La pandemia aggredisce anche il diritto?
Intervista a Corrado Caruso, Giorgio Lattanzi, Gabriella Luccioli e Massimo Luciani[i]
Giustizia Insieme ha sollecitato la riflessione di quattro giuristi, due professori di diritto costituzionale, un presidente emerito della Corte costituzionale ed una presidente emerita della Corte di cassazione, sull’impatto della magmatica legislazione emergenziale sul diritto e, in particolare, sui diritti fondamentali di libertà di ogni individuo, in questo periodo acuto compressi con modalità mai prima sperimentate e foriere di mutamenti radicali.
Al di là dell’innegabile priorità del contenimento del contagio, serpeggia infatti il rischio che, insieme al sovvertimento del nostro modo di vivere e di convivere, possa esserci quello del nostro sistema di valori e di libertà; e gli intervistati sono stati invitati a valutare l’auspicio che, ferme le esigenze di immediato contrasto all’emergenza, i nuovi parametri di sicurezza sanitaria siano contemperati con i valori fondanti di una moderna società democratica, piegando i primi ai secondi e non viceversa, nel nuovo regime di normale convivenza che inevitabilmente si andrà a disegnare dopo questa prima e drammatica fase.
Fino a qual punto l’emergenza può giustificare la limitazione dei diritti fondamentali? In particolare, soltanto in una fase di contenimento dello sfondamento del contagio, oppure anche a regime?
Corrado Caruso
È necessario sgombrare il campo da una serie di fraintendimenti che ricorrono nel dibattito attuale. Trovo del tutto fuori bersaglio il richiamo, per descrivere i provvedimenti atti a fronteggiare la pandemia, allo stato di eccezione e ai suoi epigoni. Simile categoria si presta a usi equivoci, rievocando una sospensione permanente delle libertà fondamentali per motivi che trascendono il benessere della comunità. In passato, lo stato di eccezione ha forgiato la spada della repressione liberticida contro il cittadino, in vista dell’autoconservazione del potere costituito o della trasformazione autoritaria del sistema politico. Sarà ovvio ma ripetere aiuta: non è questa la ratio che ispira i provvedimenti messi in campo sino ad ora, finalizzati, in ultima istanza, a proteggere la persona e la comunità in cui vive.
L’epidemia è un fatto emergenziale, empiricamente individuato e scientificamente provato, che mette in pericolo la salute e le nostre consolidate abitudini.
È la portata straordinaria e transitoria dell’emergenza a consentire forti limitazioni ai diritti fondamentali, a delineare la misura della legittimità delle misure adottate (anche per tale ragione, è da evitare il concetto, carico di presagi sinistri, di “sospensione” delle libertà).
In questo senso, la proporzionalità dei provvedimenti non va valutata in astratto ma in concreto, alla luce della particolare situazione di fatto che giustifica la limitazione (nel nostro caso: alla virulenza dell’epidemia; alla misura del contagio; alla tenuta del sistema sanitario, alla transitorietà dell’evento, etc.).
Anche per questi motivi, trovo politicamente improprio e giuridicamente scorretto il riferimento al conflitto bellico: non solo per le evidenti diversità delle situazioni ma anche perché la guerra trova una specifica disciplina in Costituzione, la quale ammette, in simili ipotesi, una delega in bianco di potere al Governo (art. 78 Cost.).
A prescindere dai provvedimenti recentemente adottati, l’attuale stato di emergenza trova invece una descrizione nel d.lgs. n. 1 del 2018 (Codice della protezione civile), che fa riferimento a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari» (art. 7). Nonostante non sia regolata a livello costituzionale, dunque, l’emergenza è già inclusa nei gangli dell’ordinamento, che le riconosce – per così dire - un particolare status da disciplinare con strumenti giuridici puntualmente definiti (cfr., per le emergenze nazionali, gli art. 23 e ss. del d.lgs. n. 1 del 2018). Non è un caso che, proprio sulla scorta di tale apparato normativo, il Consiglio dei Ministri abbia dichiarato lo stato di emergenza sin dallo scorso 31 gennaio, affidando al Capo della protezione civile il compito di adottare ordinanze in deroga alla legge.
Giorgio Lattanzi
Mai ci siamo trovati di fronte a un’emergenza come quella che stiamo vivendo e mai per fronteggiarla siamo stati messi di fronte a provvedimenti come quelli che stanno comprimendo, fino quasi ad annullarli, diritti e libertà garantiti in massimo grado dalla Costituzione. Provvedimenti adottati con decreti legge, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, decreti di ministri, di presidenti regionali o addirittura di sindaci. È evidente la difficoltà di giustificare questa compressione e soprattutto di giustificare le forme adottate per farlo, eppure, nonostante ciò, anche se con riserve, avvertimenti e distinzioni, si è generalmente convenuto che questa compressione dei diritti e delle libertà, almeno nella sostanza se non nelle forme, è stata resa necessaria per garantire la salute, che l’art. 32 della Costituzione considera «fondamentale diritto dei cittadini e interesse della collettività».
I singoli diritti e le singole libertà convivono e si bilanciano con altri diritti e con altre libertà, ed è in questo rapporto che trovano i loro limiti, giunti nella situazione attuale a un livello che era inimmaginabile.
È vero che la libertà di circolazione può essere limitata «per motivi di sanità o di sicurezza» (art. 16, comma primo, Cost.), ma nel nostro caso più che una limitazione è avvenuta una soppressione. Il diritto di riunirsi può incontrare un divieto «per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica» (art. 17, terzo comma, Cost.), ma solo se le riunioni che avvengono in luogo pubblico mentre sono state rigorosamente vietate anche tutte le riunioni in luoghi privati. Si è giunti a non consentire l’esercizio in comune, sia in pubblico che in privato, della fede religiosa e sono state prese misure che hanno impedito il lavoro e l’attività economica.
Anche la libertà personale è stata limitata, sia con l’«applicazione della misura della quarantena precauzionale ai soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che rientrano da aree, ubicate al di fuori del territorio italiano» (art, 1, comma 1, lett. d del d.l. 25 marzo 2020, n. 19), sia con il «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus» (art. 1, comma 1, lett. e d.l. n. 19 cit.). E inoltre con l’art. 14 d.l. 9 marzo 2020, n. 14 sono state introdotte una serie di deroghe significative alla normativa sul trattamento dei dati personali.
Per valutare tutte queste misure che hanno inciso sulla nostra vita in un modo che mai ci saremmo potuti immaginare dobbiamo chiederci se possono essere giustificate dalla necessità di tutelare la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32, primo comma, Cost.) e aggiungerei, più in generale, se si iscrivono con coerenza nel quadro dell’art. 2 Cost., in relazione, sia ai diritti inviolabili dell’uomo, sia ai doveri inderogabili di solidarietà sociale.
A ben vedere contrastare una pandemia come quella in cui siamo immersi è doveroso più che per tutelare il diritto alla salute della persona per un interesse generale, e il sacrifico delle libertà e dei diritti individuali è richiesto per evitare il collasso dell’intera società nei suoi aspetti personali, collettivi, economici e politici.
È da aggiungere che il numero dei morti che ogni giorno incrementa la tremenda contabilità della pandemia rende evidente che vi è non soltanto la necessità di tutelare la salute ma anche e soprattutto la necessità di tutelare la vita, perché se il virus COVID-19 determinasse solo una malattia, ancorché grave, priva degli esiti letali che ha dimostrato di avere potrebbero ritenersi eccessive, e dunque non giustificate, alcune delle misure adottate per impedirne la diffusione.
La situazione che stiamo vivendo mi ha fatto pensare alla causa di giustificazione penale dello stato di necessità che rende non punibili anche fatti gravissimi, come l’omicidio, quando sono avvenuti per la «necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona», non «altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo».
