ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il testo ricostruisce lo sviluppo della più recente giurisprudenza in tema di attività medica in équipe, ponendo particolare attenzione sulle controverse questioni relative all’estensibilità del dovere di diligenza del singolo sanitario al controllo e alla vigilanza dell’operato altrui.
La mera appartenenza all’équipe non è sufficiente a legittimare l’addebito a carico del sanitario che abbia agito nel rispetto delle proprie regole cautelari.
Di qui la necessità di individuare un criterio posto a governo del giudizio di accertamento della responsabilità penale. L’applicazione del principio di affidamento - seppure non inteso in termini assoluti - contribuisce a delimitare i doveri incombenti su ciascun sanitario, conciliando così il principio della personalità della responsabilità penale con la crescente specializzazione e divisione del lavoro in ambito medico.
Sommario: 1. L’attività medico-chirurgica in équipe. – 2. Il principio di affidamento quale criterio di attribuzione della responsabilità penale. – 3. Le eccezioni alla regola del principio di affidamento: a) la prevedibilità dell’altrui comportamento inosservante. - 4.(segue): b) il dovere giuridico primario di controllo e coordinamento del capo équipe sull’operato altrui. - 5. Conclusioni.
1.L’attività medico-chirurgica in équipe.
Il settore medico-chirurgico si caratterizza per lo svolgimento di attività sì rischiose, ma giuridicamente autorizzate dall’ordinamento giuridico in quanto socialmente utili.
Al fine di garantire il giusto equilibrio tra l’esigenza di tutela di un bene minacciato, nella specie il diritto alla salute, e lo svolgimento di un’attività utile, quale l’intervento chirurgico, l’ordinamento ammette l’attività pericolosa, purché la stessa sia svolta nei limiti del c.d. rischio giuridicamente consentito. Quest’ultimo è fissato attraverso la predisposizione legislativa di regole di condotta cui i singoli soggetti devono attenersi. Sicché, al concretarsi di un evento lesivo, il medico che ha operato attraverso l’impiego delle regole cautelari impostegli è tendenzialmente esentato da ogni forma di responsabilità penale[1].
Più complessa è l’individuazione di un criterio di attribuzione della responsabilità penale quando le attività sono svolte in équipe. In tal caso, infatti, ai tradizionali problemi legati all’accertamento della colpa e della rilevanza causale della condotta posta in essere da ciascun sanitario, si aggiunge la difficoltà della individuazione della responsabilità nell’azione collettiva dell’équipe, considerato anche il continuo progresso della medicina che ha determinato un proliferare di specializzazioni divergenti le une dalle altre dal punto di vista prescrittivo[2].
Va preliminarmente specificato che con il sintagma équipe medica si fa riferimento alle ipotesi di cooperazione di più sanitari che interagiscono tra di loro per il conseguimento del fine comune della tutela della salute del paziente. Nello specifico, questa attività d’équipe si concretizza in un unico contesto spazio-temporale, mediante la c.d. attività sincronica verticale e orizzontale[3], o in tempi diversi ma intersecati tra di loro. In quest’ultimo caso di c.d. attività diacronica si assiste ad una successione nella posizione di garanzia tra i vari medici che intervengono in sequenza, come avviene nel caso del turno ospedaliero.
In questo ambito, a parte le modalità di composizione del gruppo, è interessante capire se, in un contesto a partecipazione pluri-soggettiva, a fronte di un comportamento colposo riferibile solo ad alcuni componenti il gruppo, sia chiamato a rispondere penalmente anche colui che ha operato nel rispetto delle proprie regole di diligenza.
2. Il principio di affidamento quale criterio di attribuzione della responsabilità penale.
Il “c.d. comportamento doveroso lecito” esigibile dai singoli partecipanti ad un’équipe medica, in quanto compartecipi della gestione di un rischio comune destinatari di regole cautelari dirette ad evitare il medesimo evento, «ricomprende solamente condotte a sé esclusivamente riferibili» o può «altresì comportare obblighi di vigilanza e prevenzione rispetto ad una possibile azione colposa altrui [4]»?
Il busillis non ha naturalmente riflessi marginali perché dalla soluzione data discende la sussistenza o meno della responsabilità in capo al singolo.[5]
Secondo un primo orientamento il sanitario oltre a dover rispettare i canoni di diligenza e prudenza suoi propri, relativi alle specifiche mansioni svolte, è anche gravato dal defatigante obbligo di vigilare e curare l’osservanza delle regole cautelari altrui, fino a configurare una poco convincente forma di responsabilità per fatto altrui[6]. Tale indirizzo, foriero di una sostanziale violazione del principio costituzionale della personalità della condotta penalmente rilevante, ha spinto la dottrina più avvertita a ricostruire la responsabilità penale dei componenti l’équipe mediante il ricorso al principio di affidamento[7].
Questo principio, affermatosi in Germania in materia di circolazione stradale, prevede che «ciascun soggetto può e deve poter confidare nel corretto comportamento degli altri soggetti, cioè nel rispetto da parte loro delle “regole cautelari”, scritte o non scritte, proprie delle rispettive attività da essi svolte ed aventi la funzione preventiva di escludere o contenere la pericolosità delle stesse[8]». Esemplificando, in forza di tale regola, secondo l’esperienza tedesca, il pedone che attraversi la strada sulle strisce pedonali, potrà confidare sul doveroso arresto della corsa dell’automobilista sopravveniente[9].
Il principio in parola, recepito dall’ordinamento giuridico italiano, ha quindi trovato applicazione in materia di divisione del lavoro, in species nell’attività medico chirurgica in équipe[10].
Da qui, ne deriva che «il soggetto titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente a impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questa possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, (con)titolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento»[11].
Chiaramente questo esonero da responsabilità del singolo non costituisce un privilegio immotivato essendo, invece, funzionale a far sì che ciascuno si concentri sulla propria sfera di responsabilità, libero dalla costante preoccupazione di controllare l’altrui operato[12]. Ne deriva che il principio di affidamento, quale criterio di perimetrazione degli obblighi di diligenza gravanti sul singolo, risponde all’esigenza specifica di garantire «una migliore e più assorbente applicazione che lo specifico ruolo richiede[13]».
Tuttavia, la pedissequa applicazione del principio in parola comporta non solo problemi di coordinamento della stessa attività di gruppo, ma anche la difficoltà di accertare la rilevanza causale della condotta posta in essere da ciascun componente, e quindi di verificare sino a che punto gli altri componenti dell’équipe possono considerarsi immuni dal rimprovero penale.
Pertanto, al fine evitare una rischiosa deresponsabilizzazione dei soggetti agenti in spregio all’esigenza di salvaguardia della tutela del bene-salute dei consociati, la giurisprudenza è intervenuta per definire l’ambito di operatività del legittimo affidamento.
I giudici di legittimità sono giunti ad affermare l’esigenza di un accertamento del ruolo svolto dal sanitario componente l’équipe attraverso un’analisi case by case [14], riconoscendo all’applicazione del principio di affidamento l’impiego di un duplice ordine di limiti, quali «la riconoscibilità dell’altrui comportamento inosservante e l’obbligo di controllo sull’operato altrui».[15]
3. Le eccezioni alla regola del principio di affidamento: a) la prevedibilità dell’altrui comportamento inosservante.
Il primo limite, vale a dire la “riconoscibilità – prevedibilità dell’altrui comportamento inosservante” è di ordine fattuale: l’aspettativa di affidamento del singolo partecipante riposta nell’altro “in colpa” risulta non più giustificata laddove insorgano comportamenti altrui scorretti dovuti alla mancata osservanza delle leges artis generiche, e non specialistiche, pertinenti cioè alle conoscenze professionali di ciascun medico e rese evidenziabili dalle concrete circostanze del caso[16].
Le fattispecie in esame sono quelle a partecipazione pluri-soggettiva orizzontale (sincronica o diacronica che sia [17]), in cui, pur mancando un obbligo primario di controllo sull’altrui condotta (operando, almeno di regola, il principio di affidamento) [18], questo sorge in via secondaria ed eventuale allorché un qualsiasi membro dell’équipe «abbia avuto modo di percepire comportamenti scorretti ed inadeguati osservati da altri membri, tali da far prefigurare esiti pregiudizievoli per il bene della salute del paziente destinatario delle cure»[19]. La prevedibilità della scorrettezza altrui, in tali casi, in assenza di un intervento rimediale dovuto all’ inerzia del medico, comporta «l’imputazione dell’evento infausto in cooperazione colposa (art.113) tra il medico in errore “diretto” ed il medico che non ha fronteggiato tale circostanza nonostante la posizione di garanzia di cui è stato investito e la riconoscibilità della imperizia (art. 40 co. 2 c.p.).[20]
Esemplificativamente, un medico dell’equipe operatoria intervenuto ad assistere il collega nel parto, pur non avendo la specializzazione in ginecologia, è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione responsabile in concorso con il ginecologo per la morte di un neonato. Tale responsabilità concorrente è stata ascritta per non avere diagnosticato la situazione di asfissia del feto, nonostante «la presenza di sintomi evidenti» e quindi in una «situazione né difficile né complessa, che non richiedeva, per essere adeguatamente affrontata, particolari cognizioni specialistiche»[21].
Sicché, la preordinata divisione del lavoro non esonera, di per sé, il singolo dal dovere di vigilanza dell’operato altrui se questo è posto in essere con modalità che lasciano riconoscere e prevedere l’inosservanza delle regole cautelari, emendabili peraltro con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.
Più dettagliatamente, la giurisprudenza ha affermato che «l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali»[22].
Con tale affermazione il contenuto del dovere di diligenza incombente sul singolo sanitario sembra ampliato in quanto alla regola generale – basata sull’obbligo di agire nel rispetto delle proprie leges artis – si aggiungerebbe un ulteriore obbligo di controllo anche dell’operato altrui, che si spinge fino all’intervento correttivo di errori, in contrasto all’applicazione del principio di affidamento.
In realtà l’indirizzo interpretativo fa riferimento a quelle sole ipotesi, ragionevolmente circoscritte, in cui il singolo componente dell’équipe sanitaria percepisca sussistere «circostanze fattuali che si rivelano idonee ad annullare l’aspettativa di un comportamento corretto da parte degli altri»[23] e rendono, pertanto, perseguibile l’inosservanza del dovere di controllo.
Circostanze queste, fissate dalla giurisprudenza di legittimità, che fanno leva sui parametri dell’evidenza e della non settorialità dell’errore altrui, il cui significato appare opportuno specificare.
Orbene, mentre il concetto di evidenza è da intendersi in termini qualitativi, cioè «come concreta percezione o percepibilità dell’errore da parte di un professionista, impegnato nelle mansioni di sua competenza»[24], il concorrente requisito della non settorialità concerne la rilevabilità dell’errore tecnico sulla base del patrimonio di conoscenze comuni ad ogni sanitario, ancorché sprovvisto delle specifiche cognizioni tecniche del medico che ha commesso l’errore[25].
In questa prospettiva si colloca la sentenza della Suprema Corte che ha affermato la responsabilità per omicidio colposo di una partoriente, per il riscontrato errore evidente di un anestesista nella manovra di intubazione; Al contempo ha assolto il medico chirurgo in ragione del fatto che l’errore era sì “evidente” ma solo per “un anestesista medio”. L’attività anestesiologica in quanto tale non era cioè percepibile dal chirurgo sulla base del suo patrimonio di conoscenze generiche e specialistiche.[26]
I due requisiti, limitati ai soli casi di errori macroscopici e agevolmente riconoscibili, fungono dunque da “parametro di valutazione della colpevolezza” [27] per l’inosservanza dell’obbligo di intervento, da accertare di volta in volta tenendo conto delle peculiarità della fattispecie concreta [28].
L’applicazione del principio di affidamento non indulge pertanto a meccanismi presuntivi, ma lascia spazio alle peculiarità del caso concreto. Ciò va necessariamente coniugato con l’esigenza di rispettare anche il principio della divisione del lavoro assunto ormai a rango di fattore di sicurezza. Laddove, infatti, i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti deve trovare riconoscimento il «principio dell’affidamento […] non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui» [29], sempre che, ovviamente, non si appalesino circostanze tali da renderne evidente la negligenza[30].
4. (segue): b) il dovere giuridico primario di controllo e coordinamento del capo équipe sull’operato altrui.
