ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il contributo è costituito dal testo, con alcune revisioni ed un apparato minimo di note, dell’intervento tenuto al convegno “L’ordinamento penitenziario: prospettive di riforma e impatto sul territorio” organizzato dalla Camera Penale di Terni il 22 novembre 2018.
“Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili”
Dino Campana, lettera a Bino Binazzi, 11 aprile 1930,
dall’ospedale psichiatrico di Castelpulci
Uno sguardo complessivo
Il 10 novembre 2018 sono entrati in vigore i decreti legislativi 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018, che attuano, seppur solo molto parzialmente, la delega in materia di riforma penitenziaria contenuta nella legge 103/2017.
Senza voler anche qui ripercorrere le tappe che hanno contraddistinto il travagliato percorso di quella legge, deve almeno sottolinearsi come si trattasse, nelle intenzioni del legislatore (a tratti però caratterizzate dal mozartiano “vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”), di mettere mano in modo ampio e lungimirante all’ordinamento penitenziario del 1975 e, ad oltre quaranta anni da quel testo, ripensare in modo complessivo l’esecuzione penale, ponendola al passo con le elaborazioni compiute nel corso dei decenni dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Proprio per questo l’iter normativo, poi rivelatosi bradipico, era stato affiancato da un solido percorso di approfondimento, portato avanti da oltre duecento esperti in materia penitenziaria, tratti dall’accademia, dalla magistratura di sorveglianza, di cognizione e requirente, dall’avvocatura, dai mondi del volontariato, della polizia penitenziaria, dell’amministrazione e della cultura, che prese il nome di Stati Generali dell’esecuzione penale, ed i cui risultati costituiscono un bagaglio cui sperabilmente potrà attingersi ancora in futuro, se solo si avrà la pazienza e la voglia di tornarvi sopra.
C’era consapevolezza che, a dispetto delle tempistiche poi imposte forse anche dalle contingenze politiche, vi fosse urgenza di intervenire, nel quadro imposto dalla condanna CEDU nel caso Torreggiani, ed a fronte di un sovraffollamento penitenziario di nuovo a livelli di guardia, di un elevato tasso di suicidi tra i detenuti, e di un senso diffuso di inefficacia dei percorsi rieducativi attuati nel contesto carcerario.
E’ in questo senso assai significativo che, in una sorta di staffetta in cui però soltanto la Consulta ha mostrato di non avere affatto il fiato corto, alle lentezze del legislatore abbiano fatto riscontro incisivi interventi della Corte Costituzionale che hanno anticipato, via via, alcuni dei punti di delega ancora in attesa di attuazione (sent. 41/2018) o hanno dato risposte di adeguamento costituzionale anche ad alcuni profili particolari di quelle norme che il legislatore non aveva voluto fossero toccate dalla delega, cedendo alla tentazione di considerarle dei simboli immodificabili, pur a fronte delle motivate argomentazioni contrarie espresse dagli Stati Generali: mi riferisco alla disciplina contenuta negli articoli 4 bis e 58 quater (sent. 149/2018) e al 41 bis (sent. 186/2018) dell’ordinamento penitenziario. La Consulta ha così ribadito più volte come la Costituzione operi anche in questi campi quale presidio ineludibile, che non arretra nella tutela dei diritti fondamentali della persona, anche a fronte di una elevata pericolosità sociale, pretendendo verifiche serie circa la congruità e proporzionalità delle limitazioni al trattamento imposte da motivi di sicurezza e la tendenziale rinuncia a preclusioni assolute ad una valutazione discrezionale, rimessa alla magistratura di sorveglianza, circa la maturità dei percorsi intramurari in vista della concessione di misure alternative alla detenzione.
All’elaborazione tecnica delle norme con le quali la delega avrebbe potuto essere esercitata nella sua interezza furono nel luglio 2017 preposte tre Commissioni di studio (presiedute dai Professori Giostra e Pelissero e dal dott. Cascini), i cui lavori sono leggibili on line e, ancora, costituiscono una testimonianza dei plurimi profili, poi invece non affrontati, che avrebbero potuto trovare risposte ponderate, e tutt’altro che avventuriste, per quel che conta l’opinione di chi scrive, per ripensare l’esecuzione penale in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato.
Al lavoro di quelle Commissioni si ispirano anche i decreti legislativi emanati dal Governo a ottobre 2018. Nonostante il riferimento, nella relazione illustrativa fornita alla Camere, circa una redazione nuova dei testi, rispetto a quella emersa dalle Commissioni e già portata all’attenzione del Parlamento prima dell’inizio della nuova legislatura, i testi oggi tradotti in legge continuano ad essere quelli, solo che degli originali si sussumono soltanto poche disposizioni, sterilizzando l’attuazione della delega rispetto ad alcuni profili invece centrali: primi fra tutti la semplificazione all’accesso alle misure alternative e la riduzione degli automatismi ostativi alla loro concessione. Di altre parti della delega, ad esempio in materia di affettività delle persone ristrette, già i precedenti schemi di decreto legislativo presentati a dicembre 2017 e marzo 2018 non accoglievano le indicazioni fornite dalla Commissione Giostra e optavano per il mancato esercizio.
La Commissione aveva sul punto disegnato un prudente, meditato, sistema per consentire ai ristretti incontri intimi con i propri partner, e più in generale con i propri familiari, ma probabilmente il tema si esponeva ad una lettura pruriginosa che nessuno aveva voglia di smentire, nonostante fossero sufficienti a farlo elementari argomentazioni relative ai diritti fondamentali, alla tutela dell’unità familiare e al pensiero medico e psicologico più moderno circa il ruolo di una sessualità sana nella quotidianità delle persone.
Dalle lettura dei testi licenziati da ultimo con i decreti legislativi 123 e 124 (una diversa sede si impone per valutare l’ampio testo relativo all’ordinamento penitenziario minorile), la difficoltà maggiore sembra essere quella di cogliere gli scopi dell’intervento normativo così come da ultimo realizzatosi. Le norme, come già detto, spesso erano inserite in un contesto più ampio, dal quale traevano ragion d’essere. Come oggi leggibili, invece, scontano un certo atomismo e sembrano, per dirla con Heidegger, “povere di mondo”, povere di obbiettivi, povere di una visione complessiva dei problemi sul tappeto, e in definitiva poste in un tessuto, logorato dal tempo, nel quale si operano alcuni rammendi anche molto apprezzabili, ma senza che la tela sia in alcun modo rinforzata, con la conseguenza di rischiare soltanto nuove lacerazioni e comunque di non colmare le più gravi lacune della trama.
In tal senso, ad esempio, era ed è assai urgente la presa in carico del drammatico problema della salute mentale in carcere, attinto negli anni scorsi dalla riforma che ha chiuso finalmente gli ospedali psichiatrici giudiziari, istituendo le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma che ha lasciato importanti lacune nella disciplina delle stesse. Si è anche verificato, contestualmente, un totale silenzio sulla sorte dei ristretti che abbiano maturato una patologia psichiatrica nel corso dell’esecuzione penale e perciò non siano soltanto destinatari di misure di sicurezza psichiatriche, ma si trovino ad eseguire pene detentive in un sistema che non appare adeguato alla cura delle relative patologie. La S.C., mentre si attendeva l’esercizio della delega sul punto, si era portata avanti sottoponendo alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen. nella parte in cui non consente il differimento della pena anche per le patologie psichiatriche che appaiano incompatibili con la detenzione (cass. ord. 23 novembre 2017 n. 13382 – mentre Trib. Sorv. Messina ord. 28 febbraio 2018 tentava una lettura costituzionalmente orientata per raggiungere lo stesso risultato). La questione resta oggi decisamente urgente perché, su tutto ciò, la riforma non ha aggiunto parola.
