ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Mi è stato chiesto un nuovo intervento dopo quello dell’estate del 2016 (su questa stessa rivista) nel quale riferivo delle mie impressioni dopo il primo quadrimestre di GEC.
Dopo un anno disintossicante come semplice componente del CDC, nell’aprile 2018 sono rientrato in GEC. Ho fatto “carriera”: ora sono addirittura vicesegretario nazionale. Nel frattempo in ANM le cose sono cambiate; dall’estate 2017 la Giunta Esecutiva Centrale non è più unitaria essendone uscita A e I.
Il terzo anno (del quadriennio previsto) è perciò iniziato con una giunta maggioritaria (3 componenti UNICOST, 3 AREADG e 3 MI con componente aggiunto nella persona della Direttrice della Rivista associativa la quale partecipa alle nostre riunioni). La presidenza è di UNICOST, la vicepresidenza di MI, la segreteria e la vicesegreteria di AREADG.
Rispetto al primo anno vi è una sostanziale differenza. Avevo scritto nelle mie precedenti riflessioni come si percepisse una notevole distanza sotto il profilo organizzativo tra il Presidente (Davigo) e gli altri 8 componenti. In particolare si percepiva un certo disinteresse del Presidente ad occuparsi delle questioni pratiche (che sono tante) ed anche un suo certo distacco nella redazione dei numerosi documenti della GEC per la sua assoluta preferenza per il momento “esterno” di cui si sentiva investito. L’attuale GEC ha un Presidente (Minisci) che non solo si occupa delle tante questioni pratiche (lo faceva già da Segretario nel primo anno) ma costituisce, per la sua immediata disponibilità al dialogo con gli altri componenti della giunta e la sua prontezza nel rilasciare brevi ma incisive dichiarazioni agli organi di stampa, un punto di riferimento non solo esterno (per i “media”) ma anche interno per i magistrati associati. E’ un Presidente sempre “sul pezzo”, cresciuto “politicamente” grazie all’esperienza del primo anno di GEC e che profonde un impegno assoluto per l’Associazione. Questo facilita non solo la redazione dei numerosi comunicati di GEC ma risolve anche alcune problematiche logistiche dovute al fatto che tutti gli altri componenti non lavorano a Roma (alcuni provengono da molto lontano).
Sotto il profilo del rapporto con le altre componenti associative nella GEC (ora maggioritaria) e ferme restando le distanze “politiche” su alcune questioni comunque fondamentali, continuo a rilevare una grande comunanza di “passione”. Il confronto è a volte aspro ma sempre costruttivo.
La componente di AREA continua nell’opera di rivalutazione del ruolo politico del CdC (di cui la GEC dovrebbe essere solo organo esecutivo) e dell’intera ANM; chiediamo di cadenzare a distanze più brevi le riunioni del CdC, anche rivitalizzando l’importanza attribuita ai “gruppi di studio” (coordinati da componenti del CdC); cerchiamo il confronto continuo (via CHAT e via Mail), quasi quotidiano, tra tutti i 36 componenti del CdC.
A differenza del primo anno finora non siamo riusciti a svolgere una attività itinerante per manifestare la vicinanza della GEC ai colleghi di base e per essere maggiormente consapevoli delle reali problematiche di ciascun distretto. La attuale GEC è andata solo a Bari per i noti problemi del Tribunale penale.
A differenza del primo anno (dove i primi mesi di attività erano stati densi di incontri istituzionali) l’attuale GEC ha incontrato (a giugno) soltanto il Ministro Bonafede. Si è trattato di un incontro lungo e cordiale dove abbiamo ascoltato le numerose (anche se generiche ed a volte contraddittorie) idee del Ministro ed abbiamo manifestato la disponibilità della ANM a portare le nostre articolate proposte in materia di processo penale e processo civile.
I rapporti personali tra noi componenti di AREADG al CDC si sono ulteriormente consolidati. Siamo il gruppo più coeso. Abbiamo le stesse sensibilità in ordine alle problematiche oggetto dell’attenzione dell’ANM. Insomma in ANM AREADG esiste; ed esiste proprio come AREADG e non come la mera sommatoria dei due gruppi storici che hanno contribuito a crearla. Anche i rapporti con il Coordinamento Nazionale di AREADG sono frequentissimi ed improntati ad uno spirito di stretta collaborazione. Vi è un confronto continuo.
Scrivo queste brevi riflessioni a pochi giorni di distanza dal prossimo CDC del 10 novembre. L’ordine del giorno è corposo. I nodi stanno venendo al pettine. L’ANM deve redigere documenti articolati in ordine alla riforma del processo penale, del processo civile, al disegno di legge cd. Pillon sulla bigenitorialità, al cd. decreto sicurezza. Poi dovremmo occuparci del reclutamento dei magistrati e della legge elettorale per il CSM. Su alcuni di questi punti i lavori delle commissioni sono in stato assai avanzato; su altri stiamo incominciando a discutere. Come sempre il momento essenziale sarà il dibattito in CDC dove si cercherà una difficile sintesi unitaria tra le varie sensibilità dei gruppi che fanno parte dell’ANM. Il nostro compito è cercare di spostare il più possibile il punto di questa sintesi verso le nostre sensibilità culturali. A volte ci riesce meglio a volte peggio ma abbiamo sempre la consapevolezza che ci sono dei principi cui, come rappresentanti di AREADG, non possiamo derogare. E’ un impegno quotidiano che va – per i componenti della GEC – ben al di là delle periodiche riunioni. E’ una immersione “full time” che parte la mattina con la lettura attenta della rassegna stampa e si conclude la sera con la lettura on line dei giornali del giorno dopo. Ed intanto si continua a svolgere il proprio lavoro di magistrato e si cerca di ritagliarsi qualche ora di tempo per gli affetti familiari. Ma è anche un impegno interessante, dinamico, che ci fa crescere umanamente e culturalmente; che ci porta a conoscere tanti colleghi ed a confrontarci con loro; che ci fa avere una visione complessiva dell’intero sistema giudiziario e non limitata al settore nel quale quotidianamente esercitiamo la giurisdizione. Insomma – parlo per me ma sono sicuro che anche per gli altri è così - lo facciamo per spirito di servizio ma facciamo una cosa che ci piace.
*il testo costituisce un aggiornamento dell’articolo “L’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale secondo la riforma”, pubblicato su questa rivista prima dell’approvazione del d.lgs.vo n. 116/2017.
SOMMARIO: 1. Cenni generali del problema; 2. L’utilizzazione del giudice onorario nella circolare consiliare sulle tabelle e nella legge delega 29.4.2016 n.57; 3. Le novità contenute nel decreto legislativo; 4. La motivazione delle restrizioni nell’utilizzo dei giudici onorari; 5. L’ipotesi di “supplenza”; 6. Le disposizioni transitorie per i m.o. in servizio come g.o.t.; 7. Conclusioni e …attese
1. Cenni generali del problema.
Il dibattitto successivo alla divulgazione del decreto legislativo (n. 116/2917) attuativo della legge delega sulla riforma della magistratura onoraria è ancora in corso, e la sua rilevanza è proporzionata a quella dell’importanza che le nuove disposizioni avranno non solo sullo status dei magistrati onorari, ma anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari di primo grado, per l’importanza dell’apporto offerto da giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari.
Sono note le polemiche derivate dalle valutazioni (prevalentemente negative) operate da parte delle organizzazioni sindacali dei magistrati onorari (che hanno condotto anche a forme di protesta ancora in atto), e la denunzia dell’inadeguatezza dell’impianto dello schema di decreto delegato operata da parte di un “movimento” di Procuratori della Repubblica, preoccupati sugli effetti che lo status dei vice procuratori di pace potrebbe avere sulla funzionalità degli uffici di Procura.
Minore attenzione sembra invece essere dedicata all’assetto ordinamentale dei giudici onorari di pace (già giudici onorari di tribunale), che pure costituiscono – laddove destinati all’ufficio per il processo o all’esercizio di funzioni giudiziarie - la quota di magistratura vicaria indispensabile per l’efficienza degli uffici giudicanti di primo grado.
Di qui l’opportunità, anche al fine di contribuire ad opportuni interventi correttivi del decreto all’esito del tavolo tecnico aperto tra ministero della giustizia ed organizzazioni sindacali della magistratura professionale ed onoraria, di sviluppare alcune schematiche riflessioni specificamente dedicate all’analisi del ruolo riservato dalla riforma all’attività del giudice onorario di pace all’interno del tribunale.
Le disposizioni concernenti l’attività del g.o.p. in funzione di sostituzione dei giudici professionali sono di grande importanza per l’assetto organizzativo dei tribunali e rischiano, ove asincrone rispetto alle esigenze di funzionalità dell’ufficio giudiziario, di scompaginarne la pianificazione progettuale operata dalla maggior parte dei dirigenti, in virtù del deposito delle “tabelle” per il prossimo triennio.
La preoccupazione sulle concrete criticità derivanti da alcune norme risulta fondata sulla sostanziale difformità del decreto rispetto ai criteri delineati dalla legge delega.
Né può rassicurare il differimento temporale delle principali disposizioni (che avranno efficacia solo dopo un quadriennio a far data dall’entrata in vigore del decreto legislativo).
Prescindendo dalla miopia di un’analisi che sottovaluti le potenziali criticità solo in ragione delle necessità contingenti, va rimarcato come alcune e fondamentali disposizioni relative ai g.o.p. in servizio siano immediatamente applicabili (artt. 29-32), e questo imponga urgenti interventi correttivi, per cui l’esame della problematica in oggetto prende le mosse dalle norme che diventeranno operative solo per i giudici onorari immessi in servizio dopo la data di vigenza del decreto legislativo e “a regime” per tutti solo dal quarto anno successivo (art. 32.1).
2. L’utilizzazione del giudice onorario nella circolare consiliare sulle tabelle e nella legge delega 29.4.2016 n.57.
Come è noto, la riforma prefigura l’utilizzazione del “nuovo” giudice onorario di pace (unificando anche lessicalmente le precedenti e distinte funzioni del giudice onorario di tribunale e di giudice di pace), in una triplice destinazione (art.9): a) nell’ufficio per il processo; b) nell’ufficio del giudice di pace; c) nel tribunale, come assegnatario della trattazione di procedimenti civili e penali monocratici e collegiali.
Con riferimento a quest’ultima e rilevante destinazione, notoriamente di ampia utilizzazione nei tribunali, gravati da costanti o periodiche carenze di organico dei magistrati professionali (vedi infra sub §7), non è inutile ricordare l’ultima disposizione prevista nella Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, approvata dal C.S.M. il 25.1.2017 che, nel solco di un sempre maggiore ampliamento delle attribuzioni dei g.o.t. originato nel 2008, all’art. 187 (oltre alle ipotesi di supplenza…) prevede che può essere loro assegnato un ruolo autonomo “in caso di significative vacanze nell’organico dell’ufficio o in tutti i casi in cui per circostanze oggettive non si possa far fronte alla domanda di giustizia con i soli giudici togati “.
Il principio ispiratore della delega (legge n. 57 del 29.4.2016), con riferimento al ruolo del giudice onorario di pace (come disegnato all’art. 2.5), sembra potersi ricondurre al conferimento in capo al presidente del tribunale, quale titolare della gestione organizzativa dell’ufficio, della possibilità di stabilire sia i criteri di inserimento del g.o. all’interno dell’ufficio per il processo (art. 2.5 lett.a), sia di assegnarlo in applicazione nel tribunale in sede collegiale (art. 2.5 lett.b) che monocratica (art. 2.5 lett.c).
Il perimetro di utilizzazione del g.o. in tribunale da parte del presidente resta delimitato peraltro alla previsione di “casi tassativi, eccezionali e contingenti….in ragione della significativa scopertura dei posti di magistrato ordinario previsti dalla pianta organica del tribunale ordinario e del numero dei procedimenti assegnati ai magistrati ordinari ovvero del numero di procedimenti rispetto ai quali è stato superato il termine ragionevole di cui alla legge 24 maggio 2001, n. 89” (art. 2.5 lett.b).