In relazione al secondo limite, questa volta di ordine giuridico, il principio di affidamento subisce una torsione ancor più stringente nelle ipotesi di distribuzione verticale del lavoro. Infatti, in presenza di un’équipe gerarchicamente organizzata il rapporto tra il principio di affidamento e il dovere di controllo risulta invertito: la particolare posizione apicale rivestita dal capo équipe comporta l’obbligo per lo stesso di porsi in condizione di sorvegliare, controllare e coordinare le attività dei suoi collaboratori per prevenire o correggere l’eventuale comportamento negligente di uno di essi.
Si pensi al dovere che grava verso infermieri, ostetriche ed assistenti sul capo-équipe chirurgico. Questo, in coerenza con la posizione che ricopre, è chiamato non solo a dover eseguire con diligenza e perizia le mansioni a lui assegnate nell’ambito della divisione delle competenze, ma ha anche un dovere di direzione e controllo dell’attività svolta dai subordinati, anche se specialisti, e nei cui confronti non può, di regola, porre alcuna forma di affidamento.
Il ruolo del capo-équipe si arricchisce quindi di un ulteriore dovere giuridico che in tal caso ha valore primario, a differenza dei rapporti giuridici orizzontali in ordine ai quali, come indicato nel paragrafo precedente, si configura un dovere giuridico secondario in capo agli altri componenti [31]. Il medico in posizione apicale ha dunque in tali casi l’obbligo di impedire eventi lesivi al bene protetto cagionati da terzi, pena una sua responsabilità (in concorso).
Così inteso il limite all’affidamento, la posizione di garanzia ricoperta dal capo équipe pare assumere prima facie valore “assoluto”: egli ha un dovere continuo e costante di sorveglianza su tutta l’attività dei collaboratori. Ma il soggetto gerarchicamente sovraordinato, per la sola posizione che riveste, non può considerarsi sempre e comunque responsabile degli errori colposi altrui. Si configurerebbe altrimenti una forma di responsabilità oggettiva o comunque per fatto altrui (sub specie responsabilità da posizione), in violazione del principio personalistico sancito dall’art. 27 Cost.; peraltro «.. si finirebbe per dare davvero quel significato di metodica sfiducia nell’abilità e nelle capacità degli altri […] finendo per assottigliare di molto la valenza dello stesso principio di affidamento» [32].
Di qui la necessità di evitare il rischio di una vanificazione del principio della divisione del lavoro e una paralisi del principio di affidamento, attraverso una ricostruzione più rigorosa dei contorni della posizione di garanzia del capo équipe.
Come rilevato in precedenza, l'ampia posizione di garanzia di cui il capo dell'equipe operatoria è titolare, si compone sia dell’attività direttamente operativa, sia della supervisione dell’altrui operato. In relazione a quest’ultima è necessario circoscrivere con esattezza l’ambito di operatività in quanto caratterizzato da una duplice funzione: di controllo e di coordinamento.
Il dovere di controllo prevede che l’obbligo di sorvegliare il comportamento altrui non si limita alla sola fase iniziale dell’intervento chirurgico, come riteneva una parte della dottrina [33], ma va assolto per tutta la durata dell’attività medico – chirurgica, finanche nella fase post-operatoria.
Così, il medico sovraordinato prima dell’inizio dell’intervento deve innanzitutto valutare la composizione del gruppo, e quindi la sussistenza in esso di eventuali circostanze che possano prefigurare il verificarsi di comportamenti inadeguati. Tipica è l’ipotesi di rischio derivante dall’inesperienza di uno dei componenti l’équipe cui il direttore dell’intervento deve preventivamente avvedersi: in tal caso l’importanza della funzione di controllo è direttamente proporzionale all’inesperienza del sottoposto [34]. Inoltre, sempre nella fase pre-operatoria, ciascun componente di una équipe chirurgica, a prescindere peraltro dal fatto che si trovi «in posizione sovra o sottordinata», è sempre tenuto a verificare prima dell’operazione le condizioni generali di salute del paziente risultanti dalla cartella clinica al fine di accertarsi che l’intervento sia compatibile e adeguato al caso di specie[35].
Autorizzato poi l’inizio dell’intervento, il medico chirurgo deve ancora continuare a vigilare sull’operato dei sottoposti, assunto del quale la casistica giurisprudenziale offre svariate esemplificazioni concrete [36]. Tra queste, emerge il dovere dello stesso di partecipare attivamente alle decisioni sulle scelte terapeutiche e di definire i criteri diagnostici che poi dovranno essere seguiti dai subalterni.
Allo stesso modo, nella fase post-operatoria la funzione del capo équipe deve essere egualmente improntata al dovere di controllo, non potendosi sottovalutare la necessitá di seguire il decorso successivo all’intervento [38]. E’ stata così dichiarata la responsabilità colposa del chirurgo operante che si allontanava dalla clinica, dopo la conclusione dell’intervento, disinteressandosi e sottovalutando le condizioni del paziente, pur a conoscenza del suo mancato risveglio[38].
Il dovere di coordinamento invece, è inteso come «necessità di disporre previa e opportuna ripartizione delle varie mansioni tra i componenti del gruppo, a garantire la copertura di tutte le esigenze che l’intervento comporta» [39]. Così ad esempio, è stato ritenuto penalmente responsabile un chirurgo capo équipe che, a fronte di una questione anestesiologica di carattere interdisciplinare (a lui nota), non ha impedito l’errata condotta dell’anestesista ed evitato la morte del paziente. [40]
Tanto premesso, non vi è dubbio come sia evidente la difficoltà di riconoscere l’operatività del principio di affidamento nelle operazioni chirurgiche gerarchicamente organizzate. L’esigenza è quella di tutelare il legittimo affidamento del paziente, ma anche quella di garantire il capo équipe, evitando che il dovere di supervisione intrinseco alla posizione apicale, lo possa investire di responsabilità per qualsiasi prestazione inesatta altrui. [41] Opportuno limitare pertanto le imputazioni del capo-équipe alle sole ipotesi di negligenza dei sottoposti che siano effettivamente evidenti e controllabili [42], come peraltro già accade nei rapporti tra operatori sanitari di pari livello.
Di qui l’apertura della Cassazione nel caso in cui tra i componenti l’équipe vi sia un sanitario con un sapere altamente specializzato[43]. Inoltre, se il direttore dell’operazione si procura le informazioni sulle iniziative intraprese o che stanno per essere intraprese dagli altri medici «non può essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifica, pure in sua assenza, all'interno del reparto affidato alla sua responsabilità, non essendo dal medesimo esigibile un controllo continuo e analitico di tutte le attività terapeutiche ivi attuate» [44]. Va da sé che in tali situazioni sussistano circostanze concrete legittimanti un ragionevole affidamento sull’operato altrui.
Lo stesso ragionamento si è recentemente prodotto anche nel periglioso campo della condotta omissiva «in tema di reato omissivo improprio, la titolarità di una posizione di garanzia, non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione, da parte del garante, di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso» [45].
Il sanitario operante in qualità di capo-équipe non può dunque per ciò solo, sic et simpliciter, ritenersi penalmente responsabile. E’, invece, necessario, così come nei rapporti orizzontali, verificare la sussistenza della responsabilità del capo équipe attraverso una prudente analisi case by case. Solo sulla base del dato empirico e della peculiarità del caso concreto è infatti possibile orientare l’interprete nel giudizio di accertamento sulla sussistenza della ragionevole prevedibilità dell’evento, oltre che sull’ampiezza degli specifici obblighi gravanti sul capo equipe.
5. Conclusioni.
Sia la legge Balduzzi prima che la legge Gelli-Bianco successivamente[46], non hanno affrontato specificamente la questione dell’attività medico-chirurgica in équipe, per cui l’apporto delle novelle legislative al tema in esame resta confinato alle pur non marginali questioni relative al rispetto delle linee guida e buone pratiche accreditate (per quanto riguarda la legge 8.11.2012 n. 189) ed al nuovo modello di responsabilità penale del medico introdotto dall’art. 590-sexies c.p. (con riferimento alla legge 8.3.2017 n.24), che va esteso a tutti i componenti dell’équipe[47].
Tuttavia, nonostante l’assenza di un preciso riferimento normativo in materia, è palese, da uno studio della dottrina e della giurisprudenza più recente, come nella disamina relativa agli obblighi gravanti sui componenti un’équipe, e sulla loro responsabilità, stia profondamente incidendo la portata del generale principio di affidamento come valido criterio di delimitazione delle responsabilità.
Se inizialmente si era privilegiato un ampliamento della portata delle regole di prudenza e diligenza in capo a ciascun esercente la professione sanitaria, comprensiva del dovere di «farsi carico anche delle manchevolezze dell’altro componente l’equipe»[48], e quindi un’automatica esclusione del legittimo affidamento, oggi il rigore di tale indirizzo sembra temperato.
Le soluzioni fornite recentemente dalla giurisprudenza, come sin qui esaminate, sono infatti prevalentemente improntate a rimarcare il principio di personalità della responsabilità penale e della “ragionevole prevedibilità” del comportamento colposo del terzo, parametri questi che fungono peraltro da comune denominatore di entrambe le eccezioni analizzate in precedenza[49].
Allineandosi, quindi, su posizioni favorevoli all’applicabilità del principio di affidamento, la giurisprudenza sta mostrando sempre maggiore sensibilità nella distinzione dei ruoli dei singoli sanitari.
Non a caso è stato suggestivamente evidenziato come le sentenze della Corte di Cassazione «… stanno traghettando il principio di affidamento fuori da quel limbo in cui sembrava giacere e stanno contribuendo in maniera decisiva a un più chiaro inquadramento sistematico dello stesso»[50].
L’intenzione, in definitiva, sembra quella di circoscrivere gli obblighi di sorveglianza altrui alle ipotesi di errori macroscopici, realmente percettibili e prevedibili del sanitario membro dell’équipe attraverso un’analisi delle circostanze fattuali in cui si sviluppa l’intervento terapeutico.
E’ infatti sul giudizio di prevedibilità in concreto operato di volta in volta dall’interprete «che si gioca la necessaria canalizzazione della responsabilità per colpa del sanitario in équipe nell’assetto dei principi costituzionali di tassatività e personalità del rimprovero penale»[51].
[1] Si veda a tal riguardo la disciplina di cui alla l. nr. 24/2017, cd. “Gelli-Bianco”.
[2] Cfr. L. Risicato, L’attività di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Giappichelli, 2013.
[3] L’attività sincronica si caratterizza a sua volta o in una forma di collaborazione di tipo orizzontale (in cui i sanitari, dotati di specializzazioni e competenze diverse, operano in una posizione paritaria, come avviene nel rapporto tra medico chirurgo e medico anestesista), ovvero di tipo verticale, in cui, invece, gli stessi hanno uguale specializzazione ma diversa posizione gerarchica, come avviene nel rapporto tra capo équipe e specializzando.
[4] La questione viene diffusamente analizzata, se pure con riferimento ad un caso giudiziario in campo ben diverso da quello medico, da: G. Bova - A. Marchini, Il caso Costa Concordia: profili di responsabilità penale del comandante, CP, 2018, 4, pp. 1144;
[5] Senza dubbio non può trattarsi di ipotesi di cooperazione colposa ex art. 113 c.p. in quanto nelle situazioni oggetto d’analisi non si rinviene la sussistenza nell’animus del compartecipe di contribuire all’azione od omissione altrui; così: Cass. Sez. IV pen., 28 novembre 2014 n. 49735.
[6] A seguito di un esito infausto, considerata la difficoltà di attribuire la responsabilità penale all’azione colposa dell’uno o dell’altro operatore sanitario, è preferibile configurare nelle situazioni summenzionate, sulla chiara scia di matrice civilistica, una “responsabilità di gruppo”; così: E. Guerinoni, Attività sanitaria e responsabilità civile, CG, 2013, all. 1, p.5; G. Cattaneo, La responsabilità del medico nel diritto italiano, in AA.VV:, La responsabilità medica, Giuffrè, 1982, p. 22;
[7] Cfr. G. Fortunato, Ancora sui rapporti tra il principio di affidamento ed équipe medica, DPCO, 2017, 5, p.41.
[8] F. Mantovani, Il principio di affidamento nel diritto penale, RIDPP, 2009, p. 536.
