ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
«Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra...» (K. R. Popper, La società aperta ed i suoi nemici, 1945)
La società aperta ed il diritto penale del popolo: il tema cruciale delle intercettazioni tra sicurezza sociale e libertà individuale di Cataldo Intrieri
Sommario: 1.Introduzione. 2.L’evoluzione scientifica e le incerte regole di legge. 3.L’agente provocatore e le conversazioni tra presenti: l’evoluzione del concetto di privata dimora secondo la giurisprudenza delle Corti.
1. Introduzione.
La vicenda della riforma Orlando sulle intercettazioni è emblematica dello stato di confusione in cui versa il settore Giustizia, tra ritardi, improvvisazioni e strumentalizzazioni politiche ma è anche il terreno si cui si misurerà la tenuta democratica del sistema giudiziario e politico.
La situazione attuale è divenuta particolarmente complessa e merita qualche riflessione non solo di natuta tecnica per contribuire ad una maggiore chiarezza.
Partendo dall’analisi della situaziona attuale, ome noto, con il decreto “mille-proroghe” 2018 è stata ottimisticamente rinviata al 31 marzo 2019 l’entrata in vigore della più discussa delle riforme delle intercettazioni.
Una morte annunciata perché mai in passato vi era stata una cosi completa e condivisa disapprovazione da tutte le parti in causa, dai giornalisti, agli avvocati, agli studiosi , ai magistrati.
In particolare (e come noto), il punto dolente (non unico) della riforma voluta dal Guardasigilli Orlando concerneva la gestione delle intercettazioni, dalla selezione di quelle rilevanti alla custodia ed alla pubblicazione.
I motivi di tale diffusa avversione erano distinti: per i giornalisti, ad esempio la preoccupazione maggiore derivava dalla riduzione del materiale da cui poter trarre notizie, per gli avvocati l’impossibilità materiale di poter orientarsi nella sterminata quantità di captazioni, per i Pm la delega in bianco alla polizia giudiziaria sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, ma mai bocciatura fu più unanime.
Non sfuggiva a nessuno infatti il pericoloso sbilanciamento che la riformulazione dell’art. 268 c.p.p. avrebbe comportato spostando sugli organi investigativi di polizia la leva di comando dell’indagine.
Ovviamente si fa riferimento ad indagini complesse ed estese, che ormai secondo una prassi consolidata vedono il ruolo di sofisticate agenzie investigative di rilievo pari a quello degli organi giudiziari, se non, in alcuni casi preponderante. Si pensi ad esempio a quale possa essere il reale grado di autonomia nei procedimenti ad a istruiti presso procure medio-piccole dove il ricorso ai reparti specializzati è una necessità.
Più in generale l’esperienza insegna che i reparti investigativi nel corso degli anni hanno guadagnato un grande spazio di manovra nel corpo dell’indagine, quasi fatalmente verrebbe da dire perché le tecniche sempre più sofisticate delle intercettazioni richiedono competenze sempre più avanzate e specialistiche.
Dal punto di vista dei difensori l’evidente squilibrio di una non meditata (o forse fin troppo?) riforma si risolveva in un duplice danno: alla mancanza di un adeguato controllo dell’Autorità Giudiziaria su di una pervasiva indagine si aggiungeva la sostanziale impossibilità di sopperirvi con una effettiva completa conoscenza del materiale intercettato.
Secondo l’articolato, infatti, al difensore venivano concessi un massimo di venti giorni per ascoltare le captazioni, senza neanche avere la mappa dei brogliacci riassuntivi che lo potessero indirizzare in un oceano vocale sovente sterminato (i soli riassunti delle conversazioni di Mafia Capitale riempivano un file di circa 70 Giga).
In questa situazione già alterata veniva a porsi la decisione del legislatore per cui la polizia giudiziaria delegata all’ascolto non avrebbe avuto neanche più l’obbligo di annotare in modo riassuntivo le singole telefonate.
In buona sostanza veniva a crearsi una sorta di riserva probatoria privilegiata in favore di un soggetto che non riveste la qualità di parte, in danno dei titolari dei diritti processuali.
Lo scopo professato dal Legislatore era quello di porre fine all’immotivato pregiudizio del diritto alla riservatezza, un principio costituzionale e convenzionale, derivante dalla illegittima diffusione delle intercettazioni private (peraltro già vietata dall’art.114 c.p.p.).
Resta da chiedersi, ed in tal senso erano già stati preannunciati possibili incidenti di costituzionalità se il contemperamento del diritto di difesa e della riservatezza fosse sufficientemente equilibrato.
Per dirla con una autorevole fonte, «ci sono almeno quattro interessi costituzionalmente garantiti che devono essere messi in equilibrio. Primo: quello dello Stato di perseguire il reato. Secondo: il diritto di difesa. Terzo: il diritto di informazione e la libertà di critica. Quarto: quello alla privacy» (Dott. G. Pignatone Procuratore Capo della Repubblica del Tribunale di Roma).
A ben comprendere l’entità dei diritti in gioco ed i rischi gravissimi che alcuni di essi avrebbero corso (e correranno) vi è il pensiero del nuovo Ministro di Giustizia succeduto a proponente la legge che ha provveduto a differirne (al 31 Marzo 2019) e presumibilmente bloccarne definitivamente l’entrata in vigore.
Secondo Bonafede la riforma delle intercettazioni sarebbe stata una “legge bavaglio” per coprire scandali politici. Dalla natura dei contrasti è agevole desumere la strumentalizzazione del tema fatta dai diversi settori politici in funzione dei propri interessi e non per quelli dei cittadini.
Eppure va detto che una riforma sia pure “in house” era stata tentata da alcune Procure con l’emanazione di circolari finalizzate ad un attento controllo sulla effettiva rilevanza delle captazioni affidate però all’Autorità Giudiziaria e dunque con maggiori garanzie.
Va detto che anche nei modelli poi diffusi (oltre Roma, anche Napoli e Torino) permanevano gli stessi problemi e discrasie poi criticati dalla stessa magistratura nel progetto Orlando.
Un acuto osservatore della realtà giudiziaria ha efficacemente sintetizzato le varie caratteristiche.
«Sulle intercettazioni non rilevanti per le indagini, infatti, le circolari di Napoli e Roma contengono una precisa direttiva alla polizia giudiziaria, la quale non dovrà inserirle nei verbali delle operazioni (i cd. brogliacci) né nelle annotazioni di polizia giudiziaria. In caso di dubbio in merito alla rilevanza la polizia giudiziaria dovrà riferirne, con nota autonoma, al pubblico ministero, che darà disposizioni al riguardo. La circolare di Torino non contiene, invece, direttive per la polizia giudiziaria, e prevede che le intercettazioni ritenute non rilevanti per le indagini (e lesive della privacy) siano distrutte, su iniziativa del pubblico ministero, con la procedura di cui all’art. 269 c.p.p.. La prima soluzione, intervenendo, per così dire, a monte, ha il pregio di evitare che il contenuto di conversazioni non rilevanti per il processo sia inserito negli atti del procedimento e quindi riduce maggiormente il rischio di una loro diffusione. Ma paga il prezzo (in parte sempre inevitabile in questo campo) di affidare la selezione del materiale non rilevante alla polizia giudiziaria, con il rischio di pregiudicare la acquisizione di conversazioni utili alle indagini (o che si rivelino tali ex post). La soluzione torinese, al contrario, ha il pregio di garantire un maggiore controllo dell’ufficio di procura sul contenuto delle intercettazioni, ma paga il prezzo, oltre che di una procedura un po’ macchinosa, di non evitare l’inserimento nei brogliacci e nelle annotazioni di materiale non rilevante e potenzialmente lesivo della privacy» (G. Cascini ).
Esaminando le proposte si può ben vedere che esse erano state recepite, nelle linee essenziali nel disegno Orlando, ivi compresa la “delega” alla polizia giudiziaria sulla scelta delle intercettazioni.
Restava, invero, irrisolto il problema del divieto ai difensori di poter estrarre copia di tutti i file audio e non solo di quelli di cui si chiedeva la registrazione un’impostazione avallata da sentenze della Suprema Corte
« Ai difensori è riconosciuto il diritto di ottenere copia non di tutte le registrazioni, ma solo di quelle ritenute rilevanti per il giudizio e, in quanto tali, de/imitative del campo di confronto tra accusa e difesa. Questa speciale disciplina del subprocedimento ex art. 268 c.p.p. è fìnalizzata alla realizzazione del condivisibile equilibrio tra esigenze conoscitive della difesa, doverosamente informata dell'evoluzione del quadro indiziario, ed esigenze delle persone estranee alle indagini, che - coinvolte in conversazioni irrilevanti ai fini del decidere - doverosamente sono tutelate nel loro diritto alla riservatezza. Appare del tutto razionale affermare che questo contemperamento tra diritti fondamentali del nostro ordinamento, realizzato con la procedura in esame, non possa essere vanificato e svuotato di concreta vigenza, grazie al riconoscimento di una indiscriminata facoltà - concessa ai difensori, dopo gli adempimenti ex art. 415 bis c.p.p. - di ottenere copia integra/e di tutte le registrazioni.” (Cass., Sez. V pen., n. 4976 del 2010)
E’ del tutto evidente, però, il profondo ed immotivato disequilibrio che si è venuto a creare ( e che la novella differita ulteriormente aggrava) tra i poteri dell’accusa e le ridotte prerogative della difesa.
In una delle indagini più importanti degli ultimi anni resterà emblematica l’immagine di una conferenza stampa in cui il procuratore della repubblica legge alcune intercettazioni estremamente suggestive scelte fior da fiore, mentre alla difesa è stato negato di poter estrarre copie di centinaia di migliaia di registrazioni, costringendo i difensori ad accalcarsi nelle poche postazioni disponibili in angusti uffici della Procura. La stessa disagevole situazione si sarebbe riprodotta su scala più larga ove fosse passata la riforma Orlando.
A tale incongrua situazione si sarebbe aggiunta una radicata prassi ormai codificata dalla giurisprudenza che consente di potere disporre la perizia sulle intercettazioni a processo iniziato. È capitato nella realtà processuale di assistere ad una istruttoria dibattimentale svolta sulla lettura dei brogliacci della polizia giudiziaria in attesa dei verbali certificati dai periti.
Tempo verrà (ma è già in parte successo) che la perfezione di impianti di captazione sempre più sofisticati renderà sufficiente il semplice deposito delle intercettazioni facendo carico alle parti di richiedere eventualmente l’ascolto diretto in aula di quelle di cui riterranno insoddisfacente la trascrizione effettuata dalla polizia giudiziaria.
Un simile quadro da solo cristallizza la sproporzione di mezzi e di possibilità tra le parti e pone un preciso interrogativo in cui si cercherà di dare risposta in questo scritto: se tale diseguglianza non finisca di incidere non solo sulla equità del processo inteso come simmetria di posizioni tra le parti ma anche in relazione alla funzione di corretto accertamento della verità.