Per quanto si tratti di principi intesi ad evidenziare la marginalità dell’impiego del g.o. in funzione vicaria all’interno del tribunale, a ben vedere non si tratta di criteri molto difformi rispetto a quelli dettati dalla previsione consiliare vigente, che viene riproposta letteralmente quanto all’indicazione (generica) di “significativa” scopertura dell’organico, e solo meglio specificata in riferimento al carico di lavoro.
L’ufficio per il processo, sede naturale di prima utilizzazione del g.o. in funzione di collaborazione del giudice togato, è individuato dalla delega come una sorta di “ufficio di genesi della professionalità” del giudice onorario, cui il presidente del tribunale può attingere in funzione delle contingenti necessità dell’ufficio alla cui organizzazione complessiva è preposto.
3. Le novità contenute nel decreto legislativo.
Orbene il decreto legislativo n. 116/2017i non risulta compiutamente ispirato ai criteri descritti nella delega, modificando l’opportuna destinazione del giudice onorario al servizio delle esigenze dell’ufficio, sulla base della pianificazione monitorata dal suo dirigente, privilegiando piuttosto la centralità del ruolo del g.o. all’interno dell’ufficio per il processo, e quindi spostando il principio guida dal servizio al tribunale a quello verso il singolo giudice professionale.
Si confina così ad ipotesi marginali (se non addirittura eccezionali) la sua destinazione alla trattazione di procedimenti all’interno del tribunale.
Direttrice operativa intrinsecamente discutibile, ma soprattutto viziata da una singolare eterogenesi dei fini, poiché a sopperire alle esigenze di apporto giudiziario precedentemente assolte dal giudice onorario dovrà essere costretto lo stesso giudice professionale che si intende agevolare incrementando le attività delegabili al m.o. nell’ufficio per il processo (e peraltro principalmente nel settore civile).
Si fa riferimento all’artt. 11.1 del decreto, laddove, estremizzando le condizioni previste dall’art.2.5 lett.b) della delega, si condiziona l’assegnazione dei giudici onorari di pace per la trattazione di procedimenti civili e penali di competenza del tribunale, alla sussistenza di una delle seguenti ipotesi alternative:
a) scopertura superiore al 30% dell’organico o delle presenze effettive dei magistrati del tribunale o della sezione (con conseguente limitazione all’utilizzazione dei giudici onorari solo nella sezione afflitta dalla peculiare criticità ex art. 11.2);
b) superamento della soglia percentuale del 50% (per il settore civile) e del 40% (per quello penale) del numero di procedimenti ultratriennali rispetto al numero di pendenze complessive dell’ufficio;
c) superamento del 70% del numero medio di pendenze civili (o del 50% di quelle penali) per ciascun giudice del tribunale rispetto alla media nazionale individuale di pendenze calcolata nell’anno precedente;
d) superamento del 70% del numero medio di sopravvenienze civili (o del 50% di quelle penali) per ciascun giudice del tribunale rispetto alla media nazionale individuale di sopravvenienze calcolata nell’anno precedente.
Risulta evidente la configurazione di “condizioni capestro” che è arduo prefigurare (anche attualmente) nella pur endemica situazione di difficoltà organizzativa in cui versano gli uffici giudicanti di primo grado.
Nè la pur prevista alternatività delle condizioni attenua il più che comprensibile disagio derivato dalla lettura di una norma che, nella sua siderale distanza rispetto alla concretezza della realtà operativa del quotidiano giudiziario, rischia di cancellare del tutto l’apporto (più che mai necessario) dei giudici onorari all’interno dei tribunali.
Non è difficile ipotizzare pertanto che le ipotesi applicative dei rigorosi criteri summenzionati consentiranno l’assegnazione di procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace solo in casi del tutto eccezionali.
Per tacere poi del coraggioso (ma forse velleitario) riferimento a “medie nazionali” allo stato del tutto virtuali, e consegnate alle capacità (ed all’affidabilità) di rilevazioni statistiche elaborate dal Ministero della giustizia di concerto con il C.S.M. da pubblicizzare annualmente (art. 11.8).
La formulazione di una norma così restrittiva contiene ulteriori limitazioni, laddove si riuscisse a valicare le barriere prefigurate, sia di tipo quantitativo (il divieto di assegnazione ai giudici onorari di un numero di procedimenti non superiore a un terzo della media nazionale per settore delle pendenze individuali del giudice di primo grado, ex art. 11.5) che qualitativo (nell’esclusione di tipologie di procedimenti, ex art. 11.6, mutuata dagli ordinari criteri tabellari).
Quanto alle esclusioni specifiche, la preclusione dell’art. 43bis dell’Ordinamento Giudiziario (riproposta dagli art. 183 e 184 della Circolare del C.S.M.) viene estesa dall’art. 11.6 per cui nei giudizi monocratici non possono essere assegnati ai giudici onorari (per il settore civile (anche) i procedimenti in materia di lavoro e previdenza, in materia di famiglia, ex art. 615.2 e 617 c.p.c.
Ma gli ostacoli all’utilizzazione dei g.o. non sono terminati, atteso che l’art.11.7 prescrive per il presidente del tribunale che verifichi la sussistenza dei presupposti, il rispetto di un termine di sei mesi per l’adozione del provvedimento di assegnazione degli affari, da corredare con l’indicazione “della non adottabilità di misure organizzative diverse”, e il tassativo limite massimo di tre anni (periodici) di efficacia del provvedimento, non reiterabile prima di (altri) tre anni (salvo il caso di cui sub a) indicato in precedenza).
Viene così esplicitamente codificato come in tribunale il ricorso ai giudici onorari debba intendersi come “extrema ratio” non solo per l’affidamento di un ruolo monocratico, ma anche per l’utilizzazione nei collegi.
Per la predetta destinazione difatti l’art. 12 del decreto mutua gli stessi criteri selettivi previsti per l’assegnazione dei procedimenti monocratici dall’art.11, con alcune modifiche.
Se difatti la peculiarità degli affari di trattazione collegiale ha indotto il legislatore delegato a consentire la permanenza del giudice onorario nel collegio “sino alla destinazione del procedimento” (e quindi in potenziale deroga al limite triennale previsto per la trattazione di affari monocratici), d’altro canto l’art. 12 contiene ulteriori demarcazioni per entrambi I settori della giurisdizione.
Così in ambito civile: “il g.o. non può essere destinato a comporre i collegi delle sezioni specializzate” (tra cui non rientra la materia della famiglia, che non può considerarsi sezione specializzata in senso tecnico, giusta delibera del C.S.M. n. 530/VV/2017 del 6.12.2017 infra sub §6), mentre nel settore penale il ricorso al g.o. è inibito (“…laddove si proceda per I reati indicati nell’art. 407.2 lett.a) c.p.p.).
Da tanto si ricava che, se nel settore civile risultano confermate le materie sin qui precluse ai giudici onorari (cfr. art. 188.1 della Circolare del C.S.M.), nel settore penale (e proprio laddove è più avvertita la necessità di garantire la formazione dei collegi in situazioni di necessità), l’unico limite vigente dei procedimenti con rito direttissimo (art. 188.2 ripreso dall’art.11.6 lett.b n.4 del d.lgs.vo) e in materia di riesame (art. 184.1 lett.b), viene esteso fino a ricomprendere un ampio catalogo di fattispecie di reato.
Risulta così inibita, in forma del tutto inedita, la possibilità di sopperire alle carenze di organico mediante l’integrazione di giudici onorari nei collegi penali in virtù di una disposizione che, specie negli uffici meridionali, più afflitti sia dai vuoti di organico che da processi per gravi ipotesi criminose, metterà a dura prova la capacità organizzativa dei capi degli uffici.
Il lungo elenco di ostacoli frapposti dal decreto all’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale termina con un ultima e “innovativa” previsione, che circoscrive (sia per il ruolo monocratico che per quello collegiale) l’attribuzione degli affari civili e penali ai soli “procedimenti pendenti” al termine di scadenza previsto per il provvedimento di assegnazione del g.o. da parte del presidente del tribunale (artt. 11.7 e 12.1).
Si tratta di una disposizione Intesa ad evidenziare una volta di più (laddove ve ne sia davvero il bisogno) l’eccezionalità dell’assegnazione di procedimenti ai giudici onorari in tribunale.
Alquanto evidenti tuttavia gli inconvenienti derivati da una disposizione siffatta per un’efficiente organizzazione delle sezioni che specie nel settore penale collegiale, abbinata alle limitazioni per tipologia di reati di cui si è detto in precedenza, costringerebbero alla diseconomica previsione di una pluralità di collegi in composizione differenziata, risultando condizionata la presenza di giudici onorari sia dalla natura del reato, sia dalla data di pendenza del giudizio.
4. La motivazione delle restrizioni nell’utilizzo dei giudici onorari.
L’elencazione di una così articolata e complessa serie di griglie diretta a limitare l’utilizzazione vicaria del giudice onorario, impone di interrogarsi sulla ratio che ha ispirato questa scelta in sede di attuazione della delega (e financo oltre le indicazioni offerte dalla stessa).
Tanto può essere affermato specie considerando come il C.S.M., in sede di relazione illustrativa della recente Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, aveva (ragionevolmente) ricavato dalla legge delega indicazioni del tutto favorevoli ad un ampliamento dell’utilizzazione dei giudici onorari.
In tal senso, dal criterio della delega di cui all’art. 1.1lett.b) si era ricavato che “…tale disposizione certamente rivela un evidente favor del legislatore verso l’implementazione dell’utilizzo dei giudici onorari consentendone, salve alcune eccezioni, non solo l’applicazione per la trattazione di procedimenti civili e penali del tribunale ordinario, ma anche l’impiego quali componenti di collegi giudicanti civili e penali”.
Proprio sulla base di questa considerazione le linee guida della circolare (cui si sono uniformati i progetti organizzativi di tutti i tribunali) hanno attenuato le precedenti e più rigorose limitazioni nell’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale.
Alla ricerca delle cause di questo (sorprendente) mutamento di rotta soccorre la relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, consentendo di individuarle nella:
a) enfatizzazione dell’utilità dell’ufficio per il processo come tipologia di intervento prioritaria per far fronte alle criticità nella risposta alla domanda di giustizia, muovendo da un’analisi comparativistica, dai positivi risultati sperimentati in alcuni uffici italiani e dalla considerazione (peraltro fondata) per cui “il giudice è l'unico professionista a non essere dotato di assistenza qualificata e costante nell'espletamento delle sue attività”;
b) recuperata efficienza (specie nel settore civile) dei tribunali derivante, oltre che dall’istituzione dell’ufficio per il processo, anche dal significativo ampliamento della competenza dell’ufficio onorario del giudice di pace e dal conseguente effetto deflattivo;
c) necessità di limitare l’impegno del giudice di pace a non più di due giorni settimanali, per assicurarne la piena compatibilità con lo svolgimento di altre attività remunerative, e quindi a non poterlo gravare di un carico di lavoro superiore ad un terzo del numero medio nazionale dei procedimenti pendenti per ciascun giudice professionale.
Si tratta, a ben vedere, di argomentazioni non particolarmente convincenti e anche parzialmente inconferenti con la tipologia di intervento di cui costituiscono le premesse fondative.
La precedente e (prevedibilmente) perdurante necessità di utilizzazione dei giudici onorari nei tribunali, ha ben poco a che fare difatti con l’incremento della competenza del giudice di pace, quanto piuttosto con la mancata copertura dell’organico dei magistrati, che presenta attualmente una percentuale di vacanze presso gli uffici del 12%.
La devoluzione di nuove attribuzioni all’ufficio del giudice di pace prevista dagli artt. 27 e 33.3 a far data dal 30.10.2021 (peraltro limitata al solo settore civile), e la conseguente (ma non ancora attuale) riduzione delle sopravvenienze, non elude le costanti necessità di coprire i ripetuti vuoti che si creano nei tribunali.