Alcuni percorsi tra le norme introdotte:
Tenuto conto delle difficoltà ricostruttive fin qui rappresentate, e nell’impossibilità di commentare analiticamente in questa sede tutti gli interventi, spesso microchirurgici, operati[2], si propongono qui soltanto alcuni possibili percorsi di lettura dei due decreti legislativi che modificano l’ordinamento penitenziario:
a) Vita penitenziaria
L’esercizio della delega nella parte relativa alla vita detentiva è stato piuttosto ampio. Si richiedeva un intervento volto, nel solco delle regole penitenziarie europee, a rendere il quotidiano intramurario più dignitoso e comunque il più possibile aderente alla vita libera, dando anche impulso alle esperienze amministrative che in questi anni avevano favorito la sorveglianza dinamica e cioè una modalità di osservazione delle persone ristrette basata sul loro impegno in attività trattamentali idonee a riempirne le giornate e riportarli nelle stanze detentive solo per il riposo e per un numero di ore limitato.
Nel testo normativo si interviene innanzitutto sull’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario, arricchendolo di richiami a diritti e garanzie costituzionali. A differenza dei precedenti schemi di decreto legislativo adottati, però, scompare il riferimento espresso alla sorveglianza dinamica.
Il nuovo comma 1 prevede comunque non soltanto una versione più ampia e comprensiva del principio di non discriminazione, ma anche un riferimento alla necessità che il trattamento penitenziario sia conforme a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.
Si tratta di enunciazioni importanti, che stimolano l’amministrazione a superare un approccio infantilizzante da sempre insito nel carcere e che richiedono di immaginare una vita penitenziaria ricca di attività e di momenti di condivisione al di fuori delle stanze detentive, tutti elementi propri della c.d. sorveglianza dinamica che dunque, se non viene espressamente evocata, non può neppure dirsi contraddetta. Un suo abbandono con ripristino di spazi di movimento più esigui fuori stanza e riduzione delle attività risocializzanti si scontrerebbe con queste affermazioni, anche tenuto conto che, tra l’altro, il minimo di ore da trascorrersi all’aria aperta è stato portato, con il nuovo testo dell’art. 10, ad un minimo di quattro e che il tempo per la socialità, secondo l’interpretazione giurisprudenziale più recente, deve aggiungerglisi, essendo destinato il primo alla tutela della salute del ristretto ed il secondo alla funzione rieducativa.
Nell’articolo 1, inoltre, si parla espressamente, per la prima volta, di un divieto di discriminazione sulla base del sesso, dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Una disposizione che si concretizza subito nelle regole inserite nel nuovo articolo 14: Le donne devono essere collocate in istituti o sezioni di dimensioni tali da non compromettere le attività trattamentali; si pone fine alla prassi per la quale la mera dichiarazione all’ingresso in carcere del proprio orientamento sessuale omosessuale, o la semplice condizione di persona transgender, conducevano l’amministrazione ad allocare il detenuto in una sezione protetta, per evitare possibili rischi di aggressioni da parte della restante popolazione detenuta. La nuova norma precisa che ciò può ormai accadere soltanto con il consenso della persona interessata, dovendo altrimenti procedersi ad una allocazione in sezione comune.
Si passa quindi da una disposizione concretamente ghettizzante ad una di tutela antidiscriminatoria. Di più, si prevede che le sezioni protette adibite a questo scopo non possano ospitare promiscuamente altre categorie di protetti, disomogenee, per evitare che la protezione di fatto sia vanificata. Allo stesso modo si dispone che, comunque, anche i ristretti nella sezione protetta dispongano di adeguate opportunità trattamentali da utilizzare, con superamento dei rigidi steccati tra circuiti, anche con gli altri detenuti comuni. Una previsione che lascia ben sperare circa la volontà di affrontare i pregiudizi anche in carcere, e provare a vincerli attraverso una maggior conoscenza reciproca invece che mediante la segregazione.
Altre norme appaiono purtroppo formulate in modo talmente poco cogente da lasciare dubbi circa la reale capacità di modificare l’esistente. Apporre clausole come: “ove possibile” (art. 5 c. 2, art. 9 c. 1), “è preferibilmente consentito” (art. 6 c. 5), “è garantito … salvo che particolari condizioni” (art. 6 c. 6), in correlazione con vari aspetti di dettaglio dell’offerta trattamentale penitenziaria, sembra una soluzione talmente prudente da risolversi in poco più che un consiglio garbato e pronunciato sottovoce.
In molte altre disposizioni, però, il tenore del testo è inequivoco e chiarisce che la persona ristretta vanta posizioni di diritto. Oltre le già citate, l’art. 14 nuovo comma 1 enuncia il diritto all’assegnazione nell’istituto penitenziario il più possibile vicino alla stabile dimora familiare o al centro di riferimento sociale, salva l’indicazione di specifici motivi contrari. Un’affermazione opportunamente doppiata dall’articolo 42, per quanto concerne i trasferimenti, obbligando l’amministrazione penitenziaria a dar conto delle eventuali ragioni che necessitino una deroga e a rispondere in un termine di sessanta giorni alle richieste di trasferimento pervenute dai detenuti.
Nell’articolo 18 si chiarisce, in aderenza a quanto da tempo enunciato dalla Corte Costituzionale (sent. 212/1997), che sussiste un diritto a conferire con il proprio difensore, salva la strettissima previsione dell’art. 104 cpp, sin dall’inizio della misura o della pena. Una affermazione da completarsi con quanto deducibile circa l’incomprimibilità anche della corrispondenza telefonica con il difensore dalla sentenza Corte Cost. 143/2013, resa in relazione a detenuti in regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen.
La medesima nuova norma affianca alla posizione del difensore quella dei garanti dei diritti dei detenuti, con la conseguenza di fornire ulteriori elementi utili a superare le oscillazioni emerse sul punto in giurisprudenza di merito, parzialmente chiarite dalla cassazione, con pronuncia che però si appoggiava alla precedente versione dell’articolo 18 (cass. sent. 27 giugno 2018, n. 46169).
Ancora rilevanti sono le disposizioni che impongono particolare attenzione alla formazione scolastica e professionale delle donne, evitando discriminazioni di fatto collegate all’esiguo numero delle detenute ristrette, e che prevedono di attivare corsi di insegnamento della lingua italiana e dei principi costituzionali in favore dei detenuti stranieri, che quasi sempre affrontano i percorsi detentivi con una drammatica carenza di risorse, innanzitutto affettive e poi materiali, e sperimentano la durezza di regole che nessuno ha trovato il tempo e il modo di far loro comprendere anche alla luce dei fondamenti costituzionali che dovrebbero informarle.
