ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’actio iudicati nel “nuovo” processo amministrativo (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 4 dicembre 2020, n. 24)
di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Funzioni e caratteri del ricorso di ottemperanza. - 3. Il termine di prescrizione di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. - 4. L’Adunanza plenaria n. 24 del 2020 e la specialità del giudizio amministrativo.
1. Introduzione.
Chiamata a pronunciarsi dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (ord. 25 giugno 2020, n. 466[1]), l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 4 dicembre 2020, n. 24, ha affermato che «il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato».
Viene, in tal modo, risolta una questione – quella della possibile interruzione del termine per l’esercizio dell’actio iudicati – dibattuta in giurisprudenza soprattutto prima dell’entrata in vigore del Codice[2].
L’interesse nei confronti della pronuncia si coglie in quanto si tratta di un arresto che consente di impostare una riflessione non solo sulla natura del ricorso di ottemperanza, ma, più in generale, sulla pari dignità della tutela di diritti e interessi legittimi, posto dall’Adunanza plenaria alla base del proprio iter motivazionale, e sul ruolo del giudice amministrativo nel rinnovato sistema di giustizia amministrativa.
2. Funzioni e caratteri del ricorso di ottemperanza.
Al fine di corroborare il proprio ragionamento e, quindi, valorizzare il disposto dell’art. 114, comma 1, c.p.a., l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 si sofferma sui profili evolutivi del giudizio di ottemperanza che, come noto, in origine riguardava il giudicato civile a tutela di diritti suscettibile di esecuzione nei confronti della pubblica amministrazione nel termine di trent’anni[3].
Nello specifico, detto rimedio veniva ammesso per eseguire il giudicato che avesse riconosciuto «la lesione di un diritto civile o politico» ai sensi dell’art. 4, n. 4, della l. n. 5992/1889, poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato approvati con r.d. n. 6166/1889, n. 638/1907 e n. 1054/1924. Si trattava di un termine passibile di interruzione: l’art. 2123 del codice civile del Regno d’Italia del 1865, infatti, disponeva che la prescrizione – cui risultava assoggettata pure l’actio iudicati, in assenza di disposizioni contrarie – fosse interrompibile “civilmente”.
L’esecuzione del giudicato amministrativo[4] a mezzo del ricorso di ottemperanza si afferma inizialmente a livello giurisprudenziale, per poi essere tipizzata ai sensi dell’art. 37, commi 3 e 4, della l. Tar, entrata in vigore quando il codice civile del 1942 aveva già ridotto a dieci anni il termine di prescrizione dell’actio iudicati. Si deve, comunque, attendere fino alla legge di riforma n. 205/2000 per assistere all’ulteriore ampliamento dell’ambito di applicazione del rimedio tale da inglobare pure le decisioni esecutive, ancorchè non passate in giudicato, e le ordinanze pronunciate dal giudice amministrativo in sede cautelare.
Il Libro IV, titolo I, del codice del processo amministrativo conferma tali approdi e, al contempo, introduce alcune significative novità, fra cui l’estensione dei provvedimenti suscettibili di ottemperanza, l’espunzione della diffida all’autorità amministrativa ad adempiere prima della formale instaurazione del giudizio, come invece previsto dall’art. 90, comma 2, r.d. n. 642/1907, e l’esperibilità del rimedio in questione per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza (art. 112, comma 5, c.p.a.).
La logica è quella di implementare l’effettività della tutela giurisdizionale a fronte di un precedente sindacato favorevole cui non è stata data spontanea esecuzione[5].
In un simile conteso evolutivo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 ha rilevato che la giurisprudenza non ha mai dubitato dell’applicazione in sede processuale amministrativa dell’art. 2953 c.c., in base al quale «i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni», né dell’art. 2943, comma 4, c.c. per cui la prescrizione è fra l’altro interrotta «da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore», trattandosi di giudicati aventi ad oggetto diritti soggettivi. La garanzia di tali situazioni, per i principi costituzionali di eguaglianza e di effettività della tutela, non avrebbe potuto essere inferiore a quella erogabile dal giudice ordinario.
Ha creato maggiori problemi il giudicato di annullamento di provvedimenti amministrativi illegittimi, quando è prevalsa l’esigenza di garantire certezza e stabilità ai rapporti di diritto pubblico e, conseguentemente, si è negata l’interrompibilità, a mezzo di atti stragiudiziali, del termine di “prescrizione” per la proposizione dell’actio iudicati.