[9] Nell’ordinamento giuridico italiano in materia di circolazione stradale il codice contiene norme che riducono quasi a zero le possibilità di una pacifica affermazione del principio di affidamento in quanto preferiscono estendere al massimo l’obbligo di prudenza e di perizia dei singoli agenti sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari. Si pensi all’art. 141 C.d.S, - che impone di regolare la velocità in relazione alle circostanze esterne – oppure l’art. 145 C.d.S, - che impone la massima prudenza nell’impegnare l’incrocio – e l’art. 191 C.d.S – che prescrive la massima prudenza nei confronti dei pedoni ovunque essi si trovino. E’ evidente che quello della circolazione stradale è un contesto meno definito rispetto a quello del lavoro medico in équipe. Dal punto di vista strutturale, infatti, nell’uno si configura una interazione impersonale eventuale fra soggetti non preventivamente determinabili mentre nell’altro, dell’attività in équipe, c’è “un intreccio cooperativo preesistente tra soggetti determinati”. Vedi in dottrina: A. Massaro, Principio di affidamento e obblighi di sorveglianza nell’attività sanitaria: plurisoggettività diacronica e lavoro di équipe, relazione al corso della S.S.M. “La responsabilità colposa nell’ambito delle attività sanitarie”, 29.6.2018, www.scuolamagistratura.it; in giurisprudenza: Cass. Sez. IV pen., 4 dicembre 2009, n. 46741.
[10] Si osservi, peraltro, che il campo connaturale di operatività del principio di affidamento è esclusivamente quello delle attività rischiose giuridicamente autorizzate, e tra queste rientrerebbero ineludibilmente anche quelle medico - chirurgiche svolte in équipe, perché: “.. a) solo rispetto a tali attività sono concepibili le regole cautelari delimitanti l’autorizzazione giuridica delle medesime: «il rischio consentito»; b) solo rispetto ad esse è, conseguentemente, concepibile la possibilità per il singolo di confidare sul rispetto delle regole cautelari da parte degli altri autori di attività rischiose, autorizzate e convergenti”. Così F. Mantovani, Il principio di affidamento cit., p. 538.
[11] M. Bilancetti - F. Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, Cedam, 2013, pp. 879.
[12] L. Gizzi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità medica in équipe, DPP, 6, 2006.
[13] M. Bilancetti - F. Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico cit.p. 882 ss.
[14] Cfr. Cass. Sez. IV pen., 21 dicembre 2017, n. 2354, per cui «in applicazione del principio di affidamento, per individuare la responsabilità penale del singolo sanitario che presta il proprio intervento in équipe medica, è necessario verificare l’incidenza avuta dalla sua condotta nella causazione dell’evento».
[15] A. Massaro, Principio di affidamento e obblighi di sorveglianza cit.p.2.
[16] A. Buzzoni, Responsabilità medica in équipe: breve disamina egli orientamene giurisprudenziali, www.diritto.it, 2017
[17]«Ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto a osservare gli obblighi a ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico. Ne consegue che nella colpa medica nell’attività d’equipe ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito,[…] altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento, non potendo il sanitario esimersi dal valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega sia pur specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza ponendo se del caso rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rimediabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio». Cass. Sez. IV pen., 24 gennaio 2005, n.18548; così anche Cass. Sez. IV pen., 16 maggio 2016, n. 20125.
[18] Così G. Bova – A. Marchini, Il caso Costa Concordia, cit., p. 1147.
[19] L. D’Apollo, La responsabilità del medico, Torino, 2012, p. 335. Tra le fattispecie sottoposte al vaglio dei giudici di legittimità quanto occorso durante un intervento di mastoplastica additiva in cui, a seguito di un mal posizionamento sul lettino operatorio della paziente, mantenuto per tutta la durata dell’intervento, era derivata una lesione neuroprassica del tronco superiore del plesso branchiale. In tal caso, la Cassazione si è espressa nel senso che il mal posizionamento della paziente sul lettino «pur essendo materialmente predisposto dall’anestesista, non può definirsi operazione del tutto sottratta al controllo del medico-chirurgo, incaricato dell’intervento»,di qui la responsabilità dell’anestesista in concorso con il medico-chirurgo(Cass. Sez. IV pen., 2 aprile 2010 n. 19637).
[20] F. Lombardi, Il principio di affidamento nel trattamento sanitario d’équipe, in www.giurisprudenzapenale.com, 2018, 7-8, p. 5.
[21] Cfr. Cass. Sez. IV pen., 24 gennaio 2005 n. 231535. Allo stesso modo, in ipotesi di omicidio colposo, si è pervenuti alla condanna oltre che del ginecologo anche delle ostetriche, ritenendo «….che l’errore commesso dal ginecologo nel trascurare i segnali di sofferenza fetale non esoneravano le ostetriche dal dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico, in quanto tale attività rientrava nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in équipe» (Cass. IV pen., 18 ottobre 2016 n. 53315).
[22] Tra le plurime pronunzie in materia, vedi: Cass. sez. IV pen., 18 ottobre 2016, n. 53315; Cass. sez. IV pen. 11 ottobre 2007, n. 41317; Cass. sez. IV pen., 12 luglio 2006, n. 33619: Cass. sez. IV pen., 2 marzo 2004, n. 24036; Cass. sez. IV pen., 24 gennaio 2005, n. 18548;
[23] G. Fortunato, Ancora sui rapporti, cit., p.41.
[24] Ibidem, p. 42.
[25] Il dovere secondario del sanitario di «valutare l’attività del collega e la sua correttezza, cogliendone eventuali inadeguatezze e ponendovi rimedio, incontra [pertanto] un duplice limite, nel fatto che gli errori altrui siano rilevabili, e conseguentemente rimediabili da un medico non specialista nel settore interessato e nel fatto che siano prevedibili nella concreta situazione fattuale» così R. Bartoli, Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, University Press, 2010, p. 35.
[26] Cass. Sez. IV pen., 12 luglio 2006, n. 33619.
[27] L. D’Apollo, La responsabilità del medico cit., p. 336.
[28] La Suprema Corte (Cass. Sez. IV pen., 20 aprile 2017, n. 27314) ha elaborato il principio secondo cui «la responsabilità penale di ogni componente di una équipe medica per un evento lesivo occorso ad un paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito all’équipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri»; così anche Cass. Sez. IV pen., 5 maggio 2016, n. 18780 e Cass. Sez. IV pen., 3 dicembre 2015, n. 20125.
[29] Cass. Sez. IV pen., 4 settembre 2018, n. 39733; Cass. Sez. IV pen., 20 aprile 2017, n. 27314; RIML, 2017, p. 1227, nt. S. Tunesi; vedi anche: Cass. Sez. IV pen., 8 luglio 2015 n. 7346; Cass. Sez. IV pen., 18 giugno 2013, n. 43988; Cass. Sez. IV pen.,9 aprile 2009, n. 19755.
[30] A tal riguardo può farsi riferimento al caso del sanitario operante in qualità di secondo chirurgo che, resosi conto dell’intervenuta lacerazione dell’aorta e conseguente emorragia, aveva segnalato la circostanza al primo operatore che era intervenuto con la relativa suturazione ed apparente successo, data l’assenza di sanguinamento. Il successivo decesso del paziente, dovuto ad errori nella suturazione, è stato attribuito al solo primo operatore «non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui», vedi: A. Foti, Intervento chirurgico e decesso del paziente: come accertare la responsabilità del singolo componente dell’équipe medica? D&G, 94, 2017, p. 27.
[31] G. Fortunato, Ancora sui rapporti cit., pp. 43 ss.
[32] A. Iadecola, I criteri della colpa nell'attività medica in équipe, GM, 1997, p. 229.
[33] In tal senso E. Belfiore, Profili penali dell’attività medico-chirurgica in équipe, AP, 8, 1986, p. 295 ss.
[34] Se difatti Infatti è ragionevole riconoscere al medico sovraordinato la facoltà di fare affidamento sull’operato dell’aiuto anziano, tale facoltà non può assumere rilevanza nell’ipotesi in cui ad operare sia un giovane collaboratore. Così:.«…in tema di colpa professionale, risponde del reato commesso dal medico specializzando, materiale esecutore dell’intervento chirurgico, anche il primario, cui lo specializzando è affidato, il quale allontanandosi durante l’operazione, viene meno all’obbligo di diretta partecipazione agli atti medici posti in essere dal sanitario affidatogli» Cass. Sez. IV pen., 3 marzo 1988, nt. Scotto, www.filodiritto.com., 2015.
[35] Ciò significa che anche il sanitario in posizione di minore rilievo non può limitarsi a svolgere correttamente le proprie specifiche mansioni, ma deve garantire «pur sempre una partecipazione all’intervento chirurgico non da mero spettatore ma consapevole e informata». Sicché colui che non condivide le scelte adottate dal primo medico, nonostante sia in posizione di secondo operatore, è chiamato in ogni momento a segnalare il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate dagli altri operatori, ivi inclusa la scelta stessa di procedere all’operazione. Così Cass. Sez. III civ., 29 gennaio 2018, n. 2060, in GPW, 2018, 7-8, nt. S.M. Spina.
[36] E’ stata affermata la penale responsabilità di un urologo che, al momento della chiusura dell’operazione chirurgica, aveva omesso la rimozione di una garza dall’addome del paziente, pur se l’evento lesivo era derivato dalla condotta colposa dell’addetto al conteggio dei ferri, per aver omesso, o inadeguatamente esercitato, il controllo sull’operato di quest’ultimo. Vedi Cass. Sez. IV pen., 25 maggio 2016, n. 34503 per cui:«…grava sul capo dell’équipe medico-chirurgica il dovere, da valutarsi alla luce delle particolari condizioni operative, di controllare il conteggio dei ferri utilizzati nel corso dell’intervento e di verificare con attenzione il campo operatorio prima della sua chiusura, al fine di evitare l’abbandono in esso di oggetti facenti parte dello strumentario». Allo stesso modo Cass. Sez. IV:pen., 26 maggio 2004, n. 39062, per fattispecie in cui, durante un’operazione chirurgica, non era stata rilevata da alcuno, neanche successivamente al momento del conteggio dei ferri, la rottura del margine della pinza e il suo deposito nell’addome.
[37] «Il capo dell’équipe è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata all’ambito strettamente chirurgico ma si estende al successivo decorso post-operatorio, poiché le esigenze di cura e di assistenza dell’infermo sono note a colui che ha eseguito l’intervento più che ad ogni altro sanitario», Cass. Sez. IV pen., 6 marzo 2012, n. 17222.
[38] Cass. Sez. IV pen., 7 novembre 1988 n. 180245. E stata invece esclusa la responsabilità del direttore dell’intervento che, prima di allontanarsi, «abbia affidato il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti e in grado di seguire il decorso post operatorio» (cfr. Cass. Sez. IV pen., 23 gennaio 2018, n. . Vedi anche Cass. Sez. IV pen., 6 marzo 2012 n. 17222;.Cass. Sez. IV pen., 8 febbraio 2005, n. 12275; Cass. Sez. IV, 1 dicembre 2004, n. 9739.
[39] A. Iadecola, I criteri della colpa nell'attività medica in équipe, cit.., p. 229. Il capo dell’equipe operatoria è titolare di posizione di garanzia nei confronti del paziente in ragione della quale è tenuto a dirigere e coordinare l’attività svolta dagli altri medici, sia pur specialisti in altre discipline, per. Cass. Sez. IV pen., 5 maggio 2015, n. 33329.
[40] Cfr. Cass. Sez. IV pen., 23 ottobre 2014 n. 1832, per cui: «… in tema di colpa medica, il medico chirurgo operatore è titolare di un’ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente, in virtù della quale egli è tenuto a concordare con l’anestesista il percorso anestesiologico da seguire – avute presenti anche le condizioni di salute del paziente e le possibili implicazioni operatorie legate ad esse – nonché a vigilare sulla presenza in sala operatoria del medesimo anestesista, deputato al controllo dei parametri vitali del paziente per tutta la durata dell’operazione». In senso conforme: Cass. Sez. IV pen., 15 maggio 2014, n. 35953; Cass. Sez. IV pen., 18 giugno 2013, n. 43988.
[41] M. Bilancetti - F. Bilancetti, La responsabilità penale cit., pp. 880;
[42] T. Napoli, 13 gennaio 2007, in CM, 2007, vl. III, fasc. V, p. 584, nt. Cursi.
