“Suicidi in carcere, un pesante fardello”. Così ha esordito il Ministro della giustizia, Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice.
L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena) ha in realtà prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti “bagatellari” (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato “a bomba” l’Ufficio del Massimario della Cass. nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cd. “Decreto Sicurezza” e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto.
Effetto precipuo di detto indirizzo politico è stato la ciclica presentazione di decisioni legislative ricadenti sul “sistema penale” in entrambe le sue componenti: sostanziale- comprensivo della fase esecutiva della pena- e processuale, con vari effetti infausti: 1- aumento delle figure di reato punite con la detenzione (il c.d. decreto “Rave”, i reati previsti dalle norme “anti immigrazione”, gli aggravamenti di pena previsti dal decreto cd. “Caivano”), 2- perdurante assenza di opportuna ponderazione tra il danno effettivamente minacciato dall’autore della singola condotta del caso di specie e quello previsto dalla norma astratta: ponderazione sulla base di dati statistici fondati sul campo, in quanto rivelatori di una effettiva reiterabilità di quel reato che dovrebbe essere alla base, per altro, proprio di un sistema penale cd. “law and order”).
In questa temperie, i detenuti rimangono spettri in cosante attesa di una risposta ad una domanda rivolta al Direttore dell’Istituto, al Magistrato di Sorveglianza, al Giudice dell’esecuzione o in attesa della conclusione di un procedimento avanti il Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sull’applicazione di una misura alternativa alla pena detentiva). E resta sempre al fondo la domanda perché continuano a uccidersi o si autoledono dentro un sistema penitenziario destinato, invece, a garantirne il reinserimento sociale, come prevede espressamente l’ordinamento penitenziario (artt. 1. 13), preludio del fine rieducativo della pena sancito dall’art. 27 c.3 Costituzione.
Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire dette finalità, nonostante le emergenze del terrorismo degli “anni di piombo” 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò fino agli anni 2000 (vedi decreto del presidente della repubblica del 30 giugno 2000, n. 230 con cui è stato emanato il regolamento d’esecuzione dell’ Ordinamento penitenziario regolato, con legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche, tra cui la fondamentale L. n. 663/1986 (cd. legge Gozzini con cui sono state rimodulate le misure alternative alla pena detentiva.
Può dirsi che si profila una costante scelta del legislatore di mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere, in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore.
Nella camera oscura della prognosi che compete al Magistrato di Sorveglianza o al Giudice della esecuzione, però, va considerato che l’osservazione della personalità del condannato dovrà avvenire sulla base della costante analisi dei dati raccolti dagli operatori del gruppo di osservazione (interno all’istituto) durante tutto il corso dell’esecuzione della pena (psicologi, psichiatri o altri medici specialisti come neurologi), al fine di ottenere un’ osservazione fondata della personalità del paziente, attraverso i dati raccolti. E Infine il decidente (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) dovrà esprimere una prognosi motivata sul possibile - o meno - mutamento della personalità del detenuto.
Specializzazione, motivazione e competenza costituiscono, perciò, gli elementi che devono concorrere nel fondare una prognosi positiva: essenziale per ottenere un qualunque beneficio che passo dopo passo valga a costruire un reinserimento sociale effettivo ed efficace di ogni individuo recluso in espiazione di pena.
Rimane essenziale, perciò, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata).
L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento in atto.
E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere, sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile.
In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: ” Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere” [il Dubbio 16/3/2021].
Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano -oggi- espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il “fardello” che reca sulle spalle la comunità tutta.
Ora che la “questione detenuti” è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato più da fior di colleghi della Magistratura della cognizione come equivalente a “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio di sine cure”.
Immagine: Josh Estey, Human rights, Indonesia 2009 via Wikimedia Commons.