Abuso d’ufficio e “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge”. In margine a Cassazione Sez. VI n. 37341/2022, osservazioni sul problema della integrazione della norma penale con l’ordinamento amministrativo
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Posizione del problema - 3. I fatti - 4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema - 5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale.
1. Introduzione
La sentenza in esame è di un certo interesse, perché riconosce che vi sia abuso d’ufficio nel rilascio di un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore comunale e, in continuazione (art. 81 c.p.), nell’atto di rifiuto di accesso ai documenti, adottato al di fuori delle ipotesi in cui si potrebbe escludere l’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
In questo modo, la sentenza contribuisce a individuare le “specifiche regole di condotta” che oggi figurano nel nuovo testo dell’art. 323 del c.p., riformato dall’art. 23 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
L’esame della sentenza offre dunque l’occasione di riflettere sulla nuova versione, nella parte che più interessa il diritto amministrativo.
2. Posizione del problema
Oggi il testo dell’art. 323 è il seguente “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni” [i].
Come si vede, al centro della nuova norma figura l’espressione per cui l’abuso è in violazione di “specifiche regole di condotta”. Questa formula costituisce la parte essenziale dell’abuso e pertanto è fondamentale per intenderne la fattispecie. Pone all’interprete il problema di identificare con esattezza la norma violata. In questa prospettiva, la norma è chiara nell’escludere i “margini di discrezionalità” e dunque la giurisprudenza di esordio esclude il vizio di eccesso di potere; altresì, poiché l’art. 323 c.p. menziona regole “espressamente previste dalla legge”, si tende ad escludere tutte le norme secondarie e, talora, i principi[ii].
L’interpretazione prevalente, dunque, si va ispirando a una lettura restrittiva.
In questa prospettiva, che significa “specifica regola di condotta” ?
E quale norma dell’ordinamento amministrativo può venire a costituirla come “specifica”, integrandosi nella norma penale, con un certo valore e significato, restituendo all’abuso d’ufficio un senso compatibile con i principi dell’ordinamento penale e di quello amministrativo?
Sono i problemi dell’integrazione. Affiorano dal nuovo testo e sono ben esemplificati nei due casi particolari decisi dalla sentenza in commento.
3. I fatti
Un funzionario comunale rilasciava un permesso di costruire in sanatoria e poi rifiutava la domanda di accesso ad un soggetto terzo, controinteressato, poi “denunciante” [iii].
In particolare, quanto al primo fatto, il permesso veniva rilasciato in violazione dell’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale, in assenza di un piano di recupero e in contraddizione con un parere comunale interlocutorio, che consigliava di approfondire la questione.
Il permesso di costruire riguardava la costruzione di un portico, che ricade in una zona di “antica formazione”, nella quale, per l’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g., l’edificazione è sottoposta alla adozione di un piano di recupero e ad un parere comunale. Nei fatti, il piano di recupero non è stato adottato e il parere manca (al suo posto c’è solo una sorta di parere sospensivo, che consiglia di approfondire la questione). Ne consegue, per la sentenza, che il permesso è adottato in “assenza” del piano e in assenza del parere, e, dunque, che è in “contrasto con le norme di piano”. Precisamente, risulta in contrasto con l’art. 13 delle norme tecniche e, di conseguenza, con l’art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001. Difatti, secondo la sentenza, la disposizione del piano regolatore “integra la disciplina di legge relativa alla concessione del permesso di costruire”. Si ricorda che nel testo unico dell’edilizia l’art. 12 è norma legislativa e prevede che “Il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.”
Si tratterebbe dunque di un caso di eterointegrazione, sul quale si tornerà, perché potrebbe rappresentare un problema, con più soluzione aperte, rispetto ai principi di legalità e di interpretazione della legge penale e della norma extrapenale.
Quanto al secondo fatto, il rifiuto di accesso era motivato per esigenze di privacy, ma in appello si accertava che “non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti”. Dunque, secondo la sentenza, non si applica l’ipotesi prevista dall’art. 24, secondo comma, lett. d), della legge n. 241 del 1990, che permette di escludere il diritto di accesso quando i documenti riguardino la “vita privata o la riservatezza”. Di conseguenza, l’atto di rifiuto che non risponde ai casi dell’art. 24 è “integralmente privo di una base legale”. La regola specifica che poi la sentenza ricava è che l’accesso era consentito, il che deriva dal principio per cui al di fuori del limite tutto è visibile, ai sensi dell’art. 22. Anche su questo aspetto si tornerà.
