato e in alternativa all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di «danneggiamento» di cui all’art. 635 c.p., così come modificato dall’art. 3 co. 2, lett. b), della L. n. 94/2009 e dall'art. 7 co. 1, lett. d), D.L. n. 53/2019;
- come obbligo cui il Giudice può subordinare, in caso di mancata opposizione del condannato e in alternativa al ripristino o alla ripulitura dei luoghi (ovvero, quando ciò non sia possibile, al pagamento delle spese necessarie in tal senso o al rimborso di quelle sostenute a tal fine), la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di «deturpamento e imbrattamento di cose altrui» commesso su «beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati» o nei casi di recidiva, ex art. 639 commi 2, 3 e 5 c.p.;
come obbligo cui subordinare, in alternativa al ripristino dello stato dei luoghi o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, la sospensione condizionale della pena inflitta per il delitto di «Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici», disciplinato dall’art. 518 duodecies, recentemente introdotto dalla L. n. 22/2022 (unitamente agli altri articolo di cui si compone il titolo VIII bis del codice penale, rubricato «Dei delitti contro il patrimonio culturale»).
4. Le ragioni sottese all’estensione della portata applicativa dell’istituto
Come sopra esposto, dopo un esordio un po’ stentato, l’istituto del L.P.U. ha progressivamente trovato un ambito applicativo sempre più ampio all’interno del nostro ordinamento giuridico, pur mantenendo la sua natura proteiforme.
E le ragioni di fondo di questa scelta legislativa possono rinvenirsi:
1. in un’ottica deflattiva della popolazione carceraria;
2. nella funzione rieducativa della pena;
3. nella spiccata funzione retributiva del L.P.U.
Sul primo versante, è innegabile lo sforzo profuso dal Legislatore, già da diversi decenni, per ridurre il numero di detenuti, anche in un’ottica di contrazione delle spese penitenziarie: dapprima attraverso istituti come l’indulto e l’amnistia e, da ultimo, mediante interventi normativi finalizzati a promuovere la natura ‘‘residuale’’ della detenzione inframuraria e della custodia cautelare in carcere, inibendone il ricorso nelle ipotesi di condotte di reato non particolarmente gravi e, comunque, tali da non generare un significativo ‘‘allarme sociale’’.
È del pari innegabile, poi, che il L.P.U. svolga (o, comunque, ambisca a svolgere) una fondamentale funzione risocializzante del reo, in armonia col dettato di cui all’art. 27 comma 3 della Carta costituzionale, secondo cui le «pene devono tendere alla rieducazione del condannato», da intendersi – in un’accezione laica e non moraleggiante – come il positivo (ancorché graduale) reinserimento del reo all’interno della propria comunità di appartenenza, per effetto della ‘‘correzione’’ di quei comportamenti antisociali che l’hanno indotto a delinquere: in tal senso, l’imposizione di una prestazione non retribuita in favore della collettività, oltre a sortire sul reo un effetto special-preventivo, lo ‘‘responsabilizza’’, nella misura in cui lo costringe a confrontarsi col ‘‘danno criminale’’ arrecato alla collettività con la propria condotta penalmente rilevante.
E proprio a questo profilo è legato a filo doppio quello che – a parere dello scrivente – costituisce l’elemento caratterizzante il L.P.U.: la funzione retributiva.
Orbene, secondo i sostenitori della ‘‘teoria retributiva della pena’’, nella sua accezione classica, la sanzione penale costituisce il ‘‘corrispettivo’’ del male arrecato dal reo alla società, come magistralmente compendiato nel brocardo «malum passionis quod infligitur ob malum actionis» («il male della sofferenza che è inflitto a causa del male dell’azione»)[5]: in termini più esplicativi, poiché ha arrecato un vulnus all’‘‘ordine costituito’’, il reo deve ricevere una punizione che gli provochi pari sofferenza (donde la natura afflittiva e, al contempo, proporzionale della risposta punitiva dello Stato).
Intesa in questi termini, la teoria della pena come ‘‘retribuzione’’ appare obsoleta e in aperto contrasto con il succitato art. 27 co. 3 Cost., a tenore del quale, inoltre, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», quale che sia l’entità del «malum actionis».
Cionondimeno, una lettura ‘‘costituzionalmente orientata’’ della teoria retributiva della pena, alla luce di quella funzione rieducativa scolpita nella Carta fondamentale, non solo è possibile, ma è addirittura auspicabile.
E invero, guardando al condannato come a un «animale sociale»[6] (piuttosto che come a un ‘‘relitto della società’’), appare di gran lunga preferibile che – a titolo meramente esemplificativo – l’autore di un efferato delitto di tipo ‘‘predatorio’’, invece di scontare i propri ‘‘debiti con la Giustizia’’ in carcere o in regime di detenzione domiciliare, si rimbocchi le maniche e, inforcando il rastrello in luogo di un grimaldello, pulisca le aiuole della città in cui, con la propria condotta antigiuridica, qualche tempo prima aveva infranto la ‘‘pace sociale’’.
Ma soprattutto, l’idea di contemperare la funzione rieducativa della pena e quella retributiva non è un’utopia, atteso che l’istituto in commento risponde perfettamente a questa finalità: rieducare il reo attraverso l’imposizione di un’attività non retribuita, di tipo morale o materiale, preordinata a ‘‘ristorare’’ la sua comunità di appartenenza.
In altri termini, attraverso il lavoro di pubblica utilità, ciò che il reo toglie, il reo dà, sia pure sotto altra forma: manutenzione del verde pubblico o di beni demaniali, assistenza in favore dei tossicodipendenti, etc…
E così quel «malum passionis» di cui parlavano gli antichi si converte in «bonum actionis»: il bene dell’attività di pubblica utilità per il male dell’azione criminosa.
[1] Cfr., sul punto, il fondamento contributo dell’Avv. Fabio Piccioni, dal titolo ‘‘Il lavoro di pubblica utilità’’, pubblicato sul sito ‘‘Altalex’’ e reperibile al seguente link: https://www.altalex.com/documents/altalexpedia/2020/01/15/lavoro-pubblica-utilita#_Toc29978221
[2] Ex art. 102 co. 2, «Nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire non sia superiore ad un milione, la stessa può essere convertita, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo» (comma dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte costituzionale, 14-21 giugno 1996, n. 206, nella parte in cui non consente che il lavoro sostitutivo, a richiesta del condannato, sia concesso anche nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire sia superiore ad un milione).
[3] Merita di essere segnalato che, ai sensi dell’art. 1 co. 1-quinquies della disposizione normativa in commento, «Possono costituire oggetto dell'attività non retribuita a favore della collettività: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro degli edifici danneggiati, con scritte, emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui al comma 3 dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654».
[4] «Decorsi almeno tre anni dalla cessazione del divieto di cui al comma 1 [ossia «il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime»], l'interessato può chiedere la cessazione degli ulteriori effetti pregiudizievoli derivanti dall’applicazione del medesimo divieto (…) La cessazione è (…) concessa se il soggetto ha adottato condotte di ravvedimento operoso, quali (…) lo svolgimento di lavori di pubblica utilità (…) e ha dato prova costante ed effettiva di buona condotta, anche in occasione di manifestazioni sportive».
[5] Cfr. Grozio, De iure belli ac pacis, lib. II, cap. XX, § 1,1.
[6] Secondo la celeberrima definizione di ‘‘uomo’’ di Aristotele («O ἄνθρωπος φύσει πολιτικoν ζῷον», «O anthropos physei politikon zoòn»).