[43] E’ il caso ad esempio dell’anestesista rianimatore «…portatore di conoscenze specialistiche e che assume la connessa responsabilità in relazione alle fasi di qualificata complessità nell’ambito dell’atto operatorio» Cass. Sez. IV pen., 5 maggio 2015, nr. 3329.
[44] Cass. Sez. IV pen., 25 febbraio 2005, n. 4058.
[45] Tra le più recenti: Cass. Sez. IV pen., 22 dicembre 2017, n. 3623; Cass. Sez. IVpen., 30 maggio 2017, n. 34375; Cass. Sez. IV pen., 21 settembre 2016, n. 5273; Cass. Sez. IV pen., 11 febbraio 2016, n. 7783; Cass. Sez. IV pen., 6 maggio 2015 n. 24462.
[46] Sulla portata applicativa della legge 8 novembre 2012, n.189 al tema in esame, cfr. L. Cornacchia, Responsabilità penale da attività sanitaria in équipe, RIML, 3, 2013.
[47] Ex art. 590-sexies c.p., introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 qualora un evento lesivo si sia verificato, anche nello svolgimento di attività d’équipe, a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che risultino adeguate al caso concreto.
[48] Cass. Sez IV pen., 21 maggio 2017, n. 27314.
[49] Vedi supra sub § 3 e 4.
[50] A. Massaro, Principio di affidamento e obblighi di sorveglianza, cit., p. 8.
[51] Cass. Sez. IV pen., 23 gennaio 2018, n. 22007, www.ridare.it, 2018, nt. G.A. Messina.
Con l’attesa sentenza G.I.E.M, in materia di confisca urbanistica, la Grande Camera della Corte EDU conferma le linee fondamentali proposte dalla Corte costituzionale italiana con la sentenza n.49 del 2015: l’intervenuta prescrizione del reato non rappresenta di per sé un ostacolo all’applicazione della confisca, sempre che dalla sentenza risulti un accertamento di responsabilità e, dunque, la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di lottizzazione abusiva. Non si tratta, a ben vedere, di conclusioni del tutto eccentriche e che potrebbero giustificarsi anche senza valorizzare in via pressoché esclusiva, come sembrerebbe emergere dalle motivazioni della sentenza G.I.E.M., le ragioni “politiche” volte ad assicurare una “efficiente” risposta sanzionatoria. Le riflessioni in questione, inoltre, si inseriscono in una più ampia cornice sistematica e normativa, della quale fa parte anche il nuovo art. 578-bis c.p.p.
Sommario: 1.La natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica: le sentenze Sud Fondi e Varvara. – 2. La sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale. – 3. La sentenza G.I.E.M. della Grande Camera. – 4. Lo statuto della sanzione sostanzialmente penale e la sentenza di condanna nell’ordinamento italiano. – 5. La confisca senza condanna dopo l’introduzione dell’art. 578-bis c.p.p.
1. La natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica: le sentenze Sud Fondi e Varvara.
La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 28 giugno 2018, si è (finalmente) pronunciata sui ricorsi proposti contro lo Stato italiano dalle società G.I.E.M. s.r.l., Hotel Promotion Bureau s.r.l., R.I.T.A Sarda s.r.l., Falgest s.r.l. e dal sig. Filippo Gironda (Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, 828/06, 34163/07, 19029/11, G.I.E.M. e altri c. Italia. Tra i primi commenti alla pronuncia si segnalano M. Bignami, Da Strasburgo via libera alla confisca urbanistica senza condanna, Quest. Giust., 10 luglio 2018; A. Galluccio, Confisca senza Confisca senza condanna, principio di colpevolezza, partecipazione dell’ente al processo: l’attesa sentenza della Corte Edu, Grande Camera, in materia urbanistica, Dir. pen. cont., 3 luglio 2018; A. Martufi, Confiscating assets without a prior conviction violates fundamental rights?, Leidenlawblog.nl, 11 luglio 2018; G. Ranaldi, Confisca urbanistica senza condanna e prescrizione del reato: interrogativi sui rimedi processuali azionabili, dopo che la Grande Camera ha delineato un “equilibrio” possibile, in AP, 3/2018).
La comune questione giuridica che fa da sfondo ai ricorsi è quella dei limiti di ammissibilità di una “confisca senza condanna”, a sua volta derivante dalla nozione autonoma di “materia penale” (e, quindi, di “sanzione penale”) elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in riferimento agli artt. 6 e 7 CEDU.
La confisca urbanistica è prevista dall’art. 44 del testo unico in materia edilizia (DPR 390 del 2001), rubricato “Sanzioni penali”, il cui secondo comma prevede che «la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite». Sembra opportuno precisare che la contravvenzione di lottizzazione abusiva, secondo quanto previsto dall’art. 30 del medesimo testo unico, può “manifestarsi” in forme molto differenti tra loro, a partire dalla distinzione intercorrente tra la lottizzazione abusiva materiale e la lottizzazione abusiva negoziale (si rinvia sul punto ad A. Peccioli, Lottizzazione abusiva, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, Reati contro l’ambiente e il territorio, a cura di M. Pelissero, Giappichelli, 2013, pp. 385 ss.). Queste peculiarità sono state ampiamente valorizzate nella motivazione della sentenza della Grande Camera (Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, §§ 109 ss.), anche se dalle stesse non sembra siano state tratte conseguenze di rilievo nella ricostruzione della natura giuridica della confisca.
La giurisprudenza italiana, dopo aver inquadrato la confisca urbanistica nella categoria delle sanzioni penali, si è attestata in maniera sempre più stabile sull’idea per cui la stessa rappresenti una sanzione amministrativa obbligatoria, almeno parzialmente “indipendente” dall’accertamento della responsabilità penale. Da questa premessa derivano, in particolare, due conseguenze fondamentali che, vale la pena precisarlo fin da ora, sono quelle su cui si fonda la tenuta del (debole) sistema di tutela penale predisposto in materia di lottizzazione abusiva. La prima conseguenza è quella per cui sono ammesse nell’ordinamento italiano forme di “confisca senza condanna”, configurabili essenzialmente in due casi: a) pur essendosi accertato l’elemento oggettivo della lottizzazione abusiva (la violazione della normativa urbanistica di riferimento), l’imputato è assolto per difetto di elemento soggettivo (dolo o colpa) o di colpevolezza (art. 5 c.p.); b) il reato di lottizzazione abusiva si è prescritto. La seconda conseguenza consiste nel fatto che la confisca possa essere applicata anche qualora il bene sia alienato a terzi, purché questi ultimi non siano in buona fede.
Con la sentenza Sud Fondi (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, ric. n. 75909/01), spesso indicata come la pronuncia con cui il principio di colpevolezza, ricalcando cadenze argomentative molto simili a quelle della sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale italiana, avrebbe fatto ingresso nel “sistema CEDU” (sul punto, anche per ampie indicazioni bibliografiche, F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Giappichelli, 2017, p. 219), mette “fuori gioco” una delle possibili forme di confisca senza condanna: la confisca urbanistica può applicarsi solo laddove la fattispecie di lottizzazione abusiva sia accertata al completo dei suoi elementi non solo oggettivi ma anche soggettivi.
Resta invece aperta la questione relativa alla confisca disposta malgrado l’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione abusiva. La sentenza Varvara (Corte EDU, sez. II, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, ric. n. 17475/09), ribadendo tanto la natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica prevista dall’ordinamento italiano quanto le considerazioni in tema di “colpevolezza” espresse dalla precedente sentenza Sud Fondi, sembrerebbe escludere la compatibilità con il sistema CEDU anche dei casi in cui la confisca sia disposta “a reato prescritto”: «Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata. Nella presente causa, la sanzione penale inflitta al ricorrente, quando il reato era estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta con i principi di legalità penale appena esposti dalla Corte e che sono parte integrante del principio di legalità che l’articolo 7 della Convenzione impone di rispettare. La sanzione controversa non è quindi prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione ed è arbitraria» (§§ 71-72).
Il nodo da scogliere, in particolare, diviene quello relativo al significato dell’espressione “condannato” e “sentenza di condanna”: convicted - a verdict as to his guilt, nella versione inglese della pronuncia, e condamnée - un jugement de condamnation, nella versione francese. Da una parte, infatti, sembrava che il riferimento della sentenza Varvara dovesse intendersi alle categorie proprie dell’ordinamento interno, posto che avrebbe ben poco senso riferire il concetto di “condannato” a un sistema normativo, come quello delineato dalla CEDU, che per definizione ne è privo. Dall’altra parte, il caso Varvara, contrariamente a quello deciso dalla sentenza G.I.E.M., traeva origine da una confisca disposta sulla base della oggettiva violazione delle norme urbanistiche di riferimento: nessun cenno si faceva all’elemento soggettivo del reato. Il deficit di colpevolezza, altrimenti detto, resta l’aspetto decisivo, anche se l’attenzione si sposta pressoché inevitabilmente sui profili relativi all’intervenuta prescrizione.
2. La sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale
I possibili “margini di apprezzamento” lasciati aperti dalla sentenza Varvara, sono stati ampiamente valorizzati dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 44 del testo unico in materia urbanistica.
La Corte, pur non mettendo in discussione la natura “sostanzialmente penale” della confisca urbanistica, ritiene ammissibile che la “confisca-pena” resti sottoposta a uno statuto differente rispetto alle altre sanzioni penali e che, in particolare, possa applicarsi anche in assenza di una sentenza di condanna “in senso stretto”. Il concetto di “condanna”, individuato dal giudice europeo quale necessario presupposto dell’applicazione di una “pena CEDU”, non andrebbe inteso in un’accezione meramente formale, ma, piuttosto, valorizzando la sostanza della pronuncia che di volta in volta viene in considerazione: è necessaria e sufficiente una pronuncia dalla quale emerga l’accertamento della responsabilità dell’imputato, che ben potrebbe essere contenuto anche nella sentenza che dichiara l’intervenuta prescrizione del reato (Corte cost., 14 gennaio 2015, n. 49, punto 5 del Considerato in diritto).
La Corte costituzionale “conferma” anche la possibilità di applicare la confisca a terzi, purché non si tratti di soggetti in buona fede e a condizione che la mala fede sia dimostrata, da parte della pubblica accusa, attenendosi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell’effettivo apprezzamento compiuto.
La Corte costituzionale “risponde” alla Corte EDU utilizzando il suo stesso linguaggio e, dunque, svolgendo fino alle estreme conseguenze le implicazioni derivanti da una connotazione in senso sostanzialistico-funzionale delle categorie proprie del diritto penale (sostanziale e processuale). Alla nozione “non formale” di “pena”, per intendersi, farebbe da pendant una nozione altrettanto “non formale” di “condanna”: la pronuncia necessaria all’applicazione della confisca ben potrebbe consistere in una sentenza che dichiari l’intervenuta prescrizione di un reato che, tuttavia, risulti accertato al completo dei suoi elementi costitutivi.
Si tratta di un’impostazione che si presta ad almeno due chiavi di lettura.
Da una parte è innegabile la preoccupazione del Giudice delle Leggi di assicurare la tenuta di un sistema di tutela affidato a un reato contravvenzionale e, dunque, a tempi di prescrizione particolarmente brevi. Non si è esitato a ritenere che la Corte costituzionale, usando contra reum l’argomento “sostanziale” che, invece, rappresenta lo strumento di cui la Corte EDU si serve per innalzare il livello di garanzie, avrebbe strumentalizzato la giustizia penale a fini di politica amministrativa: l’obiettivo sarebbe stato quello di contrastare l’inerzia delle amministrazioni locali e la connivenza con i progetti di lottizzazione abusiva (P. De Albuquerque, Opinione parzialmente concordante e parzialmente dissenziente a Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, §§ 25 ss.).