Alla carenza “strutturale” dell’organico per i ritardi nello svolgimento dei concorsi di accesso alla magistratura, si sommano le contingenti situazioni di difficoltà operativa derivanti dalla mobilità orizzontale e verticale dei magistrati, destinazione fuori ruolo, ecc., tutte cause che postulano il prevalente ricorso ai giudici onorari e che non sono in alcun modo ridotte dal conferimento di nuove competenze all’ufficio del giudice di pace.
Per non parlare poi anche del limite di permanenza decennale imposto dall’art.19.1 del d.lgs.vo n. 160 del 2006, che si pone come ulteriore addendo della somma di elementi che determinano l’insorgere delle periodiche criticità nell’organico degli uffici giudiziari.
Nè l’attivazione dell’ufficio del processo, funzionale all’incremento qualitative e quantitativo del servizio giustizia, ha alcuna incidenza sulle problematiche delineate in precedenza.
La limitazione invece dell’impegno richiesto ai giudici onorari a un tempo complessivamente non superiore a due giorni a settimana (come previsto dall’art. 1.3), se può costituire un antecedente logico della riduzione dell’utilizzazione dei giudici onorari, certamente non può trovare giustificazione nelle emergenze dei tribunali più volte ricordate, finendo altresì per determinare ulteriori criticità.
Non viene specificato difatti se si tratti di due “udienze”, elidendo in tal caso la necessaria fase preparatoria e di stesura dei provvedimenti definitori e il principio pro rata temporis di cui al paragrafo 2 della clausola 4 della direttiva 1999/70/CE.
Ma anche se all’opposto si debba intedere un’unica udienza ed una d’ufficio, si prefigura così un impegno periodico proporzionalmente maggiore a quello del magistrato professionale ma soprattutto inadeguato alle concrete necessità di gestione dei ruoli, specie per quanto riguarda l’impegno dei giudici onorari nei collegi.
Risulta del tutto evidente in definitiva come la marginalizzazione dell’utilizzazione nei ruoli giudiziari dei Tribunali dei giudici onorari ad ipotesi di eccezionale gravità, mal si concilia con un impiego individuale così ridotto che specie (ma non solo) nel settore penale, si tradurrebbe in un apporto di ben modesta utilità concreta e difficilmente in grado di fronteggiare la situazione emergenziale che ne legittimi l’impegno.
5. L’ipotesi di “supplenza”.
Diverso discorso va fatto per quanto riguarda la destinazione insupplenza presso il tribunale dei giudici onorari di pace.
Si tratta, secondo la normazione secondaria consiliare, dell’istituto a cui si fa ricorso, per assicurare il regolare esercizio della funzione giurisdizionale, in caso di assenza o di impedimento temporanei di un magistrato (ad es. malattia, puerperio, ecc.).
Sul tema il decreto legislativo ritiene di intervenire, come indicato nella relazione illustrativa, nonostante l'assenza di uno specifico criterio di delega a riguardo, “…perché conforme allo spirito complessivo della legge delega in quanto la destinazione in supplenza rappresenta, storicamente, la prassi di ordinario utilizzo della magistratura onoraria, che trova conforto, sul piano normativo, nell'articolo 43-bis dell'ordinamento giudiziario”.
Nella predetta ipotesi, che resta confinata ai casi in cui il magistrato professionale risulti come detto temporaneamente assente o impedito, l’utilizzazione del giudice onorario resta garantita (anche per comporre il collegio) dal disposto dell’art. 13 del decreto (che ripropone l’art. 189 della Circolare del C.S.M.), anche ove non ricorrano le condizioni di cui al menzionato art.11.
Viene in campo una norma che certamente offre una risposta alle situazioni di emergenza (anche impreviste), ma che non può superare i ristretti confini applicativi per cui è stata disegnata, e lo ricorda lo stesso art. 13, che ribadisce come “..in ogni caso, il giudice onorario di pace non può essere destinato in supplenza per ragioni ostative al complessivo carico di lavoro ovvero alle vacanze nell’organico dei giudici professionali”.
Non è pertanto nel ricorso alla supplenza che potranno trovare particolare risposta le esigenze degli uffici atteso che i giudici professionalinon potranno essere sostituiti da quelli onorari in ragioni relative alcomplessivo carico di lavoro (come esplicitato nella relazione): “… in tal modo superando, sul punto, la nozione estesa di "impedimento", elaborata in sede consiliare, da ravvisarsi in tutte quelle situazioni non strettamente riconducibili ad impegni processuali coincidenti con una certa udienza, ma in cui doveva comunque considerarsi il complessivo impegno lavorativo del giudice professionale in un determinato arco temporale, e quindi la trattazione di un certo numero di processi particolarmente impegnativi per complessità o numero delle parti in concomitanza dell'ordinario carico di lavoro”.
6. Le disposizioni transitorie per i m.o. in servizio come g.o.t.
Si è in precedenza anticipato (vedi supra sub §1), come l’analisi delle disposizioni “a regime” previste dallo schema di decreto possa essere ritenuto subvalente, ratione temporis, rispetto alle norme che regolano, sin da subito, lo status dei giudici onorari di tribunale transitati nel nuovo ruolo di giudici onorari di pace.
Va in ogni caso esaminato quanto previsto dal decreto in ordine agli (ex) g.o.t. all’art.30.
Oltre alla possibilità di assegnarli all’ufficio per il processo (art.30.1 lett.a), fino alla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, il presidente del tribunale può utilizzare I giudici onorari di pace (già) in servizio come g.o.t. assegnando la trattazione di “nuovi” procedimenti civili e penali di competenza del tribunale (art. 30.1 lett.b).
Si tratta di una previsione significativa, intesa a salvaguardare l’assetto preesistente dei tribunali, specie perchè praticabile in esplicita deroga rispetto alle stringenti condizioni di cui all’art.11 (cfr. supra sub §3).
Intuibile la difficoltà di contemperare l’ampiezza derogatoria dell’art. 30.1 lett. b), che comunque circoscrive l’ambito delle attribuzioni del giudice onorario alla trattazione dei soli “nuovi” procedimenti, con i criteri di assegnazione degli affari previsti dall’art.11.7 (esplicitamente ritenuti obbligatori dal medesimo art. 30.1 lett.b), che fa invece riferimento ai soli procedimenti “pendenti”.
Molto più comprensibile la lettera della norma laddove all’iniziale previsione della non necessaria ricorrenza delle “…condizioni di cui all’art. 11.1 e nel rispetto del comma 7 del predetto articolo e delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura” fosse stata aggiunta la congiunzione ”anche” a precedere “..la trattazione dei nuovi procedimenti…”.
La rilevanza ermeneutica del disposto normativo e gli inevitabili riflessi i sull’assetto organizzativo dei Tribunali risultano evidenti, specie ove si consideri che la riforma della magistratura onoraria è intervenuta successivamente alla data di deposito delle tabelle per il triennio 2017/2019.
Decisivo quindi l’intervento del C.S.M. che in data 6.12.2017 (a seguito di quesito formulato da chi scrive), con delibera n.530/VV/2017, ha precisato che, ai sensi dell’art. 30.1 lett.b), debbano essere intesi come “nuovi procedimenti”….” sia le cause iscritte a ruolo dopo il 15 agosto 2017 sia quelle iscritte prima di tale data ma alla stessa data non ancora assegnate al magistrato onorario”, intendendo la novità del procedimento in chiave soggettiva ed estensiva, ossia come procedimenti “nuovi” per il magistrato onorario cui sono assegnati, anche se già pendenti nell’ufficio.
La valutazione “conservativa” dell’organo di governo autonomo è stata naturalmente accolta con estremo favore, per avere offerto una lettura della norma funzionale alle esigenze degli uffici ed idonea ad evitare il pericolo di una disarticolazione organizzativa dei tribunali (non certo pochi..), in cui l’utilizzazione vicaria dei giudici onorari costituisce prassi costante.
Può quindi ritenersi che, almeno fino al 15.8.2021, l’utilizzazione dei g.o.p. all’interno degli uffici giudicanti per attività giurisdizionali resterà sostanzialmente immodificata (fatte salve le nuove preclusioni di cui all’art. 11.6), specie ove si consideri che nella delibera menzionata il C.S.M. ha inteso precisare anche che “…. non vi sono limiti quantitativi all’assegnazione di siffatti “nuovi procedimenti”, con il risultato che, sempre e solo nel suddetto primo quadriennio, sarà possibile, nel rispetto della normativa secondaria fino ad ora esistente (le “deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura” cui si riferisce la lettera b del comma 1 dell’art. 30), assegnare ai giudici onorari anche un intero ruolo, pur non ricorrendo le ipotesi di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 116/2017”.
La perdurante ampiezza della sfera di utilizzazione dei g.o.p. nei tribunali ha trovato ulteriore conferma da parte del C.S.M. nella “Prima risoluzione sulla nuova disciplina della magistratura onoraria” del 28.2.2018.
Va in ogni caso rilevato come la scelta consiliare di non differire il termine di deposito delle tabelle degli uffici giudicanti di primo grado in attesa del varo definitivo della riforma della magistratura onoraria, ha comportato la necessità, per molti uffici, di rivisitare I progetti tabellari rendendoli conformi al mutato quadro legislativo, non avendo il C.S.M. ritenuto equiparabile il concetto di “assegnazione” di cui all’art. 30.2 alla mera previsione tabellare.
Da ultimo va però segnalato come nel settore penale la gestione dei giudizi collegiali si stia rivelando estremamente problematica anche nel periodo transitorio.
Se difatti ai sensi dell’art. 30.5 I giudici onorari di pace (già giudici onorari di tribunale) possono continuare a comporre i collegi (tranne che per le materie indicate dall’art. 12) sino alla definizione dei procedimenti anche ove non sussista lo “stato di necessità” di cui al menzionato art. 11, risulta immediatamente operativa l’inibizione alla loro utilizzazione per i reati di cui all’art. 407.2 lett. a) c.p.p.
Per tali, numerose e complesse fattispecie, la destinazione collegiale dei g.o.p. è consentita ex art. 30.6 solo laddove sia stata esercitata l’azione penale alla data del 15.7.2017.
In tutta evidenza si tratta di una grave limitazione nell’impiego dei g.o.p. in ambito dibattimentale, destinata progressivamente ad aggravarsi con il passare del tempo, per l’incremento cronologico delle fattispecie, cui prevedibilmente conseguiranno non pochi problemi organizzativi, solitamente connessi all’attività di collegi predisposti ad hoc.
7. Conclusioni e …attese.
L’analisi sin qui svolta prende le mosse dalla considerazione che l’utilizzazione dei giudici onorari nei tribunali sia tutt’altro che episodica e che la situazione corrente di difficoltà organizzativa potrebbe essere accentuata dall’approvazione di un decreto legislativo che, se pure temporalmente differito nella sua efficacia a regime, appare inadeguato ed annuncia l’insorgere di ulteriori problemi.
Non va dimenticato altresì come la percentuale di scopertura dell’organico dei giudici onorari sia oggi del 18% (superiore a quella del 13% dei v.p.o.) per cui alle carenze numeriche dei giudici onorari (elevate in alcuni tribunali), si aggiungerebbero le difficoltà di utilizzo di quelli residui.
Il C.S.M., stante il disposto dell’art. 32.10, ha opportunamente deciso di provvedere a nuove nomine di giudici onorari, attingendo peraltro agli idonei di graduatorie remote, non tutti dichiaratisi disponibili ad assumere l’incarico.
Si aggiunga in proposito come, nel vigente reclutamento non specializzato, a volte non sia stato positivamente superato il (necessario) tirocinio nel settore penale, comportando la revoca dell’incarico.
Va altresì considerato come, per far fronte alla rilevante carenza di giudici onorari assegnati alla giurisdizione di pace, commisurata intorno al 64% (un vero e proprio “pianto organico”), solo in parte compatibile con le diminunizione della domanda di giustizia di pace, il decreto legislativo preveda all’art. 33.9 la possibilità (immediatamente attivabile) di “…destinare giudici di pace e giudici onorari di tribunale ……. in supplenza o in applicazione, anche parziale, in un ufficio del giudice di pace del circondario ove prestano servizio..”.