È quanto riconosciuto dall’Adunanza plenaria n. 5 del 1991, sentenza assunta come parametro di riferimento dalla citata ordinanza di rimessione n. 466 del 2020 secondo cui l’art. 114, comma 1, c.p.a. individuerebbe, in realtà, un termine decadenziale, maggiormente coerente con l’impianto codicistico, cui rimane assoggettata l’azione di ottemperanza. In altre parole, tanto più che i termini processuali sono di norma perentori e, quindi, sottratti alla disponibilità delle parti, soltanto l’esercizio dell’actio iudicati sarebbe idonea a produrre effetti interruttivi: «anche il precedente della Cass., sez. un., 2 aprile 2007, n. 8085, non si riferisce al caso di atti interruttivi stragiudiziali del termine dell’actio iudicati; altri precedenti del Consiglio di Stato, pur ammettendo atti interruttivi del termine decennale dell’actio iudicati, si riferiscono ad atti interruttivi giudiziali, mediante azione di ottemperanza o altro tipo di azione processuale (Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2011, n. 5558; Id., 16 novembre 2018, n. 6470)»[6].
Una simile impostazione non è stata, tuttavia, avallata dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 24 del 2020, in base alla quale «il legislatore si è consapevolmente riferito alla prescrizione della “azione” senza fare riferimento alle posizioni giuridiche oggetto del giudicato».
In tale prospettiva è stato, altresì, neutralizzato il rilievo critico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana secondo cui «la soluzione che ammette atti stragiudiziali interruttivi dell’actio iudicati può condurre al paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito»[7].
3. Il termine di prescrizione di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a.
Sono ben noti i condizionamenti che il tradizionale giudizio di legittimità ha imposto al sindacato su diritti soggettivi nelle particolari materie di giurisdizione esclusiva[8] e, più in generale, è difficile negare che il processo amministrativo sia tuttora condizionato dalla rilevanza dell’interesse pubblico rientrante nella titolarità della pubblica amministrazione parte del giudizio[9].
Le categorie del processo civile, del resto, possono assumersi a modello solo se compatibili con la specialità del processo amministrativo. Lo conferma la norma sul rinvio esterno (art. 39 c.p.a.), che cristallizza l’autonomia della giurisdizione amministrativa, e, del pari, lo dimostrano diverse disposizioni codicistiche dalle quali è agevole desumere come la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, se può perdere rilevanza nell’ottica del riparto giurisdizionale, ben può preservarla sul piano strettamente processuale e dei rimedi attivabili dal ricorrente. Si pensi alle norme sull’arbitrato (art. 12), sulle domande riconvenzionali (art. 42, comma 5) o sul decreto ingiuntivo (art. 118), le quali fanno tutte riferimento a diritti soggettivi.
Pur non potendosi predicare una vera e propria equiparazione delle forme di tutela erogabile alle situazioni oggetto del giudicato, come si intuisce, rientra nella discrezionalità del legislatore riferirsi specificamente ai rimedi processuali.
È quanto accade in sede di art. 114, comma 1, c.p.a. là dove la “prescrizione” è stata posta in relazione all’esercizio della “azione”. Quando l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020 sostiene che il termine di prescrizione può essere interrotto con atto stragiudiziale «in ogni caso» intende, appunto, affermare che, indipendentemente dal fatto che il giudicato riguardi diritti soggettivi o interessi legittimi, è necessario considerare il rimedio rappresentato dall’actio iudicati e non la natura della situazione dedotta in giudizio.
L’art. 114, comma 1, c.p.a. delinea una regola consapevolmente unitaria ai fini della proposizione del ricorso di ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi legittimi, compatibile con l’assetto costituzionale della giustizia amministrativa e, in particolare, con il principio di effettività della tutela, nonché con gli artt. 97 e 111 Cost. sotto il profilo del buon andamento dell’amministrazione e del giusto processo, con specifico riguardo alla ragionevole durata dei giudizi.
In tale apparato concettuale, in primo luogo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato osserva che «una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, ha riguardato proprio l’actio iudicati riguardanti i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza».
In secondo luogo, la sentenza in nota rileva che:
a) la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa;
b) il ricorso di ottemperanza rappresenta l’extrema ratio per ottenere, in sede di giurisdizione di merito, l’esecuzione del giudicato qualora, in sede amministrativa, sia mancata la definizione della questione conforme al giudicato stesso, pure a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti, i quali vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della l. n. 241/1990, da interpretarsi «nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva volto a definire una volta per tutte la controversia (Cons. Stato, sez. IV, 11 agosto 2020, n. 4990)»;
c) il principio della ragionevole durata processuale si riferisce al periodo entro il quale deve intervenire la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che sia precluso al legislatore fissare una regola secondo cui – intervenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca sollecitare la pubblica amministrazione soccombente senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza, confidando che la stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia esecuzione al giudicato[10].
4. L’Adunanza plenaria n. 24 del 2020 e la specialità del giudizio amministrativo.
L’apprezzamento nei confronti della sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 24 del 2020, la quale «ha evitato una di quelle ibridazioni che nel futuro prossimo venturo avrebbero altrimenti originato quasi sicuramente questioni di giurisdizione a non finire»[11], può condividersi anche per le ripercussioni destinate ad avere sul piano dei rapporti tra plessi giurisdizionali, i cui persistenti profili di incertezza risultano ben inquadrabili alla luce dell’ordinanza interlocutoria delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 18 settembre 2020, n. 19598[12].