Sarebbe tuttavia fuorviante ritenere che la condanna in senso sostanziale o, rectius, la differenza tra la sentenza di condanna e l’accertamento di responsabilità cui segua il proscioglimento dell’imputato, rappresentino il coniglio tirato fuori dal cilindro della Corte costituzionale per una resistenza in chiave sovranistica all’avanzata delle nozioni autonome elaborate dai giudici di Strasburgo. Si tratta piuttosto di osservazioni che si pongono a valle di un più ampio percorso giurisprudenziale, sviluppatosi nell’ultimo decennio. Il riferimento è, in particolare, alla giurisprudenza che ha precisato l’ampiezza dei poteri cognitivi del giudice in presenza di una causa di estinzione del reato (Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2008, n. 38834, De Maio, CP, 4/2009, p. 1392, con nota di P. Ielo, Confisca e prescrizione: nuovo vaglio delle Sezioni unite), ma anche al superamento del “giudicato formale” come presupposto della confisca di matrice codicistica: l’estinzione del reato non precluderebbe la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo ex art. 240, secondo comma, n. 1 c.p., poiché il riferimento alla condanna non evoca la categoria del giudicato formale, ma postula unicamente la necessità di un accertamento incidentale equivalente rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di pertinenzialità, a prescindere dalla formula con la quale il giudizio è formalmente definito (Cass. pen., sez. II, 5 ottobre 2011, n. 39756, Ciancimino. Sulle differenze tra la confisca misura di sicurezza - legata alla pericolosità delle cose - e la confisca urbanistica v. però M. Bignami, Da Strasburgo via libera, cit., § 2).
La chiave di lettura “politica”, altrimenti detto, non è la sola lente che consente di inquadrare la nozione sostanziale di condanna proposta dalla Corte costituzionale, almeno per ciò che attiene all’intervenuta prescrizione del reato. La questione, invece, resta indubbiamente complessa per la confisca applicabile anche a soggetti terzi, non adeguatamente valorizzato fino a questo momento sul versante delle garanzie convenzionali e che, forse, lascia aperto un capitolo di rilievo nel “romanzo” della confisca urbanistica.
3. La sentenza G.I.E.M. della Grande Camera
La Grande Camera, con l’attesa sentenza G.I.E.M., ha sostanzialmente “recepito” la soluzione indicata dalla Corte costituzionale italiana. Resta ferma la natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica, sebbene il Governo italiano avesse tentato di mettere in discussione quello che può ormai considerarsi “diritto consolidato” nella giurisprudenza di Strasburgo (v. §§ 196 ss. e 210 ss). Le motivazioni sul punto mantengono un carattere sostanzialmente apodittico, ma, visto l’innalzamento di garanzie che deriva dalle conclusioni della Corte EDU, la via di un “passo indietro” sembra difficilmente praticabile. Già da tempo, del resto, si è evidenziata la scarna laconicità degli Engel criteria (F. Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità “costituzionale” vs. legalità “convenzionale”?, Dir. pen. cont., 5 aprile 2017, 18): resta però il fatto che se la qualifica sostanzialmente penale di una sanzione è affermata con una “giurisprudenza consolidata” da parte della Corte EDU, posto che da ciò deriva un innalzamento delle garanzie rispetto a quelle derivanti dalla natura amministrativa della stessa sanzione, la premessa in questione rappresenta una sorta di “punto di non ritorno”.
Resta anche confermata la valorizzazione della componente soggettiva del giudizio di responsabilità penale, ricalcando pressoché testualmente tanto le premesse della sentenza Sud Fondi quanto le precisazioni della sentenza Varvara (relative, in particolare, all’ammissibilità di forme di responsabilità oggettiva che però risulti conformi alla Convenzione: §§ 242 ss.).
Quanto al “cuore” della questione e, dunque, alla necessità o meno di una condanna in senso formale quale presupposto applicativo della confisca, è curioso che la Corte di Strasburgo abbia ampiamente valorizzato quelle che potevano al più considerarsi le motivazioni implicite della sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, ovvero la necessità di assicurare la tenuta di un sistema complessivamente molto debole: «si deve tener conto, da una parte, dell’importanza che ha, in una società democratica, il fatto di garantire lo Stato di diritto e la fiducia delle persone sottoposte a giudizio, e, dall’altra, dell’oggetto e dello scopo del regime applicato dai tribunali italiani. A questo proposito, sembra che l’obiettivo di questo regime sia la lotta contro l’impunità de deriva dal fatto che. Per l’effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi, gli autori di questi reati sfuggirebbero sistematicamente all’azione penale e, soprattutto, alle conseguenze dei loro misfatti» (§ 260).
Nulla (o quasi) si dice in riferimento alla distinzione tra “condanna” e “accertamento-dichiarazione” di responsabilità, soprattutto per verificarne la tenuta sulla base dell’art. 7 CEDU. I giudici, in punto di garanzie, si limitano a osservare: «la Corte non può ignorare tali considerazioni nell’applicazione dell’art. 7 nel caso di specie, a condizione che i tribunali in questione abbiano agito nel rispetto dei diritti della difesa sanciti dall’art. 6 della Convenzione».
La conclusione, dunque, è quella per cui «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato» (§ 261).
Sembrerebbe, inoltre, che la confisca non possa essere disposta ex novo in Cassazione: l’applicazione della confisca urbanistica richiede un accertamento della responsabilità da parte del giudice del merito, che non può essere surrogato in sede di legittimità da una autonoma valutazione “sulle carte”, in sede di impugnazione della sentenza di assoluzione (pressoché testualmente M. Bignami, Da Strasburgo via libera, cit., § 2).
La sentenza G.I.E.M. prende in considerazione anche un altro aspetto della confisca urbanistica, forse troppo spesso sottovalutato (così A. Galluccio, Confisca senza condanna, cit., § 1), relativo all’applicabilità della confisca stessa nei confronti della persona giuridica che non abbia partecipato al processo penale: in questo caso, infatti, la Corte europea ritiene sussistente la violazione dell’art. 7 CEDU, fondandola su una lettura “ampia” del principio di personalità della responsabilità penale (§§ 263 ss.).
4. Lo statuto della sanzione sostanzialmente penale e la sentenza di condanna nell’ordinamento italiano
Al di là delle premesse “politiche” valorizzate dalla sentenza della Grande Camera e delle motivazioni apodittiche relative alla compatibilità tra una “sostanziale dichiarazione di responsabilità” e l’art. 7 CEDU, le conclusioni cui sono pervenuti (anche) i giudici di Strasburgo non sembrerebbero eccentriche, né sul piano dei rapporti tra il sistema CEDU e il diritto nazionale né in riferimento alla specifica questione della confisca senza condanna.
Quanto al primo aspetto, deve infatti precisarsi che dalla nozione autonoma di materia penale deriva una “pena-CEDU” dallo statuto, per dir così, ibrido. La nozione autonoma, infatti, produce il “solo” effetto di rendere applicabile il surplus di garanzie ricavabile dalla Convenzione, ma per quanto non direttamente previsto dalla CEDU solo la denominazione formale della sanzione potrà individuare, sul piano interno, la disciplina applicabile (F. Viganò, Il nullum crimen conteso, cit., 8-9). Si tratta di considerazioni ampiamente valorizzate da parte della giurisprudenza costituzionale: proprio la sentenza n. 49 del 2015 ha chiaramente stigmatizzato l’equivoco secondo cui, per effetto della nozione autonoma di materia penale, la sanzione formalmente amministrativa subirebbe una completa attrazione del diritto penale dello Stato aderente (C. Cost., 14 gennaio 2015, n. 49, punto 6 del Considerato in diritto. V. anche C. Cost., 10 gennaio 2017, n. 43, punto 3.4. Considerato in diritto; C. Cost., 7 febbraio 2017, n. 68, punto 7 del Considerato in diritto; C. Cost., 5 aprile 2017, punto 3.1. del Considerato in diritto).
Si rende necessario a questo punto di verificare se dal diritto interno siano ricavabili indicazioni relative alla possibilità di applicare una sanzione penale anche in presenza di una sentenza di proscioglimento.
I rapporti tra sentenza di condanna e applicazione di una pena sono già stati esaminati da tempo, sia pur in riferimento a questioni molto diverse tra loro.
Con particolare riferimento all’art. 77 l. n. 689 del 1981 (ora abrogato), che prevedeva la possibilità di applicare una sanzione sostitutiva con una sentenza che dichiarasse contestualmente l’estinzione del reato, si era per esempio ritenuto, muovendo dal presupposto della natura penale delle sanzioni sostitutive, che la sentenza in questione presentasse una natura complessa: sarebbe stata pur sempre presente una pronuncia di condanna, con integrale accertamento della responsabilità dell’imputato, ma alla stessa avrebbe fatto immediatamente seguito la dichiarazione di estinzione del reato (M. Trapani, Le sanzioni penali sostitutive, Cedam, 1985, 301 ss.).
Un’altra manifestazione dei “volti” che può assumere la sentenza di condanna è la disputa sorta attorno alla natura della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, soprattutto per ciò che attiene ai profili di accertamento della responsabilità del soggetto (valga per tutti, anche per le necessarie indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali, il riferimento ad A. Sanna, Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una condanna senza giudizio di colpevolezza, CP, 12/2013, pp. 4525 ss.).
Con più specifico riguardo alla confisca, è innegabile che nel “modello” codicistico offerto dall’art. 240 c.p. il legislatore risolva ex professo le questioni più problematiche, spesso affidate a soluzioni interpretative in riferimento alle altre forme di confisca. Se il presupposto indefettibile per la confisca facoltativa di cui al primo comma è la presenza di una sentenza di condanna, l’art. 240, secondo comma, n. 2 c.p. prevede la confisca obbligatoria delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stato pronunciata sentenza di condanna. Gli ultimi due commi dell’art. 240 c.p., poi, regolano gli effetti della confisca nei confronti dei terzi, stabilendo la regola per cui la confisca non operi se la cosa o il bene appartengano a persona estranea al reato, sia pur con le precisazioni contenute in riferimento al n. 2 del secondo comma. Le disposizioni in questione non hanno mancato di suscitare dubbi a livello interpretativo, ma rappresentano indubbiamente una base normative più solida di quella rinvenibile in riferimento a molte delle “nuove forme di confisca” (V. al riguardo D. Perna, Art. 240, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da G. Lattanzi, E. Lupo, vol. III, Giuffrè, 2015, spec. pp. 1355 ss. e pp. 1361 ss.).
5. La confisca senza condanna dopo l’introduzione dell’art. 578-bis c.p.p.
Con particolare riguardo alla confisca senza condanna, per la verità, è attualmente rinvenibile una disposizione di carattere generale che, in qualche modo, confermerebbe la via intrapresa dalla giurisprudenza di legittimità prima e dalla Corte costituzionale poi.
Il riferimento è all’art. 578-bis c.p.p., introdotto con il d.lgs. n. 21 del 2018 (c.d. decreto sulla riserva di codice). L’art. 578-bis c.p.p., rubricato Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, stabilisce che «quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato». La “confisca nonostante la prescrizione”, dunque, potrebbe trovare applicazione solo quando sia stata emessa almeno una sentenza di condanna in primo grado, con ciò risolvendo per via legislativa le incertezze mostrate al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità (A. Dello Russo, Prescrizione e confisca. Le ricadute in tema di riserva di codice nella materia penale, in AP, 2018, pp. 1 ss.).
Le confische previste da altre disposizioni di legge cui fa riferimento l’art. 578-bis c.p.p. sembrerebbero potersi riferire tutte le confische previste dall’ordinamento, sempre che ovviamente per le stesse non sia già prevista una specifica disciplina e indipendentemente dalla natura sostanzialmente penale delle stesse. Il legislatore ha quindi operato nel senso di un “livellamento delle garanzie”: il minimo comun denominatore è la nozione di condanna in senso sostanziale, il presupposto applicativo è rappresentato dal nomen iuris “confisca”, il risultato è la parificazione della disciplina prevista per le confische “sostanzialmente penali” e quelle “amministrative”.
Nell’epoca nel nullum crimen sine confiscatione (V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2015, pp. 1259 ss.) sembrava fisiologico approdare al principio del “nessuna confisca senza condanna”, ma serviva generalizzare l’operatività di una condanna in senso sostanziale per evitare la scure della prescrizione e assicurare che (almeno) la confisca potesse salvarsi dall’impietoso fluire del tempo.
[Alcune delle considerazioni contenute in queste note derivano da riflessioni condivise con il dott. Piergiorgio Gualtieri, che ringrazio per gli spunti offertimi e per le critiche rivolte alla prima stesura del lavoro]
Sistema della prevenzione patrimoniale e attività economiche: uno sguardo d’assieme
di Nicola Selvaggi
Sommario: 1. Proporzionalità e gradualità nella giustizia preventiva di tipo patrimoniale. 2. L’amministrazione ed il controllo giudiziari (articoli 34 e 34 bis) nel caso di attività d’impresa. Linee di coordinamento con la disciplina del d.lgs. 231/2001. 3. La dinamica dell’amministrazione e del controllo. Il ruolo della (ri-)organizzazione interna in funzione preventiva nella prospettiva del ‘recupero’.