Di diretta derivazione dalla proposta della Commissione Giostra di riforma dell’ordinamento penitenziario sono le molte disposizioni sul lavoro penitenziario, tra le quali segnalo la norma che prevede maggiore trasparenza e criteri certi nell’assegnazione al lavoro intramurario, contribuendo ad eliminare opacità che sono spesso oggetto delle doglianze dei ristretti rispetto ad un tema davvero strategico perché si realizzi la funzione risocializzante della pena.
Questa ampia serie di modifiche è destinata, dall’angolo visuale del magistrato di sorveglianza, a supportare il controllo di legalità a lui rimesso e di certo amplierà il ricorso al reclamo inibitorio ex art. 35 bis e 69 comma 6 lett. b) nei confronti dei comportamenti attivi od omissivi dell’amministrazione da cui derivino pregiudizi gravi ed attuali all’esercizio di diritti della persona detenuta.
b) Misure alternative e procedimento di sorveglianza
Com’è noto, e come pure qui è stato ricordato, il Governo ha deciso di non esercitare la delega in tema di facilitazione all’accesso alle misure alternative e riduzione delle preclusioni (che comunque già non avrebbero potuto riguardare, secondo il testo della L. 103/2017, i delitti di mafia e terrorismo).
Tuttavia vengono introdotte alcune modifiche di interesse: una in tema di competenza a delibare in ordine al differimento dell’esecuzione della pena per le ipotesi concernenti la condannata in cinta o madre di un infante di età inferiore ad anni 1, rimesso ora al magistrato di sorveglianza, in correlazione con le rime obbligate del provvedimento, una volta accertata la condizione personale della donna per come sopra descritta. Una seconda modifica concerne l’introduzione di un rito, con caratteristiche di marcata originalità, che consente al magistrato di sorveglianza componente del collegio che dovrà delibare in via definitiva sull’istanza di misura alternativa, di concederla in via provvisoria quando la stessa provenga da un condannato libero in sospensione in relazione ad una pena non superiore a diciotto mesi. Ove ciò accada, e non vi sia opposizione, il Tribunale di sorveglianza, se non è di contrario avviso, può ratificare senza formalità, altrimenti dovrà fissare udienza.
Al di là dei non pochi problemi organizzativi che i primi commentatori hanno già evidenziato, mette conto qui dire che la disposizione, che aveva dichiarati intenti di semplificazione, sembra oggi perdere di senso a fronte dell’assenza di quel complesso di modifiche che in materia di misure alternative era stato pensato, residuandone una utilità soltanto perché i Tribunali di sorveglianza più gravati da arretrato in materia di liberi in attesa di esecuzione della pena ex art. 656 comma 5 c.p.p. possano, almeno in ipotesi, abbattere i tempi di decisione. Occorrerà verificare in concreto se questo obbiettivo sarà raggiunto, superando gli ostacoli organizzativi che un rito così peculiare sta iniziando a produrre.
Sono poi sopravvissute norme volte a consentire ai gravati Uffici esecuzione penale esterna di utilizzare il contributo della polizia penitenziaria nel vigilare sull’esecuzione delle misure alternative, mentre non sono state introdotte le norme pensate per riempire di più concreti e impegnativi contenuti risocializzanti le misure stesse, la cui disciplina resta pertanto invariata.
Ha invece una rilevanza sistematica tutt’altro che secondaria la modifica introdotta nell’articolo 51 ter ordinamento penitenziario, rubricato “sospensione cautelativa delle misure alternative”, nel quale si precisa che, di fronte a comportamenti suscettibili di determinare la revoca della misura, il magistrato di sorveglianza investe il Tribunale di sorveglianza perché si pronunci sul punto e, solo eventualmente, dispone la sospensione della misura nelle more della decisione, con il conseguente accompagnamento in istituto penitenziario del trasgressore. Si imposta quindi, più correttamente che in passato, l’ordine dei possibili interventi del magistrato di sorveglianza che, sorvegliando l’esecuzione della misura, vaglia i comportamenti negativi di chi vi sia sottoposto, e secondo la prassi da tempo seguita presso gli uffici di sorveglianza può diffidarlo al compiuto rispetto delle prescrizioni, oppure convocarlo presso l’ufficio per verificare le difficoltà che sta incontrando, e mettere perciò in atto una serie di opzioni precedenti rispetto all’opzione più traumatica del ripristino provvisorio dello stato detentivo, ora indicato, appunto, come solo eventuale, nel comma 2 dell’art. 51 ter.
Soprattutto, si prevede che il Tribunale di sorveglianza chiamato a valutare la necessità della revoca della misura, possa decidere di farla proseguire ma anche di sostituirla con altra, che si riveli più adatta alle esigenze risocializzanti del condannato, a fronte di suoi inadeguati comportamenti. Si consegna, in tal modo, all’autorità giudiziaria un più ampio spazio di discrezionalità che consente di individualizzare e graduare la risposta alle violazioni delle prescrizioni in funzione della loro effettiva gravità e delle prospettive esterne nel frattempo emerse in favore dell’interessato. Un’opportunità davvero preziosa, che per altro consente di evitare il draconiano divieto di concessione di misure alternative per tre anni dalla revoca che, prima della novella, con l’obbligatoria opzione della revoca inibiva ogni soluzione alternativa, per quanto la stessa fosse più contenitiva e rassicurante di quella rivelatasi in precedenza inadeguata.
c) Sanità penitenziaria
Le disposizioni del decreto legislativo 123 dedicate all’assistenza sanitaria condividono con le altre, già quanto alla formulazione prescelta, criticità ed elementi che possono salutarsi con favore.
La materia toccata è tra le più dolenti dell’universo carcerario, e ciò nonostante dal 1999 si stia portando avanti il definitivo riordino della medicina penitenziaria secondo un riparto di competenze che onera le aziende sanitarie locali realizzando sul piano dei principi la parità di trattamento tra soggetti liberi e ristretti.
Le principali difficoltà sarebbero, con lo sguardo del pratico, risolvibili soprattutto mediante efficaci protocolli di intesa e attraverso un meditato, doveroso, ripensamento organizzativo che non può che poggiare sulla massima collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni e l’autorità giudiziaria coinvolta.
In questo senso, l’efficacia di molte delle modifiche introdotte nell’articolo 11 ordinamento penitenziario dovrà essere vagliata alla luce del lavoro di coordinamento che, stimolati dalle innovazioni normative, i territori sapranno impostare.
In particolare, tra l’altro, nel nuovo testo si pone l’accento sulla necessità di garantire la continuità terapeutica. E’ una esigenza cui dare primaria importanza, frustrata in molti modi dai difetti di dialogo tra le istituzioni coinvolte, da una burocrazia ignara delle peculiarità del mondo penitenziario e non da ultimo dalle carenze di risorse di cui il sistema penitenziario soffre. Succede così che un trasferimento possa determinare la perdita del posto in lista d’attesa per un esame specialistico da lungo tempo atteso, o che il cambio di referente medico ponga nel nulla una terapia già impostata oppure che una scorta, necessaria a tradurre il ristretto nel giorno in cui l’intervento chirurgico è stato finalmente calendarizzato, debba essere dirottata verso altre urgenze, con ciò vanificando di fatto le priorità acquisite.