La pronuncia in nota si colloca in un solco tracciato dal medesimo organo di nomofilachia – si considerino, in particolare, le sentenze n. 2/2013, che rimarca la regola secondo cui il giudicato amministrativo copre il dedotto e non il deducibile[13], n. 11/2016 relativa al giudicato a formazione progressiva[14], n. 2/2017 sul risarcimento dei danni connessi all’impossibilità di eseguire il giudicato[15] e n. 7/2019 sulla c.d. ottemperanza di chiarimenti[16] – che riflette la specialità del giudizio amministrativo, la quale si accompagna a dati normativi che disvelano persistenti tratti di oggettività del processo amministrativo[17].
Appaiono emblematiche, in tal senso, le previsioni codicistiche sulla competenza territoriale inderogabile (art. 13), quelle sui temperamenti all’esercizio di azioni risarcitorie autonome a tutela di interessi legittimi (art. 30), sull’accertamento della nullità che può essere sempre opposta dalla parte resistente o rilevata d’ufficio dal giudice (art. 31, comma 4), le previsioni sulla rinuncia, che determina l’estinzione del giudizio «se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono» (art. 84, comma 3), quelle sull’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 99, comma 5, c.p.a., senza dimenticare gli ampi poteri di cui il giudice dispone in materia di appalti (artt. 120 ss., s.m.i.) o le peculiarità proprie del contenzioso elettorale (artt. 126 ss.).
Come ha riconosciuto la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 27 aprile 2015[18] «il principio dispositivo non può cancellare il dato di fatto che l’interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti in causa rimane il convitato di pietra che impronta più o meno consapevolmente svariate disposizioni; la visione del processo amministrativo nella logica “parte privata contro parte pubblica”, “interesse privato contro interesse pubblico”, non considera, sullo sfondo, l’interesse generale dell’intera collettività da un lato ad una corretta gestione della cosa pubblica, e dall’altro ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività». L’essenza di giustizia della decisione – prosegue la sentenza n. 5 del 2015 – è «ancora più avvertita nel processo amministrativo di legittimità concentrato sul controllo della legalità dell’azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell’interesse pubblico: sarebbe paradossale che quanto teorizzato per il processo civile circa l’importanza della dimensione pubblica dello stesso, non trovasse piena applicazione per il processo amministrativo come disegnato, nella sua genesi storica repubblicana, dalla Costituzione».
In realtà, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, la dimensione pubblica del processo amministrativo non era contestabile. La legge Crispi n. 5992 del 1889 ha creato un giudice nell’amministrazione in base alla constatata inadeguatezza del potere di disapplicazione riconosciuto dagli artt. 4 e 5 della l. n. 2248/1865, all. E, al giudice ordinario, inadatto a tutelare i privati nei confronti del potere amministrativo e, per l’esattezza, a garantire quelle situazioni soggettive dei privati che con tale potere “dialogano”[19], ossia gli interessi legittimi.
Storicamente, la giurisdizione amministrativa nasce in quanto giurisdizione che meglio si modella sull’esercizio del potere e il giudice amministrativo esiste come giudice speciale in quanto il potere che la legge riconosce all’amministrazione per il perseguimento di fini di interesse generale è “speciale”. È questo il principale insegnamento ereditato dalla fondamentale sentenza n. 204 del 2004[20] della Consulta[21] ed è quanto si può, chiaramente, desumere dall’art. 7, comma 1, c.p.a. che fa del giudice amministrativo il giudice naturale[22] precostituito a sindacare l’esercizio del potere amministrativo in funzione della tutela da accordare ai privati[23]. Negare la specialità del giudizio amministrativo significherebbe, in ultima analisi, mettere in discussione la stessa esistenza del giudice amministrativo.
[1] Con nota di F. D’Angelo, La “decadenza” del processo amministrativo, in questa Rivista (21 luglio 2020).
[2] Nel senso dell’ammissibilità di atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, Cons. Stato, sez. III, 28 febbraio 2014, n. 945; Id., 22 dicembre 2014, n. 6296; Id., sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 6432; Id., sez. III, 23 novembre 2017, n. 5448; Cgars, 11 dicembre 2017, n. 544; contraCons. Stato, ad. plen., 29 agosto 1991, n. 5; Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 1999, n. 274.
[3] L’art. 2135 del codice civile del Regno d’Italia del 1865, infatti, disponeva in generale che «tutte le azioni tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di trent’anni».
[4] Sulle origini e sull’evoluzione del giudicato amministrativo come (nuovo) “problema” della scienza giuridica, si veda S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, spec. 55 ss.
[5] Sul punto cfr. E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1964, 106.
[6] Così l’ordinanza di rimessione del Cgars n. 466 del 2020.
[7] Secondo il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana «una esegesi che conduce a un risultato paradossale è perciò solo da rigettare» (ord. n. 466 del 2020).
[8] In tema, per tutti, V. Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988; F. Ledda, La giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato. Atti del V Seminario della Sezione Umbra del C.I.S.A., Perugia 1970, Firenze, 1972, 21 ss.; A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. I, Padova, 2000, 113 ss.