1. Proporzionalità e gradualità nella giustizia preventiva di tipo patrimoniale
Sarebbe forse scontato ricordare che nelle strategie di prevenzione e di contrasto alla criminalità orientata al profitto sia da tempo consolidata una tendenza a privilegiare gli strumenti di aggressione dei capitali illecitamente accumulati; con la conseguenza che va manifestandosi, sia pure in prospettiva, una vera e propria ‘patrimonializzazione’ della giustizia penale[1].
Nel campo della ‘giustizia preventiva’ – va da sé – questo sviluppo trova un punto fondamentale di espressione nello strumento della confisca; ma, a ben vedere, è interessante osservare l’ulteriore articolazione di misure proposta dal legislatore, che assume oggi rilievo specialmente nelle ipotesi in cui l’intervento preventivo debba indirizzarsi nei confronti dell’attività economica organizzata.
In questi casi, ove può porsi con particolare incisività il problema di stabilire i limiti entro i quali la prevenzione possa operare per tutelare anche altri interessi (economici e sociali) di rango costituzionale, la previsione della misura dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende (articolo 34 del d.lgs. 159/2011) e di quella residuale del controllo giudiziario delle aziende (art. 34 bis del medesimo decreto) [2], specie alla luce dei più recenti indirizzi della giurisprudenza, può consentire all’autorità giudiziaria di operare con gradualità e di calibrare l’intervento di prevenzione in rapporto alle caratteristiche specifiche della situazione, senza dover necessariamente ricorrere – almeno in prima battuta - allo strumento ablatorio, seppur oggi assistito da un certo rinforzo disciplinare per quanto attiene proprio l’aspetto della migliore amministrazione del bene[3]; favorendo così, mediante trattamenti mirati e “chirurgici”, la continuità nell’esercizio dell’impresa e, in prospettiva, il ritorno alla legalità[4].
2. L’amministrazione e il controllo giudiziari (articoli 34 e 34 bis) nel caso di attività d’impresa. Linee di coordinamento con la disciplina del d.lgs. 231/2001
È proprio in questa luce che, ad avviso di chi scrive, assumono sicuro interesse le previsioni nuove ovvero modificate in tema di amministrazione e controllo nell’orizzonte concepito dall’ordinamento per prevenire e recidere il nodo dei rapporti tra impresa e criminalità organizzata.
Si tratta di disposizioni che, quando guardate nella dimensione della loro applicazione a carico di soggetti giuridici collettivi (di ‘enti’), vanno esaminate anche per i necessari coordinamenti con le regole dettate dal decreto legislativo n. 231 del 2001, nei limiti in cui quest’ultimo riferimento possa contribuire a cogliere talune aspetti della logica generale di ordinamento e, secondo quanto si vedrà, arricchire pure la stessa interpretazione degli articoli 34 e 34 bis del codice antimafia.
Naturalmente, risolvendosi anche in una sorta di ‘monitorship’ giudiziaria dell’impresa, le misure impongono di necessità un chiarimento sulla ‘figura’ o sulla ‘situazione’ individuata dal legislatore per la loro applicazione.
Al proposito, dai tempi della notissima posizione della Corte costituzionale[5], gli orientamenti attuali sono oggi fissati dalla giurisprudenza con sviluppi caratterizzati anche da una certa autonomia, del resto imposta dall’evoluzione legislativa; guardandosi in negativo all’insussistenza dei requisiti per disporre una misura di prevenzione nei confronti dell’imprenditore o comunque di colui che gestisce l’attività economica (la c.d. ‘terzietà’)[6] e in positivo al carattere di ausilio ed agevolazione (occasionale, nel caso del controllo giudiziario di cui all’articolo 34 bis) che il comportamento economico organizzato rivestirebbe[7].
Se ne dovrebbe dedurre che l’ordinamento pensi a forme di infiltrazione, condizionamento e dunque di ‘agevolazione’ che, per il carattere non pervasivo e “definitivo” della presenza ‘mafiosa’, consentano - sul presupposto di un’attenta valutazione della natura dell’impresa, della sua attitudine rispetto all’attività criminale e, in ogni caso, dei suoi rapporti con gli ambienti criminosi, evitando invece automatismi ed astrazioni - una prognosi favorevole, escludendo il ricorso, se non in una fase eventuale, allo strumento propriamente ablatorio; a ben vedere, proprio in questa possibilità di recupero potendo rintracciare l’ubi consistam delle misure in esame, il cui raggio di azione, secondo alcuni autori, si estenderebbe sino a comprendere l’ente propriamente vittima della pressione mafiosa (nel caso dell’art. 34, si potrebbe giungere a questa conclusione, valorizzando già il dato letterale)[8].
Anche per queste caratteristiche, l’amministrazione e il controllo giudiziari ben potrebbero adattarsi alle realtà economiche e organizzate più complesse.
D’altro canto, è proprio l’assunzione dello sviluppo organizzativo dell’ente, e di qui del suo ‘comportamento aggregato’, quale componente della base ‘fattuale’ per la verifica che spetta all’autorità giudiziaria, a spiegare compiutamente l’idea giurisprudenziale di un’agevolazione ‘colposa’[9]. Idea che può intendersi anzi tutto in rapporto alle sfere psicologiche e agli atteggiamenti individuali di coloro che operano all’interno del soggetto collettivo (e diversi dagli ‘agevolati’) ed è utilmente spendibile ai fini di ogni corretta differenziazione imposta dall’ordinamento, non solo – va da sé – nel sistema interno delle misure di prevenzione; ma che, a ben vedere, nelle realtà più complesse, può anche essere studiata e verificata in rapporto alle caratteristiche e ai contenuti dell’organizzazione, potendo eventualmente valersi – mutatis mutandis – anche dei frutti discendenti dalle elaborazioni in tema di colpa organizzativa di cui al d.lgs. 231/2001.
In effetti, nulla esclude che per concludere nel senso della sussistenza dei requisiti richiesti per l’amministrazione o per il controllo giudiziario delle aziende il giudice possa far leva anche su indici intrinseci all’organizzazione dell’attività economica e dell’azienda: su deficit organizzativi e procedurali - di “etica” - onde in definitiva fondare, o comunque corroborare, gli elementi sul rischio concreto di esposizione all’influenza mafiosa o sull’effettiva influenza criminale.
Del resto, una conferma in tal senso potrebbe senz’altro ricavarsi dalle prescrizioni che l’autorità giudiziaria può imporre, tra le quali, oltre ad alcune a contenuto essenzialmente informativo, è posta pure, nel caso dell’articolo 34 bis, quella di adottare ed efficacemente attuare misure organizzative, «anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24 ter» del decreto legislativo 231 del 2001; ovvero, per altro verso, dall’interessante prassi giurisprudenziale che si è formata già con riferimento all’ipotesi dell’amministrazione di cui all’articolo 34.
È chiaro comunque, al netto degli ulteriori e più completi profili di approfondimento che possono investire i rapporti tra queste misure di prevenzione (esaminate dal punto di vista della loro natura, struttura e funzione) e la sanzione a carico dell’ente per l’illecito dipendente da reato[10], che questo riferimento va inteso in rapporto al presupposto di applicazione della misura e quindi alla logica strettamente ‘preventiva’: l’eventuale deficit organizzativo – e di qui il giudizio, nel senso chiarito, di ‘agevolazione colposa’ – andrebbe valutato dal giudice soltanto in rapporto al carattere di ausilio e di agevolazione nei termini indicati dal d.lgs. 159/2011 (senza investire dunque i più pregnanti riferimenti ai diversi effetti del d.lgs. 231 del 2001).
Anzi, sotto questo profilo, proprio l’esistenza di queste misure di prevenzione da applicarsi anche nei confronti del soggetto giuridico collettivo suggerisce ulteriori conferme delle letture che costruiscono il sistema di responsabilità disegnato dal d.lgs. 231/2001 attorno al fatto, ed in particolare al ‘reato’ quale evento costitutivo dell’illecito riferibile all’ente[11], opportunamente e correttamente distanziato dall’universo della prevenzione.
3. La dinamica dell’amministrazione e del controllo. Il ruolo della (ri-)organizzazione interna in funzione preventiva nella prospettiva del ‘recupero’
Nei diversi profili senz’altro toccati dall’esecuzione delle misure, e dunque dallo svolgimento dell’amministrazione e del controllo, uno in stretta continuità con quanto finora osservato ci sembra risieda poi nell’esigenza di adottare ogni iniziativa che valga a neutralizzare, o comunque a ridurre ad un minimo tollerabile dall’ordinamento, il rischio di eventuali ulteriori compromissioni o ‘ricadute’ e favorire, per altro verso, un compiuto isolamento dalle infiltrazioni mafiose.
A ben vedere, è proprio nello spirito della ‘continuità sostenibile’ e della ‘possibilità di recupero’ che s’impone il necessario miglioramento di ogni profilo strutturale e funzionale dell’organizzazione che possa utilmente contribuire alla più efficace prevenzione.
Sul piano operativo, ciò comporta anzi tutto l’opportunità di valorizzare le migliori tecniche di compliance con riguardo agli specifici settori di interesse, eventualmente tenendo conto di quanto suggerito dalle associazioni rappresentative di categoria, sia pure in termini generali e con la scontata necessità della loro opportuna precisazione con riferimento alla singola realtà.
D’altro canto, il rilievo del collegamento con le misure organizzative «anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24 ter» (per impiegare la locuzione utilizzata all’articolo 34 bis) può aprire ad implicazioni più generali, perché la misura di prevenzione in definitiva incardina un programma di “monitoraggio giudiziario”, che in alcuni casi può scattare anche su istanza dell’interessato, e favorisce l’insediamento di principi, criteri e pratiche di organizzazione virtuosa prima che ulteriori ‘involuzioni’ conducano a conseguenze più gravi; con il vantaggio, inoltre, di un’assistenza nell’elaborazione (se non proprio di una ‘validazione’) dei modelli di organizzazione che allo stato manca invece nella ordinaria esperienza delle imprese.
Da questo punto di vista, il meccanismo congegnato dal legislatore è correttamente preventivo, nella misura in cui sostiene il destinatario della misura a ‘far bene da solo’, almeno in prospettiva, mediante il consolidamento dell’organizzazione interna in funzione preventiva, rafforzando anche, di riflesso, la logica alla base della disciplina dettata dal decreto legislativo 231 del 2001, nella parte in cui spinge l’ente a prevenire mediante una buona organizzazione, promettendo l’esonero dalla responsabilità, ove questa buona organizzazione si realizzi concretamente.
[1] Con riferimento agli strumenti della confisca, Alessandri, Criminalità economica e confisca del profitto, in Dolcini-Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, III, Milano, 2006, 2103; Balsamo, voce Codice Antimafia, in DPP (aggiornamento), Torino, 2014, 53; Balsamo, Il “Codice Antimafia” e la proposta di direttiva europea sulla confisca: quali prospettive per le misure patrimoniali nel contesto europeo?, in www. penalecontemporaneo.it; Forsaith-Irving-Nanopoulos-Fazekas, Study for an Impact Assessment on a Proposal for a New Legal Framework on the Confiscation and Recovery of Criminal Assets, Cambridge, 2012, passim; King (ed.), Dirty Assets, Farnham, 2014, 3 ss.; Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Misure patrimoniali nel sistema di garanzie, Atti del Convegno di studio svoltosi a Milano, 27 novembre 2015, Milano, 2016, 129 ss.; Rui (ed.), Non Convinction-based-Confiscation in Europe. Possibilities and Limitations on Rules Enabling Confiscation Without a Criminal Conviction, Berlin, 2015; Selvaggi N., On Instruments Adopted in the Area of Freezing and Confiscation. A Critical View of the Current EU Legal Framework, in www.penalecontemporaneo.it
[2] Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione, in Arch. pen., suppl. 1/2018, 365 ss.; Roia, Artt. 34 – 34 bis D. Lg. N. 159/2011, in Epidendio – Varraso (a cura di), Codice delle confische, Milano, 2018, 1483 ss.
[3] Per un esame complessivo della riforma recata dalla legge 161 del 2017, si cfr. Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali, cit., 325 ss.