4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema
I problemi specifici che sorgono dal caso di specie sono in fondo comuni alle questioni decise dalle prime sentenze rese sul nuovo testo e manifestano tutta la difficoltà di identificare le “specifiche regole” utili a integrare la fattispecie dell’art. 323 c.p. Per esempio, la prima decisione nota è Cassazione sez. VI 8 gennaio 2021 n. 442, che sembra importante per i principi e i limiti che imprime all’abuso. Anzitutto, il fatto è costituito da un atto di un commissario straordinario che riorganizza una Ausl, riducendo una struttura da complessa a semplice, ma con l’effetto di demansionare il direttore della struttura; nella specie, la Cassazione stabilisce che non vi è responsabilità, perché l’atto in questione è discrezionale e, soprattutto, non viola una regola “cogente” e “puntuale”; più ampiamente, in obiter dictum, la Sezione stabilisce che la nuova fattispecie è più restrittiva di quella precedente, sottraendo al giudice penale la “inosservanza dei principi generali” e di “ogni fonte normativa di tipo regolamentare”, escludendo persino “il classico schema della eterointegrazione, cioé della violazione mediata di norme di legge interposte”. Questa prima sentenza della Cassazione fa dunque trasparire con immediatezza anche i due problemi che sono specifici alla decisione presa con la sentenza in commento.
Può la “specifica regola” essere costituita da un principio ?
Può la specifica regola di condotta essere costituita dalla eterointegrazione di una norma di legge che viene interposta ?
Per esempio, quanto ai principi e sempre osservando le prime decisioni, Cass, Sez. VI 15 aprile 2021 n. 14214 esclude la violazione dell’art. 97 Cost., nel caso di un concorso bandito dall’Università per il conferimento di un incarico, pur davanti ad uno “sbilanciamento” a favore di un candidato (cd. “favoritismo privato”), emergente da vari indizi nella redazione dei criteri e nella valutazione delle domande; la sentenza riconosce che ad essere violato potrebbe essere, in astratto, il principio di imparzialità, ma che esso non rientra nell’art. 323 c.p., perché nell’oggetto dell’art. 97 Cost. non sono contemplate regole di condotta.
Si pone dunque un problema di esatta identificazione della norma violata. Su questo punto, sembra pertinente Cass. Sez. VI, 1 marzo 2021 n. 8057. E’ il caso di un funzionario che affida un appalto senza gara, dichiarando un importo sottosoglia, che però veniva appositamente alterato, omettendo il calcolo di alcune componenti; in questo caso la Cassazione identifica la noma violata nell’art. 125 del codice degli appalti pubblici e quindi ne trae la violazione di una “specifica regola di condotta”.
Il problema emerso consente alcune osservazioni teoriche.
5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale
Come si vede, la giurisprudenza di esordio rivela tutte le difficoltà e le incongruenze della nuova norma. Ne coglie però lo spirito: quello di intendere l’abuso in un senso restrittivo. Quello della restrizione è un criterio utile per identificare la “specifica regola di condotta”, il più grande interrogativo dell’abuso odierno.
In questa prospettiva, il caso deciso dalla sentenza rappresenta un buon esempio. Il caso, come visto, pone due problemi specifici e distinti: il problema della eterointegrazione della specifica regola di condotta e quello del rapporto tra regola e principio. In comune ai due termini- regola specifica e principio- c’è il problema generale della integrazione della norma penale con un elemento extrapenale, che deriva dall’ordinamento amministrativo. Sullo sfondo, dunque, c’è un problema di interpretazione e di legalità, in senso sostanziale.
Si svolgono qui alcune brevi osservazioni, al solo scopo di mostrare la dimensione dei problemi e di far intravedere alcune soluzioni.
Aprendo il capitolo della integrazione in materia penale, bisogna separare il caso dell’art. 323 c.p. dalle altre specie di integrazione, come la norma penale in bianco o il caso dell’illecito penale che stabilisce il rinvio esplicito a disposizioni extrapenali, come regolamenti, atti amministrativi, leggi regionali, e, nel contenuto, richiama standard, criteri, soglie, parametri, ovvero misure integrative di un precetto già determinato dalla legge penale, nella misura ristretta riconosciuta dalla logica della prevalente giurisprudenza della Corte costituzionale, per cui l’integrazione è ammissibile solo se la norma incriminatrice rinvia ad una disposizione precisamente denominata e soprattutto solo se la norma penale determina il nucleo essenziale della condotta, mentre la disposizione diversa può solo determinare un particolare della condotta[iv]. In ogni caso, si tratta di un rinvio a un termine eterogeneo e quindi spesso presuppone un concorso di fonti, molto visibile per esempio nelle sanzioni amministrative, in cui però il fondamento costituzionale cambia, spostandosi dall’art. 25 Cost. all’art. 23 Cost., dove la riserva di legge è relativa.