Con una modifica operata in extremis, raccogliendo un rilievo del C.S.M., la stessa norma altresì ha previsto che “…nel corso del periodo di supplenza o di applicazione la liquidazione delle indennità ha luogo in conformità ai citeri previsti per le funzioni e I compiti effettivamente svolti”.
Si tratta di un intervento tampone che è stato già utilizzato, per fronteggiare autentiche emergenze, da alcuni presidenti di tribunale (a volte superando non poche resistenze degi giudici di pace), sguarnendo ulteriormente la platea dei giudici onorari disponibili per le emergenze dei tribunali.
Tanti quindi i problemi da risolvere, che si concentrano nell’esigenza di funzionalità dei tribunali, seriamente compromessa da un testo normativo che (a regime) frappone troppi ostacoli alla misura dell’impegno ed all’assegnazione ai giudici onorari di affari civili e penali.
A tale proposito il rinvio operativo del corpo principale della riforma al 2021, operato al fine di consentire per tempo gli interventi necessari per consentirne l’agibilità, non può indurre a particolare sollievo.
Non è difficile ipotizzare difatti, che proprio la mancata percezione di urgenza derivante dal differimento, possa posporre la cantierizzazione delle misure organizzative atte ad eludere il rischio di una sorta di “effetto Malpensa” che sembra prevedibilmente gravare sul futuro della giustizia civile.
E’ per questo che si deve guardare con attenzione ai risultati, preannunziati come imminenti, che deriveranno dal “tavolo tecnico” in atto presso il ministero della giustizia, con la partecipazione dell’ Associazione Nazionale Magistrati e rappresentanti delle varie categorie dei magistrati onorari, in vista dell’emanazione di disposizioni correttive del d.lgs.vo n. 116/2017, come previsto ex art. 3.2 della delega, entro il termine del 15.8.2021.
L’auspicio è che il dibattito non si concentri esclusivamente sui profili sindacali e relativi alle questioni di status dei magistrati onorari in servizio, pur evidenziandosi comprensibilmente come preliminare la riformulazione del limite temporale di impiego dei g.o.p.
La previsione di correggere ed integrare il testo dei decreti attuativi della delega, costituisce una modalità legislativa al tempo stesso intelligente e responsabile, idonea ad adattare in progress I principi di una riforma lungamente attesa e di ambiziosa portata applicativa, verificando sul campo I suoi effetti concreti nel quotidiano giudiziario.
Anche il C.S.M., come già fatto utilmente prima dell’emanazione del d.lgs.vo n. 116/2017, mediante l’ascolto di Procuratori della Repubblica e Presidenti di Tribunale, potrà fornire al legislatore delegato contributi tecnici puntuali e dettagliati.
E’ noto come, seguendo le indicazioni generali del C.S.M., oggi l’utilizzazione dei giudici onorari in tribunale si articoli nei diversi modelli dell’affiancamento al giudice professionale, della supplenza o dell’assegnazione di un ruolo autonomo (cfr. quanto previsto dal capo VII della vigente circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti).
Sulla base di un recente monitoraggio del C.S.M. emerge come prevalga l’utilizzazione vicaria del g.o. rispetto all’affiancamento*, e che la previsione dell’ufficio per il processo, pur incentivata dal Consiglio con una recente delibera del luglio di quest’anno, che lo ha reso obbligatorio in tutti I Tribunali, continui ad incontrare non pochè difficoltà, principalmente legate alla carenza di spazi e di risorse, come emerso anche recentemente in un incontro tematico organizzato dalla Scuola superiore della magistratura.
Pur senza sottovalutare l’importanza della destinazione del g.o.p. all’ufficio per il processo, induce a qualche perplessità la concentrazione dell’attività del g.o.p. su questa funzionalità operativa, oggi prevalentemente (e positivamente) assolta dai partecipanti al tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013.
L’esclusiva destinazione all’ufficio per il processo per il primo biennio di attività dei g.o.p. (art. 9.4 del d.lgs.vo n. 116/2017) ed il perimetro della sua attività confinata in termini di supporto o atti delegati (art.10), costituiscono una limitazione ad un impiego dei g.o.p. che possa essere opportunamente modulato in ragione delle esigenze (ed emergenze) dell’ufficio giudiziario.
Se può condividersi la filosofia di individuare nell’ufficio per il processo una palestra formativa per I g.o.p. di prima nomina (peraltro ragionevolmente limitata al settore civile), va tuttavia ricordato come iI giudici onorari costituiscono una risorsa per i tribunali anche (e forse soprattutto) per una ordinata pianificazione dell’attività giudiziaria.
Proprio in ragione di quanto detto, si rafforzano le evidenziate criticità relative alle troppo rigide limitazioni per l’assegnazione dei procedimenti civili e penali ai g.o.p. (artt. 11 e 12 della riforma), che impongono una rivisitazione improntata a criteri di realismo ed efficienza organizzativa.
Solo così potrà essere sventato il perciolo che alla data di attuazione integrale della riforma non si riesca a far fronte in modo adeguato alla domanda di giustizia nella “frontiera” del primo grado, che trova nell’apporto dei giudici onorari una risorsa preziosa ed ineludibile.
Ernesto Aghina
* Al 30.6.2017 la percentuale di g.o.t. utilizzati presso I tribunali in affiancamento dei giudici professionali era del 38% (con un ruolo aggiuntivo nel 75% dei casi), rispetto al 62% risultante dalla somma delle ipotesi di supplenza (28%) e dell’assegnazione autonoma di un ruolo (34%).
1. La magistratura ha sempre più un volto femminile. - 2. La scomparsa “giudice ragazzino”. - 3. Si è dissolto l’oligopolio maschile della dirigenza giudiziaria, ma non è scomparso lo svantaggio di genere. - 4. Il rinnovamento della dirigenza giudiziaria. - 5. Il rapporto tra giudici e abitanti. - 6. Conclusioni.
Una breve analisi statistica della attuale composizione della magistratura consente di elaborare l’identikit del magistrato italiano ad oggi (i dati statistici nazionali provengono e sono stati elaborati dall’Ufficio Statistico del CSM. I dati statistici europei, invece, sono desunti dal rapporto CEPEJ 2018).
1. La magistratura ha sempre più un volto femminile.
Le donne in servizio come magistrati togati all’11/10/2018 è pari al 53,2% circa.
Negli ultimi anni i magistrati di nuova nomina appartengono per gran parte al genere femminile. Tra il 2009 e il 2018 vi sono stati n. 1.603 (62,7%) vincitori di concorso donne e n. 952 uomini.
Questo trend nel rapporto di genere in occasione dell’accesso ha rapidamente modificato in pochi anni la composizione per genere della magistratura.
Grafico 1: Distribuzione del numero di magistrati per genere negli ultimi 5 anni.
Il dato appare significativo se confrontato con quello della distribuzione di genere in altri lavori del settore della giustizia, come la professione notarile (D. 34% - U. 66%) o e quella forense (D. 47% - U. 53%). Andrebbero meglio indicate le cause anche sul piano motivazionale, ma probabilmente incide ancora la maggiore difficoltà di conciliare l’impegno familiare con quello lavorativo di determinati contesti professionali. Ne è una parziale riprova il fatto che, all’interno dell’ordine giudiziario, negli Uffici di Procura, ove alla presenza in ufficio è continuativa si accompagnano spesso gravosi turni esterni, prevale ancora, sia pur di poco, la presenza maschile (D. 43% U. 57% - rapporto CEPEJ 2018, dati 2016).
La “femminilizzazione” della magistratura è un fenomeno che accomuna la grandissima parte degli Stati europei.
In base al rapporto CEPEJ 2018, possiamo osservare che l’Italia, quando alla distribuzione di genere della magistratura, è perfettamente nella media degli Stati considerati. Se in Spagna abbiamo l’identica percentuale (D 53% - U 47%), in Francia il rapporto è ancora più accentuato (64%-36%), così come, ad esempio, in Ungheria (69% - 31%), per arrivare la presenza di donne a percentuali quasi “bulgare” in Lituania e Slovenia (rispettivamente con una percentuale femminile del 78% e 79%).
In controtendenza, invece, sono i paesi anglosassoni, presumibilmente influenzati anche dal diverso sistema di accesso, con provenienza dei magistrati dalla professione forense (UK=34%, Scozia 27%).
L’accesso delle donne nella magistratura italiana è relativamente recente, per cui, eliminato il divieto, inizialmente esse partecipato al concorso in numeri ridotti. Il sensibile incremento progressivo della percentuale femminile tra i vincitori del concorso, fino a dati attuali, ha determinato una disomogeneità del rapporto di genere nelle diverse fasce di anzianità della magistratura.
Il grafico sottostante mostra la distribuzione dei magistrati in servizio all’11/10/2018 per genere.
Grafico 2: Distribuzione percentuale del numero di magistrati in servizio all'11/10/2018 per anno di ingresso in magistratura, distinti per genere
Come può osservarsi, è possibile individuarsi tre segmenti, collegati ai periodi storici di ingresso in magistratura.
Un primo segmento, relativo ai magistrati vincitori di concorso dal 1969 al 1987, nel quale la percentuale di magistrati donne in servizio all’11/10/2018 è minore rispetto a quella degli uomini.
Un secondo segmento, relativo ai vincitori dal 1988 fino al 2004, nel quale tale percentuale è omogenea.
Un terzo segmento, nel quale la proporzione di donne entrate in magistratura in tale anno e negli anni successivi ed in servizio all’11/10/2018 supera sempre quella degli uomini.
2. La scomparsa “giudice ragazzino”.
In Italia si diventa magistrato mediante concorso. L’accesso non è diretto dopo la laurea, ma presuppone l’aver svolto il tirocinio presso gli Uffici giudiziari, la scuola di specializzazione per le professioni legali, l’aver conseguito l’abilitazione forense, il dottorato di ricerca o altri titoli analoghi.
Lo stesso sistema del concorso pubblico è adottato da 34 Stati considerati dal rapporto CEPEJ, di cui n. 16 come sistema esclusivo (es. Austria, Germania Francia, Spagna, Turchia) e n. 18 abbinato ad un sistema che, a tali fini, considera la professione legale con esperienze di lungo termine (Belgio, Olanda, Polonia, Slovacchia, Slovenia Germania – riportata anche in questo secondo gruppo). Altri n. 8 Stati utilizzano esclusivamente meccanismi affidati all’esperienza, anzianità tra gli avvocati, senza esami competitivi (es. Norvegia, Svizzera, UK, Israele). Per inciso, n. 42 Stati su 46 prevedono forme obbligatorie di tirocinio iniziale.
Tornando all’Italia, in venti anni si è alzata di quattro anni l’età media di ingresso in magistratura. Se si raffrontano i dati attuali con l’inizio dell’attività del Consiglio, addirittura il gap è di 6 anni.
Tabella 1: Età media di ingresso in magistratura dei magistrati donne e uomini e totale, in servizio al 31/12/2017, per decenni di ingresso in magistratura
L’ampliamento della durata del corso di laurea in giurisprudenza da quattro a cinque anni, con l’eliminazione dell’accesso diretto al concorso, unito al fenomeno della prevalenza femminile tra i vincitori di concorso, ha trasformato l’identikit del magistrato di prima nomina. Se in passato l’uditore giudiziario era solitamente un uomo di 26-27 anni, oggi il MOT è in prevalenza una donna di 32 che deve ancora affrontare un tirocinio di lunga durata, con notevoli aspetti teorici, pur avendo maturato esperienze di studio e lavorative post-laurea.
3. Si è dissolto l’oligopolio maschile della dirigenza giudiziaria, ma non è scomparso lo svantaggio di genere.
E’ ricorrente la considerazione per la quale, sebbene una maggioranza di donne vinca il concorso, i posti di “responsabilità”, direttivi e semidirettivi, siano ancora saldamente appannaggio dell’altro genere. Si fa poi discendere da tale constatazione, la prova di uno svantaggio della donna magistrato nel raggiungere i “vertici” della carriera.