[9] Cfr., da ultimo, F. Francario, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it, n. 34/2020, 103.
[10] L’indirizzo giurisprudenziale prevalente si è attestato sulla configurazione dell’ottemperanza come «giudizio misto di cognizione ed esecuzione che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva»: così, fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 22 giugno 2020, n. 4004, con nota di M. Ricciardo Calderaro, Ottemperanza di chiarimenti e appellabilità della decisione, in questa Rivista, 16 luglio 2020. Già M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza. Atti del XXVII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione (Varenna, 17-19 settembre 1981), Milano, 1983, 65 ss., aveva ricostruito l’ottemperanza come “giudizio necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione”. Il carattere esecutivo del processo in questione è valorizzato, fra gli altri, da R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, 369 ss.; viceversa, il carattere essenzialmente cognitivo del processo è sottolineato da A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982, 1238. Una simile impostazione, a seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, è preferibile anche secondo F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il processo, n. 3/2018, successivamente pubblicato in Id., Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 209 ss., il quale conclusivamente osserva «come la possibilità di considerare il giudizio di ottemperanza un processo esecutivo sia sicuramente da escludere alle origini, allorquando l’istituto venne pensato ed applicato per assicurare l’osservanza da parte della Pubblica Amministrazione unicamente delle sentenze del giudice ordinario; e come sia improprio qualificare il giudizio di ottemperanza come un giudizio di esecuzione anche quando l’istituto viene applicato alle sentenze del giudice amministrativo», in relazione alle quali viene in rilievo un giudizio «con una cognizione estesa ai profili discrezionali eventualmente ancora consentiti alla decisione amministrativa successivamente al giudicato e con i conseguenti poteri decisori anche nel merito» (p. 244).
[11] F. Francario, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, cit., 104.
[12] L’ordinanza in questione ha immediatamente originato un acceso dibattito, come dimostra l’ampiezza e lo spessore delle sue annotazioni, numerose anche in questa Rivista: F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di Piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) (11 novembre 2020); M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia (11 dicembre 2020); B. Nascimbene - P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea? (24 novembre 2020); M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020(30 novembre 2020); G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione” (7 ottobre 2020).
[13] Cons. Stato, ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2, con note di A. Falchi Delitalia, Il giudice dell’ottemperanza come “giudice naturale dell’esecuzione della sentenza”, in Foro amm. CdS, 2013, 1846 ss.; ivi N. Spadaro, Brevi considerazioni in tema di giudizio di ottemperanza, 1864 ss.
[14] Cons. Stato, ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, con note di N. Spadaro, Giudicato a formazione progressiva e diritto europeo. Un’occasione sprecata dall’Adunanza plenaria, in Dir. proc. amm., 2016, 1159 ss.; S. Vaccari, “Ius superveniens” e giudicato a formazione progressiva, in Foro it., 2017, IV, 204 ss.
[15] Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2, con nota di F.G. Scoca, Impossibilità di esecuzione del giudicato e azioni conseguenti, in Corr. giur., 2017, 1257 ss.
[16] Cons. Stato, ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7, con note di S. Aurilio, La statuizione relativa alla penalità di mora può essere modificata in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” purchè se ne dimostri la manifesta iniquità, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2020, 820 ss.; M.M. Cellini, La penalità di mora nel processo amministrativo tra precarietà della statuizione ed effettività della tutela giurisdizionale, in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc., n. 1/2021.
[17] Per una ricognizione, si segnala la raccolta di contributi pubblicati in F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli. Atti del Convegno di Modanella, Napoli, 2017. Si veda, inoltre, P.L. Portaluri, Le “macchine pigre” ed un Codice ben temperato, in Foro amm. Tar, 2011, 669 ss.
[18] In relazione alla quale v. L.R. Perfetti - G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame e assorbimento dei motivi, in Dir. proc. amm., 2016, 205 ss.; A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel giudizio amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286 ss.
[19] Per riprendere la significativa immagine offerta da F.G. Scoca, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Milano, 1990, 25.
[20] E della successiva sentenza della Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191, commentata da M.A. Sandulli, Riparto di giurisdizione atto secondo: la Corte Costituzionale fa chiarezza sugli effetti della sentenza 204 in tema di comportamenti “acquisitivi”, in www.federalismi.it, 2006; A. Travi, Principi costituzionali sulla giurisdizione esclusiva ed occupazione senza titolo dell’amministrazione, in Foro it., 2006, I, 1625 ss.
[21] Così, da ultimo, il Pres. F. Patroni Griffi in occasione del webinar - Modanella 2020 La questione di giurisdizione. Giornate di studio sulla giustizia amministrativa (9 dicembre 2020), in questa Rivista (12 dicembre 2020).
[22] Cfr. M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 643 ss.