Nel secondo comma dell’articolo, lì dove si garantisce un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati, con espressione analoga a quella utilizzata nel già vigente comma 1, scompare il riferimento all’opera di “almeno uno specialista in psichiatria”. Potrebbe apparire un intervento destinato a fotografare l’esistente, eliminando un obbligo che nella pratica è a volte disatteso, con enormi difficoltà a fornire adeguata assistenza psichiatrica ai ristretti. Tuttavia, a una simile lettura, di fatto opposta allo spirito della delega, che invece presuppone un potenziamento dell’offerta sanitaria intramuraria, può forse preferirsi l’interpretazione per la quale il riferimento ad un solo specialista in psichiatria definisse un minimo insoddisfacente rispetto ad una valutazione che il servizio sanitario deve fare tenendo conto delle peculiarità di ogni istituto penitenziario. D’altra parte le esigenze di cura di cui la norma parla sono certamente riferibili alla salute fisio-psichica.
Il riparto di competenze in materia di autorizzazione a disporre i ricoveri in luogo esterno di cura, similmente ad altri istituti dell’ordinamento penitenziario, è stato uniformato nel senso che alla magistratura di sorveglianza sia attribuita la valutazione concernente soltanto detenuti definitivi ed internati. Al di là dell’indubbia coerenza di una scelta che rimette all’autorità giudiziaria procedente le valutazioni opportune nel corso del processo, non può non segnalarsi che si tratta di una opzione destinata a rallentare i tempi di ottenimento delle autorizzazioni, coinvolgendo giudici che difettano delle caratteristiche di prossimità proprie della magistratura di sorveglianza.
Riprendendo il cammino
Al termine del percorso riformatore, molti temi che avrebbero dovuto trovare soluzioni sono rimasti sul tappeto e l’emergenza di un nuovo sovraffollamento lascia pensare che vecchi problemi torneranno presto ad affannare gli operatori del mondo penitenziario. Non ultimo c’è da immaginare che saremo raggiunti da nuove critiche della Corte Europea, rassicurata negli scorsi anni da un orizzonte di cambiamenti prospettati e poi allo stato non realizzati.
D’altra parte le caratteristiche della popolazione detenuta odierna, segnata da plurime marginalità sociali, richiedono una attenzione crescente da parte della società e dei territori, affinché le pene non siano parentesi inutili ma efficaci strumenti per il reinserimento sociale dei rei e per garantire la sicurezza della collettività.
Il rischio più concreto è che l’attenzione torni ad allontanarsi dall’esecuzione penale e che gli istituti penitenziari invece di aprirsi maggiormente al sostegno e alla cura delle comunità, invece di divenire luoghi in cui si sperimenta un modello di società inclusiva, capace di produrre non solo scarti baumaniani, ma anche persone che tornino ad essere o siano per la prima volta parti attive della società, secondo il mandato dell’articolo 3 della Costituzione, restino luoghi di cui importante è solo l’altezza del muro e non quello che vi accade dentro.
L’occasione fornita dalle sia pur limitate novità normative introdotte, e la consapevolezza delle urgenze ancora irrisolte, deve bastare per tenere accesi i riflettori sul mondo penitenziario.
Alla magistratura di sorveglianza spetta il compito di garantire l’attuazione piena dell’articolo 27 della Costituzione, con quella indefettibile tensione delle pene alla rieducazione che la Consulta ha così ampiamente ricordato anche nelle sue ultime pronunce. Agli operatori tutti resta, per combattere isolamento e oblio, l’antidoto efficace insegnato dagli Stati Generali, che è il dialogo tra professionalità diverse e l’elaborazione di percorsi condivisi ed illuminati dalla guida sicura, dallo scudo, come ha di recente affermato il Presidente della Corte Costituzionale Lattanzi in visita alla Casa Reclusione di Roma “Rebibbia”, della Carta Costituzionale.
Fabio Gianfilippi
Magistrato di sorveglianza di Spoleto
[1] Il contributo è costituito dal testo, con alcune revisioni ed un apparato minimo di note, dell’intervento tenuto al convegno “L’ordinamento penitenziario: prospettive di riforma e impatto sul territorio” organizzato dalla Camera Penale di Terni il 22 novembre 2018.
[2] Si rimanda, per una analisi dettagliata dei dlgs alle prime letture intervenute in dottrina: M. BORTOLATO, Luci e ombre di una riforma a metà: i decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Questione Giust. 9 novembre 2018; L. CARACENI, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni in Dir. Pen. Cont. 16 novembre 2018; A. DELLA BELLA, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in Dir. Pen. Cont. 7 novembre 2018; V. MANCA, Lavoro penitenziario. Le nuove disposizioni varate dal Governo, in Il Penalista, 5 novembre 2018; M. RUARO, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli ufficili locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, in Dir. Pen. Cont. 9 novembre 2018.
GLI ANNI SEGUENTI (1998 - 2008)
Ho ancora dei files elaborati per il Movimento ma sinceramente non mi ricordo dove e perché…forse si stava facendo il sito?
Comunque sono bellini e quindi li riporto anche qui. Questo del giugno 1998
Questi due del 2000:
E sono arrivato alla fine del mio percorso…
Devo dire però che nel 2008 venni in parte coinvolto da Paola Filippi nell’elaborazione della rivista “Giustizia Insieme” in alcune elaborazioni grafiche (che non hanno mai trovato la luce ma mi piacevano - e mi piacciono - egualmente) tipo questo studio di sfondo:
….o ancora
Devo dire che la rivista, che vide la luce nel 2009, si era ormai caratterizzata per un suo taglio professionale e quindi vi era poco spazio per dilettanti o vignettisti allo sbaraglio…
Bella la copertina di uno dei primi numeri:
Mi direte … e tu che c’entri? … beh il disegno della gente in movimento l’ha fatto una bravissima tecnico grafica di professione, ma io mi ero permesso di suggerire qualche piccolissima correzione (cordoni, bavetta, taglio e lunghezza della toga) che la professionista poi aveva seguito. Mi direte ancora … e come mai? Lei, bravissima, era di altra nazionalità (se non ricordo male olandese) e abituata a toghe diverse !
Un altro consiglio diedi sulla tonalità del verde, che - per caso o per merito di questo piccolo suggerimento – alla fine risultò molto più deciso rispetto ai verdi un po’ troppo pallidi delle origini.
Ed in chiusura mi consentirete una vignetta su temi di attualità, che mi trattano più da vicino:
ERAVAMO UN PO’ MENO GIOVANI (1997)
Dopo una pausa ricominciava la mia collaborazione con la rivista del Movimento.
Devo precisare che la pausa non era dovuta a motivi ideologici o di motivazione, ma solo che non mi so organizzare bene e mi faccio sempre condizionare dai vari impegni di lavoro. Per cui solo quando compare qualcuno che mi “costringe” mi rilancio in quello che poi è sempre stata una cosa assolutamente piacevole. Nella specie il “motivatore” era stato Piero Martello, Pretore in Milano, che - credo dal 1986 - aveva assunto la Direzione della Rivista.
Ed ecco il numero che ha visto anche la mia fattiva partecipazione:
Due immagini per l’articolo a pagg. 21 e 22:
Ha continuato la mia collaborazione nel numero successivo (non ne ho più la copia, ma ho i files riassunti nel seguente quiz del novembre 1998):
E c’erano anche questi due sul tema vacanze:
La Cassazione, ripercorrendo un orientamento già noto nella giurisprudenza di legittimità, ha di recente affermato la struttura bifasica del giudizio delle opposizioni esecutive chiarendo la ratio della necessaria preventiva fase cautelare dinanzi al G.E. La vera novità della decisione, per quanto dubbia, si individua nel richiamo del vizio nella nullità del procedimento incardinato dinanzi ad un giudice diverso.