Si tratta di un bias che porta a conclusioni non del tutto corrette in quanto basate su un raffronto di dati troppo generici.
L’analisi disaggregata dei dati relativi alla composizione di genere della magistratura, rapportata agli anni di ingresso nell’ordine giudiziario (sopra riportati), dimostra che lo svantaggio nell’accesso alla dirigenza giudiziari esiste, ma è fortunatamente quantitativamente inferiore rispetto a quello generalmente indicato.
La tabella sottostante mostra la distribuzione delle donne e degli uomini magistrati che svolgono funzioni direttive e semidirettive in servizio ad oggi (11/10/2018). Le donne costituiscono il 28,5% del totale dei magistrati con funzioni direttive e il 39,7% del totale dei magistrati con funzioni semidirettive.
Tabella 2: Numero di magistrati uomini e donne in servizio all’11/10/2018 con funzione direttiva e semidirettiva
Se si raffronta tale dato, con quello del 53% di magistrati donna, è facile convincersi di avere tra le mani la “pistola fumante” della evidente discriminazione di genere. Discriminazione, peraltro, poco commendevolmente estesa a gran parte dei Paesi CEPEJ, ove la percentuale media di Capi di Corte donna è solo del 35% (con l’eccezione di Lituania, Ungheria, Romania, Slovenia e Croazia che hanno una maggioranza di capi degli uffici giudiziari donna).
E’ un ragionamento, tuttavia, non del tutto corretto perché, non tiene conto del fatto che la distribuzione per genere negli incarichi risente necessariamente della variazione nel tempo delle percentuali uomo/donna di accesso in magistratura.
La prevalenza femminile magistratura è, infatti, come indicato in precedenza, un fenomeno relativamente recente e, pertanto, la maggioranza di magistrati donna ha un’anzianità professionale mediamente non elevata. Pertanto, partendo dalla considerazione che gli incarichi direttivi o semidirettivi sono raramente concessi a magistrati giovanissimi e che si contano sulle dita quelli attribuiti a magistrati entrati in servizio successivamente al d.l. 28/7/1998, deve constatarsi, in prima battuta che, la platea dei magistrati che hanno buone possibilità di essere designati per tali incarichi ha ancora una prevalenza maschile (D 47%, U, 53%). E’ lecito attendersi, pertanto, che ancora per pochi anni, fino a quando la “terza fascia generazionale” della magistratura, a netta prevalenza femminile, non maturerà un’anzianità professionale tale da rappresentare la maggioranza degli aspiranti agli incarichi dirigenziali, permanga una prevalenza maschile tra i titolari di incarichi direttivi e semidirettivi.
Il dato è ancora più evidente se si considerano gli incarichi direttivi, solitamente conseguiti nel tratto finale della carriera. Tra i magistrati in servizio vincitori di concorso entro il 1988, vi è, infatti, un 62% di uomini e un 38% di donne.
Tabella 3: Numero di magistrati donne e uomini e totale, in servizio al 31/12/2017, per decenni di ingresso in magistratura
Il rapporto di fine consiliatura 2014-2018 del CSM, reperibile sul sito csm.it, indica il trend relativo alla nomina di donne negli incarichi direttivi e semidirettivi.
La percentuale di donne nominate in funzioni direttive e semidirettive è passata dal 20% circa della consiliatura 2006-09, al 26% della consiliatura 2010/12, al 35% di quella conclusasi a settembre 2018.
Nello specifico, la percentuale di donne nominate in funzioni direttive è passata dal 12% al 16% al 27% rispettivamente nelle tre consiliature, mentre la percentuale di donne nominate in funzioni semidirettive è passata dal 27% al 33% al 41% nelle tre consiliature considerate.
La diversa composizione di genere della magistratura a seconda dell’età di ingresso spiega però solo parzialmente la differenza percentuale tra conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. E’ evidente, infatti, che esiste ancora uno scarto percentuale superiore al 10% tra la percentuale femminile dei “concorrenti reali” a tali incarichi e il loro conferimento effettivo.
Pertanto, trovano ancora pienamente giustificazione le misure a sostegno dell’uguaglianza di genere adottate a livello consiliare e decentrato, in modo da garantire il risultato - al quale deve tendere una politica che elimini integralmente la barriera di genere - di un’assoluta omogeneità percentuale tra composizione di genere della magistratura e l’accesso femminile alla dirigenza giudiziaria.
4. Il rinnovamento della dirigenza giudiziaria.
Nel corso dell’ultima consiliatura è intervenuto l’abbassamento dell’età pensionabile al 70 anni. Questo nuovo limite di età, fortemente discusso, a mio avviso non senza ragione, rappresenta, però significativamente il dato massimo in tutti gli Stati considerati dal rapporto CEPEJ: ad eccezione della Spagna (che lo ha recentemente incrementato a n. 72 anni), in nessuno Stato vi sono magistrati di oltre 70 anni.
Tale riforma, unità alla necessità di garantire una durata di permanenza minima nell’incarico prima del pensionamento, ha portato ad una fortissima rinnovazione di tutta la dirigenza giudiziaria.
Nel corso della consiliatura 2014-2018, risultano conferiti nel quadriennio oltre 1.000 incarichi, come si evince dai dati al 31.07.2018 che indicano un numero di nomine che, sommato agli ulteriori incarichi conferiti a settembre 2018, porta al superamento delle 1.000 unità.
5. Il rapporto tra giudici e abitanti.
In un orizzonte temporale di 5 anni vi sono sempre nuovi concorsi, ma le politiche governative determinano una irregolarità di flussi di accesso spesso non coordinati con gli aumenti di organico e le variazioni dell’età pensionabile.
Il numero di giudici per 100.000 abitanti si è ridotto da n. 11 del 2010 a n. 10,6 del 2016, comunque omogeneo a Francia e Spagna, a fronte di un dato medio nei Paesi considerati dal rapporto CEPEJ di n. 17,8.
Grafico 4: Distribuzione percentuale del numero di magistrati in servizio al 31/12/2017 per anno di ingresso in magistratura, distinti per genere
6. Conclusioni.
Nella magistratura attuale non sono più reclutati giovani laureati, ma persone che hanno già maturato una considerevole esperienza professionale e personale, spesso inficiata da investimenti di tempo e denaro inutili, come una laurea quinquennale che prepara meno di prima, l’esperienza delle SSPL in buona parte fallimentare, i tirocini formativi, forse utili agli uffici giudiziari, ma certamente meno per i tirocinanti che aspirano a superare il concorso. La maggior parte frequenta anche un corso di preparazione al concorso privato.
La carriera di magistrato inizia più tardi rispetto al passato, e si conclude prima: è impensabile l’orgoglioso superamento del traguardo dei 50 anni nella professione del magistrato, raggiunto da alcuni magistrati oggi in quiescenza; in verità diviene poco probabile anche quello di 40 anni.
Le donne sono la struttura portante della magistratura. Non sappiamo in che misura tale dato la trasformerà. Forse non la cambierà, dimostrandosi in tal modo l’indifferenza del genere rispetto al modo di giudicare.
La dirigenza giudiziaria è per la quasi totalità nuova. E’ presto per avere un feed-back completo sull’impatto di questo notevolissimo numero di nomine sulla funzionalità degli uffici giudiziari.
L’età media dei dirigenti si è sicuramente abbassata ed emerge una competizione che può portare benefici. Si intravedono, però, preoccupanti segnali di una sempre più intensa pulsione carrieristica da parte degli aspiranti che certamente non potrà aiutare, nel medio termine, ad alimentare l’idealità che necessariamente deve assistere il magistrato nel suo lavoro quotidiano.
Sommario: 1. Intercettazioni: il tentativo di riforma - 2. Gli aspetti oggetto dell’intervento. - 3. L’attuale stato della disciplina.
1. Intercettazioni: il tentativo di riforma.
Con il d.lgs. 216 del 2017 il legislatore ha dato attuazione alla delega di cui alla l. n. 103 del 2017 ove si prevedeva di riformare la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni secondo i criteri indicati al comma 84, lett. a, nn. 1-5, lett. b, c, d, e nn. 1-8, dell’art. 1.
Si è trattato invero di un ulteriore tentativo di modificare una materia particolarmente sensibile e complessa. Sensibile per la forte capacità probatoria dei risultati che questo strumento investigativo consente di ottenere; complesso per il difficile equilibrio che la sua disciplina richiede in relazione al rispetto dei diritti, spesso contrapposti e molte volte ritenuti inviolabili.
In questo senso, si trattava altresì della necessità di esaminare le ricadute processuali dell’uso del “captatore informatico”, anche alla luce dei primi arresti giurisprudenziali in materia, non escluso un intervento delle Sezioni Unite (Cass. del 28 aprile 2016, Scurato).
Il Governo, in linea con i citati criteri della delega, ha predisposto un testo ampio ed articolato, tuttavia, non destinato ad essere operativo in tutte le sue parti nei tradizionali termini della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ma in larga parte differito nel tempo, secondo le indicazioni di cui all’art. 9, ove si prevedeva che le disposizioni di cui agli artt. 2, 3, 4, 5 e 7 si applicassero alle operazioni relative ai provvedimenti autorizzativi emessi dopo il centoventesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, mentre l’art. 2, comma 1, lett. b (relativo alla pubblicazione dell’ordinanza cautelare) acquistava efficacia decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto.
In prossimità dell’entrata in vigore della parte residua del citato d.lgs., con il d.l. n. 91 del 2018, c.d. mille proroghe, il Governo ha deciso un ulteriore scivolamento dell’entrata in vigore della riforma.
Questo elemento non inciderebbe sulla ricostruzione della nuova disciplina, se non fosse che l’Esecutivo ha motivato il differimento con la volontà di riformare la normativa, fornendo – peraltro – indicazioni del tutto generiche e marginali sui nuovi approdi legislativi in materia.
Questo elemento rende inevitabilmente molto precaria sia qualsiasi ricostruzione dei dati normativi, sia la prospettazione adesiva o critica dell’annunciato restyling.
Appare, forse, da privilegiare, in primo luogo, una esposizione – ad memoriam – delle linee lungo le quali si è mosso il d.lgs. n. 261 cit., per poi affrontare le questioni legate all’attuale operatività della disciplina delle intercettazioni sia alla luce della disciplina che la riforma ha comunque reso operativa, sia in relazione alle ricadute delle decisioni giurisprudenziali intervenute in materia che comunque devono ritenersi applicabili.
2. Gli aspetti oggetto dell’intervento.
Sono nella sostanza due gli aspetti sui quali è intervenuto il legislatore: l’uso del captatore informativo e la disciplina, purtroppo molto articolata, che ruota attorno al cd. archivio riservato.
Sotto il primo profilo, il legislatore ha esteso ai reati di cui all’art. 266 c.p.p., per i quali si può procedere ad intercettazioni, l’uso del c.d. trojan horse inserito sul dispositivo elettronico portatile. Conseguentemente, per questi reati è possibile ricorrere sia al tradizionale sistema di intercettazioni, sia al captatore, specificando – tuttavia – in questo senso, le ragioni per le quali si ritiene di ricorrere allo strumento più invasivo.
Si è altresì precisato che solo per i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis, e 51, comma 3 quater, è possibile l’uso del captatore nei luoghi di privata dimora a prescindere dal fatto che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa. Solo per questi reati inoltre è possibile che il p.m. possa procedere autonomamente, in via d’urgenza, ferma la necessità di indicare le ragioni.
Una disciplina derogatoria – come si vedrà più approfonditamente, essendo la parte della riforma che è divenuta già operativa e quindi sottratta alla “proroga” - riguarda i reati gravi dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione, sia in relazione all’uso degli ordinari strumenti di intercettazione, sia con riferimento all’uso del del captatore (art. 6 d.lgs. n. 216 del 2017).