[23] Come è stato significativamente affermato da V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 988: «è peculiare del processo amministrativo la circostanza che esso è volto a soddisfare pretese di soggetti nei confronti di potestà pubbliche, per cui anche il processo esecutivo non si svolge nello schema proprio del processo civile diritto-obbligo, bensì nello schema del sindacato sulla potestà».
Un riesame critico di alcune questioni irrisolte della disciplina dei licenziamenti, conversando con Stefano Giubboni
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Stefano Giubboni
«Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi» è il libro pubblicato, a fine ottobre 2020, per i tipi di G. Giappichelli Editore, che raccoglie – riordinandoli in forma organica – alcuni contributi di Stefano Giubboni dedicati negli ultimi anni alla disciplina dei licenziamenti, dalla legge Fornero al Jobs Act, passando per la giurisprudenza di legittimità e costituzionale. Una rimemorazione, insomma, della disciplina dei licenziamenti, con una «serrata analisi critica dei numerosi aspetti irrazionali e disfunzionali della disciplina oggi in vigore nel nostro Paese, così come stratificatasi senza adeguato coordinamento sistematico in questi anni di contro-riforme, per suggerire – oltre a soluzioni utili già disponibili sul piano interpretativo – anche radicali interventi di semplificazione e di (autentica) riforma, in linea con le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale nelle sue sentenze sul decreto legislativo 23/2015». In questo dialogo ripercorriamo con l’autore l’ultimo miglio della disciplina dei licenziamenti, con qualche domanda obbligata sull’impianto sistematico delle tutele dagli anni ’70 in poi e sulle scelte recenti di politica del diritto del lavoro.
Quelle riportate sopra sono le parole che leggiamo nella quarta di copertina. Sono queste le “ragioni” del tuo libro? C’è dell’altro?
La ragione di fondo che ha guidato questa “rimemorazione” – come l’hai elegantemente chiamata – è, in effetti, ben sunteggiata nella quarta di copertina. Il libro nasce anzitutto dall’esigenza di mettere in forma maggiormente distesa e insieme “compatta” quella critica radicale – come tale, insieme tecnica e politica – delle controriforme del decennio perduto del diritto del lavoro, per citare un’espressione efficace, nella quale mi sono impegnato, in buona compagnia per la verità, in questi ultimi anni, segnalando tra i primi, in particolare, la strutturale incompatibilità del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” (formula che ho trovato sin da subito francamente inaccettabile per l’insopportabile tasso di impostura e mistificazione linguistica) con i principi della Costituzione repubblicana. Quella impostazione critica è stata, in una parte non minore, sostanzialmente recepita dalla Corte costituzionale con le due importanti sentenze del 2018 (la n.194) e del 2020 (la n.150), di cui come ovvio il libro dà conto diffusamente.
Collegata a questa ragione ve n’è un’altra più generale, che ha a che fare con l’esigenza di esplicitare in maniera più compiuta di quanto non avessi fatto in precedenza una ben precisa opzione di politica del diritto, diretta, da un lato, a ripristinare regimi di tutela effettivamente bilanciati e adeguati, restituendo anzitutto centralità alla tutela reale del posto di lavoro, e, dall’altro, a semplificare un quadro normativo sulla cui insostenibile e disfunzionale complessità esiste, oggi, un giudizio pressoché unanime da parte di quelli che con brutta espressione ci siamo abituati a chiamare gli “operatori del diritto”, in primis avvocati e giudici del lavoro. Una opzione di politica del diritto evidentemente opposta a quella di segno neoliberale perseguita negli anni delle controriforme, sia dalla legge Fornero, sia – e soprattutto – dal Jobs Act renziano.
Nella introduzione del libro definisci questi orientamenti neoliberali approssimativi e provinciali, frutto – come scrivi – di «un accidioso abbandono (quasi una desistenza culturale)» a una serie di luoghi comuni, «in un campionario argomentativo in cui spiccano le più schematiche rappresentazioni del conflitto insiders vs outsiders e le semplificate versioni nostrane della Law & Economics». È un giudizio severo, non solo tecnico-giuridico.
È un giudizio severo, ma credo corretto, visto che l’appello alle virtù taumaturgiche della flessibilità (anche) “in uscita” – la cui necessità e quasi ineluttabilità è stata sbrigativamente giustificata con il richiamo a quei topoi ormai consunti del senso comune neoliberale – è servito a bloccare praticamente sul nascere un autentico dibattito scientifico sul fondamento di quelle asserzioni. Un fondamento – si badi – debolissimo sul piano teorico, dove è sempre stato contestato anche in seno alle dottrine economiche, e dalle ancor più evanescenti basi empiriche, come i fatti hanno poi implacabilmente dimostrato. Nessuno degli effetti attesi da una riduzione della asserita eccessiva rigidità della disciplina italiana dei licenziamenti sul dinamismo del nostro mercato del lavoro (e, di riflesso, sulla crescita della capacità competitiva del sistema delle nostre imprese) si è verificato; e ciò per la ragione di fondo che quella disciplina ha un rilievo del tutto marginale sul funzionamento del mercato del lavoro e soprattutto sulle dinamiche dell’occupazione. Le controriforme criticate nel libro hanno quindi tradotto in maniera piuttosto pasticciata opzioni politiche dalla forte connotazione ideologica e in realtà sprovviste di quella robustezza di basi teoriche che si è tentato di accreditare. Lo stesso dibattito tra gli economisti è sempre stato assai più articolato della versione riduzionistica e piuttosto unilaterale che è prevalsa nella mediazione offerta ad uso dei giuslavoristi.