La bulimia probatoria rischia di ingozzare il dibattimento di materiale non sempre di prima qualità ma in eccesso con il rischio di una seria intossicazione e che come per la nota legge monetaria “la prova cattiva scaccia quella buona”.
2. L’evoluzione scientifica e le incerte regole di legge.
Il progresso scientifico costituisce una spinta evolutiva verso il miglioramento della condizione umana ma il cattivo e non correttamente regolamentato uso che si faccia di esso può costituire un serio pericolo. L’uomo oggi vive infinitamente meglio dei suoi avi, più a lungo, in condizioni di salute migliori, usufruendo di cure mediche avanzate e di alimentazione adeguata.
E’ però altrettanto innegabile che la scienza ha portato con sé aspetti assai meno positivi tra cui assume una particolare importanza l’inquinamento ambientale causato dalle esalazioni delle industrie che producono ciò che aiuta l’uomo a vivere meglio e più a lungo.
La nascita e lo sviluppo del web è stata la novità più rilevante dell’ultimo ventennio, esso ha permesso all’uomo di poter accedere ad un numero illimitato di contatti e di conoscenze tecniche ed umane.
Tuttavia e contrariamente a quanto ci si aspettasse la qualità della cultura non è migliorata, perché la quantità di informazioni ha sommerso gli utenti giungendo al paradossale effetto di impedire la distinzione tra buona e cattiva informazione.
Un fenomeno simile ha riguardato l’evoluzione delle tecniche scientifiche nel campo delle intercettazioni d cui una efficace descrizione si deve alle S.U. della Cassazione.
«La rivoluzione che ha trasformato la telefonia nel recente passato ha segnato, in estrema sintesi, il progressivo passaggio dalla trasmissione di segnali in maniera analogica a quella in forma digitale, trasformando il servizio telefonico in un sistema informatico o telematico. Di conseguenza è stato fatto progressivamente ricorso alla utilizzazione di sistemi di registrazione digitale computerizzata che hanno sostituito gli apparati meccanici. In definitiva si è assistito ad una profonda trasformazione della realtà presupposta dal legislatore del 1988. Da qualche anno infatti per la registrazione vengono utilizzati apparati multilinea (collegati ad un flusso di linee telefoniche) che registrano dati trasmessi in forma digitale e successivamente decodificati in file vocali immagazzinati in memorie informatiche centralizzate. I dati cosi memorizzati vengono poi di regola trasferiti su supporti informatici per renderli fruibili all'interno dei singoli procedimenti» (Cass., S.U., 23 settembre 2008, ud. 26.6.2008, n. 36359).
In soli dieci anni il progresso ha ulteriormente accelerato consentendo la “ripresa diretta” della vita delle persone sull’arco di 24 ore. Spostamenti, attività, incontri, l’intimità personale, tutto è monitorato e contro questa invasività non vi è difesa.
Il sistema più sofisticato ed avanzato è costituito dai cosiddetti “virus spia”meglio conosciuti come “Trojan”, strumenti che possono svolgere la loro attività di captazione dentro gli apparati di comunicazione Smartphone ed ogni tipo di device elettronico anche quando gli stessi sono fuori uso.
In sostanza la sorveglianza è illimitata senza confini di tempo e di luogo, e come detto efficacemente consentono «più che un potenziamento, un recupero dell’efficacia perduta o compromessa delle tecniche tradizionali» (Relazione alla Cass., S.U. della Procura Generale Cassazione-sentenza 28 Aprile 2016 n.26889).
Certamente i Trojan sono uno strumento di avanzata tecnologia ma anche estremamente invasivo «un congegno bulimico che permette di gestire, in un centro remoto di comando e controllo, la captazione – spegnendo e accedendo, all’occorrenza, microfono e webcam – e, dunque, di carpire immagini e suoni prelevandoli dal dispositivo bersaglio» (L. Palmieri, La nuova disciplina del captatore informatico tra esigenze investigative e salvaguardia dei diritti fondamentali Dalla sentenza “Scurato” alla riforma sulle intercettazioni, su DPC -Diritto Penale Contemporaneo, Rivista Trimestrale n. 1/18, pp. 59-66).
L’enorme potenzialità e l’estrema invasività di tali mezzi hanno suscitato come da attendersi un vivace dibattito sulla regolamentazione dell’uso dei captatori, soprattutto con riferimento al possibile impiego nei luoghi di privata dimora, oltre i limiti posti dal 2 comma dell’art. 266 c.p.p. con riferimento alle eccezioni poste dall’art.13 d.lgs. n. 152/91.
L’interprete delle Leggi, come spesso è capitato ha preceduto il pigro ed incerto legislatore affermando tre punti cruciali:
– «deve escludersi la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., con il mezzo indicato in precedenza, al di fuori della disciplina derogatoria per la criminalità organizzata di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p., che in detto luogo «si stia svolgendo l’attività criminosa»;
– «è invece consentita la captazione nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure se non singolarmente individuati e se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, secondo la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991»;
– «per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, commi 3bis e 3quater, c.p.p. nonché quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato». (Cass., S.U., 28 aprile 2016, n. 26889).
Echeggiano nella sentenza non condivisibili richiami a quella “giurisprudenza di scopo” che la Corte Costituzionale pone all’indice nell’ordinanza n. 24/17 come totalmente estranea al ruolo della Giurisdizione, ma va posto l’accento sul fatto che la Cassazione non trascura la tutela dei diritti della persona con un “obiter” significativo proprio alla luce del mancato varo della riforma Orlando.
“Per quel che riguarda l'eventualità che lo strumento captativo in argomento possa produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato - come opportunamente prospettato dai rappresentanti della Procura Generale nella memoria in atti - che si tratta di un pericolo che ben può essere neutralizzato con gli strumenti di cui dispone l'ordinamento; ad esempio «facendo discendere dal principio personalistico enunciato dall'art. 2 della Costituzione, e dalla tutela della dignità della persona che ne deriva, la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità». (cit.)
Un inciso volutamente schematico e generico ma che pone una sanzione di “inutilizzabilità” come rimedio all’invasività degli strumenti ed al loro uso improprio che leda dritti costituzionali, un tema su cui si ritornerà per le sue importanti prospettive.
Va detto che la sentenza Scurato ha suscitato notevoli perplessità in ordine al paventato pericolo di consolidate prassi di strumentale iscrizione per il delitto associativo per consentire l’uso del mezzo anche in casi in cui sarebbe vietato, una “bad practice” che tuttavia la stessa Cassazione con le sue pronunce ha avallato, ma nel complesso le SU hanno escluso un uso indiscriminato.
Con il d.lgs. n. 216/2017, il legislatore ha varato una specifica disciplina per l’uso dei Trojan e inopinatamente ha rotto gli argini posti dalle Sezioni Unite, (a riprova come certe volte sia più garantista l’interprete che il legislatore, anche se non sempre ciò viene apprezzato) rendendo possibile l’uso dei captatori in tutti i tipi di reato che ricadono nell’ambito della disciplina delle intercettazioni.
Il problema della violazione del diritto alla riservatezza ed alla tutela della vita familiare (art. 8 CEDU) viene flebilmente quanto elusivamente garantito da una generica indicazione contenuta nel comma 2bis dell’art. 268 ed all’obbligo ex art. 267 c.p.p. che grava sul Gip all’atto di autorizzare l’intercettazione dei “luoghi e tempo anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.
Chiunque abbia conoscenza dello strumento immagina benissimo il contenzioso che si sarebbe scatenato circa la esatta individuazione dei luoghi dove ascoltare. Il fatto è che a differenza delle telecamere, dei microfoni installati in luoghi statici oppure su automezzi, i captatori inseriti su devices come smartphone seguono il possessore ovunque ed in ogni singolo momento della sua giornata.
Come norma “di chiusura” avrebbe dovuto esservi l’art. 268 comma 2bis c.p.p. che fa carico al Pm di individuare e vietare la trascrizione “delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle, parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge” per limitare ad indicare “soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta”.
Meglio avrebbe fatto il legislatore a seguire fedelmente le orme della nomofilachia che avendo delimitato ai reati di criminalità organizzata il campo di applicazione degli strumenti investigativi, senza limiti di localizzazione, agevolando così di molto il lavoro degli investigatori ed ancor più quello degli interpreti. Così non è stato e dunque provvidenziale, sotto questo profilo, è stata la proroga disposta dal nuovo governo.
Ma nulla è mai semplice, ed a mantenere un sufficiente clima di confusione è rimasta come eccezione la disciplina nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, che consente le intercettazioni secondo la disciplina speciale di cui all’art. 13 d.l. n. 152/1991 in tema di criminalità organizzata
L’unica norma che entra in vigore, dunque, è quella che “allarga” i presupposti dell’intercettazione. Infatti per molti delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione l’autorizzazione ad eseguire intercettazioni viene concessa allorché le stesse appaiano «necessarie» (anziché «indispensabili») in presenza di «sufficienti» (e non «gravi») indizi di reato, per «lo svolgimento delle indagini» (e non per «la prosecuzione»).
Non solo ma anche è previsto un termine di durata delle operazioni di intercettazione di quaranta giorni (e non gli ordinari quindici) con successive proroghe di venti giorni (anziché di quindici). Si applica una frazione della nuova disciplina prorogata allorchè nei “casi d’urgenza” provvede lo stesso P.M. alla proroga dell’intercettazione, procedendosi poi ai sensi dell’art. 267 comma 2 c.p.p. per la convalida.
La deroga più rilevante e grave, consiste nel fatto che, come per i reati di criminalità organizzata l’intercettazione nel domicilio è consentita anche se non vi è “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.
Si è dunque venuta creare una sovrapposizione di norme per situazioni omogenee:
1- La vecchia normativa per le ordinarie intercettazioni per tutti i reati ad eccezione di quelli previsti dall’art.13 l. n. 152/91 con i limiti posti dal 266 comma 2 c.p.p. quanto all’uso nel domicilio.
2- Una nuova normativa per i reati contro la p.a. cui viene applicata la disciplina ex art.13 l. n. 152/91.
3- Una fonte ermeneutica (transitoria fino al 31 Marzo 2019) costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite Scurato che disciplina l’applicazione dei captatori informatici per i reati di criminalità organizzata oltre ex art. 51 commi 3bis e quater c.p.p. e «quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato» (Cass, S.U. Scurato, cit.), senza i limiti posti dal 266 comma 2 c.p.p..
4- Una fonte normativa in attesa di entrare in vigore tra qualche mese che consente l’uso dei captatori informatici coi limiti previsti dal 2 comma dell’art. 266 e dalla disposizione inserita nel primo comma dell’art. 267 c.p.p., che impone, per i reati diversi da quelli dell’art. 51 comma 3bis e quater c.p.p., di indicare nel decreto autorizzativo “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.
In tale situazione è poi subentrata la dichiarata volontà del nuovo Governo di rivedere nel frattempo il suo contenuto non solo e non tanto a causa delle violazioni del diritto di difesa e delle disfunzioni organizzative collegate conseguenti alla disciplina del cosiddetto archivio riservato, evidenziate dagli operatori già nel corso dell’iter di approvazione del decreto, quanto piuttosto rispetto alla denunciata natura di “legge bavaglio” del provvedimento e alla necessità di non ostacolare le indagini finalizzate alla “lotta” ai diversi fenomeni criminali.