Analogamente ci dobbiamo chiedere se tutti i sacrifici dei diritti fondamentali che ci sono stati richiesti possono considerarsi giustificati da una necessità del genere, se il pericolo esistente non è altrimenti evitabile e se i sacrifici che ci sono rischiesti sono proporzionati al pericolo.
Credo che, tutto considerato, la risposta possa essere affermativa, ma è ovvio che solo un’emergenza eccezionale come quella che stiamo vivendo può giustificare misure come quelle che sono state prese, alle quali non è consentita alcuna assuefazione, così come non dovrebbe esserne consentita l’adozione con provvedimenti della disinvoltura di quelli che sono stati adottati.
Gabriella Luccioli
È noto che la nostra Costituzione, a differenza di altre, non prevede l’ipotesi dello stato di emergenza, né quella dello stato di eccezione, ma soltanto lo stato di guerra, che ai sensi dell’art. 78 deve essere dichiarato dalle Camere, le quali conferiscono al Governo i poteri necessari. I padri costituenti motivatamente scelsero di non inserire nella Carta clausole di emergenza che potessero aprire il varco, in situazioni di per sé imprevedibili e non puntualmente definite, a pericolose lacerazioni dell’ordine costituzionale ed alla compressione dei diritti delle persone.
È la legge ordinaria, e specificamente l’ art. 24 del d.lgs n. 1 del 2018 - Codice della Protezione Civile - che prevede che con delibera adottata dal Consiglio dei Ministri sia dichiarato lo stato di emergenza di rilievo nazionale, ne sia fissata la durata e l’estensione e sia autorizzata l’emanazione di ordinanze di protezione civile, che trovano la propria disciplina nel successivo art. 25.
In applicazione di detta normativa, a seguito del diffondersi del contagio in Italia il Consiglio dei Ministri con delibera del 31 gennaio 2020 ha dichiarato lo stato di emergenza per la durata di sei mesi; hanno fatto seguito una serie di decreti legge, di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, oltre che numerose ordinanze, circolari e direttive ministeriali, ordinanze della Protezione civile, ed un profluvio di ordinanze regionali e comunali.
In particolare con il primo di detti decreti legge, quello n. 6 del 2020 (immediatamente convertito nella legge n. 13 del 2020), si sono delegate in modo generico le autorità competenti, ed in particolare il Presidente del Consiglio dei Ministri, ad adottare ogni misura di contenimento necessaria e adeguata all’ evolversi della situazione, anche incidente sull’ esercizio dei diritti e delle libertà costituzionali. Si è così demandato al potere di ordinanza e agli strumenti giuridici già presenti nell’ ordinamento il potere di assumere i provvedimenti necessari a contrastare l’epidemia, così fornendo anche una copertura giuridica alle iniziative degli amministratori locali.
A fronte di una così massiccia emissione di provvedimenti, nella loro massima capacità restrittiva delle libertà e dei diritti fondamentali, si pone la domanda se il Presidente del Consiglio fosse legittimato alla loro adozione o se la riserva di legge prevista dall’ art. 16 Cost. per la limitazione del diritto di libera circolazione e soggiorno non imponesse unicamente l’uso dello strumento legislativo ordinario, tenuto conto che il necessario bilanciamento tra valori costituzionali in conflitto costituisce valutazione propria del Parlamento nell’ esercizio della funzione che l’ art. 70 gli affida.
Anche l’uso dei decreti legge, pur corretto in quanto previsto in Costituzione proprio per far fronte a casi straordinari di necessità e d’ urgenza ed in quanto rende possibile il controllo preventivo del Presidente della Repubblica e quello successivo delle Camere e della Corte Costituzionale, appare uno schermo fragile per supportare misure così fortemente restrittive, essendosi detti atti normativi sostanzialmente risolti in una delega in bianco al Governo, cui è stato demandato il potere di scegliere e calibrare le limitazioni delle libertà fondamentali con norme di rango subsecondario destinate a fornire sostanza e contenuto a disposizioni di fonte primaria la cui asettica elencazione le privava di effettiva consistenza.
Come è stato opportunamente rilevato da alcuni commentatori, detta delega ha assunto i caratteri di una sorta di autodelega in favore del solo Presidente del Consiglio, in quanto tale immune da ogni forma di intervento del Capo dello Stato, previsto invece per l’emanazione dei regolamenti adottati dall’ organo governativo collegiale.
Infine va osservato che gli atti amministrativi emessi a livello territoriale, pur teoricamente impugnabili in sede giurisdizionale, presentano non poche difficoltà interpretative ed applicative, non solo per la loro non infrequente difformità, sino al limite della contraddittorietà, ma anche perché contengono in modo confuso sia obblighi che mere raccomandazioni.
Ben diverso è il quadro che il dettato costituzionale ci affida, prevedendo la riserva rafforzata di legge per le limitazioni dei diritti di libertà individuale, a partire da quella di circolazione sia all’ interno che all’ esterno del territorio nazionale (art. 16), e anche imponendo al solo legislatore statale di disporre in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h).
La realtà ci consegna dunque una sospensione a scadenza incerta dei diritti fondamentali a colpi di decreti legge e di provvedimenti amministrativi. E se oggi dobbiamo accettare le limitazioni imposte ai nostri diritti in nome dell’emergenza ed a tutela della salute di tutti, non sottovalutando anche l’ idoneità di detti strumenti a spiegare effetti immediati in una situazione che va affrontata con rapidità ed efficienza, abbiamo anche il dovere di percepire come giuristi e come cittadini l’eccezionalità di tali limitazioni, ricordando che un assetto democratico è incompatibile con uno Stato militarizzato e onnipresente che domina le nostre vite e i nostri spazi esistenziali.
Si evoca da alcuni costituzionalisti il pericolo di eclissi delle libertà costituzionali; si osserva che in questa torsione dell’ordinamento anche la Costituzione nella sua integrità finisce per essere soggetta ad un bilanciamento con l’emergenza, in cui fatalmente è la Carta fondamentale a soccombere.
Io credo che non ci si possa sottrarre alla riflessione che tali posizioni sollecitano. Può sembrare surreale discuterne ora, ma è legittimo il dubbio che la disciplina prodotta per contrastare l’emergenza sanitaria possa derogare in modo così forte ai principi costituzionali e se dinanzi ad una emergenza siffatta sia giustificata l’adozione per via amministrativa di misure dirette a farvi fronte, ispirate appunto alla logica dello stato di necessità.
Come ricordava Cesare Mirabelli in un recente intervento, le istituzioni non vanno in quarantena e continuano a svolgere pienamente le loro funzioni. E se è vero che nessun diritto è più fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla salute, come ricorda Gustavo Zagrebelsky, è tuttavia altrettanto vero che la centralità del Parlamento non può essere dimenticata affidando il governo dell’emergenza alle quotidiane determinazioni del Capo del Governo e dei suoi esperti.
Di tali esigenze sembra essersi dato carico in qualche misura l’ultimo decreto legge n. 19 del 2020, che ha introdotto una forma di controllo parlamentare, prevedendo che i decreti presidenziali siano comunicati alle Camere entro il giorno successivo alla loro pubblicazione e che il presidente del Consiglio ne riferisca ogni quindici giorni alle Camere.
Massimo Luciani
Nessun fenomeno sociale o naturale è in sé indifferente per il diritto, che può sempre farne oggetto di regolazione ove ciò sia logicamente possibile (non avrebbe senso, che so, normare il diritto di proprietà di porzioni del sole). Specularmente, non v’è fenomeno sociale e naturale che (anche qui nei limiti della logica) non sia potenzialmente idoneo a incidere nel diritto. Nel caso di una pandemia i piani dell’interferenza sono plurimi: del diritto internazionale; del diritto sovranazionale; del diritto interno.