Hai scritto che il dibattito che ha accompagnato e sostenuto soprattutto gli interventi normativi del 2012 e del 2015 ha sviato l’attenzione dalla vera questione che conta in questo campo di «lotta per il diritto»: quella del potere, della limitazione e del controllo del potere sociale dell’impresa. A cosa ti riferisci esattamente? Puoi illustrarci meglio questo passaggio?
È questo il profilo maggiormente ideologico del discorso neoliberale, la cui visione del mercato concorrenziale semplicemente rimuove, occulta, il tema del potere. Che è invece il tema fondamentale del diritto del lavoro, ciò che ne fa un elemento portante del modello di democrazia accolto dalla Costituzione repubblicana. Il fatto che ci ritroviamo, anche in Europa, e certamente in Italia, a vivere in società sempre più diseguali, con una crescita vertiginosa e vergognosa delle diseguaglianze economiche (nella distribuzione del reddito e della ricchezza e di conseguenza nelle opportunità) che nega alla radice il disegno costituzionale, è legato a questa rimozione, e costituisce il frutto della applicazione, seppur con intensità diversa nei diversi contesti nazionali, del paradigma neoliberale.
Oggi assistiamo però – finalmente – a un ripensamento di quel paradigma, anche all’interno dell’Unione europea, che ne ha probabilmente fatto, specie dopo il 2008, l’applicazione forse più ottusamente rigoristica, anche in forza delle regole che si è data con quella sorta di legalità parallela che nella letteratura specialistica va sotto il nome di crisis-management-law. Ce ne dà evidenza non solo Nex-Gerenation-EU, che evidentemente supera la logica ordoliberale dell’austerità, ma forse ancor più, per certi versi, l’audace proposta di direttiva su un salario minimo adeguato presentata a settembre dalla Commissione europea, che al di là di tutti i suoi limiti (evidenti e del resto persino scontati, data la controversa base giuridica messa a disposizione dal Trattato), segnala, di per sé, che il modello della svalutazione interna competitiva del lavoro non è più la strada che l’Unione intende perseguire. O, almeno, non è la sola.
Nella introduzione si leggono parole molto critiche anche sulla «narrazione flessicuritaria».
La flexicurity è la versione edulcorata e politically correct del paradigma neoliberale. Il mio, comunque, non vuole essere un atteggiamento di chiusura aprioristica e ideologica: di per sé, come tutte le formule politiche di compromesso, può voler dire, e infatti dice, cose molto diverse, alcune delle quali del tutto condivisibili. Sta di fatto, però, che, in Italia, quella formula è stata tradotta – in particolare con la legge Fornero e il Jobs Act, che ad essa si sono esplicitamente ispirati – nel modo che sappiamo: insicurezza, precarietà, in-work-poverty dilagante, per usare un altro anglicismo forse meno à la page, da una parte, e politiche attive del lavoro en attendant Godot, dall’altra. Con gli ammortizzatori sociali si è fatto forse un po’ di più, ma sempre troppo poco, come ci ha rammemorato la difficilissima gestione della crisi pandemica. L’attuale Ministro del lavoro ha ottimi propositi, e buoni progetti, ma molto dipenderà, in concreto, dalla quota di risorse che sul fronte della innovazione (e della effettiva implementazione) delle politiche attive si riuscirà a ritagliare nell’ambito del cosiddetto recovery plan.
A cosa serve, oggi, l’articolo 18?
Serve a quello cui era servito ieri e a cui dovrà servire domani, salvo che non si pensi – e io, infatti, non lo penso – a un modo di produzione, quello che alcuni teorici definirebbero “postcapitalistico”, che si regga sul lavoro finalmente liberato dal vincolo della subordinazione. Oggi c’è in molte realtà più subordinazione, e non di rado più sfruttamento, di quanto non ce ne fosse ieri, e l’articolo 18 è uno strumento – importante – di riequilibro del potere contrattuale delle parti in contesti nei quali, in realtà, lo squilibrio di forza tra datori di lavoro e lavoratori è, appunto, persino aumentato. Mi ha ad esempio molto colpito la lettura della motivazione con la quale il Tribunale di Palermo, nella recente sentenza del 24 novembre 2020, ha minuziosamente riscostruito la pervasività del potere direttivo esercitato dalla nota piattaforma del food delivery sui propri riders (e la recentissima decisione bolognese sugli effetti sistematicamente discriminatori dell’algoritmo utilizzato da un’altra nota società ce ne dà conferme piuttosto inquietanti).