3. L’agente provocatore e le conversazioni tra presenti: l’evoluzione del concetto di privata dimora secondo la giurisprudenza delle Corti.
A rendere ulteriormente complesso il quadro, va aggiunto che l’8 settembre è stato licenziato il Disegno di Legge “spazzacorrotti” che introduce per i reati contro la PA la possibilità di impiego nelle indagini di agenti infiltrati.
Nonostante le “rassicurazioni” sulla non riconducibilità di tale fonte investigativa al ruolo dell’agente provocatore appare chiaro che la particolarità dell’indagine tesa ad evidenziare uno specifico reato di concussione o malversazione necessariamente condurrà all’identificazione sia pur ambigua delle due figure. Ciò apre un altro fronte non meno controverso in materia di intercettazioni che riguarda le cd “registrazioni tra presenti” condotte dagli emuli nostrani di Donnie Brasco il poliziotto americano capace di infiltrarsi nella mafia newyorkese protagonista d un famoso film con Al Pacino e Johnny Depp .
E’ facile prevedere l’uso “congiunto” di infiltrati e captatori con una efficacia invasiva senza precedenti. Abitualmente il diritto rifugge dalle valutazioni politiche ma come sottolineava in tempi non ancora così gravi uno dei più sensibili interpreti del diritto penale esiste un “livello minimale” oltre il quale l’afonia dello studioso sul contesto storico sarebbe un ennesimo “ tradimento dei chierici”.
«Tale livello minimale è costituito: 1) da un’azione strettamente informativa, che miri a contrastare il populismo penale dominante, e con ciò anche l’uso del penale come strumento di lotta tra partiti (o tra privati), con un’azione la più consona al dibattito scientifico..; 2) dall’intervento pubblico su alcune linee minimali comuni di politica del diritto» (M. Donini, I professori di diritto e il dibattito sulla questione penale e la questione giustizia, in Questione Giustizia http://questionegiustizia.it/articolo/i-professori-di-diritto-e-il-dibattito-sulla-questione-penale_e-la-questione-giustizia_25-10-2017.php).
Ebbene proprio la dilatazione incontrollata di strumenti di spionaggio e di ibride figure di soggetti d’indagine in un contesto politico segnato dal declino delle tradizionali forme di democrazia liberale deve essere oggetto di massima attenzione e di deciso ostacolo di effetti che possono essere devastanti.
Il problema principale che pongono i nuovi sofisticati mezzi di indagine è la tutela della libertà individuale, della vita di relazione e familiare, di quel nucleo essenziale di rapporti, segreti che costituiscono il nucleo del diritto fondamentale di ogni essere umano.
Un’idea così chiara ed elementare che mai il legislatore ne ha osato violare i confini se non nei casi estremi in cui la natura del reato (mafioso o terroristico) imponeva scelte eccezionali.
Il principio generale era che potesse essere autorizzata l’intrusione nel domicilio personale solo se in esso si consumasse il reato. Nel corso degli anni, tuttavia , questa regola è stata ridimensionata fino ad arrivare con il decreto “scaccia-corrotti” a concepire l’eccezione destinata a diventare regola. Per i reati contro la p.a. varranno le stesse regole previste per quelli di criminalità organizzata o di eversione. Il presupposto è la insindacabile scelta del legislatore di individuare in base alle proprie convinzioni o alle esigenze della maggioranza le violazioni su cui imprimere il marchio di gravità e tramite esse perseguire lo scopo di un controllo diffuso ed opprimente sulla vita delle persone e le loro idee.
Non è un caso dunque che negli ultimi tempi la giurisprudenza sia ritornata ad occuparsi specificamente del concetto di tutela della vita privata con un breve inciso nella surricordata sentenza Scurato dopo circa un decennio dall’altro fondamentale arresto in materia (Cass, S.U., 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, cit.).
Nella sentenza Scurato, le Sezioni Unite avevano richiamato l’attenzione su «l'eventualità che lo strumento captativo in argomento possa produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana» indicando come si tratti tuttavia di «un pericolo che ben può essere neutralizzato con gli strumenti di cui dispone l'ordinamento»; ad esempio facendo discendere dal principio personalistico enunciato dall'art. 2 della Costituzione, e dalla tutela della dignità della persona che ne deriva, la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità».
Nella sentenza Prisco, le Sezioni Unite in tema di video registrazioni “non comunicative” avevano affrontato il problema inquadrando tali tecniche nella categoria delle prove atipiche ex 189 c.p.p. giungendo alla conclusione che non si potessero ritenere utilizzabili le riprese all’interno della dimora privata. È da aggiungere che quelle Sezioni Unite (segno dei tempi) diedero del concetto di abitazione ex 614 c.p. una definizione assai più allargata di quella fatta più recentemente dal supremo consesso nomofilattico (Cass, S.U., 23 marzo 2017 - dep. 22 giugno 2017-, n. 31345).
La sentenza Prisco si è ispirata ad un indirizzo per cui ha negato rilevanza probatoria alle videoregistrazioni in questione facendo riferimento alla: categoria delle prove incostituzionali. A tale scopo il riferimento culturale è la sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 1973 e del «principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito».
Nello stesso solco la sentenza della Corte Costituzionale n. 81 del 1993 «non possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione del1e garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell'uomo o del cittadino».
A conclusioni analoghe anche le sentenze delle Sezioni Unite del 16 maggio 1996 (Sala), del 13 luglio 1998 (Gallieri) e del 23 febbraio 2000 (D' Amuri), le quali hanno fatto rientrare «nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le "prove oggettivamente vietate", ma le prove formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla "legge", ed, a maggior ragione, quindi, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. Ipòtesi quest'ultima sussumibile nella previsione dell'art. 91 c.p.p., proprio perché l'antigiuridicità di prove così formate od acquisite attiene alla lesione di diritti fondamentali, riconosciuti cioè come intangibili dalla Costituzione».
Appare facile previsione che sulla base di tali precedenti sulla normativa attinente l’uso dei “captatori informatici” come sull’incombente decreto “spazza-corrotti” (triste come la corruzione del linguaggio tecnico si accompagni al deterioramento del diritto) sarà chiamato a pronunciarsi il Giudice delle leggi o almeno è questo l’augurio.
Ciò richiederà la sensibilità dell’interprete, della magistratura capace di rifuggire da un improprio ruolo di esecutrice di politiche legislative sempre più repressive e incuranti dei diritti individuali. Molto di ciò che sarà la società, se “aperta” o meno ( nel senso caro a Karl Popper) dipenderà dal confronto su una materia controversa ma che mai come oggi è cosi connessa al tema delle libertà individuali.
Sommario: 1. La “riforma Orlando” sulle intercettazioni. Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216. - 2. La proroga dell’entrata in vigore della riforma con il c.d. Decreto Milleproroghe. 3. Le criticità della riforma sulle intercettazioni. - 4. In mezzo al guado …. quali prospettive sulla disciplina delle intercettazioni?
1. La “riforma Orlando” sulle intercettazioni. Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216.
Il Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 di modifica della disciplina delle intercettazioni, come noto, è stato emanato nella scorsa legislatura in attuazione della delega di cui all'articolo 1 commi 82,83 e 84 lett.a ) e b) c) d) ed e) della legge 23 giugno 2017 n° 103 contenente modifiche al Codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario.
La riforma interviene su punti essenziali del regime processuale delle intercettazioni nella prospettiva di garantire un’adeguata tutela e il conseguimento di finalità ed interessi potenzialmente confliggenti.
Il Decreto contiene una serie di norme che mirano da un lato ad assicurare l'efficacia di tale mezzo fondamentale di ricerca della prova e dall'altro lato intendono assicurare un adeguato livello di tutela della riservatezza delle comunicazioni attraverso la repressione della diffusione di intercettazioni non rilevanti ai fini di indagine e potenzialmente lesive dei diritti alla riservatezza in particolare se coinvolgenti terzi soggetti estranei al procedimento.
Per quest’ultimo aspetto nella Relazione illustrativa al provvedimento si espone come le disposizioni in esame “ perseguono lo scopo di escludere, in tempi ragionevolmente certi e prossimi alla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall'attività di ascolto e di espungere il materiale documentale, ivi compreso quello registrato, non rilevante ai fini di giustizia, nella prospettiva di impedire l'indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee alla vicenda oggetto dell'attività investigativa che ha giustificato il ricorso a tale incisivo mezzo di ricerca della prova”.
Tale obiettivo è stato perseguito in primo luogo attraverso la rigida selezione delle trascrizioni inseribili nei verbali delle operazioni (c.d brogliacci) redatti dalla Polizia Giudiziaria oltre che con la previsione dell’inserimento, solo se necessario e comunque limitato ai brani essenziali, delle conversazioni e comunicazioni nell'ambito dei provvedimenti cautelari.
In questa prospettiva assume un rilievo centrale l'istituzione presso ogni Procura del c.d Archivio riservato delle intercettazioni, destinato alla conservazione e custodia degli atti relativi alle intercettazioni prima della dichiarazione di rilevanza da parte del Giudice e della conseguente acquisizione delle stesse al fascicolo delle indagini del Pubblico Ministero nonché delle conversazioni o comunicazioni ritenute non rilevanti ai fini di indagine.
Nel quadro di tali esigenze sono state inoltre dettate dal legislatore specifiche disposizioni in materia di intercettazione ambientale attraverso captatori informatici installati su dispositivi elettronici mobili (c.d trojan horses).
Quanto ai tempi di entrata in vigore della riforma il legislatore del 2017 ha introdotto all'articolo 9 del Decreto in sede di disciplina transitoria un meccanismo di applicazione differenziata sul piano della efficacia temporale del complesso delle disposizioni.
Risultavano applicabili al 26 gennaio 2018, data di entrata in vigore DLVO, le disposizioni di cui all'articolo 1 e 6 che prevedono rispettivamente l'introduzione della nuova figura delittuosa di cui all'articolo 617 septies CP di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e quelle che modificano le modalità di impiego di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati contro la Pubblica Amministrazione estendendo alle stesse la disciplina di cui all’art. 13 del D.L 13.5.1991 n° 152.
Le restanti norme sub articoli 2 ( ad eccezione della disposizioni di cui al comma 1 lettera b) 3, 4, 5 e 7 in materia di deposito, trascrizione ed acquisizione delle comunicazioni e conversazioni oggetto di intercettazione nonché in materia di Archivio informatico, di fatto le disposizioni principali che modificavano il regime delle intercettazioni, si sarebbero dovute applicare alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 180º giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto e quindi alle intercettazioni autorizzate con provvedimenti emessi a partire dal 26 luglio 2018 .