[4] Cfr. Visconti, Proposte per recidere il nodo mafie-imprese, in www.penalecontemporaneo.it; Russo, Le misure patrimoniali antimafia applicabili agli enti, in Furfaro (a cura di), Misure di prevenzione, in Gaito-Romano-Ronco-Spangher (collana diretta da), Diritto e procedura penale, Torino, 2013, 523 ss.
Va osservato come questo indirizzo, che tende a delinearsi non solo come progetto ma oggi anche nella pratica applicazione delle misure di amministrazione e controllo previste dal codice antimafia, abbia una ‘presa generale’ sul sistema, conformando così anche altri segmenti normativi di particolare rilievo.
Si pensi alle molte disposizioni sulla responsabilità da reato dell’ente, ad esempio la sostituzione della misura interdittiva con il commissariamento giudiziale o il carattere mirato della sanzione interdittiva medesima (detta sanzione, infatti, deve avere ad oggetto la specifica attività in cui è maturato il reato) e più in generale all’orientamento del sistema di responsabilità e della sanzione a carico dell’ente nel senso della prevenzione e del ripristino delle condizioni che consentano di esercitare l’attività organizzata nel rispetto della legalità; oppure, per altro verso, alle più recenti scelte del legislatore che ha previsto, nel caso di sequestro preventivo connesso al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il controllo giudiziario dell’azienda qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali ovvero compromettere il valore economico del complesso aziendale.
[5] Si tratta della sentenza n. 487/95 che con riferimento alla norma di cui agli articoli 3-quater e 3-quinquies della l. n. 575/1965 aveva statuito che «a fondamento della misura di prevenzione della sospensione temporanea dall’amministrazione sta (…) la necessità di impedire che una determinata attività economica che presenti connotazioni agevolative del fenomeno mafioso, e dunque operi (…) in posizione di contiguità rispetto a soggetti indiziati di appartenere a pericolose cosche locali, realizzi o possa comunque contribuire a realizzare un utile strumento di appoggio per l’attività di quei sodalizi (…)»; valorizzandosi così dell’istituto la sua funzione cautelare, radicata sul presupposto specifico del carattere ausiliario rivestito da una certa attività economica rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi e osservandosi inoltre come «(…) i titolari di quelle attività non possano affatto ritenersi “terzi” rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio».
[6] Sui problemi interpretativi posti dalla locuzione, impiegata nell’articolo 34, «e non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali di cui al Capo I del presente Titolo», si cfr. Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali, cit., 368 ss.
[7] Si cfr., anche la giurisprudenza ivi citata, Roia, Artt. 34 – 34 bis D. Lg. N. 159/2011, cit., 1488 ss.; inoltre, Tribunale Reggio Calabria, 18 aprile 2018.
[8] Nella giurisprudenza di merito si osserva così come gli istituti previsti rispettivamente dagli articoli 34 e 34 bis d.lgs. 159/2011 introducono «modelli di controllo destinati a svolgere nel sistema una funzione cautelare e preventiva di contrasto alla contaminazione di imprese sane che finiscano, anche involontariamente, per essere serventi rispetto all’attività di controllo economico e del territorio cui tende l’infiltrazione mafiosa con lo scopo di sottrarle all’infiltrazione criminale e restituirle al suo titolare ed al libero mercato una volta private dagli elementi inquinanti»: così, tra le altre, Trib. Reggio Calabria, 28 marzo 2018.
[9] Tra le altre, Tribunale di Milano 23 giugno 2016; Tribunale di Reggio Calabria, 9 maggio 2018.
[10] Profili che possono attenere anzi tutto alla distinzione di taluni istituti previsti dalle rispettive discipline (a cominciare in particolare dal commissariamento giudiziale previsto dal d.lgs. 231/2001 in sostituzione della misura cautelare interdittiva) e, per altro verso, ai rapporti tra procedimenti, che non trovano una puntuale ed espressa soluzione nella disciplina dettata dal d.lgs. 159/2011.
[11] Ci si permette sul punto di rinviare a Fiorella-Selvaggi, Dall’utile al giusto. Il futuro dell’illecito dell’ente da reato ‘nello spazio globale’, Torino, 2018, 89 ss.; 197 ss.
1. La variabile tempo e i rapporti giuridici. - 2. L’attenzione mediatica sul reiterarsi degli esiti estintivi di vicende processuali. - 3. La posizione dell’imputato. – 4. La soluzione
1. La variabile tempo e i rapporti giuridici.
La variabile tempo assume un rilievo fondamentale nello sviluppo dei rapporti giuridici. In particolare, il mancato esercizio di diritti e di poteri può determinare la perdita degli stessi.
Il discorso riguarda anche il processo ed il diritto penale: il mancato accertamento delle responsabilità entro i tempi fissati dal legislatore fa estinguere il fatto illecito per prescrizione. Si ritiene, a giustificazione della previsione, che la lontananza dalla decisione definitiva dal momento del fatto, faccia perdere rilievo all’episodio criminale, confinandolo in una dimensione non più significativa. Una specie di oblio. Per altro verso, l’incapacità dell’ordinamento di perseguire il crimine, determinerebbe il riespandersi di un diritto dell’imputato a non essere sanzionato considerata la sottoposizione a processo penale, di per sé una sanzione, una sofferenza che non può essere protratta nel tempo al di là di certi limiti cronologici.
La consapevolezza che l’estinzione del reato per effetto della prescrizione possa costituire e costituisca una “sconfitta” dello Stato di diritto, ha portato progressivamente il legislatore ad introdurre strumenti di sospensione, di interruzione e di allungamento dei termini idonei a far maturare l’estinzione del reato.
Nonostante queste iniziative legislative, i processi hanno continuato a prescriversi.
Sono varie e molteplici le cause di questa situazione. Fra le altre: l’elefantiasi del nostro sistema punitivo, condizionato dall’obbligatorietà dell’azione penale, dalle disfunzioni organizzative della macchina giudiziaria, da iniziative di parte tendenti a differire i tempi processuali.
Si sono conseguentemente accentuate anche operazioni “tecniche” per ridurre gli effetti negativi della prescrizione: valutazioni sugli effetti delle declaratorie di inammissibilità delle impugnazioni; riqualificazione in malam partem dei reati giudicati per superare le situazioni più gravi e delicate di estinzione del reato.
Si è cercato di definire in termini più restrittivi il momento dal quale far decorrere la prescrizione, soprattutto in tema di reato continuato. Si è previsto che comunque gli effetti estintivi non riguardino anche la responsabilità civile ovvero la possibilità dei sequestri e delle confische. Si sono trasferiti in sede di prevenzione le risultanze processuali dei procedimenti estinti. Si è escluso l’effetto estensivo al coimputato per lo stesso fatto. E così via.
2. L’attenzione mediatica sul reiterarsi degli esiti estintivi di vicende processuali.
Il reiterarsi di esiti totalmente o parzialmente estintivi di vicende processuali particolarmente sensibili, amplificati spesso dall’impatto mediatico hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, anche in relazione che questo elemento si inseriva in vicende processuali connotate dalla presenza incidente sulle posizioni personali delle persone offese.
Il combinarsi di questi due elementi è stato sicuramente decisivo nella percezione di un problema che poneva la questione della prescrizione in termini parzialmente diversi dal passato.
Invero, medio tempore, rispetto al passato si è venuta rafforzando la posizione processuale della persona offesa. E’ stato un dato che si è progressivamente e significativamente incrementato anche sulla scorta di orientamenti europei.
Sono molteplici i segnali di questa fase degli sviluppi evolutivi del processo penale. Basterebbe pensare alle misure cautelari a tutela della vittima, i riferimenti ai soggetti vulnerabili, i diritti di cui la persona è titolare ai sensi dell’art. 2 Cost., al diritto di informazione sulle indagini, al potere di opporsi al provvedimento archiviativo, e così via.
Questa “trasformazione” del ruolo della vittima del reato ha portato la persona offesa a farsi interprete di quella pretesa punitiva, cioè sanzionatoria, che era ed è patrimonio del pubblico ministero. Si è così determinato uno “spostamento” dall’interesse patrimoniale risarcitorio a quello sanzionatorio (cioè, legato alla pena da applicare, effettiva ed elevata) giustizia o vendetta che fosse da punizione era un elemento ritenuto necessario.
Appare evidente che a fronte di queste aspettative, la possibilità della prescrizione del reato (ma anche d’un processo senza fine) risultava non accettabile.
In altri termini, quello che più o meno fisiologicamente poteva essere valutato dall’ufficio del pubblico ministero, in una prospettiva generale, non poteva essere considerato in termini positivi dalla persona offesa.
Si è pertanto intervenuti prevedendo la sospensione del decorso della prescrizione, nonché con l’allungamento dei suoi tempi.
3. La posizione dell’imputato.
Questo dato, naturalmente, finisce per pregiudicare la posizione dell’imputato che rischia di restare sottoposto per lungo tempo al processo penale, senza che questo sia definito.
Il momento limite è stato individuato, nella contrapposizione di diverse opzioni (iscrizione della notizia; formulazione dell’imputazione; provvedimento che dispone il giudizio) dapprima nella sentenza di condanna di primo grado (l. n. 103 del 2017) ora nella sentenza sia di condanna sia di proscioglimento di primo grado.
Si tratta di soluzione irrazionale nella misura in cui parifica due situazioni diverse e con riflessi diversificati il proscioglimento prevale sulla prescrizione, la prescrizione prevale sulla condanna.
In questo contesto, le modifiche alla riforma della disciplina della prescrizione appaiono, politicamente, problematiche essendo intervenuta una ridefinizione del rapporto tra istanze sociali e classe politica.
Il superamento della mediazione dei corpi intermedi rende – attualmente – questo passaggio problematico, considerata anche e soprattutto la visione ideologica e culturale della compagine governabile.
Il timore che si prospetta è costituito da una spinta a considerare la prescrizione riformata, inserita nella riforma processuale, un istituto governato dal principio del tempus regit acta e non da quello sostanziale dell’irretroattività.
4. La soluzione.
La soluzione che si prospetta non può essere che quella costituzionale della durata ragionevole del processo.
La scansione di tempi certi – ancorché elasticizzabili in relazione alle vicende ed alle patologie prospettabili delle fasi o dei gradi appare l’esser in grado – unita ad elementi idonei ad assicurare efficienza al sistema, almeno con superamento dei troppi tempi morti che lo contraddistinguono – di garantire il sistema processuale penale, l’imputato evitando di trasformarlo in una vittima del processo e la persona offesa che verrebbe assicurato lo vanifica dal giudizio di responsabilità, consentendo di non mettere in discussione i profili sanzionatori. La prescrizione del processo, cioè, il superamento della sua scansione potrebbe dar luogo a risarcimenti ovvero a riduzione della pena, sul modello operante in Germania.
SOMMARIO: 1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso. 2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare. 3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa. 4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale. 5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale. 6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste. 7. Giustizia e società. 8. Conclusioni.
1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso.
Parafrasando George Bernard Shaw è difficile offrire ad un problema complesso una soluzione semplice che non sia sbagliata.
Però, per ridurre i margini di errore nella risposta ad un problema complesso, si potrebbe cominciare a ridurre la complessità del problema.
Ora, io credo che l’ordinanza interlocutoria 12215 del 2018 abbia reso più complesso il problema al quale le Sezioni unite sono chiamate a rispondere.
Lo ha reso più complesso perché, in una fattispecie alla quale ratione temporis deve applicarsi il vecchio testo della legge 117, nell’ottica di una generale sistemazione della materia, ha auspicato l’intervento delle Sezioni unite coinvolgendo, oltre che la nuova disciplina della legge 18/2015 ed i principi dell’ordinamento eurounitario, anche la disciplina degli illeciti disciplinari.
Il tutto, quasi a voler parificare il senso e la portata della clausola di salvaguardia interpretativa prevista nel codice disciplinare e della clausola interpretativa prevista in materia di responsabilità civile.
Vero è che la clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 va calata in un sistema, quello disciplinare, diverso e non sovrapponibile con il sistema della responsabilità civile.
2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare.
Proprio alcune settimane fa, l’Ufficio della Procura generale ha trasmesso al Ministro della giustizia un importante decreto di archiviazione che - come noto - non è ostensibile, tanto meno in un pubblico dibattito.