La rivoluzione digitale saprà liberare il lavoro e l’autonomia delle persone solo a patto di tenere a bada il potere delle piattaforme (un potere immenso e smisurato, come sappiamo per comune esperienza e come ha spiegato forse meglio di altri Shoshana Zuboff nel suo The age of surveillance capitalism, il cui sottotitolo è parimenti indicativo: The fight for a human future at the new frontier of power). Il diritto del lavoro è tuttora chiamato a svolgere questa sua funzione fondamentale (Guy Davidov, nel suo recente libro, la chiama di limitazione del potere datoriale con finalità democratica; ma è un insegnamento dei nostri classici).
Sempre nella introduzione del volume si legge che la responsabilità più grave della dottrina giuslavoristica italiana «sta a ben vedere nell’aver reciso i legami con quella straordinaria tradizione di studi sul licenziamento, e sulla stabilità reale in specie, che pure ha costituito uno dei momenti più rilevanti del contributo dottrinale classico al nostro diritto del lavoro, e insieme una delle espressioni più eleganti di quello che potremmo chiamare lo stile italiano». Credi davvero che in questi anni abbiamo vissuto una regressione (non solo) culturale sulla questione dei licenziamenti?
Direi di sì, per le ragioni che ho sommariamente ricordato poc’anzi. La discussione sull’opportunità di riformare – o di abrogare, sia pure per consunzione lenta (come in pratica ha fatto il d.lgs. n. 23/2015), l’articolo 18 – è stata impostata su basi viziate da pregiudizi puramente ideologici, e sarebbe stato compito dei giuslavoristi, a prescindere dagli orientamenti di politica del diritto, contribuire a indirizzare quella discussione su basi metodologicamente più corrette, cosa che ci avrebbe forse risparmiato, almeno in parte, la deriva legislativa cui abbiamo dovuto nostro malgrado assistere. Questa deriva è, del resto, denunciata da molti: esiste un giudizio trasversalmente condiviso sullo scadimento della qualità – anche tecnica – della disciplina in vigore; una valutazione negativa, questa, fatta ormai propria anche da quanti hanno visto con favore l’opzione per la marginalizzazione della tutela reale (e più in generale per la riduzione del livello delle tutele), che ha ispirato il legislatore del 2012 e ancor più quello del 2015.
La pessima riscrittura dell’articolo 18 non poteva non portare al groviglio di questioni nel quale siamo tuttora impaniati. Le linee divisorie che, per lo meno nelle intenzioni, avrebbero dovuto separare con nettezza, nel sacro nome della certezza del diritto, gli ambiti applicativi dei diversi rimedi (e segnare in particolare il confine tra la reintegra attenuata e l’indennità risarcitoria forte) sono state mal congegnate ab origine, anche per l’impiego di espressioni d’ineffabile vaghezza. Era inevitabile che le incertezze applicative fossero destinate ad aumentare, con buona pace dei propositi di semplificazione. Che il d.lgs. n. 23/2015 fosse predestinato, come è poi stato per larga parte, a una bocciatura costituzionale – soprattutto per il modo insensatamente punitivo, per il lavoratore illegittimamente licenziato, con il quale era stato ideato il primo comma dell’art. 3 – doveva essere, a mio sommesso parere, avviso condiviso che la comunità dei giuslavoristi – unanime e tutt’intera – avrebbe dovuto rivolgere all’improvvido riformatore, per una sorta di dovere deontologico. Ed oggi, i pur necessari correttivi introdotti ex post in parte dal legislatore e in parte dalla Corte costituzionale, con le sentenze citate, hanno finito per incrinare definitivamente quel poco di coerenza che si poteva rintracciare nel combinato disposto tra nuovo articolo 18 e d.lgs. n. 23/2015; per cui il meno che oggi si possa dire – come in effetti è stato detto – è che ci troviamo di fronte ad un quadro regolativo totalmente privo di ragionevolezza, specie se visto nel suo insieme (non oso neppure dire dal “punto di vista sistematico”, visto che non credo esista nulla di più eccentrico rispetto al sistema della normativa sui licenziamenti).
Il sostanziale ridimensionamento della tutela reintegratoria dell’art. 18, St. lav., si è avuto con la legge Fornero, n. 92/2012, ma non credi che tutto abbia avuto inizio con la previsione della possibilità per il lavoratore di formulare l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione?
È in effetti questo un argomento spesso usato dai difensori del nuovo articolo 18, che non mi trova però d’accordo. Anzitutto il lavoratore vittorioso in giudizio esercita – liberamente – una sua facoltà di scelta: sta a lui decidere se monetizzare o meno la reintegrazione. Anche quanti parlano oggi di empowerment come obiettivo di un moderno diritto del lavoro dovrebbero riconoscere che questa facoltà aumenta, semmai, il potere che al lavoratore deriva, in ogni caso, della possibilità di accedere al rimedio restitutorio, senza contraddirne la natura. Osservo comunque con interesse che nel nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 la facoltà di opzione per la indennità sostitutiva della reintegra è stata espunta: non so, però, sulla base di quale ragione e, in particolare, se ciò sia avvenuto sulla base di un pensiero critico sull’istituto (della qual cosa tenderei peraltro a dubitare).