2. La proroga dell’entrata in vigore della riforma con il c.d. Decreto Milleproroghe.
Sul “filo di lana” Il legislatore attuale con il DL 25 luglio 2018 n° 91 c.d decreto Milleproroghe all’art 2 comma 1 ha sospeso per quest’ultima parte l’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni sino al marzo del 2019 prevedendo che il termine dell’art 9 comma 1 del 180° giorno per l’entrata in vigore delle disposizioni sopra indicate sia prorogato e sostituito da un nuovo termine fissato nel provvedimento dopo il 31 marzo 2019 .
Le ragioni della proroga sono state indicate tra l’altro l’11 luglio 2018 in sede di audizioni del Ministro Giustizia Alfonso Bonafede avanti alle Commissioni parlamentari Giustizia di Camera e Senato.
Da un lato si prospettano ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l’esecuzione nelle Procure dei lavori per la creazione e per l’approntamento dei supporti logistici, informatici e strumentali per gli Archivi riservati e per le sale ascolto per gli avvocati.
Dall’altro lato, in modo in parte non coerente rispetto alle indicate ragioni tecniche, vengono evidenziati rilievi fortemente critici sul contenuto della riforma ORLANDO. Si sottolinea infatti in quella sede come la riforma "... Non riesca nell'obiettivo di assicurare un effettivo contemperamento dei diversi interessi richiamati. Le modifiche introdotte, anzi, appaiono come un dannoso passo indietro sulla strada della qualità ed efficacia delle indagini e rispetto alla corretta distribuzione dei compiti funzionali tra i diversi soggetti coinvolti. Si tratta di un testo che ha suscitato i rilievi critici tanto dei magistrati requirenti, quanto della classe forense..." Tanto da annunciare come si fosse " scelto di avviare sin da subito dopo l'insediamento del nuovo Governo una capillare fase di ascolto e confronto, partendo dalle concrete esperienze vissute dalle Procure e dagli avvocati, in modo da giungere alla definizione di una base di lavoro condivisa che possa fungere da piattaforma su cui innestare la riscrittura della disciplina delle intercettazioni..”
3. Le criticità della riforma sulle intercettazioni.
La riforma introdotta con il DLVO 216/2017 presenta un impianto complessivo che risponde, come visto, a finalità assolutamente condivisibili indicate in sede di delega ma disegna in vari punti scelte normative e una disciplina per alcuni versi eccessivamente rigida e di non facile gestione concreta in sede processuale.
Si devono ricordare, pur nella necessaria sintesi, alcuni degli aspetti di particolare criticità tralasciando per brevità alcuni rilievi sulla complessa disciplina in materia di captatori informatici su dispositivi portatili:
Si delinea in primo luogo un meccanismo eccessivamente rigido e “burocratico” nel circuito PM – PG per l’individuazione delle conversazioni/comunicazioni rilevanti e sul corrispondente contenuto dei brogliacci.
Il legislatore ha previsto con la modifica dell’art.267 comma 4 cpp che la Polizia Giudiziaria fornisca un'informazione preventiva al Pubblico Ministero sui contenuti delle comunicazioni o conversazioni per le quali la Polizia Giudiziaria abbia operato una valutazione di non trascrivibilità.
Tale informazione deve essere trasmessa dalla Polizia Giudiziaria al Pubblico Ministero in una comunicazione in forma scritta mediante un'annotazione di PG che deve indicare non soltanto gli estremi delle comunicazioni e conversazioni ma anche il contenuto delle stesse.
Il Pubblico Ministero in base alla previsione dell'articolo 268 comma 2 ter c.p.p potrà disporre con decreto motivato, ove valuti diversamente rispetto alla PG la rilevanza delle conversazioni o comunicazioni, che le stesse siano trascritte nel verbale/brogliaccio quando ne ritenga la rilevanza per i fatti oggetto di prova. Allo stesso modo potrà disporre la trascrizione nel verbale se necessarie ai fini di prova delle comunicazioni e conversazioni relative a dati personali definiti sensibili dalla legge.
Il meccanismo previsto dal legislatore delegato, con la comunicazione scritta da parte della PG e la decisione nella forma del decreto del PM, appare frutto di una scelta legislativa eccessivamente rigida e formale se si tiene conto che coinvolge nell’ambito della fase di indagine i rapporti interni tra un organo quale il PM che ha poteri direttivi di indagine (e a cui deve essere sostanzialmente rimessa quale dominus delle indagini la valutazione in questa fase sulla rilevanza delle intercettazioni ) e la PG che opera per delega nell’ambito di tali direttive.
E infatti in alcune Direttive emanate dalle Procure si ritiene auspicabile prevenire tale passaggio “burocratico” mediante contatti, interlocuzioni e comunicazioni in via informale e preventiva tra PM e PG delegata in tutti quei casi che appaiono di dubbia valutazione. Deve essere infatti ritenuto fondamentale in tal senso un collegamento ed un raccordo immediato tra la Polizia Giudiziaria e il Pubblico Ministero titolare dell'indagine e che esercita i poteri direttivi sulla stessa per sottoporre al PM, per le relative valutazioni e decisioni, i casi di conversazioni “problematiche” in punto di rilevanza e trascrivibilità anche in relazione al coinvolgimento di dati sensibili.
La disciplina risulta carente rispetto alle conversazioni e comunicazioni che contengono nel loro sviluppo sia dati rilevanti che dati non rilevanti per l’indagine (si pensi ad un’intercettazione ambientale prolungata all’interno di un’ abitazione o di un ufficio).
Nulla si prevede infatti da parte del legislatore in caso di rilevanza parziale della conversazione intercettata e il vuoto nella disciplina ha imposto alle Procure in questa fase l'individuazione di meccanismi compatibili con le contrapposte esigenze di tutela del diritto alla riservatezza e della conservazione del materiale di indagine.
In caso di parziale rilevanza, in forza di una corretta interpretazione sistematica, la comunicazione / conversazione, non essendo scindibile ai fini dell'acquisizione, dovrebbe essere considerata rilevante ai fini di indagine e quindi il supporto fonico acquisibile nella sua integralità nel fascicolo di indagine e trascrivibili in brogliaccio ed utilizzabili i passaggi della comunicazione/ conversazione che contengono elementi rilevanti o necessari ai fini di indagine pur se confliggenti con la protezione di dati sensibili.
Unica soluzione alternativa, pur nel silenzio della legge, per evitare tale conseguenza in parziale conflitto con la ratio della novella legislativa sarebbe quella di “frazionare” la conversazione/ comunicazione in più brani o passaggi basati sulla scansioni temporali interne di acquisire in copia la registrazione della comunicazione/ conversazione soltanto nelle parti rilevanti ai fini di indagine mediante duplicazione informatica di tali punti ed invio della registrazione integrale in originale nell’archivio riservato intervenendo nei brogliacci con omissis sulle parti non rilevanti. Una soluzione peraltro comportante un aggravio notevole sul piano degli incombenti per le Procure e la PG.
Il punto più critico della riforma risulta essere peraltro indiscutibilmente quello inerente alla disciplina dell’Archivio riservato delle intercettazioni ed alle modalità di accesso per le parti alle conversazioni coperte dal segreto di indagine contenute nello stesso.
Si deve ricordare che l'Archivio riservato viene gestito anche con modalità informatiche e rientra nella direzione e sorveglianza diretta del Procuratore della Repubblica che deve assicurare modalità idonee a tutelare la segretezza della documentazione custodita impartendo, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie per garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito.
Con la modifica dell'articolo 269 c.p.p . nell’Archivio riservato presso l'ufficio del Pubblico Ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni devono essere custoditi integralmente e sono coperti dal segreto:
- le annotazioni, i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni, prima dell’acquisizione delle conversazioni o comunicazioni al fascicolo di indagine del Pubblico Ministero in quanto ritenute rilevanti, con riferimento agli atti di intercettazione delle conversazioni/comunicazioni non utilizzati per fondare una richiesta di applicazione di una misura cautelare;
- gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal Giudice non rilevanti o inutilizzabili (art 92 comma 1 bis Disp. Attuazione CPP).
Non sono invece coperti da segreto e non sono destinati alla conservazione nell’Archivio riservato:
- gli atti di intercettazione utilizzati per fondare la richiesta di applicazione di una misura cautelare destinati all'acquisizione ed all'inserimento immediato nel fascicolo di indagine del Pubblico Ministero;
- gli atti, i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni dopo che sono dichiarati utilizzabili e come tali acquisiti e facenti parti del fascicolo di indagine del PM di cui all'articolo 373, comma 5 cpp.
Il Giudice in vista delle valutazioni sulla acquisizione delle conversazioni indicate dalle parti e i difensori dell'imputato per l'esercizio dei loro diritti e facoltà sul punto possono accedere all'Archivio riservato per la consultazione degli atti e per l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate.
L’accesso all’ Archivio riservato, o meglio alle sale ascolto (posto che gli archivi riservati sono stati predisposti e forniti dal Ministero quali supporti informatici con la dotazione ed installazione di un sistema di collegamento e derivazioni dei dati ivi contenuti alle sale ascolto) prevede il solo ascolto delle conversazioni /comunicazioni secondo rigide garanzie di riservatezza stante la consultazione di materiale di intercettazione coperto da segreto di indagine.
La disciplina risulta strettamente collegata al regime di rigida segretezza voluto dal legislatore per il complesso degli atti di intercettazione depositati informaticamente negli Archivi riservati nella fase precedente alla fase di acquisizione al fascicolo di indagine delle intercettazioni rilevanti per le parti.
A seguito del deposito di tali atti da parte del PM, alla scadenza delle singole operazioni di intercettazione o alla conclusione delle indagini come avviene usualmente a seguito di richiesta da parte del PM di ritardato deposito degli atti di intercettazione, i difensori delle parti potranno dunque solo visionare ma non estrarre copia dei brogliacci e non avranno la possibilità di avere copia delle registrazioni , registrazioni che potranno essere oggetto solo di ascolto . Le copie degli atti e dei supporti audio o informatici potranno essere ottenuti dalle difese delle parti solo una volta emessa da parte del Giudice l'ordinanza di acquisizione delle conversazioni/ comunicazioni rilevanti indicate dalle parti ai sensi dell’art 268 quater comma 3 cpp in quanto in quel momento viene meno il segreto di indagine.
Sono escluse da tale disciplina, come detto, gli atti di intercettazione utilizzati per fondare la richiesta di applicazione di una misura cautelare destinati con discovery anticipata all'acquisizione ed all'inserimento immediato nel fascicolo di indagine del Pubblico Ministero senza transitare nell’Archivio riservato.
Si tratta di una scelta normativa chiaramente penalizzante e con aspetti di possibile rilievo costituzionale per l’attività delle difese in quanto impone alle stesse la necessità di ascoltare le intercettazioni depositate senza averne copia, a prescindere dalla rilevanza valutata dal Pm, per la selezione delle conversazioni rilevanti ai fini difensivi e per l’interlocuzione sulla rilevanza delle singole intercettazioni ritenuta dal PM e per le successive determinazioni.