Mi preme però sottolineare che con questo decreto di archiviazione la Procura generale ha recepito quanto da me sostenuto in un contributo fornito al Commentario alla legge 117 recentemente pubblicato, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, a proposito della interpretazione dell’art. 9, così come modificato dalla legge 18 del 2015.
Sono considerazioni molto tecniche e articolate, non compatibili con la sintesi che mi impone l’intervento.
Quel che può rilevare in questo dibattito è che sono state evidenziate molteplici ragioni per le quali non è più sostenibile - nel sistema post riforma del 2006 - l’interpretazione letterale dell’art. 9 laddove prevede che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione debba (sottolineo, debba) esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento.
Non è sostenibile, anzitutto, perché non coincidono le fattispecie tipizzate previste dai rispettivi sistemi di responsabilità e perché non è detto che una ipotesi di responsabilità civile implichi sempre la corrispondente responsabilità disciplinare, e viceversa.
Per non parlare della mancanza di interferenze di possibili giudicati tra procedimento civile e procedimento disciplinare, come evidenzia l’art. 20 del codice disciplinare.
Una interpretazione logico-sistematico-evolutiva porta dunque a ritenere che la permanenza del dettato letterale dell’art. 9 della legge 117 sia dovuta al mancato coordinamento di una norma nata nel vigore del sistema disciplinare atipico abrogato, con il sistema disciplinare tipizzato vigente dal 2006.
Ampia autonomia, quindi, dei due diversi sistemi di responsabilità magistratuale.
La responsabilità civile del magistrato di cui all’art. 2 della legge 117, si sa, è fondata esclusivamente sull’errore provvedimentale, sulla errata scelta giurisdizionale che, per forza di cose, deve essere sindacata in sede di giudizio risarcitorio, sia pure nei limiti della clausola di salvaguardia interpretativa.
3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa.
Nel codice disciplinare, invece, accanto ad una fattispecie più propriamente riconducibile alla categoria dell’atto processualmente abnorme (prima parte della lett. ff), vi sono altre fattispecie attinenti più genericamente agli errori di diritto (o nella ricostruzione del fatto e nella valutazione delle prove), caratterizzate dal comune denominatore della grave violazione di legge determinata (quanto meno) da errore inescusabile.
La responsabilità disciplinare dunque tende a sanzionare, non necessariamente, il c.d. atto abnorme processuale, quanto piuttosto il comportamento del magistrato sottostante alla scelta giurisprudenziale, tanto che in dottrina si è parlato di c.d. abnormità deontologica, che è termine evidentemente atecnico giacché il codice disciplinare nulla ha a che fare con il codice deontologico.
Questa fattispecie ricorre, peraltro, nella stragrande maggioranza delle condotte sanzionate ai sensi della lett. g) dell’art. 2 del codice disciplinare, che è l’illecito senz’altro più ricorrente nel panorama delle variegate condotte di possibile rilievo disciplinare che derogano al dettato della clausola di salvaguardia interpretativa di cui al successivo secondo comma.
4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale.
Il concetto di abnormità deontologica è stato mirabilmente espresso dalla sentenza delle Sezioni unite 20159 del 2010, resa a chiusura di quella delicatissima vicenda di storia giudiziaria nota con il termine giornalistico della guerra tra procure (di Salerno e Catanzaro).
Con quella sentenza è stato affermato il principio, che si è ormai consolidato in sede disciplinare, secondo cui l'insindacabilità del provvedimento giurisdizionale viene meno non solo nei casi in cui il provvedimento sia abnorme, ma anche nei casi di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l'intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell'attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell'esercizio della sua funzione.
Mi pare appena il caso di sottolineare che, in quel caso, l’intervento disciplinare aveva ad oggetto la condotta di alcuni pubblici ministeri che avevano disposto un atto di perquisizione e sequestro che era stato convalidato dal GIP ed aveva poi trovato definitiva conferma giurisdizionale.
E ciononostante i magistrati furono sanzionati in maniera molto grave.
Nella vicenda definita dalle Sezioni unite, infatti, si ritenne integrata la grave violazione di legge rilevante sul piano deontologico nella ipotesi di un provvedimento con motivazione che, ancorché sovrabbondante - in quanto costituita dalla integrale riproduzione di relazioni, verbali di interrogatorio, articoli di stampa ed altro - si era rivelata apparente ed incomprensibile per la totale assenza di vaglio critico delle fonti di prova riprodotte con la nota tecnica del copia-incolla; inoltre, il provvedimento si era rivelato “eccedente i limiti della proporzionalità rispetto al fine” in quanto produttivo di effetti giuridici lesivi dei diritti altrui o vietati o contenenti riferimenti inutili a soggetti estranei al procedimento e perciò lesivi del loro diritto alla privacy e della loro reputazione.
La citata sentenza delle Sezioni unite rappresenta una tappa importante di una evoluzione giurisprudenziale, in sede disciplinare, che ha progressivamente eroso i limiti della clausola di salvaguardia interpretativa - nel solco di un indirizzo ormai più che consolidato - sino a giungere ad una serie di recenti pronunce di legittimità riferibili a casi di pubblici ministeri resisi responsabili della omessa o ritardata iscrizione di soggetti nel registro degli indagati.
Mi riferisco alle sentenze delle Sezioni unite 134 del 2017, nella vicenda della farmacista bolognese poi morta suicida dopo essere stata sentita a s.i.t., 13700 del 2018, nel caso dell’agente assicuratore del magistrato, rimasto non perseguibile per prescrizione del reato, e 22408 del 2018, nel caso delle ritardate indagini relative alla morte di Giuseppe Uva.
Ma andiamo con ordine.
Già con la sentenza 3759 del 2009, le Sezioni unite avevano posto fine ad un’altra vicenda oggetto di discussione e dibattiti. Il caso Izzo, o meglio il caso dei magistrati di sorveglianza che avevano posto il noto criminale del Circeo in regime di semilibertà, con la conseguenza che il detenuto aveva compiuto alcuni omicidi.
I magistrati di sorveglianza furono sanzionati perché non avevano considerato, in motivazione, elementi di fatto che avrebbero potuto in ipotesi condurre ad una diversa decisione e che avevano l’obbligo di considerare.
Di qui, l’esercizio di una interpretazione non conforme ai protocolli della professione magistratuale e la violazione del dovere di diligenza.
Dunque, la Cassazione ritenne sindacabile l’esercizio di un potere discrezionale, quello di porre in semilibertà un detenuto, perché tale potere non si era estrinsecato attraverso una adeguata motivazione che desse conto di tutti gli elementi acquisiti nel fascicolo processuale, quelli favorevoli, ma anche quelli sfavorevoli al detenuto.
Ricordo le polemiche che accompagnarono quella decisione.
E ricordo che, se all’interno della magistratura quelle polemiche erano mirate a contestare la responsabilità di quei giudici, a Strasburgo l’intervento disciplinare fu ritenuto troppo blando in relazione alla lesione dei diritti fondamentali che ne era derivata dalla loro condotta (CEDU, 15 dicembre 2009, Maiorano e altri c. Italia).
Questo orientamento di legittimità non è più cambiato e le Sezioni unite hanno confermato numerose volte questo principio, come ad esempio con la sentenza 11069 del 2012, all’esito di una vicenda che aveva riguardato un giudice delle esecuzioni civili, sanzionato non tanto o non solo per le singole violazioni di legge corrispondenti a specifici momenti procedimentali, quanto per il comportamento complessivo riguardante l’intera procedura esecutiva.
In quel caso, aveva affermato il giudice disciplinare che ciò che caratterizza l'illecito deontologico, accompagnato o meno dalla irregolarità processuale, è la circostanza che esso è frutto di un atteggiamento del magistrato di ribellione alla legge, ovvero di una caduta di professionalità sotto un livello che deve essere considerato irrinunciabile.
5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale
Successivamente, si è andata facendo strada, al fine di meglio specificare i confini dell’illecito disciplinare, la non plausibilità della scelta interpretativa, concetto utilizzato dalle Sezioni unite nella sentenza 7379 del 2013, in una fattispecie in cui era stato sanzionato un pubblico ministero per ritardata scarcerazione conseguente non ad una mera dimenticanza, ma ad una implausibile attività interpretativa di una norma ai fini del calcolo dei termini di custodia cautelare.
L’arresto giurisprudenziale di legittimità è sintomatico del fatto che, in sede disciplinare, in tema di salvaguardia interpretativa, non si nega certo al giudice il potere di discostarsi dal costante orientamento, anche di legittimità, ma si pone un obbligo di esternare, in motivazione, le ragioni della diversa scelta giurisprudenziale.
La diversa ed originale opzione interpretativa deve essere sorretta quindi da una motivazione non soltanto plausibile, ma anche consapevole dei diversi orientamenti. Il magistrato che dissente ha l’obbligo deontologico di esprimere la consapevolezza dell’opinione che non condivide e delle ragioni per le quali ritiene di andare di avviso contrario.
Deve trattarsi di una scelta interpretativa autentica e non apparente che dia conto di una effettiva riflessione del magistrato sulla decisione adottata.
6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste.
Si tratta di un principio di diritto del tutto condivisibile, che tra l’altro rappresenta un equo contemperamento tra le istanze garantiste provenienti all’interno della magistratura e le istanze giustizialiste provenienti dall’esterno e, in genere, dalla società.
Perché, vedete, estendere la responsabilità magistratuale al di là di questo principio, rappresenterebbe non una garanzia, ma un pericolo per la stessa società.
Vi sono state negli ultimi anni decisioni giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che hanno spostato verso orizzonti più lontani le frontiere dei diritti fondamentali dell’uomo.
Si è trattato, a volte, di decisioni che hanno suscitato il dibattito dell’opinione pubblica, anche perché hanno disatteso precedenti giudiziari di segno contrario, anche consolidati e di legittimità.
A volte, si è trattato di decisioni coraggiose, anche delle Sezioni unite, in mancanza di specifiche leggi che regolamentino specifiche materie. Perché, purtroppo, a noi magistrati non è consentito il non liquet.
E perché l’interpretazione logico-sistematica-evolutiva è il cuore del nostro lavoro ed è la garanzia più autentica dei diritti umani, in continua evoluzione.
E’ un dato di fatto che il diritto a volte precede le riforme legislative per il semplice motivo che i casi concreti e la evoluzione della società viaggiano a velocità più elevata rispetto alle leggi generali e astratte.
E una giustizia troppo conformista, forse, non rende un buon servizio ai cittadini.
Così come non rende un buon servizio ai cittadini, ad esempio, la medicina difensiva.
Per altro verso, però, dire che tutto è interpretazione, anche ciò che non è plausibile, anche ciò che non è esternato in una motivazione che dia conto di tutti gli elementi acquisiti, pro e contro la decisione assunta e che dia conto altresì dell’eventuale dissenso dal c.d. diritto vivente, significherebbe di fatto rendere i magistrati legibus soluti. Il ché francamente mi sembra una strada non percorribile.
7. Giustizia e società.
La Giustizia, oggi, è molto distante dalla società. Certo, la Costituzione assicura importanti guarentigie alla magistratura. In primo luogo, assicura autonomia e indipendenza all’ordine giudiziario ed ai singoli magistrati.
Ma queste guarentigie, per non apparire come incomprensibili privilegi, devono essere correlate ad un sistema di responsabilità che, in ogni settore e, particolarmente, nel settore civile e disciplinare, sia in grado di assicurare i necessari controlli sul corretto esercizio delle funzioni e, in generale, su ogni comportamento del magistrato di ogni grado e funzione.
Altrimenti, si determinano incomprensione, insofferenza, diffidenza, sfiducia, che vanno di pari passo con la delegittimazione crescente non solo o non tanto dei singoli magistrati, quanto dell’Ordine giudiziario nel suo complesso o, peggio ancora, proprio verso la funzione giurisdizionale che dovrebbe invece rappresentare una garanzia per i cittadini e le Istituzioni democratiche.
8. Conclusioni.
L’auspicio è, dunque, nel senso che, tanto il sistema disciplinare, quanto il sistema della responsabilità civile, siano in grado di assicurare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare l’indipendenza dei magistrati e l’esigenza di renderli responsabili in conseguenza delle loro condotte.
Molto dipenderà da come verranno interpretate le prospettate interpretazioni.
Con il ché spero di non aver fornito al problema complesso che mi è stato sottoposto una soluzione semplice e, per giunta, sbagliata.
Mario Fresa
sostituto Procuratore generale
della Corte di cassazione
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