Sommario: 1. L’esame del caso concreto. – 2. Rationes della struttura bifasica delle opposizioni esecutive. – 3. Conseguenze in caso di non conformità dell’atto di opposizione: la nullità dell’atto.- 4. Osservazioni conclusive.
1. L’esame del caso concreto.
La Cassazione è di recente intervenuta sul rapporto tra giudizio sommario e giudizio di merito delle opposizioni esecutive, questione di grande rilevanza, anche per la nota diversificata prassi degli uffici giudiziari.
L’analisi del caso di specie è emblematica e esemplificativa: in particolare, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione era stata avanzata con ricorso ex art. 186 bis disp. att. c.p.c., direttamente in sede di merito al giudice della cognizione, omettendo il preventivo svolgimento della fase sommaria prevista dagli artt. 617 co.2 e 618 c.p.c.
La parte opposta aveva eccepito l’irregolarità del giudizio per la mancata proposizione dell’istanza cautelare, ma il giudice di merito aveva respinto l’eccezione statuendo che la fase preliminare sommaria davanti al giudice dell’esecuzione, prevista dalle norme del codice di procedura civile citate, non è necessaria, ma è prevista nell’interesse della sola parte opponente.
Più chiaramente, secondo questo orientamento, è solo la parte opponente a dover valutare se richiedere al giudice dell’esecuzione l’emissione di provvedimenti cautelari. Ove non intenda procedere in via cautelare, la stessa parte opponente sarebbe quindi libera di instaurare direttamente la fase di merito davanti al giudice competente.
La Cassazione, chiamata ad intervenire sull’argomento, ha ribaltato le conclusioni del giudice di merito.
In particolareil Supremo Consesso ha chiarito che la fase sommaria del giudizio di opposizione davanti al giudice dell’esecuzione, prevista dagli artt. 615 co.2 c.p.c. (per l’opposizione all’esecuzione), 617 co. 2 e 618 (per l’opposizione agli esecutivi) e 618 c.p.c. (per l’opposizione di terzo all’esecuzione), non è meramente facoltativa, ma al contrario necessaria. Anzi, anche nel caso in cui la parte opponente non intenda richiedere provvedimenti cautelari è comunque necessario introdurre l’opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione con l’instaurazione del contraddittorio in seno al processo esecutivo, prima di instaurare il giudizio di cognizione ordinaria.
2. Rationes della struttura bifasica delle opposizioni esecutive.
Si disegna, così, la “struttura bifasica” delle opposizioni esecutive: al contrario di quanto affermato dal giudice di merito, infatti, si rileva che il giudizio di opposizione è crocevia di diversi interessi, non solo riconducibili a quelli della parte opponente, ma anche (e soprattutto) di rilievo pubblicistico e di tutela delle altre parti del processo esecutivo. Esigenze che non possono essere rimesse alla sola volontà della parte opponente e che si pongono con speciale rilievo, risultando ancor più radicalmente inderogabili, con riferimento all’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 co. 2 c.p.c., dal momento che in tal caso deve essere sempre consentita al giudice dell’esecuzione l’emissione di eventuali provvedimenti urgenti ai sensi dell’art. 618, co.1 e 2, c.p.c.
Nel dettaglio, la previsione di una necessaria fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione risponde a diverse finalità:
i) Incentivare l’utilizzo di strumenti deflattivi.
In tal senso, l’interpretazione del testo legislativo è chiaramente quella di disegnare una fase di opposizione di merito solo eventuale e da evitare, se non necessaria, favorendo piuttosto la risoluzione all’interno del processo esecutivo: la previsione generalizzata di una fase sommaria preliminare è volta proprio ad incentivare l’utilizzo di strumenti deflattivi, dando modo alla parte di valutare se effettivamente dare corso ad una fase di merito.
ii) Rendere edotto dell’opposizione il Giudice dell’esecuzione.
In particolare, la struttura bifasica permette di rendere il giudice dell’esecuzione il vero dominus dell’azione esecutiva, consentendogli l’eventuale esercizio di poteri officiosi di verifica della regolarità dello svolgimento dell’azione esecutiva e l’esercizio del suo potere direttivo potendo concludersi lo stesso con l’emanazione di provvedimenti tali da rendere superfluo un esame nel merito.
iii) Far conoscere l’avvenuta proposizione dell’esecuzione a tutte le parti del processo esecutivo.
La preliminare opposizione da svolgere in sede esecutiva consente una conoscenza effettiva dell’avvenuta opposizione a tutte le parti del processo esecutivo, anche se non interessate direttamente o se intervenuti: si pensi al caso in cui con l’esecuzione si contesti solo il diritto di procedere in via esecutiva e non anche il diritto dell’interventore munito di titolo esecutivo. Quest’ultimo, però, ha un chiaro interesse a conoscere dell’opposizione, pur non essendo litisconsorte del relativo giudizio . Ancor più rilievo ha, poi, la conoscenza dell’opposizione da parte di soggetti terzi, che non sono parti del processo esecutivo, ma che possono avere degli interessi (basti pensare agli interessati all’acquisto di beni pignorati che possono conoscere dell’avvenuta opposizione consultando il fascicolo dell’esecuzione).
Quanto affermato trova riscontro, secondo la Corte di Cassazione, in un’analisi sistematica: la previsione dell’assegnazione, da parte del giudice dell’esecuzione ed al termine della preliminare fase sommaria, di un termine perentorio per l’instaurazione del giudizio di merito, non avrebbe senso se si potesse prescindere dalla fase sommaria per mera volontà della parte. La mancata o tardiva introduzione della fase di merito ha poi, secondo giurisprudenza costante, conseguenze di rilievo tanto sulla procedibilità dell’azione di cognizione quanto in relazione al processo esecutivo.
Secondo la Corte, in particolare, “ la conseguenza della improcedibilità della fase di merito a cognizione piena del giudizio di opposizione, nel caso in cui non siano correttamente osservate le modalità di introduzione e di prosecuzione del procedimento, secondo la struttura bifasica normativamente delineata, non può che condurre (a più forte ragione, determinandosi in caso contrario una evidente incoerenza sistematica) alla medesima conclusione nell’ipotesi in cui la fase sommaria innanzi al giudice dell’esecuzione sia addirittura omessa. Anche in tal caso, cioè, la fase di merito a cognizione piena del giudizio di opposizione sarà improcedibile (e quindi la relativa domanda improponibile), in quanto non preceduta e correttamente raccordata con la necessaria ed indefettibile preventiva fase a cognizione sommaria del medesimo giudizio davanti al giudice dell’esecuzione”.
In conclusione, la struttura bifasica dell’introduzione delle opposizioni esecutive costituisce una disciplina processuale non derogabile.