L’attività di ascolto potrà risultare prolungata e defatigante specie in procedimenti complessi e caratterizzati da lunghe attività di intercettazione anche in considerazione dei tempi contenuti (10 giorni prorogabili dal Giudice per un periodo non superiore ad ulteriori 10 giorni) riservati alle difese per la formulazione delle richieste di acquisizione delle intercettazioni. Inoltre il meccanismo previsto dal legislatore comporta un aggravio non indifferente anche per le Procure in merito ai correlativi impieghi del personale amministrativo per le attività connesse all’attività presso le sale ascolto.
4. In mezzo al guado …. quali prospettive sulla disciplina delle intercettazioni?
Dopo la proroga temporanea introdotta con il Decreto Milleproroghe si è in presenza di un quadro di totale incertezza sul destino della riforma, delle costose strutture investite con la stessa e sul contesto normativo che si definirà in questi mesi e sino al marzo 2019.
I rilevanti investimenti informatici e strumentali previsti e avviati nella passata legislatura per la realizzazione degli archivi riservati, delle sale di ascolto e delle sale CIT, con la ulteriore realizzazione di server e di sistemi di videosorveglianza e di controllo accessi e la installazione di porte REI, sono di fatto "congelati" e non si comprende se e come potranno essere completati ed in ogni caso utilizzati sia pure in un diverso contesto normativo sulla materia.
La riforma Orlando sulle intercettazioni, per ora solo sospesa, di fatto sembra accantonata e sarà comunque oggetto, alla luce delle dichiarazioni del Ministro sopra riportate, di una profonda riscrittura e revisione.
In ogni caso non è certo che da qui a marzo 2019 si possa definire una nuova delega legislativa e l'iter per un nuovo provvedimento legislativo delegato in materia di intercettazioni, di modo che si imporrà verosimilmente un ulteriore proroga della riforma Orlando con il mantenimento delle disposizioni sulle intercettazioni attualmente in vigore.
Eppure una possibile linea di politica legislativa consentirebbe di raggiungere gli obiettivi di una riforma su vari punti condivisibile nei principi ispiratori superando le segnalate criticità con una correzione e rimodulazione delle norme della riforma Orlando su alcuni degli aspetti sopra indicati.
Si potrebbe intervenire prevedendo un meccanismo di valutazione sulla rilevanza delle conversazioni/comunicazioni rimesso esclusivamente al PM , quale organo con funzioni di direzione e coordinamento delle indagini, con il solo adempimento della formazione da parte del PM dell'elenco delle conversazioni rilevanti previsto dall' articolo 268 bis CPP previa costante interlocuzione “interna” con la PG per la individuazione delle conversazioni di cui richiedere l’acquisizione e dunque eliminando il farraginoso meccanismo di invio di annotazione scritta da parte della PG e di emissione di decreto da parte del PM in caso di diversa valutazione sulla rilevanza.
E soprattutto si potrebbero ampliare le facoltà di accesso da parte delle difese ai verbali delle operazioni e alle registrazioni delle conversazioni/comunicazioni anche se non poste alla base delle richieste di misura cautelare prevedendo il diritto non solo di ascolto ma di estrazione di copia dei verbali e delle intercettazioni depositate dal Pubblico Ministero quanto meno con riferimento alle comunicazioni e conversazioni depositate e che sono state inserite dal PM nell'elenco delle intercettazioni rilevanti ai fini di prova ai sensi dell'articolo 268 bis comma 1 CPP.
Si deve considerare in primo luogo, a fronte delle possibili obiezioni in ordine al pericolo di diffusione di dati e registrazioni coperte dal segreto e in violazione dei diritti dei terzi , che a seguito dell'usuale ricorso da parte del PM al meccanismo di ritardato deposito delle intercettazioni tale atto interviene normalmente in coincidenza con la notifica dell'avviso ex art 415 bis cpp di conclusione indagini o con il deposito della richiesta di giudizio immediato ex art. 454 cpp e quindi in una fase finale delle indagini in cui è prossimo il venir meno del segreto di indagine.
In secondo luogo tale possibilità di estrazione di copia "anticipata" degli atti di intercettazione da parte delle difese avrebbe per oggetto verbali e supporti audio di intercettazioni già valutate dal PM come utilizzabili e rivelanti rilevanti ai fini di prova e per le quali sussiste, se il vaglio del PM è stato attento, una rilevante probabilità di acquisizione a breve al fascicolo delle indagini con conseguente cessazione del segreto di indagine.
Il meccanismo di mera consultazione dei verbali delle operazioni e di solo ascolto da parte delle difese verrebbe ad essere pertanto limitato agli atti di intercettazione ed alle registrazioni delle comunicazioni e conversazioni non inserite dal PM nell’elenco ex 268 bis CPP in quanto non ritenute rilevanti o necessarie ai fini di prova da parte del Pubblico Ministero con il conseguente ampliamento dei diritti dei difensori e contrazione dei tempi per l'analisi degli atti e per l’ascolto supporti audio nella parte residua.
In conclusione: tali modifiche della riforma Orlando sia pure parziali consentirebbe in tempi relativamente brevi di perseguire in modo ragionevole le finalità delle riforma senza pregiudicare le esigenze di indagine, in modo di “attraversare il guado” e di superare la disciplina in vigore dando nel contempo certezza a tutti gli operatori sull’evoluzione del quadro normativo in materia.
Claudio Gittardi
Breve nota a Sez. 3 n. 29613 del 2018
La Terza sezione della Corte di Cassazione è stata chiamata a verificare se abbia rilevanza penale la condotta di un soggetto straniero, posta in essere nella assoluta inconsapevolezza del suo disvalore e nella convinzione di ottemperare ad una prassi del paese di provenienza che considera il comportamento normale, approvandolo o, in alcuni casi imponendolo.
Il tema dei “reati culturalmente orientati” non è nuovo, e l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese di etnie dalle diverse abitudini rende la problematica di stringente attualità giuridica.
La complessa ed inevitabile sfida del multiculturalismo affida anche, e soprattutto, alla magistratura il delicato compito di verificare in che modo il rispetto delle altre culture e l’integrazione possano realizzarsi, in concreto, senza frizioni con i principi fondamentali della Carta Costituzionale.
Nel caso di specie gli imputati erano stati tratti in giudizio poiché, in violazione degli articoli 609 bis e 609 ter del codice penale, in più occasioni, abusando della loro qualità di genitori, costringevano il figlio minore, con violenza, ad abbassarsi i pantaloni e a compiere e subire atti sessuali (palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali).
La tesi difensiva si fondava sull’assunto che le condotte incriminate, nella cultura degli imputati, fossero prive di disvalore, consentite e tollerate.
In entrambi i precedenti gradi di giudizio i giudici di merito erano pervenuti all’assoluzione, valorizzando la scriminante culturale.
I giudici di primo grado, infatti, avevano ritenuto che, sebbene sussistesse l’elemento oggettivo del reato per l’indubbia valenza sessuale degli atti compiuti, difettava la coscienza e volontà di compiere atti diretti alla concupiscenza sessuale.
Di contro, la Corte d’appello aveva ritenuto che gli atteggiamenti in contestazione fossero espressione di “compiacimento e di orgoglio del genitore nei confronti del figlio”, e non frutto di istinto sessuale, e, coerentemente ne avevano escluso anche la coscienza e volontà.
La Terza Sezione, disattendendo entrambe le ricostruzioni, pur richiamando i principi enunciati dalla Corte di legittimità in merito alla necessità di interpretare le fattispecie penali alla luce del continuo mutare dei valori della società, sempre più multietnica, ha ribadito che nessun sistema penale potrà mai adbicare, alla punizione di fatti che mettano in pericolo i beni di maggior rilievo in ragione del rispetto di tradizioni culturali e religiose del cittadino o dello straniero.
La Corte, quindi, sottolinea che la valutazione del rilievo penale dei cd. reati culturalmente orientati non può prescindere da un attento bilanciamento “ tra il diritto, sia pure irrinunciabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose ed i valori offesi dalla sua condotta”.
Inoltre, al fine di valutare l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente, si è evidenziata la necessità di tenere conto: 1) della natura religiosa o giuridica della norma culturale, in adesione alla quale è stato commesso il reato; 2) dell’intensità della forza vincolante della norma all’interno del gruppo culturale di riferimento; 3) del grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del paese d’arrivo o del suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, indipendentemente dal tempo di permanenza nel nuovo paese.
Applicando i principi di diritto nel caso di specie, la Corte ha escluso che la condotta posta in essere dagli imputati fosse priva di valenza penale.
Da un lato, infatti, si è accertato che essa solo asseritamente era conforme alle tradizioni del paese di provenienza (le risultanze processuali hanno portato ad escludere l’esistenza di una corrispondente norma di costume o religiosa e disvelato che la condotta era sanzionata anche dal codice penale del paese d’origine); dall’altro, in relazione all’elemento soggettivo del reato, si è esclusa la non consapevolezza degli imputati dell’illiceità delle azioni commesse alla luce della loro lunga permanenza in Italia e della loro compiuta integrazione nel contesto sociale del nostro paese.
Non è semplice racchiudere in un piccolo spazio le considerazioni, numerose e complesse, maturate in una esperienza così intensa quale una intera consiliatura. Provo a farlo per mettere a disposizione alcune riflessioni che possano arricchire un dibattito, interno ed esterno alla magistratura, troppo spesso caratterizzato da semplificazioni e dalla proposta di soluzioni salvifiche che in concreto sono di ardua e poco convincente realizzazione.
Muovo dalla piena consapevolezza dei problemi legati al correntismo ed alle degenerazioni che tanto affliggono il sistema del governo autonomo. Non li posso negare e li devo dare purtroppo per presupposti. Le degenerazioni vanno denunciate come un male da combattere tutti i giorni ed in ogni sede, evidenziando storture, deviazioni, debolezze, prevaricazioni. Seguendo in modo attento i lavori consiliari, pretendendo la spiegazione delle scelte operate e sottolineando le contraddizioni. Ma anche operando sul territorio, non solo a livello di consiglio giudiziario o di controllo associativo, ma soprattutto negli uffici, sia ad opera dei dirigenti che dei magistrati tutti.
Dunque innanzitutto controllo diffuso, pretesa di trasparenza e motivazioni chiare di provvedimenti, spiegazioni costanti.
Poi, in via assolutamente prioritaria, un impegno dell’intero sistema ad operare per valutazioni di professionalità effettive e utili alle comparazioni, non burocratiche, non meramente elogiative, ma capaci di far emergere i diversi profili. Un enorme problema della magistratura, mai risolto, forse difficilmente risolvibile, che chiama in causa la capacità dell’intero circuito del governo autonomo, e dunque dei magistrati, di operare giudizi “su stessi”, puntuali, differenziati, genuini. Il sistema attuale è chiaramente incapace di operare in questo senso, e si è rivelato inadatto nella sua concreta attuazione. Per ragioni tecniche? Di sistema? Correntizio? Più in generale per ragioni corporative? E’ la risoluzione di questi interrogativi che può far compiere decisivi passi avanti. Un nuovo sistema, all’interno del governo autonomo, che sia però compatibile con i principi di autonomia ed indipendenza e con la necessità di garantire qualità alla giurisdizione, efficienza ed efficacia all’utenza.