Sul piano del diritto internazionale, la pandemia mostra quanto sarebbe importante un governo globale di fenomeni - come questo - altrettanto globali, ma allo stesso tempo mette in luce la dura realtà della perdurante esattezza del dictum weberiano, che vuole lo Stato unico detentore dell’uso legittimo della forza. Non è il tempo delle illusioni cosmopolitiche alimentate dall’inverosimile global constitutionalism, ma quello del realismo diplomatico, di una rinnovata iniziativa politica e culturale per un nuovo ordine internazionale, cooperativo, sì, ma westfaliano.
Sul piano del diritto sovranazionale emergono impietosamente tutte le insufficienze di un processo di integrazione europea lasciato a metà. La sbilenca costruzione di un sistema economico-finanziario con moneta unica e debiti sovrani plurimi si palesa finalmente a tutti (anche a chi non aveva voluto capire) per quel che è: un moltiplicatore di diseguaglianze all’interno dell’Unione e un potente fattore di disgregazione politica e sociale.
Sul piano del diritto interno le questioni fondamentali attengono ai diritti e all’assetto dei poteri. Dei diritti dirò più avanti, rispondendo alle altre domande. Quanto ai poteri, tre osservazioni.
La prima riguarda il seguito stupefacente che, persino fra i costituzionalisti, ha avuto la strampalata idea di ammettere le sedute parlamentari telematiche. È a mio avviso evidente che, visto che il medesimo problema di sicurezza esiste per il Governo (i suoi componenti sono decine e sono centinaia gli addetti che a Palazzo Chigi sono ogni giorno necessari per assicurarne la funzionalità), non porlo per entrambi gli organi costituzionali significa - puramente e semplicemente - sottintendere l’essenzialità del solo Esecutivo e portare qualche secchio d’acqua in più al già vorticosamente funzionante mulino dell’antiparlamentarismo (come giustificare la protezione rafforzata dei parlamentari quando chi lavora in settori strategici mette a rischio la propria salute?).
La seconda riguarda i rapporti fra Governo e Parlamento, che il d.l. n. 19 tratteggia in modo piuttosto blando, senza prevedere una consultazione parlamentare continua (perfettamente compatibile con l’urgenza, se indirizzata alle commissioni permanenti).
La terza riguarda i rapporti fra livelli di Governo. Il recentissimo d.l. n. 19 del 25 marzo ha reso il quadro ancor più intricato. Prima, era abbastanza evidente che, ai sensi del d.l. n. 6, le ordinanze regionali avrebbero potuto intervenire solo nelle more dei d.P.C.M. Ora, per un verso, si fanno salve quelle adesso in vigore (ma in che limiti?); per l’altro, si ammette un intervento regionale derogatorio di ampiezza eccessivamente indeterminata. Come ha chiarito la Corte costituzionale con la sent. n. 307 del 2003, misure regionali di più rigorosa tutela della salute interferiscono comunque con interessi nazionali essenziali (la produzione, la libera circolazione, etc.), che dovrebbero essere oggetto di bilanciamento da parte del legislatore statale. La chiarezza di cui c’era bisogno in questo delicato momento, per questo specifico profilo, è mancata.
In tempi di emergenza si pone con particolare nettezza un problema che, in realtà, è ordinario, qual è quello del rapporto fra interessi collettivi e diritti individuali. I princìpi da applicare, dunque, a mio avviso, sono quelli consueti. In particolare, comunque, e a tacer d’altro:
a) occorre accertare l’effettiva sussistenza e misura dell’interesse collettivo;
b) conseguentemente, soprattutto il giudice costituzionale, che (tranne alcune recenti eccezioni, che potrebbero essere segno di un opportuno ripensamento) ha sempre usato con eccessiva parsimonia il proprio potere istruttorio, dovrebbe verificare (specie quando sono disponibili evidenze scientifiche) lo stato dei fatti;
c) qui potrebbe aiutare anche il nuovo art. 14-bis, comma 1, delle novellate Norme Integrative per i giudizi innanzi la Corte costituzionale (per altri profili improvvidamente modificate), a tenor del quale “La Corte, ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline, dispone con ordinanza che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite [...]”;
d) restano in piedi i comuni controlli di proporzionalità, non eccessività e adeguatezza, sebbene sia evidente che il “peso” dell’interesse collettivo tende, in situazioni emergenziali, a crescere;
e) la temporaneità è uno degli elementi che, per costante giurisprudenza costituzionale, vanno inseriti nell’apprezzamento della legittimità o meno delle misure restrittive dei diritti;
f) non possono essere derogate le garanzie procedimentali previste dalla Costituzione (ad es. agli artt. 13 e 14);
g) il bilanciamento, contrariamente a una diffusa opinione (coerente con l’odierna tendenza all’esaltazione del giudiziario), non è affar del giudice, ma del legislatore, essendo compito del giudice (specie costituzionale) - invece - il controllo “esterno” di ragionevolezza del bilanciamento legislativo.
Quali sono i diritti fondamentali della persona che restano coinvolti dalla pandemia?
Corrado Caruso:
L’emergenza, dunque, richiede un intervento proporzionato alla gravità della situazione e necessario alla tutela di altri valori costituzionali. Tra questi, in particolare, spicca la salute, diritto individuale e interesse collettivo ai sensi dell’art. 32 Cost., valore che consente limitazioni di altre libertà per esplicita dizione della Costituzione.
A tale proposito, non mancano i riferimenti nel teso costituzionale: il domicilio è inviolabile, ma sono ammessi accertamenti e ispezioni per motivi di sanità (art. 14 Cost.); ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni imposte dalla legge “in via generale” per ragioni sanitarie (art. 16 Cost., i Costituenti pensavano proprio ai cordoni sanitari); i cittadini hanno diritto di riunirsi, salvo le limitazioni giustificate da comprovati motivi di “incolumità pubblica” (art. 17 Cost.); l’iniziativa economica è libera, ma non può svolgersi in contrasto con la dignità e la sicurezza dei lavoratori (art. 41 Cost.).
L’emergenza ha dunque concretizzato fattispecie espressamente disciplinate dalla Costituzione, scatenando una dialettica tra diritti che giustifica l’intervento del potere pubblico in funzione di mediatore del conflitto all’interno dei confini costituzionali.
Deve aggiungersi che, nella nostra Costituzione, non esiste una sfera “innominata” di libertà, capace di ricomprendere e di garantire qualsiasi aspirazione soggettiva del cittadino. Esistono, piuttosto, singole fattispecie di libertà ad oggetto determinato; queste rimandano a specifiche garanzie che riflettono, a loro volta, un determinato assetto di relazioni istituzionali. Al di fuori di queste situazioni soggettive, non esiste un diritto di libertà a contenuto indeterminato ma una semplice sfera di liceità, discrezionalmente comprimibile dai pubblici poteri nelle forme previste dalla Costituzione (a questa sfera fa riferimento, in fondo, l’art. 23 Cost., laddove richiede che le prestazioni personali siano imposte da atti legislativi: v. C. cost, sent. n. 115 del 2011, sulle ordinanze dei cd. “sindaci sceriffi”). Così, ad esempio, non esiste un diritto soggettivo alla socialità entro cui collocare la libertà di bere una birra in piazza o il diritto all’aperitivo nel proprio bar preferito.