3. Conseguenze in caso di non conformità dell’atto di opposizione: la nullità dell’atto.
Il Collegio, a questo punto, individua le conseguenze della proposizione di un atto di opposizione non conforme al modello legale, situazione che viene a configurarsi quando i) l’atto introduttivo abbia una forma diversa dal ricorso; ii) la domanda giudiziale che tale atto veicola non è rivolta al giudice dell’esecuzione, ma al Tribunale o meglio al giudice competente a conoscere il merito; iii) quanto l’atto non viene depositato nel fascicolo dell’esecuzione, ma sia iscritto direttamente al ruolo degli affari contenziosi formando un diverso fascicolo processuale.
Con riferimento a tutte le ipotesi la Suprema Corte afferma chiaramente che si configura la nullità dell’atto, atteso il suo discostamento dal modello legale che, non consentendo l’immediata conoscenza del contenuto dell’opposizione da parte del giudice dell’esecuzione, risulta inidoneo a raggiungimento del proprio scopo.
La nullità però può essere oggetto di sanatoria ex art. 156 co. 3 c.p.c. nel caso in cui, con la trasmissione al giudice dell’esecuzione, sia raggiunto comunque lo scopo e gli sia consentito conoscere il contenuto dell’opposizione. E’ cioè “necessario e sufficiente che l’atto introduttivo difforme dal modello legale pervenga agli atti del fascicolo dell’esecuzione”.
La sanatoria è operante diversamente a seconda che l’eventuale ritardo dell’inserimento dell’atto introduttivo dell’opposizione nel fascicolo dell’esecuzione sia imputabile o meno alla parte opponente: i) nel caso in cui il tardivo inserimento dell’atto non sia imputabile all’opponente la sanatoria “potrà operare fin dalla data del deposito del ricorso”; ii) ove il tardivo inserimento sia dipeso da errore o scelta processuale della parte la sanatoria opererà dal momento in cui il giudice di merito, rilevata la nullità, provveda a trasmettere gli atti al giudice dell’esecuzione o da quando la parte, accortasi dell’errore, chieda la trasmissione al giudice dell’esecuzione, così sanando la nullità.
In conclusione, secondo la Suprema Corte, la domanda di merito andrà dichiarata improponibile quando:
i)Il giudice di merito non abbia rilevato la nullità e il relativo giudizio sia proseguito. In tal caso la nullità si traduce in motivo di impugnazione del provvedimento di definizione del giudizio di merito;
ii)La parte non abbia fatto rilevare la nullità chiedendo la trasmissione degli atti al giudice dell’esecuzione o il suo rilievo sia intempestivo.
4. Osservazioni conclusive
La pronuncia, specie nella parte in cui ricostruisce il vizio dell’atto in termini di nullità, pone taluni problemi già rilevati dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito[1] più attente che distinguono i presupposti di validità o procedibilità del processo dalle questioni relative alla forma contenuto dell’atto, di cui senza dubbio fa parte la nullità e che di solito si sviluppano quando il processo è stato validamente instaurato. E’indubbio che la decisione richiamata potrebbe essere solo la prima di un dibattito giurisprudenziale destinato ad ampliarsi. E’stato subito evidenziato, infatti, che pur volendo ritenere che l’atto introduttivo sia affetto da nullità e cercando un coordinamento del vizio individuato con le norme del codice di procedura civile, la richiamata conclusione non è esente da dubbi.
Riprendendo esattamente quanto scritto, “si può ipotizzare, non senza qualche forzatura
In ambedue i casi, però, sarebbe la parte a dovere, su ordine del Giudice, rinnovare la citazione entro un termine perentorio (si badi, con conseguenze diverse, nell’una e nell’altra ipotesi, quanto alle decadenze maturate medio tempore); nel mentre la pronuncia in commento afferma che è il provvedimento del Giudice (adottabile anche d’ufficio) a determinare la sanatoria, con ripercussioni (in caso di errore imputabile) perfino sulla tempestività o meno della sanatoria medesima e, quindi, sulla decidibilità in merito (o meno) della domanda”.
[1] Alessandro Auletta, Giudice del Tribunale di Napoli Nord, “La necessaria natura bifasica delle opposizioni esecutive cd successive al vaglio della Corte di Cassazione”, in “In Executivis la rivista telematica dell’esecuzione forzata”, del 17/10/2018
La specificità del mutuo fondiario assicura ai creditori tutele specifiche e maggiorate rispetto a quelle previste per i creditori non fondiari: tra queste la possibilità, espressamente prevista, di avviare o portare avanti procedure esecutive pur in costanza di procedure concorsuali. La giurisprudenza è , allora, costantemente chiamata a chiarire e specificare i rapporti tra procedure esecutive ex art. 41 T.U.B. e procedure concorsuali: in tal senso si leggono i recenti orientamenti che chiariscono l’impossibilità del curatore di agire in prededuzione per le spese sostenute per la procedura concorsuale in sede esecutiva e che specificano i rapporti tra credito ammesso al passivo in sede fallimentare e credito azionato in seno alla procedura esecutiva.
Sommario: 1.Il mutuo fondiari concesso per l’estinzione di finalità pregresse: natura e revocabilità.- 2.Procedure esecutive fondiarie e procedure concorsuali : il rilievo in sede esecutiva degli accertamenti già svolti in sede fallimentare.- 3.Esecuzione ex art. 41 T.U.B. e prededucibilità in sede esecutiva delle spese sostenute dal curatore fallimentare.
1. Il mutuo fondiari concesso per l’estinzione di finalità pregresse: natura e revocabilità.
Ai sensi dell’art. 38 T.U.B. il credito fondiario ha per oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili. La Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, determina l’ammontare massimo dei finanziamenti, individuandolo in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire sugli stessi, nonché le ipotesi in cui la presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie non impedisce la concessione dei finanziamenti”.
La delibera del CICR del 22 aprile 1995 ha, infatti, specificato che per i finanziamenti di credito fondiario l’ammontare massimo erogabile dagli istituti di credito è pari all’80% del valore dei beni ipotecati o del corso delle opere da eseguire sugli stessi ( e che tale percentuale può essere elevata fino al 100% solo ove vengano prestate garanzie integrative); tale limite è ritenuto dalla giurisprudenza requisito che attiene alla sostanza del rapporto tra la misura del credito concedibile e il valore della garanzia a servizio, tanto che interpretazione monolitica considera nullo ex art. 1418 c.c., per violazione di norme imperative, il contratto di mutuo fondiario che non rispetti tale rapporto (ex multis e di recente, Cass. 22459/2018).
E’ noto che la Corte Costituzionale, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 38 T.U.B. e 67 L.F., in relazione all’art. 3 della Costituzione, ha ribadito il venir meno della distinzione tra credito fondiario e credito edilizio (C. Cost. n. 175 del 22 giugno 2004); la giurisprudenza ha così definitivamente chiarito che il mutuo fondiario non è subordinato alla necessaria compresenza dello scopo acquisitivo di un immobile e della garanzia ipotecaria di primo grado, ma può essere concesso anche per la ristrutturazione di un debito residuo.
Si delinea, per espressa previsione legislativa, un istituto duttile, capace di derogare al diritto comune grazie alle disposizioni contenute negli artt. 38 e 41 T.U.B. che, in particolare, escludono l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare delle ipoteche iscritte almeno dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, permettono la notifica del precetto non obbligando alla notifica del titolo contrattuale esecutivo e prevedono una disciplina speciale per i rapporti tra esecuzione e fallimento.