L’effettività delle valutazioni di professionalità è il primo strumento per spiazzare il criterio dell’appartenenza nelle nomine. Per esigere scelte effettive, motivazioni chiare, trasparenza nei percorsi decisionali, occorre mettere a disposizione del Consiglio profili professionali specifici e differenziati, facilmente leggibili, su cui poter innestare un giudizio comparativo “evidente”. Direi che chi oggi vuole cambiare il TU sulla Dirigenza, deve farlo senza iniziare toccando quel testo, ma lavorando in quarta commissione ed aprendo un serio dibattito sulle valutazioni di professionalità, capace anche di superare lo “zero virgola” o poco più che caratterizza le statistiche delle valutazioni non positive /negative, percentuale chiaramente incapace di raffigurare la reale situazione della magistratura come in concreto si manifesta nelle aule di giustizia e viene percepita dall’utenza. Dunque prima le valutazioni di professionalità, l’ampliamento delle fonti di conoscenza, un sistema meno burocratico che sappia misurare quantità e qualità senza il tourbillon dei provvedimenti a campioni, la effettiva verifica della tenuta dei provenienti giudiziari nei controlli giurisdizionali successivi, un ripensamento del contenuto obbligatorio del rapporto del dirigente dell’ufficio; prima la modifica della disciplina della conferma, con l’aumento delle informazioni utilizzabili e dei dati acquisiti dai magistrati dell’ufficio; poi, solo poi, una nuova riflessione sul Testo unico sulla dirigenza, la cui modifica altrimenti rischia di ingenerare solo nuove illusorie attese. Prima un occhio vigile e critico sul funzionamento dei consigli giudiziari, organi di prossimità ben capaci di esigere una piena corrispondenza fra realtà e sua rappresentazione nei pareri. Insomma prima la pretesa di un esercizio responsabile e non corporativo delle valutazione di professionalità da parte dei dirigenti, poi, solo poi, la possibilità di smascherare in concreto l’utilizzo e l’abuso del criterio dell’appartenenza nelle nomine; solo allora sarà davvero possibile e persino semplice operare serie e dettagliate critiche, non solo per i magistrati di base, ma per le stesse correnti che intendessero farsene portatori, perché facilmente sostenibili su basi documentali chiare e differenziate. In mancanza sarà invece facile, per chi intende praticare logiche di appartenenza, continuare su una strada così autolesionista per la magistratura senza dover pagare dazio all’evidenza di forzature e scorciatoie. Difficile, per chi vuole sottrarsi a questo metodo, farlo senza poter utilmente reggere un dibattito pubblico che sarà sempre drogato da motivazioni buone per ogni soluzione. Con la continua necessità di individuare la giusta opzione fra il doversi sottrarre ad un sistema di nomine così complesso (come chi sistematicamente sceglie la comoda posizione dell’astensione), ovvero operare per la riduzione del danno, finalizzata a dare agli uffici le migliori nomine possibili, in un dialogo faticoso, non sempre contenuto nelle fisiologia delle diverse sensibilità culturali, con tutte le componenti consiliari.
Questo, quello delle valutazioni di professionalità, il primo vero obiettivo su cui lavorare.
Un altro fondamentale settore è quello della sdrammatizzazione delle nomine dei dirigenti, pur così importanti per il funzionamento del sistema. Essa passa innanzitutto per un recupero complessivo della dignità e della capacità di attrazione del lavoro del giudice (e del pm). La corsa alla carriera si è accentuata di pari passo col venir meno della appetibilità del lavoro giudiziario, non tanto, o forse non solo, per ragioni ideali, quanto per ragioni concrete legate alla demotivazione conseguente ad un lavoro di cui non si riesce a percepire più come un tempo la capacità di fornire risposte alle esigenze di giustizia dei cittadini. Il progressivo diminuire delle risorse, le farraginose procedure, i tempi infiniti dei processi, il numero spropositato di prescrizioni, qualificano come sostanzialmente inutile il lavoro del magistrato, che si accorge che gran parte del suo sforzo non produce alcuna riposta efficace. Da qui pulsioni centrifughe, fuori della giurisdizione verso gli incarichi fuori ruolo o l’impegno extragiudiziario (come quello nella magistratura tributaria), e pulsioni centripete, verso gli incarichi dirigenziali, ritenuti i soli capaci di far recuperare la “dignità della funzione” e comunque forieri di maggiori soddisfazioni professionali.
A tali considerazione occorre aggiungere la necessità di recuperare il senso dell’incarico dirigenziale come servizio e non come premio alla carriera. Qui va stimolata una complessiva maturazione della magistratura, che fatica ad introitare gli esiti della riforma del 2006 e non ha facilità nel superare l’ancoraggio all’anzianità come criterio selettivo tranquillizzante. Non siamo ancora disposti ad accettare con serenità che, se un magistrato che ha dieci anni di anzianità meno di un altro ma ha una professionalità di rilievo nell'organizzazione, merita di fare il dirigente e può spiegare al collega più anziano come va organizzato il lavoro per renderlo funzionale al risultato finale, che è l'interesse dell'utenza al servizio complessivo. Non abbiamo ancora compreso appieno la sfida dell’organizzazione, la sua complessità culturale, che richiede attitudini e capacità che non possono misurarsi prevalentemente solo col numero di anni trascorsi in giurisdizione. Abbiamo le regole che lo dicono chiaramente, ma quando le attuiamo, continuiamo a vederci troppo spesso uno “scavalcamento” – proprio questo il termine comunemente utilizzato – inaccettabile. Un’idea, questa del recupero dell’anzianità, addirittura tramite punteggi, fuori tempo e fuori della realtà, non solo giudiziaria. Per non parlare dell’eccessivo allarme per alcune esperienze fuori ruolo che, se ben calibrate con l’esperienza giurisdizionale, possono essere un ritorno formidabile per il singolo e per l’ufficio nel complesso. Occorre opporsi fortemente alle carriere parallele, che sono cosa diversa e deleteria per l’intero sistema, ma avere la capacità di valorizzare esperienze ed attitudini anche quando in parte maturate in incarichi fuori ruolo attinenti all’organizzazione della giurisdizione.
Infine occorre accettate l’idea che sia il CSM (!), nell’esercizio della sua discrezionalità, a decidere chi è il più adatto a ricoprire quel ruolo, e dunque accettare l’idea che in quel consesso debba formarsi una maggioranza capace di investire su quella persona per quell’incarico. Affermazione che può essere oggetto di una interpretazione semplicistica e negativa (appunto il rifugiarsi nell’appartenenza ed il praticare la logica dello scambio), oppure capace di far riflettere sul valore delle idealità e del confronto fra diverse sensibilità nella lettura e valutazione dei profili professionali. Il ché rimanda anche al valore della dirigenza ed alla importanza e delicatezza dell’attività in quinta commissione (e in terza) quando si rinnova la classe dirigente degli uffici. Si tratta, quella della Dirigenza, di un anello della catena dell’autogoverno che oggi rappresenta il fulcro del sistema, tanto nel settore requirente quanto nel settore giudicante, proprio in conseguenza della riforma del 2006. Il legislatore del nuovo ordinamento giudiziario ha “investito” in misura rilevante sulla Dirigenza degli uffici per ottenere qualità ed efficienza; ne ha conseguentemente aumentato i poteri, introducendo una gerarchizzazione marcata, piuttosto evidente nelle Procure, ma sensibile anche negli uffici giudicanti. E’ fisiologico ci sia, in Consiglio, chi preferisca un dirigente che segue un modello caratterizzato da partecipazione, cultura della giurisdizione e della prova, efficienza e qualità delle decisioni, coinvolgimento dei magistrati nelle scelte decisionali organizzative, e chi un modello che privilegia una efficienza più aziendalista ed una più evidente gerarchia interna. Chi un maggiore rigore valutativo del lavoro del magistrato e chi una più diffusa accettazione di un metodo inclusivo e meno selettivo. Se pensiamo ai poteri del Procuratore della Repubblica, a come i dirigenti esercitano il potere valutativo nelle valutazioni di professionalità, a quanto sano diversi gli approcci al tema dell’organizzazione, ci rendiamo conto che avere un dirigente, piuttosto che un altro, pur fra magistrati di pari livello attitudinale e di merito, significa delineare diversi modelli di giurisdizione in un dato territorio. Con esiti assai diversi per l’utenza e perfino per l’interpretazione (si pensi al ruolo di un presidente di sezione).
Da qui la faticosa opera di dialogo e confronto fra tutte le componenti, non ultime quelle laiche, che portano sensibilità assai diverse da quelle interne e che possono giocare un ruolo decisivo. Un dialogo che se attuato con la esclusiva lente dell’appartenenza determina esiti nefasti per la singola nomina e per l’intero sistema, e se invece attuato per la ricerca della migliore soluzione possibile, nel confronto fra le diverse componenti, diventa l’ineludibile strumento di un buon governo. Tanto per i togati quanto per i laici, il cui operato troppo spesso viene ignorato nel dibattito sul buon funzionamento dell’organo, e che invece sono essi stessi capaci di indirizzare il confronto o positivamente, attraverso un fisiologico apporto di conoscenze, oppure negativamente, attraverso il sostegno a candidati sulla base di fattori esogeni e imperscrutabili.
La complessità dell’organo ne costituisce la forza e la capacità di tenuta, nei diversi tempi in cui l’istituzione è chiamata a governare la magistratura. Un’istituzione di cui nel dibattito interno si valuta solo l’attività che in qualche modo incide all’interno della categoria, in una accezione assai restrittiva del suo ruolo e della funzione, certamente individuata dall’art. 105 Cost., ma che la legge istitutiva e la prassi costituzionale hanno assai ampliato, facendone un organo capace di dialogare con le maggiori istituzioni del Paese sui temi della giustizia (Presidente della Repubblica, Ministro della Giustizia, Parlamento, istituzioni europee ed internazionali), e dunque portatore di una anomala ma autorevole rappresentanza esterna della magistratura, nonché portatore di un potere di indirizzo e promozione che ne fa il vertice organizzativo degli uffici giudiziari.
Da questa premessa derivano alcune considerazioni.