Certo, è vero che l’art. 2 Cost., nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, richiede una costante opera di aggiornamento del catalogo dei diritti previsto dalla Costituzione. Tale azione integrativa del testo costituzionale deve però avvenire nel rispetto di alcune condizioni, formali e materiali: anzitutto, delle procedure previste dalla Costituzione medesima, che chiama in causa l’intermediazione legislativa o, al più, l’interpretazione estensiva di fattispecie preesistenti ad opera della giurisdizione; in secondo luogo, dell’assetto complessivo dei valori della Costituzione. L’art. 2 Cost., lungi dal tutelare l’individuo astratto emancipato dai concreti rapporti sociali, garantisce la persona concretamente e comunitariamente situata, non a caso richiedendo, nella sua seconda parte, l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale. La Costituzione, quindi, non offre una specifica tutela - a maggior ragione in una situazione che mette a repentaglio la vita e la salute dei cittadini più deboli - all’appagamento egoistico di bisogni individuali, magari ispirati dal canto dalle sirene della società dei consumi.
Merita di essere compiuta una ulteriore puntualizzazione. I provvedimenti adottati sino ad oggi incidono in misura assai gravosa sulla libertà di circolazione, mentre non pare essere interessata, almeno per il momento, la libertà personale (se non forse indirettamente dalla contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., ipotesi peraltro superata dal d.l. n. 19 del 2020). Non sempre è agevole – me ne rendo conto – distinguere gli oggetti tutelati, rispettivamente, dall’art. 13 Cost. e dall’art. 16 Cost. Può essere utile, a questo proposito, richiamare un criterio adottato da autorevole dottrina circa sessant’anni or sono (da Leopoldo Elia e Augusto Barbera en tête), che riconduceva sotto l’egida della libertà personale (e delle sue garanzie: riserva di legge e – soprattutto – riserva di giurisdizione) le misure di prevenzione ereditate dal passato regime. In base a questa ricostruzione, in parte avallata anche dalla Corte costituzionale, la libertà personale viene in gioco tutte le volte in cui vi sia un provvedimento ad personam che, a prescindere dal grado di coercizione, produca un giudizio di disvalore sulla personalità dell’individuo, degradandone la dignità sociale. Nessuno dei provvedimenti adottati sembra andare in questa direzione, trattandosi di misure generali, formulati in termini determinati, che riguardano la collettività nel suo insieme e giustificate dalla necessità di proteggere la salute dei consociati.
In ogni caso, le compressioni più gravose non vengono portate alle libertà civili, ma a situazioni soggettive che hanno un riflesso economico e sociale. Penso non solo all’iniziativa economica privata, ma anche al diritto al lavoro: se, infatti, le libertà civili sono, per così dire, naturalmente portate a espandersi nuovamente al termine della quarantena, non altrettanto potrà dirsi per le attività che producono reddito. La crisi sanitaria rischia di trasformarsi in una crisi economica: quali saranno, ad esempio, le ricadute dell’epidemia sull’obiettivo della piena occupazione, posto dall’art. 4 Cost.? Allo stato, le ricadute sociali dell’emergenza saranno verosimilmente più gravi delle limitazioni cui stanno andando incontro le libertà civili.
Giorgio Lattanzi:
In primo luogo, come ho già detto, il diritto di circolazione, il diritto di riunione, il diritto di culto, il diritto di lavorare e il diritto di svolgere un’attività economica.
Gabriella Luccioli:
Molti sono i diritti della persona coinvolti dalla pandemia. Non solo, come appare con maggiore evidenza, i diritti di libertà personale, di circolazione, di soggiorno, di riunione, di partecipazione ai riti religiosi, di iniziativa economica, di istruzione, di lavoro, di impresa, di attività politica, sindacale, culturale, ma anche quelli che hanno a che fare con la sfera più intima dell’uomo, come il diritto ad una morte dignitosa.
La morte è diventata un evento clandestino e solitario, che si consuma lontano dagli affetti, e ad essa è negato anche il funerale. La fine della vita per effetto del coronavirus si risolve nell’anonimato di un numero che va ad alimentare una statistica e concorre ad accrescere la paura, perdendo definitivamente il suo significato profondo e la sua simbologia.
Né può costituire valido motivo di conforto il pensare che resta comunque integro il nostro diritto di pensiero, di opinione, di parola, di informazione: può per contro osservarsi che la pandemia stravolge anche i pensieri, l’uso delle parole, la scelta delle letture, obbligandoci a confrontarci continuamente con tematiche lontane dai nostri abituali interessi.
Essa ha trasformato i ritmi esistenziali, i rapporti interpersonali, le consuetudini più innocue e quelle più radicate, il significato degli sguardi, il senso delle amicizie; ha cambiato la nostra percezione del tempo, la nostra visione del mondo.
La sua prepotenza è devastante, la sua violenza è insopportabile in un sistema come il nostro, ispirato ai valori dell’illuminismo, che pone il singolo prima o al centro della società, e che ha una Costituzione ispirata al principio personalistico.
Massimo Luciani:
Nessun diritto può sfuggire alla necessità d’essere bilanciato con gli interessi collettivi alla salute, alla sicurezza, etc. Non ha senso, dunque, a mio parere, fare un elenco di quelli coinvolti dalla vicenda emergenziale sanitaria.
C’è un diritto alla salute in grado di prevalere su qualunque altro?
Corrado Caruso:
La Corte costituzionale, in una importante sentenza di quale anno fa sul caso ILVA, ci ha ricordato che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (…). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Queste affermazioni, pronunciate allora per postergare il diritto alla salute al diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica, vanno tenute a mente oggi, in un contesto assai diverso che vede rovesciata quella particolare relazione di precedenza.
Simile ribaltamento non deve stupire: nella nostra Costituzione non esiste una rigida e aprioristica gerarchia dei valori. L’equilibrio tra interessi e diritti costituzionali è mobile e storicamente situato, ed è l’esito di plurimi processi di integrazione politica. Oggi l’equilibrio arride al diritto di salute; domani, appena le condizioni fattuali lo consentiranno, l’odierno assetto di interessi dovrà necessariamente cambiare.
Lo ha lasciato intendere Giovanni Pitruzzella in uno scritto pubblicato su questa rivista: non è possibile comprimere sine die fondamentali diritti della persona in base a un generico principio di precauzione idoneo, in quanto tale, a prevalere assiomaticamente su qualsiasi istanza concorrente. Anzi, potrebbe sostenersi che l’interesse alla salute già incorpori, in una certa misura, simile principio. Conferire autonoma dignità giuridica alle esigenze della precauzione porta con sé il rischio di dare prevalenza, sempre e comunque, alle ragioni dell’emergenza, bloccando qualsiasi attività umana sino a che non vi sia una qualche certezza intorno allo stato di salute collettivo. Un risultato simile, nella odierna società del rischio, è pressoché impossibile da raggiungere; lo stesso giudizio di proporzionalità delle misure va necessariamente incontro ad esiti diversi qualora mutino le proprietà rilevanti dell’emergenza.
Giorgio Lattanzi:
Il diritto alla salute di per sé non è in grado di prevalere su qualunque altro diritto . Nella situazione attuale a me sembra che in realtà venga in questione il diritto alla vita, più che il diritto alla salute, e questo sì forse è un diritto che potremmo considerare “tiranno”, nel senso che è in grado di prevalere su qualunque altro. Ma ovviamente per stabilire se è o meno giustificato il sacrificio di un diritto fondamentale richiesto per garantire la vita non basta considerare in astratto il valore dei due diritti da bilanciare, perché anche se il sacrificio è richiesto in presenza di un pericolo per la vita di una o più persone occorre chiedersi qual è la consistenza del pericolo, se il pericolo può essere altrimenti evitato e se il sacrificio è proporzionato al pericolo.
Gabriella Luccioli:
Il diritto alla salute è il solo diritto che il Costituente ha definito come fondamentale. Ed è significativa la formulazione in termini negativi dell’inciso dell’art. 32 secondo il quale la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: nel porre quel limite inderogabile ad ogni intervento normativo in tema di sanità il Costituente evoca chiaramente il principio di dignità, con un implicito bilanciamento di valori che non ammette alterazioni. Il rispetto della persona umana e della sua dignità si pone come valore non suscettibile di bilanciamento e come limite estremo dell’esercizio del potere.