Non mancano norme “di corredo” come quelle relative alle intercettazioni ai difensori (art. 103 c.p.p.), all’uso dei risultati delle captazioni con trojan in altri procedimenti o per reati diversi da quelli per i quali le intercettazioni sono state autorizzate (art. 271 c.p.p.).
Il nucleo centrale della riforma era costituito dalla disciplina ruotante attorno all’archivio riservato ed a quello che potrebbe essere definito un vero e proprio incidente (probatorio) sull’utilizzabilità delle intercettazioni.
Le linee guida della materia possono essere così delineate. Si prevede(va) una triplice modalità di documentazione delle intercettazioni: l’annotazione dell’intercettazione ritenuta dalla polizia meramente irrilevante (per l’oggetto e per i soggetti); il verbale (o c.d. brogliaccio), nel quale è trascritto, anche sommariamente il contenuto dell’intercettazione; la trascrizione (da effettuare, con le forme, i modi e le garanzie della perizia) da ritenersi – peraltro – residuale.
A seguito di una interlocuzione tra polizia giudiziarie e p.m., le annotazioni possono restare tali e rimanere nell’archivio riservato ovvero essere trasfuse nel verbale.
Il pubblico ministero, esaurite le operazioni, salvo differimenti o per la prosecuzione o per il completamento delle attività di investigazione (disposta dallo stesso p.m.) ovvero per giustificare esigenze investigative (riconosciute dal giudice), deposita le annotazioni, i verbali e le intercettazioni e ne dà comunicazione ai difensori che potranno prenderne visione ed ascoltarne le registrazioni.
Si apre una interlocuzione dialettica, tendenzialmente cartolare davanti al giudice, che potrà accedere all’archivio riservato, nella quale i difensori potranno chiedere l’acquisizione del materiale ritenuto rilevante a fini di prova, ovvero l’esclusione delle intercettazioni ritenute irrilevanti. Il giudice decide in ordine all’acquisizione delle intercettazioni al fascicolo delle indagini (art. 373 comma 5 c.p.p.). A questo punto viene meno il segreto. Il materiale potrà essere integrato a richiesta del p.m. in seguito ad elementi sopravvenuti.
Con una precisione di cui va sottolineato il profondo significato le operazioni di acquisizione sono gestite dal giudice per le indagini preliminari che ha autorizzato, convalidato o prorogato le intercettazioni, vero garante di captazione e conseguentemente conoscitore delle tematiche oggetto delle indagini.
In tal modo, il percorso delineato si configura – come anticipato – come sub specie di incidente probatorio.
Una disciplina specifica, stante le esigenze a sottesa e la conseguente esternazione delle intercettazioni è (era) prevista con le modifiche introdotte agli artt. 291, 292 e 293 c.p.p.
3. L’attuale stato della disciplina.
Il differimento della riforma, attuata come detto, con il d.l. n. 91 del 2018 impone di considerare l’attuale stato della disciplina delle intercettazioni.
Con il cit. d.l. n. 91 si è ora, infatti, disposto che all’art. 9 cit. le parole “dopo il centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto” sono sostituite da “dopo il 31 marzo 2019”.
Il tempo del differimento – nelle intenzioni del Governo – si è reso necessario – come anticipato – per l’intendimento dell’Esecutivo di rivisitare la materia soprattutto perché ritenuta troppo vincolante per una completa informazione sulle indagini.
Nel frattempo il Ministro aveva già provveduto a dare attuazione ad alcune disposizioni del d.lgs. n. 216 (Decreto ministeriale 20 aprile 2018). Come è emerso dalle previsioni richiamate, nessun differimento era previsto per l’art. 6 del citato d.lgs. che conseguentemente sono diventate efficaci con l’entrata in vigore del d.lgs.
La previsione – al comma 1 – riguarda i procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (determinata ai sensi dell’art. 4 c.p.p.) per i quali sono estese le disposizioni dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991 come nella l. n. 203 del 1991, cioè, quella prevista per le intercettazioni per i reati di criminalità organizzata, sia con riferimento ai presupposti, sia in relazione alla durata dell’attività di intercettazione.
Con il comma 2 del cit. art. 6 si dispone che l’intercettazione di comunicazione tra presenti nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p. non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa. Si tratta dell’elemento che differenzia l’uso del captatore per questi reati rispetto a quelli di criminalità organizzata.
Deve pertanto ritenersi che mentre il d.l. n. 91 ha differito la disciplina delle intercettazioni anche in relazione a quanto diversamente previsto dal d.lgs. n. 216 cit. in relazione all’uso del captatore informatico, non ha toccato quella di cui al citato art. 6 relativamente ai reati contro la p.a., nei due profili considerati ai commi 1 e 2.
Resta, pertanto, ferma l’attuale disciplina delle intercettazioni regolate dal codice e dalla legge speciale per i reati di criminalità organizzata ed ora anche per i reati dei pubblici ufficiali contro la p.a.; quanto all’uso del captatore informatico questo strumento potrà essere usato sia in alternativa allo strumento ordinario per i reati di cui all’art. 266 c.p.p., sia nei termini indicati per la criminalità organizzata della sentenza Scurato delle Sezioni Unite e per i reati dei pubblici ufficiali contro la p.a. anche nei luoghi di privata dimora se ivi sia in corso l’attività criminosa. Sotto quest’ultimo profilo, va evidenziato che mentre l’ipotizzata modifica fa riferimento ai reati di cui all’art. 51 comma 3 bis e comma 3 quater c.p.p., le Sezioni Unite Scurato, recependo le indicazioni delle Sezioni Unite Petrarca del 22.3.2005, allargano il raggio di operatività della previsione.
Restano naturalmente aperte tutte le questioni attinenti all’uso del captatore in relazione alla molteplicità e flessibilità delle sue funzioni, sia in reazione alla sua collocazione sistematica, nel panorama delle prove, sia con riferimento alla sua disciplina ed alle garanzie conseguenti. Peraltro, di questo profilo, la riforma non si era occupata lasciando alla giurisprudenza la soluzione dei relativi risvolti processuali, connessi alle modalità e soprattutto alle garanzie.
Non è ancora scaduto il termine di dodici mesi per dare efficacia alla nuova disciplina della pubblicazione delle ordinanze cautelari di cui al citato art. 2, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 216 cit., dove si prevede una modifica del cpv dell’art. 124), essendo il d.l. n. 91 intervenuto solo sull’art. 9, comma 1, del cit. d.lgs. n. 216.
[...resto convinta che il lavoro in Cassazione sia il più bello che un magistrato possa svolgere. La funzione nomofilattica che la legge assegna alla Corte, e che la Corte cerca con affanno di espletare, affida al giudice di legittimità con sempre maggiore frequenza la ricerca di nuove frontiere interpretative, imponendogli di misurarsi con i profondi cambiamenti nella società e nel sentire collettivo, con i progressi della ricerca scientifica, con le sfide della globalizzazione.
M.G.Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016, 66]
Sommario
1. Cos’è e cosa fa, oggi, la Corte di Cassazione. 2. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità. 3. Alla ricerca di una simbiosi fra giudici di merito e Corte di Cassazione.
1. Cos’è e cosa fa, oggi, la Corte di Cassazione.
Mi è stata sollecitata un riflessione sulla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, con particolare riferimento al settore civile.
Non mi sento affatto legittimato ad offrire punti di riferimento validi in senso oggettivo rispetto al tema appartenendo, peraltro, ad una generazione di magistrati che è approdata in Corte da un tempo non particolarmente lungo, anche se dopo avere svolto, ininterrottamente, le funzioni di merito per vent’anni.
Esperienza che si è misurata con una progressiva apertura della Corte di Cassazione verso sempre più pressanti occasioni di confronto, non sempre indolori, con altre Corti, nazionali e sovranazionali, capaci di cambiarne il volto a legge invariata, visto che essa è pur sempre tenuta ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, insieme all’unità del diritto oggettivo nazionale – così recita testualmente l’art.65 del R.D.30.1.1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario – ma anche il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni – ed a tutti gli altri compiti affidati dallo stesso art.65 e dalla legge.
Giudice di ultima istanza chiamato, dunque, a dovere curare e gestire i rapporti con il suo ordinario interlocutore, il giudice di merito appunto, ma che è sempre più assillato dal trovarsi all’interno di quel circuito di Corti nelle quali ‘inventa’ il diritto vivente, per dirla con Paolo Grossi[1].
Cassazione che, proprio per l’esistenza di sistemi normativi che si affiancano a quello interno è posta, addirittura, in una posizione tale da potere essere bypassata o sconfessata dal giudice di merito, divenendo essa stessa ‘controllata’ da quel giudice di merito che, soggetto anch’egli soltanto alla legge (art.101 Cost.), reputa, addirittura anche in sede di rinvio ed al cospetto del principio di diritto fissato dalla Corte (art.384 c.2 c.p.c.) di non doversi allo stesso conformare, magari attingendo alle giurisprudenze sovranazionali che a tanto sembrerebbero abilitarlo, per disapplicare la legge contrastante con il diritto UE[2] o per rivolgersi alla Corte di giustizia al fine di sollecitare un’interpretazione ‘contro’ il principio fissato dalla Cassazione in sede di rinvio. È, d’altra parte, noto che non vige il principio del precedente vincolante, sicché qualunque giudice di merito può motivatamente discostarsi dall’orientamento espresso dalla Carte di legittimità, contribuendo a quel dinamismo interpretativo ed a quei mutamenti giurisprudenziali che, purché frutto di consapevole e ragionato dissenso, costituiscono sempre e comunque linfa vitale del nostro sistema[3]
Dunque una Cassazione civile per certi versi vulnerabile e, per altri, vocata al dialogo[4] interno –“blindato” fra singole Sezioni e le Sezioni Unite per effetto dell’art.374 c.p.c. – ed esterno con la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia – obbligata per come è al rinvio pregiudiziale ex art.267 TFUE in assenza dell’atto chiaro – e presto legittimata a richiedere pareri non vincolanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo – appena sarà reso esecutivo in Italia il Protocollo n.16 annesso alla CEDU, già operativo in dieci Paesi del Consiglio d’Europa –[5].
Il mutare delle coordinate rappresentato dall’avvento del diritto di matrice sovranazionale – diritto UE, CEDU, trattati internazionali che riconoscono diritti fondamentali, in relazione a quanto previsto dall’art.117, 1^ comma, Cost. – rende così viepiù evidente il cambio di prospettiva della funzione nomofilattica e, in definitiva la mutazione genetica della Corte di Cassazione, ormai "giuridicamente obbligata" a garantire – anche – l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU e delle altre Carta dei diritti fondamentali.
In questa prospettiva abbiamo già proposto alcune riflessioni sui temi della metamorfosi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e della c.d. nomofilachia europea alle quali qui è sufficiente rinviare[6].
Una Corte di legittimità, per altro verso, capace anche di essere contromaggioritaria quando fronteggia, con le sue poliedriche professionalità, le più spinose questioni biogiuridiche, sull’immigrazione e sulle persone, compone i contrasti fra i diversi sistemi normativi in materia commerciale e sanzionatoria, alimenta e aggiorna il sistema della responsabilità civile, tenta di governare il magmatico subcontinente del diritto tributario con gli enormi flussi di denaro che ivi scorrono – non paragonabili a nessun’altro contenzioso pendente innanzi al giudice di legittimità – e contribuisce a fissare periodicamente il catalogo dei diritti e dei doveri nel complesso e cangiante mondo del lavoro. Una Corte che, spesso, anticipa le linee della futura legislazione, essendo chiamata a risolvere casi non solo prima inesplorati, ma anche gravidi di sempre nuove istanze dei cittadini. Non è, dunque, un caso che l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale non manchi di sottolineare apertamente il processo di normativizzazione della giurisprudenza resa dalla Cassazione sul caso Englaro che ha condotto all’adozione della legge 22 dicembre 2017, n. 219.
Tutto ciò essa fa al servizio di plurime funzioni che ne atteggiano il tratto, al contempo, di giudice controllore rispetto al merito – ma non sempre, per quanto detto appena sopra – e giudice controllato rispetto alle altre giurisdizioni nazionali – Corte costituzionale – e sovranazionali – Corte europea dei diritti dell’uomo e, per con tratti diversi, ma non troppo, Corte di Giustizia dell’UE–[7].