La prima è legata alla funzione rappresentativa della componente togata. Funzione disciplinata dalla Costituzione che esige la “elezione” dei togati e, di conseguenza, un sistema democratico di rappresentanza all’interno dell’organo. Ne consegue il rilievo dei gruppi associativi quali soggetti portatori di un programma, di un progetto per il governo autonomo, di idee e di sensibilità presentate all’elettorato per agganciare la rappresentanza al consenso interno alla magistratura, secondo un criterio democratico irrinunciabile. In altre sedi ed in maniera più diffusa si è risposto a chi sostiene il sorteggio come strumento di selezione della rappresentanza. Vorrei solo ricordare che il sorteggio individua “singoli” senza alcun aggancio ad idee e pregressi percorsi professionali e associativi. “Singoli” di cui non si sa nulla e nemmeno se siano buoni magistrati. E, seppure lo fossero, deve essere chiaro che essere bravi magistrati, o eccellenti in alcuni casi, non basta per fare bene il consigliere superiore. La considererei una condizione importante (vorrei dire necessaria) ma assolutamente non sufficiente. Ed anche il sorteggio temperato, con una preselezione a cui far seguire le elezioni, si rivela uno strumento in parte inidoneo a raggiungere il preventivato scopo (i sorteggiati sarebbero o già legati ai gruppi associativi o fisiologicamente portati a farlo prima dell’elezione), in parte certamente capace di affidare al caso la scelta e dunque non necessariamente con esiti di qualità (ove si parta dal presupposto che dire che tutti sono in grado di svolgere la funzione perché del resto si tratta di magistrati chiamati quotidianamente ad esercitare la giurisdizione ed applicare la legge, è davvero una considerazione del tutto semplicistica e riduttiva del ruolo e della funzione del Consiglio e dei singoli consiglieri). Dunque sicuramente no al sorteggio, e si ad una nuova legge elettorale. Sicuramente si ai gruppi per le ragioni sopra esposte e perché la rappresentanza esige responsabilità. Ed i gruppi associativi, in quanto costantemente rivolti all’elettorato per la verifica dl consenso conseguente all’operato dei vari rappresentanti, garantiscano che componenti eletti e non rieleggibili siano ancorati ad una responsabilità “politica” di cui gli stessi consiglieri sentono costantemente il bisogno. Ed è corretto che la proiezione di questi rappresentanti sia la costituzione di gruppi consiliari che consentono in maniera trasparente di portare avanti il programma sottoposto agli elettori e di contribuire al buon funzionamento dell’organo ed alla composizione equilibrata delle commissioni (in teoria capace di riprodurre in proiezione la composizione del plenum).
Seguendo questa linea, voglio però completare la riflessione sul rapporto fra consiglieri e gruppi associativi di riferimento, rapporto del quale ho sottolineato la natura virtuosa e gli effetti positivi, nella misura in cui l’appartenenza non diventi il criterio guida nelle nomine. Il legame al gruppo consente un ancoraggio al programma ed alle idee condivise con gli elettori, e la costante verifica, nel dibattito che ne segue, dell’adeguatezza dell’azione consiliare rispetto alle attese dei magistrati.
Ma … ciò che spesso sfugge nel dibattito interno è che la dimensione principale e prioritaria del consigliere resta quella “istituzionale”, che richiama innanzitutto a scelte effettuate secondo scienza e coscienza per il buon funzionamento del sistema giudiziario. Spesso si assiste a considerazioni che richiamano valutazioni di opportunità o di strategia che stridono con la necessità di confrontarsi innanzitutto con il quadro normativo ed ordinamentale e, in secondo luogo, con scelte compiute esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione. Che, in alcuni casi, in concreto, potranno significativamente discostarsi dal programma iniziale sottoposto agli elettori o dai contenuti discussi nel gruppo associativo. Sarà utile spiegare le ragioni, rappresentare la natura della scelta eventualmente dissonante con il programma elettorale. Il consigliere opera avendo sempre chiaro di essere il rappresentante di tutta la magistratura e non solo di quella che lo ha sostenuto dal punto di vista elettorale e della acquisizione del consenso. Insomma si è prima componente dell’istituzione, poi rappresentante di tutti i magistrati, infine magistrato legato ad un gruppo associativo ed al suo programma ideale di contenuto e valori. Questi, i contenuti ed i valori di riferimento orienteranno fisiologicamente le scelte e le decisioni, conformando naturalmente l’agire del consigliere ed il suo operato complessivo, ma le “attese” del gruppo associativo di riferimento o di singoli elettori non potranno influenzarne l’agire istituzionale. E’ dalla consapevolezza di questa poliedrica accezione che si ricava la traccia per un corretto compimento del mandato consiliare. Durante il quale ti soccorreranno due irrinunciabili guide: la tua esperienza professionale nella giurisdizione pregressa ed il contatto che con essa saprai mantenere, e un forte dimensione deontologica a cui legare l’esercizio della funzione e della responsabilità, da una postazione in cui ti accorgi di esercitare un enorme potere.
Fra mille cose, una riflessione ulteriore vorrei riservarla, poi, al funzionamento della sezione disciplinare.
Non mi sfugge quanta prudenza occorra per trattare questa materia e quanto delicato sia il tema delle incompatibilità fra l’attività di amministrazione e quella giurisdizionale interna al Consiglio. Assai problematica per molteplici aspetti e difficile da affrontare in una prospettiva di riforma per l’impossibilità di controllare gli esiti di una discussione pubblica che facilmente scivolerebbe verso derive pericolose. Né voglio assecondare la suggestione, periodicamente riproposta, per cui “chi nomina non giudichi e chi giudica non nomini”. Ma è chiaro a tutti che la sezione disciplinare accrescerebbe ulteriormente la sua autorevolezza e apparenza di imparzialità se la funzione giurisdizionale interna al Consiglio, con le stesse caratteristiche di composizione e di eleggibilità, fosse separata dalla diversa e complessa funzione amministrativa. Ma non è tempo per parlare di riforme in questo settore. Piccole cose però si possono fare. Una, con un piccolo sforzo organizzativo interno, può essere quella di evitare che almeno i componenti titolari della sezione disciplinare compongano la prima commissione. Evitare che il giudice, per le inevitabili sovrapposizioni di alcune vicende fra profili disciplinari e paradisciplinari che di fatto si realizzano in prima commissione, sia stato partecipe delle attività di commissione, abbia svolto attività istruttoria, sia stato relatore di pratiche i cui fatti poi si trova a giudicare in disciplinare. Una minima soluzione, forse solo estetica, che però può rappresentare un segnale di attenzione per i magistrati incolpati.
Inoltre è utile e necessario prestare la massima attenzione all’organizzazione tabellare della sezione, alla gestione dei carichi di lavoro, alla ricorrenza degli impedimenti dei giudici ed alle conseguenti sostituzioni, alla predeterminazione dei collegi, alla gestione dei rinvii fuori udienza, alla effettiva partecipazione del Vice presidente alle udienze ed alla generale attività di direzione della sezione. Occorrono provvedimenti organizzativi che il Vice Presidente deve assumere, quale Presidente della Sezione disciplinare, e che, a mente del nuovo Regolamento, deve portare in plenum per la presa d’atto.
Più in generale, poi, mi pare giunto il tempo per una riflessione sulle regole che caratterizzano il processo disciplinare e sulle garanzie per l’incolpato.
Ma di questo e altro non è possibile trattare in questa sede, di confusi e sparsi pensieri di un ex Consigliere.
Antonello Ardituro
Riflettere sulla giustizia e sulla verità significa scontrarsi con la loro naturale ineffabilità, ma esse tuttavia rappresentano quanto di più afferente alla vicenda umana.
Da questa consapevolezza si sviluppa il contributo di Enrico Opocher: giustizia e verità devono essere riferite all’esperienza concreta, all’azione nel suo dinamico e concreto manifestarsi.
In tal senso devono essere considerate come valori.
In questa prospettiva il processo è il luogo in cui la verità, processualisticamente intesa come conformità all’ordine degli accadimenti, esalta la dimensione umana, scevra da dogmatismi e calata nel fermento della società civile. L’uomo e le sue vicende sono quindi l’humus dell’esperienza giuridica e della giustizia.
L’esaltazione della dimensione umana è il baricentro nonché il fil rouge che lega in una prospettiva comparativistica le riflessioni di Paul Ricoeur e John Rawls a quella di Enrico Opocher, con risultati eterogenei e di notevole vigore speculativo.
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia. - 2 La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale. - 3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia.
Sebbene la filosofia del diritto si sia sempre confrontata con il problema della giustizia, cercare di comprenderne oggi il significato e il ruolo, in quello che è un mondo globalizzato e dinamico, è un obiettivo imprescindibile.
Questa “umanissima idea carica di tutta la disperazione e di tutta la speranza che alimentano le alterne vicende della condizione umana”[1] è stata oggetto di un originale contributo ad opera del giurista e filosofo contemporaneo padovano Enrico Opocher [2]
L’intento del suo apporto giusfilosofico è quello di cogliere a pieno le criticità riferibili alle dinamiche sussistenti tra giustizia e diritto, alla luce dei concetti di valore e verità.
La giustizia si manifesta come riconoscimento della verità, intesa non in senso assoluto bensì come valore, strettamente legata ad una dimensione fattuale e conforme all’ordine degli accadimenti[3].
Solo in questa prospettiva si può comprendere l’autentica portata della tematica; esclusivamente in riferimento a situazioni contingenti ha senso invocare la giustizia e la verità dando così un’autentica legittimazione alla dimensione del diritto.
L’esaltazione della concretezza e l’invito ad un riferimento continuo alla vita nel suo pratico dispiegarsi, ha come canale preferenziale la dimensione del processo nel cui dinamismo i fatti, l’esperienza e le istanze delle parti trovano compiuto accoglimento.
Non si vuole in tal modo sancire una sorta di priorità del processo rispetto al diritto sostanziale; l’intento è piuttosto quello di sottolineare come nella prospettiva processuale, diversamente e in maniera più pregnante rispetto ad altri ambiti del diritto, si incarni l’idea di giustizia come riconoscimento della verità.
Il giudice si trova a dover decidere quale delle ricostruzioni della verità sia da preferire, poiché maggiormente conforme all’ordine degli accadimenti.
Si tratta quindi di una verità processuale, così come ricostruita attraverso gli strumenti che l’ordinamento offre, attraverso il lavoro dei giudici e in generale degli operatori del diritto. Una giustizia che essendo umana può e deve essere imperfetta, laddove imperfezione non implica irragionevolezza e diseguaglianza ma attinenza alla natura umana che è per definizione defettibile.
Il processo diventa, nella riflessione opocheriana, sulla base delle intuizioni mutuate dall’amico e maestro Giuseppe Capograssi, il baricentro della esperienza giuridica.
Luogo in cui dialetticamente si passano in rassegna tutti gli aspetti della esperienza, in cui la priorità è di giungere ad un momento conclusivo, ossia la sentenza, che in qualche modo sia autentico, come momento in cui “la questione del vero si rivela come necessaria ed insieme irrisolvibile”[4].
Nella dimensione processuale la ricerca del vero si attua dialetticamente attraverso il confronto con tutta la varietà del reale, attraverso le maglie delle vicende umane, avendo come obiettivo primario il dotare di senso l’esperienza giuridica, che diversamente non avrebbe ragion d’essere[5], senza cioè quel contributo conferitole dal continuo mettersi in discussione.
Portando dinanzi alla terzietà del giudice le rispettive storie e così facendo la storia, il processo assume una prospettiva corale[6]; palesando una vocazione collettiva nella misura in cui “tocca tutte le persone e tutti gli interessi: seppure è un problema tecnico, al di sotto c’è come in ogni problema tecnico, un problema di vita, un problema della vita”[7].