L’art. 32 esprime anche la dimensione pubblicistica del bene salute, agganciando al riconoscimento del diritto la sua corrispondenza all’interesse della collettività e garantendo cure gratuite agli indigenti. La configurazione del bene salute sotto i due profili diversi, ma strettamente collegati, aiuta ad intendere la sua reale portata ed il suo proiettarsi in direzione verticale e orizzontale e costringe l’interprete a confrontarsi con una continua comparazione tra valori e diritti, tra i quali si tende in giurisprudenza a riconoscere anche il diritto ad un ambiente salubre, in una prospettiva che deve conciliare la libertà di curarsi o non curarsi e l’interesse pubblico.
In questa prospettiva la legittimità dei trattamenti sanitari obbligatori che il capoverso dell’art. 32 Cost. eccezionalmente consente, in quanto diretti a garantire sia la salute del singolo cittadino sia l’interesse di tutti i consociati, esprime appunto la duplice valenza costituzionale della salute.
Il diritto alla salute viene così ad incrociare e a saldarsi con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., in forza del quale ciascun individuo è chiamato a farsi carico anche della salute altrui, evitando di produrne una lesione con il proprio comportamento.
Massimo Luciani:
Il nostro ordinamento non conosce una generale gerarchia dei valori costituzionali. Non esiste, dunque, una allgemeine Wertordnung quale quella ipotizzata in Germania dal Bundesverfassungsgericht.
Lo stesso contenuto precettivo dell’art. 3, comma 2, Cost. lo esclude: la Costituzione non intende imporre un astratto modello di società futura, dal quale il cittadino sia destinato a essere autoritativamente plasmato, ma, limitandosi a tracciare concrete linee di tendenza, disegna un grande processo di trasformazione sociale, entro il quale ciascuno può costruire e realizzare il proprio progetto di emancipazione personale, ovviamente a condizione di non impedire che gli alternativi progetti degli altri cittadini siano - a loro volta - disegnati e realizzati. Se è così, una rigida predeterminazione di una gerarchia generale dei valori costituzionali è inammissibile, perché escluderebbe la meritevolezza di scale assiologiche alternative, alle quali ciascuno possa ispirare il proprio individuale progetto di sviluppo della personalità.
Nemmeno esiste nella nostra Costituzione una norma paragonabile all’art. 1, comma 1, del Grundgesetz (ove si dispone che la dignità umana è intangibile (“Die Würde des Menschen ist unantastbar”). Nemmeno la dignità umana, pertanto, si atteggia a valore sovraordinato, o, come vorrebbe taluno, a “metavalore” o valore “non bilanciabile” (e in concreto non è forse bilanciato dalla stessa Costituzione quando ammette una pena come quella detentiva, che la dignità umana la comprime in radice?). I valori rilevanti per l’interprete sono solo quelli positivizzati in Costituzione (e dunque tradotti, da valori, in princìpi), sicché nessun principio può logicamente collocarsi al di sopra degli altri (tutti parimenti costituzionalizzati).
È poi un errore teorico ritenere che sia un “metavalore” almeno quello “procedurale” del bilanciamento fra valori, perché un valore solo procedurale è un non-valore, non possedendo (come è proprio dei valori) un autonomo pregio, ma rimandando - evidentemente - al pregio di un non detto valore sostanziale, che è quello in ragione del quale la procedura del bilanciamento dovrebbe essere seguita.
Nemmeno la salute, pertanto, prevale sugli altri diritti o princìpi costituzionali.
Quali i punti di riferimento nella nostra Costituzione?
Corrado Caruso:
Ho in parte già anticipato la risposta. Qui mi interessa sottolineare un dato, e cioè il sostanziale rispetto delle forme previste dalla Costituzione per la limitazione dei diritti fondamentali. Nonostante l’ordinamento avesse già predisposto gli strumenti per affrontare l’emergenza (il già citato d.lgs. n. 1 del 2018), la portata dell’evento e le forti compressioni alle libertà individuali hanno indotto l’esecutivo ad adottare uno specifico atto con forza di legge, il quale ha conferito base legale (d.l. 23 febbraio 2020, n. 6) alle prime misure adottate all’indomani dell’esplosione dell’emergenza. Il compito di integrare gli spazi, inevitabilmente ampi, lasciati dal d.l. è stato affidato ad atti amministrativi, secondo una tendenza che non deve stupire: l’intensità della copertura legale non può non variare in ragione della portata del fatto emergenziale da affrontare. A meno di non indulgere in quel «cretinismo parlamentare» di cui ha acutamente scritto Ilenia Massa Pinto sulla scorta di un antico adagio marxiano, nelle circostanze attuali l’entomologia giuridica non può non cedere il passo a valutazioni complessive circa il significato politico e fattuale delle misure adottate.
Peraltro, è stato da ultimo adottato il d.l. n. 19 del 2020, che ha risolto alcune ambiguità e incertezze che il decreto-legge del 22 febbraio aveva sollevato. Sono state così elencate le categorie di limitazioni consentite alle autorità amministrative, e resi espliciti alcuni principi immanenti all’ordinamento giuridico: ciascun provvedimento deve essere adeguato al raggiungimento dei fini indicati dalla fonte legale e proporzionato al fatto da fronteggiare. Nel caso in cui questi principi generali non siano rispettati, i provvedimenti amministrativi rimangono impugnabili ai sensi dell’art. 113 Cost. che, insieme al principio di legalità, compone la grande regola dello Stato di diritto.
Tornando ai decreti-legge, come ha riconosciuto Gaetano Azzariti, vi sono pochi dubbi che questa sia la fonte adeguata ad affrontare l’emergenza. Si pone, certo, la necessità di garantire, entro i termini previsti dalla Costituzione, la conversione in legge, consentendo la partecipazione dei parlamentari ai lavori delle Camere. Sul quomodo, è in corso una discussione: a chi ritiene che le Camere siano da convocare secondo le ordinarie procedure, si contrappone chi pensa sia possibile esercitare le tradizionali funzioni in via telematica o chi ritiene di convertire le leggi di conversione - previo accordo di tutti i gruppi parlamentati – con il voto in Commissione deliberante, così evitando di mobilitare l’intero consesso. Non può escludersi, comunque, che l’aggravarsi dell’emergenza possa eccezionalmente consentire una reiterazione dei decreti-legge, ricorrendo una di quelle ipotesi già immaginate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 360 del 1996 (che fece riferimento ai «nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza», idonei a consentire, in via eccezionale, la riproposizione di decreti-legge non convertiti).
Giorgio Lattanzi:
Ho già indicato quelli che a mio avviso sono i punti di riferimento, sia per quanto concerne i diritti sacrificati, sia per quanto concerne la possibile legittimità del sacrificio.
Gabriella Luccioli:
Come già ricordavo, l’art. 16 della Costituzione pone come uniche possibili limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno di ogni cittadino quelle stabilite dalla legge in via generale per motivi di sanità o di sicurezza; l’art. 17 dispone all’ultimo comma che le riunioni in luogo pubblico possono essere vietate dall’autorità solo per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
In tali ambiti e in presenza delle suindicate specifiche finalità si configura il potere di porre limiti all’esercizio dei diritti fondamentali di movimento e di riunione: con l’intervento del legislatore attraverso provvedimenti generali nel primo caso; con il limitato potere di veto dell’autorità amministrativa nel secondo. E va sottolineato che il diritto di cui all’art. 16 è oggetto di riserva rafforzata di legge, così che è inibito al legislatore demandare ad altri il potere di regolare la materia per la quale la riserva stessa è prevista.
