Cambiare funzioni
di Paola Cervo
«C'è una stagione ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Sa che doveva pagare (il gergo del carcere usa sempre questo verbo: “ho fatto due rapine e le ho pagate”) e sente che quella quantità corrisponde al dovuto secondo la “sua” idea di giustizia. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi.»
Il libro da cui tutto è cominciato è “Fine Pena: Ora” di Elvio Fassone.
Quando l’ho letto non potevo immaginarlo, ma queste parole hanno scavato nella mia testa per qualche anno, un pochino alla volta. Nel frattempo sono successe tante cose, ho parlato spesso con Marco e con Milena, ed alla fine eccomi qui.
1° ottobre 2024, fuori dalla porta della mia stanza c’è scritto “il magistrato di sorveglianza” e sotto c’è il mio nome.
Nei giorni precedenti il mio trasferimento, gli avvocati che mi incontravano in Corte di Appello sono sembrati sbigottiti dalla mia decisione. Qualcuno si è spinto a chiedermi perché mai volessi penalizzare così la mia carriera invece di fare domanda per la Cassazione o per una presidenza; qualcuno mi ha chiesto perché volessi relegarmi in quel luogo e smettere di essere un giudice, qualcun altro ha ammiccato come a dire che lo capiva benissimo, se dopo tanti anni di prima linea avevo scelto un posto dove non si lavora.
Forse per reazione a tutte queste condoglianze professionali ho voluto giurare indossando la toga e il bavaglino.
Siamo giurisdizione e la toga ne è il simbolo, ma da oggi non sarò il giudice che assolve o condanna. Confesso che ne sono sollevata.
Negli anni in cui le parole di Fassone scavavano, mi capitava a volte di avvertire una fitta troppo forte in certe condanne, o un sollievo troppo grande in certe assoluzioni: decisioni che sapevo essere corrette, che ho creduto destinate alla conferma in Cassazione, decisioni che adotterei di nuovo, ma non era quello il punto. Il punto era che ne avvertivo il peso, e non più solo la responsabilità.
E dunque, eccomi qui.
I primi detenuti che incontro stanno sistemando degli arredi in legno al piano di sopra, in tribunale, sotto l’occhio di un enorme poliziotto in borghese che sfoggia sul petto un distintivo più grande della mia mano. Noto l’etichetta, in quell’istituto c’è il laboratorio di falegnameria.
Prendono le scale per scendere al mio piano quasi insieme a me, attacco bottone ed iniziamo a chiacchierare. Vengono dall’ istituto che condividerò con altre colleghe. Mi presento, gli chiedo come si chiamino, le iniziali dei loro cognomi non sono lettere mie. Sono appena arrivata ma scopro che mi conoscono già, ho accordato un permesso di necessità ad un loro compagno di reparto, e mentre mi stupisco della velocità con cui viaggiano le notizie in carcere mi assale il dubbio atroce che la notizia si sia sparsa perché ho commesso chissà quale errore.
In attesa che venga reperito un armadio per stipare i fascicoli rossi della conversione delle pene pecuniarie, inizio a studiare i miei fascicoli delle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza si esegue a pena espiata. Lo so da sempre, lo avrò scritto in non so quanti dispositivi, eppure oggi qualcosa stona. Mi sorprendo a chiedermi perché una persona dovrebbe essere socialmente pericolosa dopo avere espiato una pena che la ha rieducata; eppure eccole qui, le misure di sicurezza, ed eccomi qui.
Vigilo sulla casa di lavoro.
Il collega al quale subentro mi propone di fare insieme la mia prima visita all’istituto, ed io accetto felice. Sarò io, adesso, l’unico magistrato di sorveglianza per gli internati.
La direttrice mi accoglie con cordialità, parliamo di assistenza sanitaria e di qualche internato più problematico. È autunno ma fa caldissimo, il balcone è aperto su un gigantesco albero e le zanzare sono entusiaste di avermi lì.
Anche gli internati sanno già chi sono, nei pochi giorni che separano il mio trasferimento dal mio ingresso in casa di lavoro ho già emesso svariati procedimenti, il mio nome gli è già familiare.
L’istituto ha un piccolo tenimento agricolo dove si coltivano melanzane, peperoncini di fiume, alberi da frutta, cavolo nero, finocchi, vite. Ci sono delle rose stupende, piantate da un anziano e terribile ndranghetista che – pare – quando è stato dimesso è tornato in Calabria a fare il nonno.
Lungo i viali che conducono ai reparti vengo letteralmente circondata dagli internati.
Non riesco quasi più a camminare.
Imparerò a conoscere i loro nomi ed i loro visi ma intanto mi lascio assediare dalle loro domande, esamino e commento con loro i documenti e le ordinanze che mi chiedono di leggere – casualmente, hanno tutti in tasca l’ultimo provvedimento che li riguarda, l’ultima istanza che hanno protocollato alla matricola, l’ultima lettera del figlio o della madre. Sono estremamente rispettosi l’uno dell’altro, aspettano il loro momento per parlarmi senza dare fretta a chi sta parlando, ma avverto che tutti mi stanno studiando.
Anche io voglio conoscerli. Entro nel reparto, ci disponiamo in cerchio in un passaggio abbastanza ampio da contenerci tutti. Non ho molto da dire perché non li conosco ancora, preferisco ascoltarli.
Alcuni sono davvero esasperati perché non capiscono come mai si trovano lì, dal momento che hanno già “pagato il reato”; altri mi chiedono, ora con foga e ora con stanchezza, perché si trovino ancora lì.
Mentre guido verso casa riaffiorano vecchie letture sull’ergastolo bianco, intanto ripasso mentalmente l’elenco dei fascicoli che l’indomani voglio studiare.
Sono impacciata, lenta, è tutto nuovo.
Litigo con SIUS, le norme sembrano sfuggirmi, guardo i miei colleghi – i magistrati di sorveglianza ‘veri’, così generosi ed accoglienti con me – e mi chiedo quanto mi ci vorrà per acquisire la loro esperienza e la loro competenza. Eppure mi sembra di essere lì da sempre.
Gli avvocati mi raccontano dei loro assistiti detenuti, prima di uscire dalla mia stanza uno di loro mi confessa: «sa, dottoressa, è il mio primo assistito».
Ricevo molte lettere.
La prima me la ha inviata un detenuto che è coetaneo del mio figlio più piccolo.
«Gentile dottoressa sono M.B., un suo assistito». Un mio assistito. Forse sarà così, forse quando avrà espiato questa lunga pena scopriremo insieme che sarà stato così.
Ma tra i miei assistiti ce n’è uno, che non ho ancora mai visto anche se conosco il suo nome da anni. Il reato per il quale lui sta scontando l’ergastolo è il reato per il quale io sono diventata magistrato. Chissà, magari non è una coincidenza, magari dovevo cambiare funzioni perché il cerchio si chiudesse.
Siamo giurisdizione e ora che sono da quest’altro lato lo vedo proprio nitidamente. E vedo anche che questo è proprio “l’altro lato”. C’è un confine ideale tra l’essere giudice della cognizione ed essere giudice dell’esecuzione, ed io ho scelto di varcarlo dopo 23 anni passati “dall’altro lato”. Chissà se tornerò mai indietro.