Il processo è “l’unico momento in cui l’esperienza si trova a ripensare se stessa” [8], a riflettere sugli accadimenti, sulle azioni degli uomini e sul significato che esse assumono in una prospettiva giuridica.
Il giudice terzo si trova a dover passare al vaglio eventi passati, deve interpretarli alla luce delle norme, ripensare i vari significati e trovarne di nuovi.
Il tempo, le esperienze e i fatti vengono cioè ripercorsi, ricostruiti: “ il processo è la vera e sola ricerca del tempo perduto che fa l’esperienza pratica” [9] , teleologicamente teso a risolvere problemi ed appianare liti.
2. La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale.
La riflessione di Enrico Opocher si innesta nel tronco di un dibattito giusfilosofico eterogeneo e fecondo, il cui comune denominatore è rinvenibile nell’esigenza di rinvigorire il ruolo del diritto.
La filosofia opocheriana ha inteso la crisi del diritto come una crisi della verità, cui è correlato uno svuotamento dell’idea di giustizia.
Il depauperamento del ruolo del diritto è legato storicamente secondo Enrico Opocher allo smarrimento contenutistico che ha caratterizzato Novecento, in cui esso appare svincolato dall’idea di giustizia e piegato a centri di potere diversamente influenti: perdendo la sua autonomia diventa incapace di essere portatore di una qualsivoglia forma di giustizia e verità.
Per comprendere al meglio le ragioni della crisi, occorre determinare con precisione quale significato dare al concetto di verità. L’intenzione non è di esaltare un’accezione assolutistica di verità, poiché Opocher rifiuta nettamente concezioni dogmatiche o visioni assolutistiche del reale.
D’altro canto, tale circostanza non deve far pensare alla predilezione per una visione relativista o, all’estremo, nichilista. Questa deduzione oltre ad essere semplicistica, pecca di superficialità.
Il rischio di intendere la verità in maniera assoluta o, al contrario, totalmente priva di significato è innegabile, specie in una società multiculturale e in un’epoca difficile come quella attuale.
Allo stesso modo il relativismo a tutti i livelli crea smarrimento e senso di vuoto: la mancanza di appigli e contenuti, l’indifferenza, la massificazione e l’individualismo possono essere considerati, del resto, il nostro mal du siècle.
L’obiettivo cui devono tendere gli operatori di diritto è quello di rinvigorire l’ordinamento giuridico attraverso un ripensamento dell’idea di giustizia, intesa come valore; ciò si traduce preliminarmente nel riconoscere agli atti e alle azioni dell’uomo una ratio nonché una potenzialità di lasciare un segno nel mondo, in cui la giuridicità sublimata a valore sia, in primis per l’agire, una sorta di parametro orientativo.
Il messaggio opocheriano ci invita a concepire la giustizia come valore al fine di rinvenire in essa un substrato contenutistico imprescindibile, nella misura in cui essa è declinata in riferimento al concetto di verità.
3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
Nell’ottica di un approccio di tipo comparatistico si inserisce l’interesse nei riguardi di filosofi e pensatori contemporanei, i quali hanno discusso e avuto a cuore, come Enrico Opocher, il tema della giustizia.
Intrecciare le esperienze filosofiche di tre contemporanei come Enrico Opocher, John Rawls[10] e Paul Ricoeur [11] significa mettere a confronto contributi e soluzioni eterogenee: la crisi della giustizia, vissuta e dibattuta in contesti geopolitici diversi — rispettivamente Italia, Stati Uniti e Francia — pensata alla luce di esperienze e sensibilità differenti.
Il contributo rawlsiano consta di un approccio procedurale al problema della giustizia, sulla base di principi di equità e giusta distribuzione.
La concezione di giustizia proposta da Rawls si presenta come un modello di giustizia sociale[12], intesa soprattutto come equità, il cui obiettivo è porre rimedio alle diseguaglianze per garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa.
I cittadini di uno Stato democratico non dovrebbero mai accettare le diseguaglianze socio-economiche, causate e perpetuate da un assetto istituzionale che non sia in grado di legittimarle a livello etico e morale: allorquando non si possa giustificare moralmente una disparità di trattamento essa non risulta essere democraticamente accettabile.
Rawls intende perciò la giustizia come meccanismo di redistribuzione delle risorse, al fine di colmare quei deficit di opportunità e di uguaglianza che la natura ha negato agli individui ab origine, il tutto attraverso strumenti messi a disposizione dal diritto e dalle istituzioni: “la struttura fondamentale della società è l’oggetto principale della giustizia”[13] .
Tale impostazione, in aperta polemica con le teorie di matrice utilitaristica, viene criticata da Paul Ricoeur con cui Rawls condivide la necessità di ridefinizione e rivalutazione dell’idea di giustizia.
Il pensiero ricoeuriano si sviluppa attraverso un confronto dialettico tra amore e giustizia, attuato grazie una disamina del linguaggio amoroso e giuridico, oltre che attraverso un attenzione al significato sostanziale dei concetti.
Ricoeur ha dato vita ad un tentativo di conciliazione delle istanze sottese al rapporto amoroso e al rapporto giuridico, avendo come denominatore comune il concetto di riconoscimento[14].
In quest’ottica, valori di solidarietà, mutuo riconoscimento e compassione hanno il compito di rinforzare e dotare di una diversa carica di senso le logiche della giustizia; questo obiettivo è raggiungibile sostanzialmente perché entrambi gli aspetti — giustizia e amore — afferiscono alla condizione umana, la determinano e la definiscono come momenti di massimo fulgore della dimensione antropologica, seppure diversamente declinati[15].
Il filo conduttore tra le riflessioni proposte da Rawls, Ricoeur e Opocher è rinvenibile nell’esaltazione della dignità umana, del rispetto reciproco e del valore dell’alterità, vissuti alla luce dell’idea di giustizia come principio fondante di una società che possa dirsi libera, giusta e democratica.
Se Opocher ha inteso rinvigorire l’idea di giustizia e conseguentemente la funzione del diritto conferendo loro un determinante appiglio valoriale, il medesimo intento è stato perseguito da Rawls e Ricoeur, seppure con metodi e strumenti differenti.
Non deve pertanto stupire se l’invito opocheriano a concepire il diritto e la giustizia come valori, assuma un senso originale ed inedito, nella misura in cui fornisce strumenti interpretativi adatti a cogliere con consapevolezza le complesse e spesso contraddittorie vicende del nostro tempo.
Lungi dal proporre la giustizia quindi come verità universale e assoluta, appare più coerente pensare ad essa come l’alfa e l’omega di un percorso accidentato e tortuoso, un cammino complesso e faticoso, una sorta di ‘motore immobile’ per l’intera società civile, in un quadro che coinvolge simultaneamente la politica, la filosofia e il diritto.
Katia Laffusa
[1] E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia , Milano, 1977, p. 3.
[2] Filosofo italiano del diritto (Treviso 1914 - Padova 2004). Allievo di Ravà e Capograssi, divenne professore di filosofia del diritto nell’università di Padova dal 1948 al 1984 (dal 1990 emerito); fu (1976-83) presidente della Società italiana di filosofia giuridica e politica. Dall’iniziale interesse per il valore dell’individualità nell’idealismo fichtiano, Opocher si avvicinò ai principi dell’esistenzialismo e della filosofia dell’esperienza di Capograssi e, attraverso la critica agli approcci normativisti, diede vita a una «prospettiva processuale del diritto» in cui l’esperienza giuridica viene concepita come valore sia in senso soggettivistico sia nell’accezione di ‘far valere’, ossia di rendere più generalmente valide, nel risultato processuale, posizioni soggettive. Tra le opere principali si ricordano: Fichte e il problema dell’individualità (1944); Il valore dell’esperienza giuridica (1948); Lezioni di filosofia del diritto (1949; ultima ed. 1984); Il problema della natura della giurisprudenza (1953); Analisi dell’idea di giustizia (1977); Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo (1991). Da Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Treccani.
[3] “Certo il senso del valore suggerisce alla coscienza l’idea dell’assoluto. Ma la suggerisce sul piano della coscienza dell’uomo e quindi dell’esistenza e della storia, secondo un processo ascendente. Riferiti all’assoluto i valori perdono ogni significato perché l’assoluto è ciò che deve essere, mentre riferiti all’uomo esprimono la costitutiva esigenza di assoluto che, in ragione della sua contingenza caratterizza la nostra umanità”. Enrico Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1993 p. 46.
[4] A. Punzi, Dialettica persuasione Verità , La pratica della ragione giuridica negli scritti postumi
di Giuseppe Capograssi , in G. Capograssi, La vita etica , Milano, 2008, p. 847.
[5] Cfr. ibidem.
[6] La caratteristica della coralità del processo è stata oggetto di interesse non solo giuridico, ma anche storico-antropologico: è stato assimilato il processo al teatro, e in particolare alle sacre rappresentazioni che si tenevano nei villaggi medievali; si rammenta come durante la pantomima fosse permesso, anche solo per qualche ora, a cittadini di ogni estrazione sociale e particolarmente ai poveri, ai bambini, agli emarginati, di essere il perno della vita collettiva. Questa operazione messa in atto dal teatro, di focalizzazione sulle vicende di soggetti che in genere vivevano invece ai margini della società, è la medesima che si presenta durante il processo; sulla scena, in giudizio ci sono soggetti cui solo la dimensione giuridica ,insieme a poche altre, conferisce una forma di dignità e riconoscimento, riuscendo laddove solo l’arte e in questo caso specifico una rappresentazione teatrale è riuscita.
Cfr. P. Grossi, Uno storico del diritto in colloquio con Capograssi , in Riv. int. fil. dir ., p. 34.
[7] G. Capograssi, Giudizio, Processo, Scienza, Verità in Opere, V, Milano,1959.p. 53.
[8] Ibidem
[9] Ivi, p. 58
[10] (Baltimora, 21 febbraio 1921 – Lexington, 24 novembre 2002)
[11] (Valence, 27 febbraio 1913 – Châtenay-Malabry, 20 maggio 2005)
[12] “La giustizia è la prima virtù dei sistemi sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Si tratta delle prime pagine di Una teoria della giustizia, che Rawls apre con un parallelismo tra i sistemi sociali e i sistemi di pensiero, rinvenendo rispettivamente la giustizia e la verità come elementi fondanti e strutturali. Il testo così prosegue: “Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata e modificata se non è vera. Allo stesso modo leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”. J.Rawls, Una teoria della giustizia , cit., p. 21.
[13] Ivi, p. 24.
[14] Il maggior apporto speculativo sull’argomento si rinviene in P. Ricoeur, Amore e Giustizia, Brescia, 2007
[15] “amore e giustizia si rivolgono all’azione, ciascuno a proprio modo: l’uno e l’altra la rivendicano” appartengono all’uomo con lo stesso impeto e la stessa intensità. Entrambe hanno il potere di spingerlo all’azione, lo trascinano in una dimensione di ineludibile socialità e lo invitano costantemente a prendersi cura degli altri e del mondo, sradicandolo dal suo solipsismo e gettandolo così nella trama delle vicende umane. Cfr Ivi, p 31.
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