La libertà di movimento costituisce il valore più direttamente coinvolto nella attuale congiuntura. Si tratta di una libertà funzionale all’esercizio di molti altri diritti sanciti nella Carta, una libertà che attiene all’esistenza delle persone non soltanto nella loro dimensione individuale, ma anche nella loro appartenenza ad una comunità produttiva. In effetti il diritto di circolazione è connesso con la libertà di impresa, di conoscenza, di abitazione, di istruzione, di lavoro. La pregnanza di tale diritto trova puntuale riscontro a livello regionale nell’art. 120 Cost., che vieta alle Regioni di adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose e di limitare l’esercizio del lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Né può dimenticarsi che il diritto dei cittadini europei di circolazione e di soggiorno in tutto il territorio della UE è stato incondizionatamente riconosciuto nel Trattato e riaffermato nell’art. 45 della Carta.
L’esperienza inoltre ci insegna che l’essenza della democrazia nella percezione collettiva del nostro Paese non sta tanto nell’esercizio dei diritti politici, ma nella possibilità senza limiti di muoverci, di incontrarci, di viaggiare: una possibilità che esprime più di ogni altra la necessità dell’uomo di essere libero e di realizzare le sue infinite potenzialità.
Massimo Luciani:
Considerato quanto osservavo in precedenza, la risposta è semplice: l’intera Costituzione è e resta parametro (e dunque “punto di riferimento”), esattamente come lo è in circostanze ordinarie.
Come un giurista valuta la gestione dell’epidemia da parte dei pubblici poteri?
Corrado Caruso:
Rispetto all’esigenza di conciliare le esigenze del governo dell’emergenza con la tutela dei diritti fondamentali, la valutazione dell’operato del Governo, a maggior ragione a seguito del d.l. n. 19 del 2020, è a somma positiva. Tale atto ha superato alcune zone d’ombra, tra cui il pregresso richiamo all’art. 650 c.p., o l’ambigua formulazione contenuta nell’art. 2, comma 1, del d.l. n. 6 del 2020, che prevedeva come «[l]e autorità competenti [potessero] adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1». Tale disposizione ha legittimato una serie di fughe in avanti da parte delle autorità locali e – soprattutto – regionali, che hanno adottato provvedimenti più restrittivi rispetto a quanto previsto a livello nazionale (ad esempio, le ordinanze di Piemonte e Lombardia concernenti gli studi professionali), con conseguente incertezza circa le regole da seguire. L’art. 3 del d.l. n. 19 del 2020 ha ora ammesso che le Regioni (non gli enti locali) possano adottare ordinanze più restrittive «esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale», facendo contestualmente salvi i provvedimenti precedenti all’entrata in vigore del d.l.
È stato così riconosciuto alle Regioni un certo margine di azione, garantendo la flessibilità nell’azione dei livelli di governo necessaria ad affrontare il fatto emergenziale da affrontare. Resta fermo che l’intervento regionale è consentito in quanto espressamente autorizzato dallo Stato ed entro i limiti posti dal legislatore statale: non può discutersi che gli interessi toccati dall’emergenza, la sua diffusione sull’intero territorio nazionale interessino competenze dello Stato che vanno dalla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lett. m) Cost.) ai principi fondamentali in materia di tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.).
Quanto al sostegno al lavoro e alle attività produttive, le misure di sostegno per le famiglie, i lavoratori e le imprese (d.l. 2 marzo 2020, n. 9), e il “reddito di emergenza” recentemente varato rappresentano prime risposte ai problemi sociali innescati dall’epidemia.
Giorgio Lattanzi:
Credo che occorra fare una distinzione tra il contenuto dei diversi provvedimenti adottati per fronteggiare la pandemia, con i relativi sacrifici imposti, da un lato, e la forma in cui tali provvedimenti sono stati adottati, dall’altro. In generale mi sembra che la compressione di diritti fondamentali non possa avvenire in un modo così invasivo attraverso fonti diverse da quella legislativa. Né per legittimare la congerie anche contraddittoria di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei ministri, di singoli ministri, di presidenti di regioni o di sindaci che incidono su diritti fondamentali possono bastare le disposizioni di un decreto legge che in modo generico attribuisce poteri in tal senso. Aggiungo che fino ad oggi il Parlamento è rimasto sostanzialmente assente invece di svolgere la sua funzione di controllo sul Governo e di intervenire in sede di conversione del decreto legge n. 6 del 2020 per eliminare i vistosi difetti dai quali era affetto.
In una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo il Parlamento dovrebbe costituire un punto di riferimento per il Paese, anche se le sue riunioni potrebbero essere rischiose per i parlamentari presenti. Invece l’istituzione è stata assente mentre, attraverso i mezzi di comunicazione e i social, sono presenti anche in modo ossessivo i leaders dei vari partiti, con discorsi e dichiarazioni spesso divisivi, dei quali si farebbe con piacere a meno.
Il d.l. n. 6 del 2020, che ha costituito la base per la congerie di provvedimenti emessi, ai vari livelli, fino all’entrata in vigore del d.l. n. 19 del 2020, era destinato a disciplinare gli interventi nelle cosiddette zone rosse ma poi è stato discutibilmente posto a fondamento dei decreti del Presidente del Consiglio che si sono susseguiti per porre limitazioni sempre più stringenti in tutto il Paese, così come è stato posto a base dei provvedimenti delle autorità delle più diverse regioni italiane. Decreti, i primi, di cui il Presidente del Consiglio inopportunamente ha anticipato i contenuti limitativi prima ancora che venissero pubblicati, inducendo così le persone a fare subito quello che si voleva loro impedire.
Attraverso la televisione abbiamo visto la folla di persone che si sono affrettate a lasciare le città dalle quali invece non si sarebbero dovute muovere, ad affollarsi nelle stazioni e sulle strade, con elevate possibilità di contagio, per ritornare nei luoghi di residenza, con il rischio di portare qui il virus di cui tali luoghi ancora erano immuni.
E il d.l. n. 6 del 2020 non solo ha consentito, oltre che al Presidente del Consiglio, ad altre autorità l’adozione di vari tipi di provvedimenti incidenti fortemente su diritti fondamentali, specificati nell’art. 1, comma 2, ma ha aggiunto all’art. 2 che «Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma 1» riconoscendo così alle autorità amministrative un generico potere di disporre, come poi è avvenuto, anche limitazioni di diritti fondamentali che avrebbero dovuto eventualmente essere adottate con legge o comunque non sulla base di una generica attribuzione di potere.
Il più recente d.l. n. 19 del 2020 ha abrogato il d.l. n. 6 del 2020, facendo salve solo alcune marginali disposizioni, e ha adottato una normativa un po’ meno disinvolta, ma è rimasto, di dubbia costituzionalità, il potere incisivo anche sui diritti fondamentali riconosciuto alle autorità amministrative, oltre al potere, limitativo della libertà personale, di applicazione della quarantena precauzionale (art. 2, comma 1, lett. d) e di allontanamento dalla propria abitazione (art. 2, comma 2, lett. e).
Queste sono misure limitative della libertà personale che dovrebbero avere una disciplina specifica, compatibile con l’art. 13 Cost., «una disciplina dei presupposti di applicazione e della relativa procedura, che preveda appunto una convalida giudiziale, pur semplificata (attraverso un procedimento telematico)»; una disciplina che nel decreto-legge manca e che «non può certamente essere affidata a un d.p.c.m., pur nella situazione di emergenza in atto» (Gatta). È da osservare inoltre che all’inosservanza di tali disposizioni sono collegate delle sanzioni: una di natura amministrativa, quella relativa alla lettera d), e una di natura penale, quella relativa alla lettera e), e c’è da chiedersi se la loro applicazione potrà resistere al momento del controllo giurisdizionale.