Rispetto a queste figure, la specie giusta in cui inserire il caso delle “specifiche regole di condotta” del nuovo art. 323 è la categoria dell’elemento normativo extrapenale. E’ contemplato dalla stessa norma penale. La norma lo assume in sé, quale sua parte integrante, a costituire direttamente il precetto penale; è il caso dei fatti di reato che sono costituiti dalla mancanza di un provvedimento amministrativo o dalla violazione di un provvedimento amministrativo o infine dalla violazione di una norma amministrativa; per esempio i reati ambientali o la precedente versione dell’abuso, che prevedeva la “violazione di norme di legge o di regolamento”. Questo caso, dunque, è diverso dagli altri: mentre quelli visti prima designano un rinvio ad altro ordinamento e spesso provocano un concorso di fonti, questo caso, concettualmente, presuppone che la norma penale assuma in sé l’elemento extrapenale[v]. Questo elemento diventa una parte del precetto. Rappresenta una forma di integrazione o, talvolta, si vedrà, di incorporazione.
Il caso dell’art. 323 c.p. può dunque appartenere a questa categoria, con una precisazione: qui l’elemento che viene incorporato, l’elemento normativo extrapenale, è la specifica regola di condotta ed è di rango legislativo, perché l’art. 323 vuole “specifiche regole”, “espressamente previste dalla legge”. La norma dell’art. 323 c.p. sembra dunque conforme all’art. 25 Cost. e alla riserva assoluta di legge.
Può dirsi lo stesso dal punto di vista della determinatezza e del principio di legalità in senso sostanziale?
Qui l’interprete è sfiorato dal dubbio che l’art. 323 c.p. non abbia quella “autonomia precettiva” richiesta dalla Corte costituzionale per soddisfare il principio di legalità sostanziale (C. cost. n. 199/1993). Certo è che la nuova formulazione dell’art. 323 ha un difetto, perché allude a “specifiche regole di condotta” e le nomina senza indicarle: l’art. 323 non è autosufficiente. E infatti ha bisogno di una integrazione extrapenale, che si trae dalle norme dell’ordinamento amministrativo. Il che significa, sul piano dell’interpretazione, che la norma penale va integrata con la norma amministrativa, nel senso che “l’una non può vivere senza l’altra” (C. cost. n. 199/1993). Dunque l’art. 323 c.p. non è una norma autonoma e suppone una certa integrazione. Per questo lascia aperto un interrogativo di fondo: quale è la “regola specifica”?
E ancora: il suo essere specifica che senso o valore può acquistare nel momento della integrazione tra norme?
Le norma penale, in sé considerata, non dà una risposta a questo problema di integrazione. Pertanto, si può leggere questa integrazione non come relazione tra norme ma come relazione tra due ordinamenti, tra ordinamento penale e ordinamento amministrativo, considerando che il bene giuridico protetto è comune ed è l’art. 97 Cost.; dunque non resta che vedere come quella relazione si possa atteggiare e questo, secondo la teoria generale, può avvenire solo in due modi: come dipendenza o come indipendenza dell’ordinamento penale, ovvero, si vedrà, come integrazione o come incorporazione dell’art. 97 Cost.
Prima ipotesi, l’integrazione: se si ritiene che l’ordinamento penale sia dipendente dall’ordinamento amministrativo, è possibile tutelare l’art. 97 Cost. integrando l’ordinamento amministrativo nell’ordinamento penale e allora il giudice penale – per un principio di collateralità con l’ordinamento di riferimento- può ragionare come il giudice amministrativo e quindi può trasfondere i principi in regola specifica o trasfondere una regola amministrativa in una norma di legge, ovvero, nel caso deciso, può trasfondere in regola il principio di trasparenza oppure può trasfondere l’art. 13 del piano regolatore nell’art. 12 del Testo unico dell’edilizia, compiendo una eterointegrazione. Ovvero: la regola extrapenale vive nell’abuso come regola amministrativa, perché in ogni caso è un riflesso dell’art. 97 Cost.