La giurisprudenza è stata a lungo chiamata a identificare la natura giuridica del contratto esaminato, questione resa di rilievo anche dalla disposizione normativa. In particolare, si è discusso se il contratto di mutuo fondiario rappresenti un mutuo di scopo anche perché, se è vero che nell’art. 38 co.1 T.U.B. manca alcun riferimento ad uno scopo, il riferimento appare presente nel comma 2 dello stesso articolo che da rilievo al valore dell’immobile e al costo delle opere da eseguirsi sugli stessi. E’ sulla base di questa disposizioni, del resto, che parte della dottrina affermava la natura di contratto di scopo del mutuo fondiario, affermazione ormai abbandonata da tutta la giurisprudenza.
Interpretazione monocorde della giurisprudenza afferma ormai che “il mutuo fondiario, quale risulta dalla disciplina del T.U.B., non è mutuo di scopo: di esso, cioè, non è elemento essenziale la distinzione della somma mutuata a determinate finalità (Cass. 9511/2007 e Cass. 317/2001), o ristrutturazione di immobili.
In tal senso si ritiene chiaramente legittima l’operazione di credito fondiario finalizzata al ripianamento di passività pregresse della banca mutuante, in quanto non confliggente con un inesistente vincolo “di scopo”, ed in quanto niente affatto simulata.
Così chiarito, l’analisi interpretativa si sposta sulla normativa da applicare ai mutui fondiari “con scopo diverso” da quello edilizio e volta a chiarire se resti valida l’esenzione da revocatoria disposta dall’art. 67, comma 4, l. fall., per le “operazioni di credito fondiario” in generale.
Un primo orientamento interpretativo ha ritenuto che l’operazione di finanziamento rivolta al risanamento di un debito fosse revocabile ai sensi dell’art. 67 L.F. poiché espressiva di un pagamento realizzato con mezzi anormali. Secondo altro orientamento, l’ipoteca fondiaria sarebbe revocabile perché costitutiva di una garanzia per un debito pregresso: il debito cioè che risulterebbe estinto con la provvista derivante dall’erogazione del mutuo (la banca mutuante rimarrebbe creditrice del mutuatario, ma beneficiando di una garanzia ipotecaria prima assente) [1].
Il problema, invero, nasce dal principio per cui, l’art. 64 L.F. rimarrebbe comunque applicabile ai finanziamenti in esame. Si prospetterebbe, così, la necessaria verifica della onerosità o gratuità della garanzia. La questione prende le mosse dal principio per cui , ex art. 2901, co. 2 c.c. ., una garanzia “contestuale” viene considerata, ex lege, sempre come garanzia “onerosa”, ma così non è per una garanzia “non contestuale” (per un finanziamento pregresso) che non è detto che sia da considerare sempre “gratuita” e quindi soggetta a inefficacia ex art. 64 L.F, ma di cui occorre indagare la natura. Si precisa, però, che una garanzia rilasciata dal cliente alla banca per un debito proprio e già scaduto non è mai considerata garanzia gratuita; mentre la garanzia rilasciata dal debitore per un debito pregresso, ma non ancora scaduto, potrebbe essere considerata “gratuita” nel caso in cui il debitore non abbia ricevuto vantaggio alcuno dalla banca. E’ allora chiaro che la questione ha poca ragione, le prestazioni di garanzia, pur se non contestuali, sono da ritenersi prevalentemente onerose, perché pur sempre collegate ad un vantaggio economico. Inoltre, la questione appare comunque mal posta poiché la garanzia sorge con l’operazione di mutuo fondiario, esentato da revocatoria ai sensi dell’art 67 L.F. e, precisa autorevole dottrina che L’ipotesi non è peraltro correttamente formulabile, dovendosi ritenere che la disciplina revocatoria degli atti costitutivi di garanzia sia interamente contenuta nell’art. 67 l. fall., senza possibilità di spazio per l’applicazione dell’art. 64 l. fall.
Deve allora concludersi che l’operazione di mutuo fondiario (finalizzata alla estinzione di passività pregresse dell’Istituto mutuante) non è né invalida né revocabile, ma più complessa è la questione , tutte le volte in cui l’ipoteca fondiaria sia stata costituita dal fallito nell’interesse di terzi, e tale atto di disposizione sia ritenuto qualificabile come atto a titolo gratuito, restando impregiudicata l’applicabilità dell’art. 64 L.F.
2. Procedure esecutive fondiarie e procedure concorsuali : il rilievo in sede esecutiva degli accertamenti già svolti in sede fallimentare.
Com’è noto l’art. 51 L.F. pone il divieto all’inizio e alla prosecuzione delle azioni esecutive dopo la pronuncia dichiarativa di fallimento. L’eccezione più rilevante a tale divieto si rinviene nell’art. 41 T.U.B. (D.lgs 385/1993) secondo il quale l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore e che il curatore ha la facoltà di intervenire nell’esecuzione. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento.
I principi enunciati, che attengono al coordinamento dell’art. 41 TUB e dell’art. 52 L. F., sono confortati dai monolitici orientamenti di dottrina e giurisprudenza, oltre che dalla lettera della norma. La Corte di Cassazione a più riprese (Cass. 23572/2004; Cass. 8609/2007; Cass. 11014/2007; Cass. 13996/2008) ha ribadito che l’art. 41 T.U. B. attribuisce al creditore fondiario il potere di iniziare e proseguire l’azione esecutiva nei confronti del debitore nonostante il fallimento del debitore esecutato.
Nell’interpretazione della norme richiamate, la giurisprudenza ha affermato chiaramente che si configura un privilegio che si sostanzia nella possibilità di iniziare o proseguire l’azione esecutiva (in deroga a quanto previsto dall’art. 52 L.F.) e, altresì, nella possibilità di conseguire l’assegnazione delle somme ricavate dalla vendita forzata dei beni del debitore nei limiti del credito per il quale si è agito.
Trade union tra la disciplina fondiaria e fallimentare si è individuato nella natura solo “processuale” del privilegio citato: la norma non attribuisce un privilegio di credito, ma solo un privilegio di riscossione.
L’art. 41 T.U.B., infatti, non deroga all’accertamento del passivo in sede fallimentare "non potendosi ritenere che il rispetto di tali regole sia assicurato nell'ambito della procedura individuale dall'intervento del curatore fallimentare" (Cass. 17368/2018). Ne deriva che l’attribuzione compiuta in sede esecutiva ha carattere provvisorio e in capo all’istituto di credito persiste l’onere di insinuarsi al passivo fallimentare per consentire la graduazione dei crediti, garantita solo dalla procedura concorsuale.
Più chiaramente, la procedura esecutiva, pur proseguita dal creditore fondiario, ha carattere accessorio alla procedura fallimentare : solo in sede di riparto fallimentare l’attribuzione provvisoria ottenuta in sede esecutiva diverrà definitiva.
In tal senso è riconosciuta al curatore, non intervenuto nel giudizio esecutivo, la possibilità di proporre l’azione di ripetizione per ottenere dal creditore fondiario la restituzione delle somme eventualmente ricevute in eccesso in sede di esecuzione, in ragione della mera provvisorietà delle attribuzioni.