Gabriella Luccioli:
È una domanda complessa, cui non è facile dare una risposta netta.
Innanzi tutto va rilevato che la molteplicità e la diversità delle misure adottate dai rappresentanti degli enti locali, oltre ad offrire un quadro scomposto e disorganico, finisce con il costituire un elemento di destabilizzazione e di confusione per la collettività. È certamente vero che le statistiche rivelano grandi difformità nella diffusione del contagio e nel numero dei morti e dei guariti nei vari territori, così come è vero che diverse sono le potenzialità delle rispettive strutture sanitarie, ma è altrettanto vero che quando sono in gioco le libertà personali e la loro limitazione i parametri costituzionali di riferimento restano identici per tutti i cittadini. Non senza considerare sul piano concreto che il proliferare di tanti provvedimenti a livello locale sembra esprimere la presunzione di tanti amministratori di fare da soli, innalzando muri interni non sufficienti ad arginare il propagarsi dell’epidemia.
Non può inoltre non osservarsi che le misure adottate si rivelano gravemente discriminatorie nei confronti di classi di persone. Penso ai bambini di famiglie povere, costretti a passare lunghe giornate nei limiti ristretti delle mura domestiche, penso a tante scuole non attrezzate a fornire lezioni da remoto, con grave danno per gli alunni che le frequentano, penso agli anziani, spesso costretti in solitudine ad affrontare difficoltà che non sono in grado di superare, penso a chi non ha casa, a chi non ha tutele nel lavoro, penso alla realtà dei detenuti, non protetti dalle misure di sicurezza previste per gli altri cittadini: come si afferma efficacemente in Argentina, la romantizaciòn de la cuarantena es privilegio de clase!
Ed ancora, la circostanza che i provvedimenti adottati si fondino su paradigmi scientifici suggeriti da comitati di esperti non esclude la necessità di un riscontro e di un controllo sulle modalità di nomina e sulla validità delle soluzioni prospettate in termini di proporzionalità e adeguatezza, anche in ragione delle divergenze emerse tra gli scienziati sulla natura del virus e sulle strategie più opportune per debellarlo. Se è vero che l’epidemia si combatte con la scienza, è altrettanto vero che anche il dibattito scientifico deve svilupparsi secondo linee controllabili. Va tuttavia dato atto alla politica di aver optato per una strategia che fa leva sul principio di solidarietà, ancorata ad una corretta accezione del diritto alla salute configurato dall’art. 32 Cost. e consapevole che l’appartenenza ad una comunità deve prevalere sull’individualismo, chiaramente ben lontana da quella strategia, adottata da altri Paesi, ispirata dal calcolo bruto tra costi e benefici e dal rifiuto preconcetto di misure troppo restrittive, ritenute dannose per l’economia.
Massimo Luciani:
Difficile dire se i “tempi di reazione” siano stati adeguati, per quanto sia evidente che il nostro Paese ha fatto più d’altri lezione delle esperienze già maturatesi. Semmai, balza agli occhi il ritardo di risposta nel settore dello sport agonistico, in particolare in quello del giuoco del calcio. Incomprensibili rimpalli di competenza fra istituzioni politiche e istituzioni di governo dello sport (incomprensibili perché le prime avrebbero potuto sempre intervenire autoritativamente, come in effetti sono poi intervenute) hanno fatto sì che si siano consentite occasioni di contatto di massa che potevano essere evitate (fermo restando che, allo stato, non è dato sapere se, in effetti, al rischio abbia fatto seguito anche l’effettivo pregiudizio).
Dubbi, semmai, ci sono sulle strategie comunicative. I titolari di funzioni costituzionali dovrebbero annunciare misure di grande portata sulla vita dei cittadini una volta che sono state scritte e sono già nelle rotative dell’Istituto poligrafico dello Stato, non quando sono ancora in itinere. E sarebbe molto utile che ai cittadini venisse distribuita, foss’anche solo indicando dove reperirla sui siti istituzionali, una documentazione completa e sempre aggiornata, che indicasse i dati scientifici, quelli statistici ed epidemiologici, il vademecum di comportamento, etc.
Sul piano della risposta giuridica, c’è stato talora un progressivo e opportuno affinamento (come nel campo della giustizia) e talaltra (come - abbiamo visto - nella disciplina dei rapporti fra livelli di governo) un peggioramento della tecnica normativa. Complessivamente, però, la “catena normativa” è stata rispettata (dichiarazione dello stato di emergenza nazionale ai sensi dell’art. 24 della l. n. 1 del 2018; decreto legge; provvedimenti amministrativi attuativi) e la definizione delle fattispecie è diventata progressivamente più precisa.
Quali gli spazi per una riprogettazione dell’immediato futuro?
Corrado Caruso:
La limitazione delle libertà è collegata a doppio filo alla dimensione dell’emergenza. Per questo la compressione è temporanea (i termini di efficacia delle misure sono indicati nei diversi provvedimenti) e giustificata sino a che la curva epidemica sia in crescita e il tasso di contagi stabilizzato. Di fronte a un progressivo calo di trasmissioni o a una perdita di virulenza della malattia, sarà necessario un progressivo alleggerimento delle misure e persino una loro progressiva applicazione selettiva (nei confronti di soggetti contagiati o a rischio contagio).
Da questo punto di vista, il cd. contact tracing può essere una risposta. Alcuni dei dati necessari per simile operazione sono già in possesso delle multinazionali digitali: non mi pare vi siano particolari problemi a vederli utilizzati, nel prossimo futuro, dal potere pubblico per finalità strettamente necessarie alla tutela della salute, attraverso modalità previste dalla legge che ne garantiscano la anonimizzazione e con la supervisione del Garante della Privacy.
In ogni caso, la prospettiva più difficile che ci troveremo ad affrontare attiene alla dimensione economico-sociale. Un simile blocco delle attività produttive avrà effetti per molti anni a venire, richiedendo imponenti iniezioni di liquidità difficilmente sostenibili da uno Stato come il nostro, altamente indebitato e privo del potere di battere moneta. Per tale ragione, l’attuale discussione sui margini di intervento delle istituzioni europee (tramite gli acquisti della Banca centrale europea o attraverso la creazione di un fondo che emetta strumenti obbligazionari garantiti dagli Stati) non riguarda solo il futuro dell’Unione come soggetto istituzionale ma concerne anche il common welfare dei popoli europei e le future condizioni di vita di tutti noi.
Giorgio Lattanzi:
Credo che nel futuro non potrà mancare una legge che riconsideri le norme oggi in vigore e disciplini compiutamente, in modo conforme alla Costituzione, le situazioni di emergenza, alla luce dell’attuale esperienza e delle indicazioni della Corte costituzionale che verosimilmente non mancheranno.
Gabriella Luccioli:
Una limitazione così forte dei diritti costituzionali può essere accettata soltanto per un tempo limitato. La costrizione imposta alle nostre libertà con la perentorietà della formula state a casa, individuata come fondamentale mezzo di tutela della salute di ciascuno e di tutti, non può non assumere carattere eccezionale, così che il venir meno della sua essenzialità una volta azzerato o circoscritto il pericolo del contagio varrà immediatamente a deprivarla di ogni legittimazione giuridica e consentirà di riespandere automaticamente il regime di ordinaria legalità. È questo un passaggio ineludibile perché i fondamenti democratici del nostro ordinamento rimangano intatti. Il successivo percorso verso la normalità, che non sarà breve e che certamente richiederà gradualità ed attenta modulazione degli interventi, potrà essere gestito attraverso i tradizionali strumenti legislativi ed organizzativi.