Una Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, ancora, può svegliarsi, una mattina, ed apprendere dal giudice costituzionale che essa ha errato nell’individuazione del concetto di giurisdizione dinamica tratteggiato, negli anni, per garantire la massima e piena tutela dei diritti, al punto da originare un’interpretazione della Costituzione contra constitutionem – Corte cost.n.6/2018 –.
A quella stessa Corte di legittimità può anche accadere di scoprire, improvvisamente, un innovativo indirizzo interpretativo della Corte costituzionale che, a distanza di dieci anni dalla piena vincolatività della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha mostrato di non gradire la disapplicazione da parte del giudice comune – di merito e di legittimità – della norma interna contrastante con la Carta – in quanto sovrapponibile alla Costituzione– dovendosi prediligere il controllo accentrato della Corte costituzionale, piaccia o non piaccia alla Corte di giustizia, come sembra suggerire, in modo non tanto felpato, l’obiter – in attesa di ulteriori precisazioni – espresso da Corte cost.n.269/2017.
Una Corte di Cassazione che, dunque, fronteggia diverse criticità, alle quali si aggiungono quelle che la vedono come gradino ultimo, oltrepassato il quale si aprono, a favore di chi assume di avere subito un torto dall’istanza giudiziaria, le porte della giurisdizione di Strasburgo. Ciò che determinerà, in caso di condanna della Stato italiano per una violazione convenzionale, il compito di affrontare complessi problemi, chiamando la Corte di legittimità, in fase di ritorno, a verificare quali effetti potrebbero o dovrebbero prodursi in esito alla condanna pronunziata a Strasburgo sul giudicato nazionale ‘corrotto’, per effetto della pronunzia della Corte edu[8].
Ambiti vissuti per lunghi anni dalla stessa Corte con atteggiamenti a volte di indolenza e indifferenza, altre di più o meno manifestato svilimento delle istanze giurisdizionali sovranazionali, ritenute non adeguate a fronteggiare il diritto interno e la ‘grandezza’ della Corte di Cassazione e, altre ancora, con atteggiamenti di supina osservanza o ‘deificazione’ – secondo taluni – delle stesse istanze giudiziarie sovranazionali.
Non meno delicato il fronte aperto sul ruolo della Cassazione rispetto al tema dell’interpretazione del diritto.
Ancora, una Corte che, a volte, sembra supplire all’inerzia del legislatore richiamandosi al principialismo[9] ed alla duttilità strutturale dei suoi canoni, visti da taluni come attività di vera e propria usurpazione di poteri camuffata da interpretazioni ardite che mascherano vere e proprie attività di produzione legislativa e, da altri, come fulgida espressione di una giurisdizione dinamica, indirizzata ad un’opera di ‘creazione’ rivolta ad attuare in modo pieno la Costituzione e le Carte dei diritti internazionali con i diritti che lì vengono riconosciuti e protesa verso un ideale di massimizzazione delle tutele.
Insomma, una Corte di Cassazione vista, in questa prospettiva, come giudice “garante di diritti a protezione multilivello”[10] ed ultimo avamposto della giurisdizione interna, capace di assumersi le responsabilità che, per funzione, ad essa competono rispetto alla tutela dei diritti.
Una Corte di legittimità che, benché ciò sfugga spesso all’analisi corrente che si fa attorno alla giurisdizione di legittimità, come qualunque altro giudice, è chiamata a misurarsi con i temi dell’arretrato, dei flussi, della produttività, del poco gestibile numero di sentenze e del loro parimenti complesso modo di atteggiarsi quali ‘precedenti vincolanti’. Cassazione alla quale sono chiesti standard lavorativi costantemente in crescita che fanno impallidire – e forse inorridire – qualunque altra Corte suprema occidentale e che, è ormai comune opinione di molti, rendono meno autorevole il ruolo del giudice di ultima istanza – se si vuole continuare a chiamarlo così, pur con le precisazioni appena svolte – appannando la funzione nomofilattica stessa che ad esso appartiene.
2. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità.
Queste dunque, elencate sicuramente per difetto e con una certa approssimazione, appaiono essere alcune delle peculiarità del mestiere del giudice di legittimità[11], per effetto delle quali chi vi opera, almeno i più coscienziosi, ha ormai perso completamente la velleità di sentirsi “organo supremo della giustizia” come pure ancora recita l’art.65 cit. invece maturando, progressivamente, un habitus di vero e proprio crocevia di pulsioni centrifughe e centripete assai difficili da gestire e controllare.
Vi è, almeno a mia personale opinione, un’idea sempre più diffusa, anche se a volte non esternata o altre volte ancora palesata in modo scomposto, che la Corte di Cassazione finisca spesso col porsi in stridente contrasto con chi opera quale giudice del merito compromettendone, a volte con superficialità, l’operato, mandando in fumo processi condotti con fatica e abnegazione, con decisioni ammantate di formalismo e poco persuasive. Un giudice, in definitiva, distante da chi si sporca le mani e maneggia le pulsioni che nel merito si vivono in presa diretta, in vivo, e non in vitro.
Tensioni che si sono materializzate, di recente, con la richiesta di modificare il sistema di accesso alla Corte proposta dai consiglieri di Area sulla base di un’indicazione contenuta nel programma presentato all’atto delle elezioni dei nuovi membri del CSM, quasi a volere individuare un diretto collegamento fra le qualità degli ultimi arrivati – a giudizio di taluni non adeguatamente ponderate o comunque frutto di meccanismi capaci di ipervalorizzare elementi (produzione scientifica, esperienze extragiudiziarie di vario tipo) a scapito di chi ha lavorato con fatica nella giurisdizione – e i risultati non sempre commendevoli espressi dal giudice di legittimità.
Un convincimento che, d’altra parte, sembra innervato dall’idea che l’attuale assetto del reclutamento, troppo incline al correntismo e malamente mascherato da istanze meritocratiche, finisca col favorire nell’accesso i giudici di primo grado, non invogliandoli affatto a svolgere un’esperienza in grado di appello per la quale non viene, ad oggi, riconosciuto alcun vantaggio – in termini di accesso alla Corte – e che invece, andrebbe considerata come fisiologicamente necessaria per svolgere al meglio le funzioni di legittimità – e perciò stesso in qualche modo premiata –, proprio per essere le Corti di appello il fisiologico interlocutore del giudice di ultima istanza.
3. Alla ricerca di una simbiosi fra giudici di merito e Corte di Cassazione
A mia opinione l’attivismo che ha caratterizzato il mondo giudiziario e la Corte di legittimità, sia pure in maniera zigzagante, nel corso degli ultimi anni, al netto di possibili esasperazioni che pure potranno esserci state, spesso dipese dal recepimento di input provenienti dalle Corti sovranazionali di Lussemburgo e Strasburgo e da innegabili vuoti normativi, ben lungi dall’essere espressione di arretramento culturale, contribuisce ad inverare le democrazie occidentali dei nostri tempi, al contempo individuando alcuni canoni fondativi imprescindibili, per l’appunto rappresentati dal rispetto della dignità umana, nella sua proteiforme dimensione, e dei diritti fondamentali della persona. Un percorso che non solo non può essere interrotto, ma che deve essere continuamente implementato ed arricchito.
Come che sia, si fa in ogni caso strada la consapevolezza che l’idea del giudice nazionale di vertice come portatore e dispensatore di “certezze cristallizzate” risulta inadeguata.
Si delinea infatti, con tratti marcati, un’immagine della giurisdizione nazionale di ultima istanza costantemente in progress proprio perché chiamata, fuori da una dimensione museale, a misurarsi e prim’ancora a dialogare, in un ciclo continuo e mai conchiuso, con le altre Corti – nazionali e sovranazionali-[12], contribuendo ad un’evoluzione sempre più incessante dei diritti, i quali tendono costantemente e continuamente a favorire nuove forme di bilanciamento fra diritto vigente e diritto vivente.
Facile, a questo punto, fermarsi alla critica che intravede in questa Corte una fucina di incertezze, a fronte del perseguimento della certezza del diritto classicamente intesa.
Ma altrettanto agevole è rispondere ad essa riflettendo sul fatto che la certezza, se calibrata sull’appiattimento del diritto visto in dimensione formalistica e statica, finisce con l’essere certezza del nulla, come ha finemente riconosciuto Lipari[13].
Ora, non è qui il caso di fermarsi sui singoli problemi, né sul nodo del reclutamento in Corte – rispetto al quale non mi riconosco affatto, per quel nulla che vale e per ragioni che qui non occorre esporre, nell’idea di attribuire un punteggio aggiuntivo a chi ha esercitato funzioni di appello, semmai ritenendo che la valorizzazione ed il rafforzamento della Commissione tecnica potrebbe essere l’unico antidoto alle carriere comandate –.
Preme, invece, sottolineare che quelle tensioni, quelle pulsioni, quelle contraddizioni, quei nodi irrisolti che si è cercato di rappresentate qui sinteticamente altro non sono – recte, devono essere – che le ansie di qualunque giudice, di merito o di legittimità.
Un giudice che, per dirla ancora con Lipari, dovrebbe essere sempre e comunque animato da un sentire che si tinteggia con espressioni che egli usa come trincea, coraggio, paura, complesso, delicato.
Si tratta di uno scenario rispetto al quale il giudice – soprattutto di merito –, si trova per l’un verso tutto a contatto con i fatti che, nella loro innata diversità e nella loro carnalità – per usare un’espressione cara a Paolo Grossi[14]– vengono portati al suo cospetto e, per l’altro, viene chiamato a maneggiare Costituzioni, Carte sovranazionali, pronunzie delle Corti (nazionali e non), fonti, giuridiche e non – soft law –.
Stento, quindi, a trovare su questi temi delle diversità di sostanza fra la posizione del giudice, sia esso di legittimità o di merito.
Entrambi sono quotidianamente posti di fronte a numerosi interrogativi. Farsi interprete rigoroso della lettera della legge senza tralasciare l’intenzione del legislatore e dunque muoversi negli angusti spazi dell’art.12 delle preleggi ovvero ricercare il senso complessivo che dalla stessa disposizione promana? Dare prioritario ed assoluto respiro, nell’interpretazione della legge, al canone costituzionale che tutto sovrasta ovvero modularne il significato alla luce delle spinte provenienti dalle Corti sovranazionali e/o dalle Corti straniere che in esso si posizionano giocando alla pari con la Costituzione? Essere artefice e difensore di una legalità legale o garante di una legalità giusta o giudiziale[15] e, per ciò stesso, orientata alla piena tutela dei diritti fondamentali anche quando in apparenza il legislatore è silente o, peggio legifera travolgendo i diritti magari delle persone più vulnerabili? Parametrare, fuori dalle lusinghe offerte dall’essere arbitro di una controversia destinata a produrre ripercussioni che vanno ben oltre la specificità del caso, la tutela a quel livello che la maggioranza del corpo sociale avverte comunemente come giusta o comunque identitaria, ovvero garantire, comunque e sempre, protezione ad una minoranza portatrice di diritti ancora non uniformemente riconosciuti, ma non per questo non meritevoli di protezione e, anzi, per questo stesso motivo bisognosi di quelle tutele rafforzate che meritano i più vulnerabili? Accostarsi, ancora, ad un esercizio della giurisdizione che riporti i principi – siano essi di matrice costituzionale e sovranazionale – nel campo dei comandi espressi dalla legge ovvero porre l’asticella sulla valenza generale del principio, capace per la sua naturale elasticità di porre sotto il suo ombrello ipotesi che non risultano magari espressamente contemplate dal quadro giuridico espresso dal legislatore?
Sfido qualunque giudice preparato ed intellettualmente onesto a mettere in discussione l’idea che i temi testé enunciati si pongano soltanto per i consiglieri della Corte di legittimità e non per i giudici di merito.