Secondo la Cassazione, tale potere riconosciuto al curatore non implica, né giuridicamente né logicamente, che davanti al giudice dell’esecuzione non abbiano rilievo gli accertamenti già svolti in sede fallimentare, in modo che l’attribuzione provvisoria da parte del giudice dell’esecuzione sia comunque modulata sugli accertamenti realizzati in sede concorsuale, così da limitare eventuali successive azioni restitutorie.
Più chiaramente, se è previsto un rimedio esperibile ex post da parte del curatore (azioni restitutorie generalmente intese) volto ad accordare procedura esecutiva e procedura fallimentare, nulla esclude di dare rilievo ad un rimedio che ex ante miri ad armonizzare i due giudizi: se il primo soccorre il curatore nel caso in cui il processo esecutivo sia già avanzato al momento della definizione dei crediti concorsuali, il secondo si rileva utile ove la graduazione e definizione in sede fallimentare sia antecedente al riparto in sede esecutiva.
In sostanza, “poiché il principio desumibile dall’art. 52 L.F. e dalla ricostruzione sistematica della giurisprudenza della Corte è quello per cui l’accertamento e la graduazione dei crediti concorsuali devono avvenire in sede fallimentare, è evidente che debba concludersi nel senso che, laddove tali accertamenti e tali graduazioni siano in qualche modo già avvenuti nella sede ad essi deputata, sebbene non in modo definitivo (essendo la procedura concorsuale ancora pendente), al fine di determinare la somma da attribuire in via provvisoria al creditore fondiario nell’esecuzione individuale eccezionalmente proseguita, di tali accertamenti debba necessariamente tenersi conto”.
In via esemplificativa, se il creditore fondiario procedente non è stato ammesso al passivo non potrà certamente essere destinatario del ricavo della vendita operata in sede esecutiva e ove il riparto sia già avvenuto, quest’ultimo non potrà comunque trattenere la somma, ma piuttosto il curatore dovrà agire con un’azione di ripetizione.
Allo stesso modo, ove l’azione esecutiva sia iniziata dopo il fallimento del debitore, deve escludersi che il creditore fondiario possa trattenere le somme riscosse dall’aggiudicatario in misura superiore all’importo per cui è stato ammesso al passivo, anche in pendenza di opposizione allo stato passivo.
3. Esecuzione ex art. 41 T.U.B. e prededucibilità in sede esecutiva delle spese sostenute dal curatore fallimentare.
A completamento di quanto scritto, si è affermato che l’istituto di credito, pur nell’esercizio dell’azione esecutiva, deve insinuarsi al passivo della procedura fallimentare e che l'accertamento del diritto di credito conseguente al decreto di esecutività L. Fall., ex art. 97, pur avendo effetto preclusivo soltanto durante la procedura fallimentare, impedisce che, in corso di essa, possano essere proposte dal creditore e dal debitore, ad un giudice diverso da quello fallimentare, le questioni riconducibili al credito ammesso al passivo, come pure alla validità ed opponibilità del titolo da cui esso deriva (Cass. 12683/2011)
La decisione in sede di ammissione al passivo, allora, incide sul diritto attribuito dall’art. 41 T.U.B.; in tal senso si è chiarito che il creditore fondiario deve insinuarsi al passivo: in quella sede se il credito viene degradato al chirografo non ha più diritto all’attribuzione provvisoria delle somme in sede esecutive e se le ha già incassate perde il diritto a trattenerle in quanto l’esclusione del privilegio determina il venir meno della natura fondiaria del credito e del relativo privilegio processuale.
Di recente la Cassazione ha affermato, in particolare, che “per ottenere l'attribuzione (in via provvisoria, e salvi i definitivi accertamenti operati nel prosieguo della procedura fallimentare) delle somme ricavate dalla vendita, il creditore fondiario dovrà - anche a prescindere dalla avvenuta costituzione del curatore nel processo esecutivo - documentare al giudice dell'esecuzione di avere proposto l'istanza di ammissione al passivo del fallimento e di avere ottenuto un provvedimento favorevole dagli organi della procedura (anche se non definitivo)” (Cass.23482/2018).
E’ chiaro, in definitiva, che è in sede fallimentare che si procede a determinare definitivamente la massa attiva e la massa passiva, conteggiando nella massa attiva il bene oggetto di esecuzione e nella massa passiva tutte le spese sostenute dalla curatela anche per intervenire nell’esecuzione forzata.
Se questa è generalmente la disciplina del rapporto tra procedura concorsuale e procedura esecutiva ex art. 41 tub, si è discusso se le spese del curatore e del difensore della curatela intervenuto nel procedimento esecutivo siano collocabili in privilegio in sede di distribuzione nell’esecuzione forzata immobiliare proseguita dal creditore fondiario ex art.41 T.U.B.
In particolare, l’art. 2770 c.c. richiama, tra i crediti privilegiati, i crediti per le spese di giustizia fatte per atti conservativi o per l’espropriazione dei beni immobili nell’interesse comune dei creditori; in sede esecutiva, più chiaramente, l’assegnazione delle somme derivanti dalla vendita forzata sconta l’anteposizione dei crediti per gli atti di cui all’art. 2270 c.c.
Il professionista delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., al fine della predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato dell’esecuzione immobiliare, deve però operare una distinzione tra le spese di giustizia in privilegio ex art. 2770 c.c. da porre in prededuzione e le altre spese di procedura il cui grado segue quello del credito cui afferiscono.
Quid iuris per le spese del curatore e del difensore del curatore per l’intervento nell’esecuzione individuale?
La giurisprudenza di merito è di recedente intervenuta sulla questione chiarendo che l’art. 2270 c.c. è norma di stretta interpretazione che colloca in privilegio esclusivamente le spese strettamente strumentali all’esecuzione immobiliare. E’ chiaro, allora, che le spese eventualmente sostenute dalla curatela non rientrano propriamente nell’art. 2270 c.c. poiché tutte sostenute nell’interesse della procedura fallimentare e dei creditori e quindi prededucibili in sede concorsuale, ma non in sede esecutiva (Tribunale di Mantova 03/09/2018).
Il principio espresso trova la sua ratio in quanto sopra affermato: l’assegnazione delle somme ottenute dalla vendita forzata a favore del creditore fondiario è solo provvisoria ed è in sede fallimentare che si procede alla determinazione della massa attiva, comprensiva del ricavato della vendita realizzata in sede esecutiva, provvisoriamente attribuito al creditore fondiario, e della massa passiva. E’ in quella sede che si terrà conto di tutti i crediti prededucibili della procedura concorsuale, anche derivanti dall’intervento nell’esecuzione.
[1] Il Trib. Ravenna, 21 gennaio 2014 ha escluso illiceità della causa sottesa al mutuo fondiario erogato per l’estinzione di passività pregresse, osservando che “il finanziamento si realizza in tal caso nella forma del dilazionamento di un debito altrimenti immediatamente esigibile”. Secondo Trib. Vicenza, 5 ottobre 2010, “[i]l mutuo, con contestuale effettiva concessione di ipoteca, utilizzato per estinguere una passività preesistente (eventualmente mediante giroconto), è un negozio indiretto che ha per scopo ulteriore non l'estinzione della passività preesistente (sarebbe un pagamento anomalo), ma la sua trasformazione in un credito privilegiato, esclusa la simulazione, trattandosi di operazioni effettivamente volute dalle parti”.
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