Seconda ipotesi, l’incorporazione: se la relazione di base si atteggia a indipendenza dell’ordinamento penale, la norma penale protegge l’art. 97 Cost. a modo suo e quindi incorpora la norma amministrativa e la trasfigura, la rende omogenea, come se fosse una norma penale e, così, la assoggetta alla regola della stretta interpretazione e la determina come “specifica regola” dell’abuso. Il che significa che qui l’interpretazione deve generare sempre una regola che sia “specifica” nel senso che deve essere ben visibile, già in anticipo. Il che porta a determinarne il senso con un criterio preciso: quello di scoraggiare una lettura dell’art. 323 c.p. che faccia uso di una ulteriore eterointegrazione, come quella di una norma legislativa edilizia con una disposizione di p.r.g che è secondaria; e lo stesso può valere per il principio di trasparenza che diventa regola specifica dell’accesso. Una interpretazione del genere, in eterointegrazione ed in estensione, potrebbe risolversi in un risultato contrario al principio di legalità sostanziale: quello di non fare comprendere in anticipo quale sia il fatto punito dalla legge penale; ovvero, nell’art. 323, quale sia la “specifica regola” espressamente prevista dalla legge. Per questo motivo, sembra preferibile un’interpretazione che dia un risultato netto. Così, nella incorporazione penale, nella scelta e nella interpretazione della norma amministrativa e del suo ordinamento, par meglio identificare ed elaborare una regola che sia adeguata alla legge penale, una regola che dia il precetto della condotta, che si risolva in un preciso dovere giuridico, senza alternative; e non a caso l’art. 323 c.p. esclude la discrezionalità. Sarebbe solo questa la scelta interpretativa che l’incorporazione dell’art. 323 c.p. permette di realizzare. Ovvero, in altro piano, il margine di creatività insito in questa interpretazione, alla luce del principio di legalità sostanziale.
Quest’ultima tesi sembra a chi scrive maggiormente aderente al principio di legalità sostanziale, per un motivo molto semplice, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Nel principio, infatti, vi è tutta l’idea della determinatezza, un ’idea di precisione semantica e di rispondenza alla realtà, anche alla realtà normativa extra penale.
La lunga storia dell’abuso nelle sue precedenti versioni invita a questa prudenza ermeneutica.
[i] Sulla nuova fattispecie, limitatamente ai profili di diritto amministrativo, a livello monografico, v. S. PERONGINI, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020”, Torino, 2020, e, nella dottrina più recente, per una impostazione teorica del problema della responsabilità penale, v. G. BOTTINO, Il conflitto tra il legislatore e la giurisprudenza come causa della “burocrazia difensiva”, la responsabilità penale per “abuso d’ufficio” come paradigma, Il lavoro nelle pubbliche Amministrazioni, n. 2/2022, pag. 242 ss. In questa Rivista: v. R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio eclettico, Giustiziainsieme, 22 luglio 2020. A livello di studi e seminari, v. M.A. SANDULLI (a cura di), Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, Webinar del 13 luglio 2020.
[ii] v. C. cost. sentenza 8/2022: “La norma censurata, infatti, richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare margini di discrezionalità, nega rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere, con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale - specie nel raffronto con la "norma vivente" come disegnata dalle interpretazioni giurisprudenziali -, operanti, come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi).”; v. anche Cass. Sez. VI 8 gennaio 2021 n. 424, meglio analizzata nel par. 4.
[iii] “in violazione dell'articolo 13 delle Norme Tecniche di Attuazione al P.G.T. del Comune di Marone, rilasciava indebitamente (e con tempi insolitamente rapidi, domanda del 5 febbraio 2015), il permesso di costruire in sanatoria n. 4979 del 23 febbraio 2015 a (OMISSIS), nonostante il parere sospensivo emesso dalla commissione edilizia nella seduta del 5 febbraio 2015 in ragione di una piu' attenta valutazione delle opere edilizie oggetto delle difformita'; - in violazione della L. n. 241 del 1990, articolo 22 perche' negava accesso alle pratiche edilizie delle quali il denunciante (OMISSIS) aveva richiesto copia, in mancanza di motivi ostativi, atteso che non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti, come confermato dalla sentenza del Tar Lombardia Brescia sentenza 009904/2016, rifiutava indebitamente un atto del suo ufficio, che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo, cagionando un ingiusto profitto a (OMISSIS), nel mantenere le opere edili abusive, e un danno ingiusto a (OMISSIS), consistito nel ricevere un ingiustificato e illegittimo diniego di accesso alla documentazione di cui aveva diritto di accedere e prenderne copia.”
[iv] v. C. cost. Sent. n. 199/1993, C. cost. Sent. n. 282/1990, C. cost. Sent. n. 58/75 e, di recente, C. cost. Sent. n. 5/2021, C. cost. sentenza n. 134/2019.
[v] Cfr. A. CIOFFI, Eccesso di potere e violazione di legge nell’abuso d’ufficio. Profili di diritto amministrativo, Milano, 2001, 38 ss.