Si tratta, del resto, di nodi problematici sui quali le opinioni e le prospettive sono fortemente contrastanti anche all’interno della giurisdizione[16] e che alimentano, pertanto, modi di esercitare le funzioni giudiziarie profondamente diversi, tanto nel merito che in sede di legittimità.
A mia opinione, allora, non è tanto importante dare o trovare una soluzione fissa e preconfezionata alle questioni, quanto favorire l’idea che tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni, partecipino attivamente, senza scale gerarchiche e senza gradini, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti, rispetto alla quale è vitale recuperare un’unità di intenti fra merito e legittimità, favorendo le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, alimentando le occasioni di formazione comune, allentando le tensioni che un deficit di conoscenza delle dinamiche interne alla Corte può in qualche modo favorire, ponendo, infine, a beneficio di tutti i giudici strumenti di conoscenza e iniziative che possano andare a beneficio dell’intera giurisdizione.
Cosa, però, può davvero minare la prospettiva che si è qui accennata.
A mio giudizio si tratta di due fattori, incidenti tanto sulla giurisdizione di legittimità che su quella di merito.
Per un verso, la produzione elefantiaca della giurisprudenza di legittimità reca inevitabilmente un decadimento delle motivazioni del giudice di legittimità, minandone la credibilità.
In dottrina, Davide Galliani ha di recente iniziato una riflessione approfondita sul ruolo della motivazione che si attaglia in modo particolare alla figura del giudice di legittimità[17]. Analisi approfondita e complessa che, condivisibile o meno che sia, coglie la crisi in cui versa il principale strumento operativo nelle mani del giudice e, dunque, l’aspetto più qualificante della sua funzione sulla quale, come piace dire ai più colti, si costruisce tanto lo ius litigatoris ma anche lo ius constitutionis. Di guisa che la necessità di motivazioni adeguate alla causa trattata non è esigenza che riguarda tanto e solo il giudice di legittimità, ma a, monte, l’intero sistema giudiziario, potendosi agevolmente preconizzare che ad una crescente richiesta di maggiore produttività non potrà che seguire uno scadimento ulteriore del prodotto e dunque della giustizia.
Per altro verso, il peso del contenzioso ed i numeri che spesso aggravano i giudici di merito costituiscono la migliore giustificazione per ritenere che quello della Cassazione sia, spesso, un ‘volare alto’ che poco consideri, appunto, il lavoro sporco e quotidiano del giudice di merito e, a volte, l’impossibilità oggettiva, in relazione al fattore tempo, di misurarsi, magari pur volendolo, con ciò che si avverte essere mera speculazione astratta, sulla quale prevale il peso delle carte, dei ruoli, dei capi che stringono sui tempi di deposito, che assillano con il pericolo dei ritardi e dei conseguenti procedimenti disciplinari e della incombente Legge Pinto.
Insomma, un pensare alto che allontana quasi ineluttabilmente il merito dalla legittimità e si scontra con una realtà bassa, nella quale il bilanciamento che ciascuno deve operare, per tentare almeno la sopravvivenza, tende ad orientarsi verso l’esercizio di una giurisdizione meno cervellotica e più celere, senza porsi grandi problemi.
Sono convinto che i capi degli Uffici – e non solo quelli che operano nella giurisdizione di merito – hanno spesso dovuto prediligere una logica diversa da quella che qui si è prefigurata alimentando, magari sulla spinta di pressioni provenienti da diversi ambienti, una ‘cultura’ che non è in sintonia con quanto si è qui provato a rappresentare.
Sarebbe dunque illusorio pensare che il “volare alto” della Corte di Cassazione, nel senso in verità problematico che si è qui cercato di rappresentare, possa o debba rimanere nel compartimento stagno di quel giudice che, per posizione, è chiamato a controllare l’operato del giudice di merito ed a fornire la risposta (quasi) definitiva al processo.
Potrebbe dunque essere utile e fecondo ispirarsi ad un’idea di giurisdizione capace di favorire il massimo travaso di esperienze tra merito e legittimità, muovendo da dinamiche scevre da logiche di sovraordinazione ed invece orientate ad affermare, all’interno di una comune cultura dei diritti fondamentali, la centralità della persona, cittadino e non e con essa, della funzione giudiziaria per la democrazia del Paese.
In questa prospettiva, la creazione di più stringenti canali di collegamento fra legittimità e merito, magari valorizzando al meglio le strutture che in atto già esistono in Corte, come anche il travaso diretto delle esperienze lavorative, realizzato anche attraverso i meccanismi già previsti a livello ordinamentale – ricorso nell’interesse della legge del Procuratore generale, affermazione del principio di diritto nei ricorsi inammissibili (art.373 c.p.c.) – potrebbero favorire quella “contaminazione tra i gradi della giurisdizione” di cui ha parlato, con la sua consueta profondità e finezza, Guido Cataldi poco tempo addietro[18], tutta indirizzata ad allontanare da sé il vizio peggiore del giurista, la pigrizia[19].
Ciò consentirebbe di fare conoscere più in profondità le dinamiche del lavoro del consigliere di Corte e di fare emergere meglio le criticità evidenziate dai giudici di merito rispetto alle decisioni della Cassazione[20] o anche l’autoreferenzialità che viene avvertita come dato non rispondente a ciò che serve al giudice di merito[21], così venendo incontro all’esigenza del merito di avere fissati dei punti saldi da parte del giudice di legittimità in materie particolarmente delicate[22] e, al contempo, allentare il peso dell’arretrato.
Una Corte, quella di Cassazione, che non va, in definitiva, in cerca di salvacondotti ma alla quale, nemmeno, può essere negato il ruolo – che essa non intende in alcun modo abdicare – di crocevia del diritto nazionale e sovranazionale, giocato in modo relazionale con le altre giurisdizioni superiori e purché essa riesca a mettersi al servizio dei suoi destinatari e dell’intera giurisdizione nazionale in modo efficace e lineare, pur nella complessità dei tempi moderni.
[1] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma 2017, 82 e 115.
[2] V. Corte Giust. 5 ottobre 2010, causa C–173/09, Elchinov, secondo la quale il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale, al quale spetti decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore adito in sede d’impugnazione, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale di procedura, da valutazioni formulate in diritto dall’istanza superiore qualora esso ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte, che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione. In altre parole, secondo la Corte di Lussemburgo, il giudice nazionale che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione, potendo all’occorrenza disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. V. altresì, Corte giust. 15 gennaio 2013, causa C–416/10, Križan, ove si è addirittura ritenuto che il giudice del rinvio al quale sia stato rimessa dal giudice di ultima istanza la decisione sulla base di un principio di diritto confliggente con il diritto UE, non è vincolato a detto principio, ma è a sua volta legittimato a prospettare un nuovo rinvio pregiudiziale per avere l’interpretazione del diritto UE sul quale esistono sei dubbi.
[3] Cfr. R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in http://www.giurcost.org/studi/conti5.pdf.
[4] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, appena pubblicata, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltreoceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[5] V., ancora, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in http://www.giurcost.org/studi/conti2.pdf.
[6] V., volendo, R. Conti R., Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, Relazione al Convegno sul tema "Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme Nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo" – 23 e 29 ottobre 2014–, organizzato presso la Corte di Cassazione dalle Strutture territoriali di formazione decentrata della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Roma, in www.cortedicassazione.it.; Id., La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in www.questionegiustizia.com.; A. Barone, The european « nomofilachia » network, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., fasc.2, 2013, pag. 351.
[7] I tratti, a volte accidentati, di questo cammino della Corte di Cassazione sono stati esteriorizzati in maniera brillante da A. Cosentino, Il dialogo fra le Corti e le sorti (sembra non magnifiche, né progressive) dell’integrazione europea; in www.questionegiustizia.com.
[8] Questione, quella accennata nel testo, che evoca il tema, diverso rispetto alla c.d. efficacia di cosa giudicata della sentenza di Strasburgo, teso a comprendere in che misura un precedente della Corte edu possa determinare un revirement rispetto a precedenti indirizzi interpretativi interni – c.d. efficacia di cosa interpretata delle sentenze della Corte edu –.
[9] Sui tormentati rapporti fra giudice e legislatore v., per tutti, R. Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e motivazione, in Libro dell’anno del diritto 2012, spec. par.2.1, in www.treccani.it. e in più scritti, A. Ruggeri, «Non gli è lecito separarmi da ciò che è mio»: riflessioni sulla maternità surrogata alla luce della rivendicazione di Antigone, in “itinerari” di una ricerca, sul sistema delle fonti, XXI, Torino 2018, 101 ss.
V., volendo, R. Conti, Leggendo l’ultimo Lipari, in www.questionegiustizia.com
[10] M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016,139.
[11] Per un’analisi approfondita del ruolo del giudice di legittimità, v., di recente, L. Tria, La funzione di nomofilachia della Corte di cassazione alla luce dei principi del giusto processo di derivazione europea nonché del principio costituzionale di razionalità-equità, in www.europeanrights.eu. V., altresì, A. Valitutti, Il valore vincolante del precedente di legittimità. La Corte di Cassazione tra nomofilachia e nomopoietica, in http://www.lanuovaproceduracivile.com/valitutti-il-valore-vincolante-del-precedente-di-legittimita-la-corte-di-cassazione-tra-nomofilachia-e-nomopoietica/
[12] La nostra Corte di Cassazione è stata la seconda in Europa a stilare un protocollo di dialogo con la Corte edu che si è rivelato assai fruttuoso, coinvolgendo tutte le sezioni, civili e penali, all’interno del Gruppo di attuazione appositamente creato per favorire sia la diffusione della giurisprudenza sovranazionale, che la conoscenza delle tecniche di decisione della Corte edu e delle pronunzie interne che alla stessa fanno riferimento. V., sul punto, A. Di Stasi, Corte di Cassazione e Corti europee, in I processi civili in Cassazione, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano 2018, 248 ss.
[13] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 184.
[14] P. Grossi, Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio(una pos–fazione), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2010, 473; id., Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, Napoli, 2007, p.73.
[15] V., in modo più ampio su tale dicotomia (apparente), A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali e conflitti tra identità costituzionali (traendo spunto dal caso Taricco), in www.penalecontemporaneo.it, 14. Per un ulteriore completamento delle riflessioni espresse nel testo sia consentito il rinvio a R. Conti, Alla ricerca degli anelli di una catena, in http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2015n15–1/0000DQsommario.pdf
[16] E che sul tema vi siano diversità di vedute marcate anche nel mondo giudiziario pare dimostrato dall’esistenza di voci fortemente dissonanti sui temi qui in discussione. V., ad es., G. Cricenti, I giudici e la bioetica. Casi e questioni, 16 ss. che si colloca lontano dal principialismo, come anche L. Cavallaro, La memoria e il desiderio, in www.questionegiustizia.it. e, dello stesso Autore, Il diritto civile tra legge e giudizio. Note in margine a un libro di Nicolò Lipari, in www.giustiziaonline.com, 30 aprile 2018. Invece, favorevoli ad una visione più aperta del diritto mediante operazioni di bilanciamento che coinvolgono i diritti fondamentali e della loro influenza sul processo di interpretazione E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in www.questionegiustizia.com, e M. Fresa, I diritti civili e i doveri del giudice, 3 settembre 2014, La Repubblica.
[17] D. Galliani, Il senso dell’obbligo costituzionale di motivazione, anche rinforzata, nel paper gentilmente concesso in visione dall’Autore, in corso di pubblicazione.
[18] G. Cataldi, Ruolo e funzione della Corte di cassazione: il punto di vista del giudice d’appello, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[19] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., 103.
[20] L. de Ruggiero, Cosa si aspettano i giudici di merito dalla Cassazione: i “precedenti” e il controllo della motivazione, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[21]B. Rizzardi, Il giudice di merito e la Corte di cassazione: alla ricerca della nomofilachia perduta, in www.questionegiustizia.com., f.n.3/2017.
[22] Sulla solitudine del giudice di merito in relazione a materie sensibili insiste, opportunamente, M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, cit., 67.
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