Finita l’emergenza, occorrerà verificare lo stato di salute del nostro sistema democratico ed impegnare il Parlamento perché altre future emergenze siano affrontate sulla base di un quadro normativo certo e puntuale, che non consenta più sconfinamenti dell’esecutivo sul legislativo, che definisca i poteri dell’autorità centrale e gli ambiti di intervento di quelle territoriali, fissando ruoli, competenze e procedure da seguire, che individui momenti di cooperazione tra le istituzioni, che delinei strumenti di controllo. Il nostro far parte di una società globale del rischio ci imporrà infine di attrezzarci a gestire i pericoli e le insidie della globalizzazione garantendo un livello accettabile di tutela ai diritti fondamentali nel rispetto delle norme costituzionali, della normativa europea e delle convenzioni internazionali.
Massimo Luciani:
Gli spazi sono enormi e quel che dicevo in precedenza fa intendere in che direzione, personalmente, auspicherei che ci si muovesse. Lo espliciterò, comunque, senza giri di parole.
Sul piano culturale, sarebbe il tempo di abbandonare le illusioni dell’irenismo costituzionale che ha cercato di far credere che ogni problema giuridico possa risolversi sulla scorta dell’aristocratico “dialogo fra le Corti” e che la questione del rapporto fra diritto e forza possa essere rimossa.
Sul piano economico, sarebbe il tempo di rompere al più presto la gabbia (disegnata da un miope neoliberismo) costruita dalle astratte regole della stabilità finanziaria europea e agire per il ripristino dei margini di una vera politica economica (che non vuol certo dire “finanza allegra”), nel contesto di un rafforzato solidarismo fra i popoli europei.
Sul piano politico, sarebbe il tempo di sfuggire all’inesistente alternativa tra sovranismo e cosmopolitismo e agire per la costruzione di un ordine internazionale in cui, se non l’impegno morale, almeno il giuoco degli opposti egoismi e interessi producesse un nuovo equilibrio, entro il quale la razza umana possa vivere, non semplicemente sopravvivere, senza rischiare di estinguersi per la propria stessa dabbenaggine.
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L’ampiezza delle considerazioni degli intervistati offre molti spunti.
Se l’assoluta priorità, in questo momento, è il superamento dell’offensiva del contagio con un impegno e con soluzioni senza precedenti, fin d’ora possiamo almeno tentare di mettere contemporaneamente in sicurezza qualcuno di quei valori che fino a ieri avevamo dati per scontati, per evitare che, passata o attenuata la furia dell’uragano che ancora imperversa, non ci sia più nulla da ricostruire; per attenuare il pericolo che in modo più o meno cosciente si sia minato per sempre il suolo su cui riedificare la nostra civiltà del terzo millennio; che, avvelenati i pozzi, siano irreversibilmente cambiate, col modo stesso di intendere la socialità e le modalità della convivenza quotidiana, anche le Costituzioni.
Ci deve essere di monito l’esempio di vicine realtà di democrazie più giovani e fragili della nostra, dove l’emergenza sanitaria è stata chiaramente eretta a pretesto per una compressione senza precedenti delle libertà fondamentali ed inviolabili.
Quando già il “picco” della pluriennale pandemia terroristica era nella sua fase discendente, avendo toccato il suo acme nella notte della Repubblica del 1978 e poi iniziato il suo declino coi sequestri di alti ufficiali militari alleati, per entrare in magistratura fu necessario affrontare, col tema scritto di diritto amministrativo, una riflessione su: “I diritti di libertà del cittadino. Ammissibilità e limiti dei poteri restrittivi della pubblica amministrazione; tutela giurisdizionale del privato”.
Curiosamente, dopo trentotto anni, quelle riflessioni tornano di stringente attualità, in un contesto sociale globale di inaspettata e sconvolgente novità: la brutalità del dilemma che ci ha piazzato davanti con imprevedibile repentinità questa pandemia è infatti l’alternativa tra la salute di tutti e i diritti fondamentali di ognuno.
E, come latente anch’esso al pari di questo maledetto contagio, c’è il rischio che, insieme al sovvertimento del nostro modo di vivere e di convivere, possa esserci quello del nostro sistema di valori e di libertà.
Il fenomeno cui ci si trova di fronte ha precipitato in poche settimane l’intera civiltà in condizioni radicalmente diverse da quelle dell’Italia e di una parte della civiltà occidentale alla fine degli anni Settanta del secolo scorso: la minaccia di un sovvertimento violento delle istituzioni e delle costituzioni materiali era dovuta all’azione organizzata dell’uomo e non al radicale cambiamento di tutte le sue ordinarie modalità di convivenza imposte da un evento sanitario al di là di ogni previsione.
Questo può giustificare forse risposte più incisive rispetto agli Anni di Piombo e nonostante i rischi di involuzione autoritaria che furono corsi all’epoca, quando pure fu infine condivisa la conclusione dell’assoluta abnormità dell’aggressione ai diritti fondamentali di libertà, definiti inviolabili dalla nostra Carta fondamentale, ad opera della Pubblica Amministrazione.
Oggi è, obiettivamente, diverso e molto si può comprendere quale tentativo scomposto di far fronte ad una situazione priva di precedenti nella storia.
Ma occorre domandarsi fino a che punto possono spingersi l’inesperienza e la sincera volontà di sconfiggere il contagio e di conquistare le condizioni per conviverci stabilmente.
Ci si deve chiedere se l’Italia abbia posto in campo soluzioni adeguate, tanto a livello di rapporti col Parlamento che in ordine ai diversi livelli di governo; se l’interazione tra diritti fondamentali, molti dei quali definiti inviolabili dalla Costituzione, abbia sempre rispettato i principi di adeguatezza e proporzionalità e le garanzie procedimentali costituzionalizzate; se gli interventi normativi a livelli spesso eccessivamente differenziati siano avvenuti, sia pure con la necessaria flessibilità indotta dalla peculiarità di un’emergenza in tumultuosa e imprevedibile evoluzione, con altrettanta chiarezza.
Ci si deve interrogare sull’esistenza di una gerarchia di valori all’interno della Costituzione e, quindi, di una pretesa primazia del diritto alla vita ed alla salute, in nome del quale limitare – sia pure solo in via temporanea – alcuno degli altri, anziché dell’indispensabilità del riferimento alla nostra Carta fondamentale; ed in questo quadro occorre verificare la tenuta dell’imprescindibilità dei diritti inviolabili garantiti comunque e, quindi, anche in tempi di emergenza, salve le sole limitate e precise deroghe imposte da questa.
Rimane poi un capitolo tutto da scrivere quello del futuro di questa nostra società e, nel suo seno, dei rapporti tra diritto e forza, soprattutto una volta perdute da questa, nella sua manifestazione economica immediata, ogni sovrastruttura idealistica e tutte le remore o cautele formali: un ambito nel quale, abbandonati atteggiamenti autoreferenziali, il giurista di questo millennio può avere ancora un ruolo importante.
Insieme, ci si può forse augurare di lavorare, condividendo quest’utopia, per una solidarietà concreta ed effettiva, in una cornice minimale di sicurezza intesa non più quale coppia dialettica protezione-prevaricazione, ma quale espressione di un diritto che sappia rendere davvero effettive, con serietà ed all’occorrenza con rigore, le tutele promesse, a presidio dalla prepotenza della forza bruta, economica o ideologica o altro: una condizione di partenza affinché ognuno possa ancora, pure cambiate le regole dell’interazione coi suoi simili ed accettato perfino un distanziamento fisico permanente, perseguire i suoi obiettivi di evoluzione e soddisfazione che non siano in contrasto con quelli degli altri, in una reciproca limitazione, nel reciproco rispetto.
[i] Corrado Caruso, professore associato di diritto costituzionale all’Università di Bologna - Alma Mater Studiorum,
Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte costituzionale,
Gabriella Luccioli, presidente onorario emerito della Corte di cassazione,
Massimo Luciani, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Roma La Sapienza