Dopo di che, che la reintegrazione nel posto di lavoro sia sempre stata più immaginaria che reale perché nemo ad factum cogi potest, come è stato anche da ultimo autorevolmente ricordato, è argomento che a mio sommesso avviso prova troppo. Da un lato, perché la valutazione sulla efficacia del rimedio non può essere risolta nella impossibilità, comune alle obbligazioni di facere infungibili, della esecuzione in forma specifica (anche volendo abbandonare definitivamente alla storia noti dibattiti d’epoca in cui si cimentarono illustri processualisti come Andrea Proto Pisani, per fare un solo nome); dall’altro, perché, se questo fosse il problema, gioverebbe molto alla sua soluzione estendere ai rapporti di lavoro la previsione sulle misure di coercizione indiretta introdotta nell’ordinamento dall’art. 614-bis cod. proc. civ. Dubito peraltro fortemente che la esclusione delle controversie di lavoro dall’applicabilità di tale previsione sia conforme a Costituzione, ed anche per questo mi è capitato di patrocinarne il superamento presso l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro, che ha infatti proposto – allo stato purtroppo senza successo – di rimediare a questa ingiustificata disparità di trattamento abrogando il secondo comma dell’art. 614-bis cod. proc. civ.
La tutela reintegratoria attenuata o indennitaria pura, nelle ipotesi date (sulle quali ritorneremo oltre), prevista dalla legge Fornero, poteva essere una soluzione compromissoria accettabile, o ritieni negativa, in linea di principio, anche questa?
Ritengo che, nell’area applicativa dell’art. 18, la tutela reintegratoria, se si vuole anche attenuata (meglio ancora se sul modello oggi vigente per il lavoro pubblico alla stregua del citato nuovo articolo 63 del testo unico), debba essere il rimedio previsto per ogni ipotesi di licenziamento ingiustificato, di natura sia soggettiva che oggettiva, superando la cervellotica distinzione tra ingiustificatezza “semplice” e “qualificata”, foriera di incertezze insuperabili, e tornando a parificare la disciplina applicabile al licenziamento disciplinare e a quello per giustificato motivo oggettivo. Si potrebbe semmai valutare di mantenere la tutela indennitaria – ma a mio avviso nella versione forte – per i soli vizi formali-procedurali, il cui rilievo sistematico nell’ambito della complessiva tutela del lavoratore è stato, peraltro, giustamente posto in evidenza, con l’attento richiamo di taluni precedenti classici, dalla Corte costituzionale nella sentenza 150/2020.
In estrema sintesi, e passando al Jobs Act, quali sono le maggiori criticità della disciplina posta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti?
Del d.lgs. n. 23/2015 non salverei francamente nulla, neppure dopo i correttivi introdotti dalla legge n. 96/2018 e dalla Corte costituzionale: è l’intero impianto ad essere sbagliato e per questo sono convinto che il decreto andrebbe tout court abrogato. Ad ogni modo, allo stato le principali criticità mi paiono tre: la prima è quella tatticamente elusa dalla Corte costituzionale con più la recente sentenza n. 254/2020, che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità in materia di licenziamento collettivo con motivazione non esattamente inappuntabile; la seconda riguarda quell’autentico sgorbio giuridico del secondo comma dell’art. 3, ritenendo semplicemente inaccettabile che in un ordinamento civile possa ammettersi – in tema di licenziamento disciplinare – una nozione barbara come quella di “fatto materiale”, estraniando il giudice da ogni valutazione circa la sproporzione del recesso datoriale; la terza solleva la questione – certamente complessa e delicata – della adeguatezza della tutela indennitaria per i dipendenti delle piccole imprese, visto che quella prevista dell’art. 9 appare ridicolmente inadeguata.
La Corte costituzionale, comunque, ha ritenuto la scelta del legislatore di differenziare la sfera di applicazione delle norme in base al fattore temporale ragionevole e coerente con lo scopo dichiaratamente perseguito «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».
Come sai, ho aspramente criticato questo profilo – senza dubbio centrale – del ragionamento della Corte costituzionale, che è parso, non solo a me per la verità, fondamentalmente errato. L’argomento del fluire del tempo mi sembra davvero una fallacia logica, visto che qui ci troviamo di fronte alla coesistenza di discipline diversissime per situazioni identiche (non potendo certo la data della stipula del contratto di lavoro valere a differenziarle). Quanto, poi, allo scopo manifestato dal legislatore – palesemente e notoriamente fallito, peraltro (al netto, come ovvio, del temporaneo aumento delle assunzioni a tempo indeterminato indotto dall’uso del tutto inappropriato del doping dello sgravio contributivo a pioggia e incondizionato: una misura che dà bene il senso della natura assai approssimativa e abborracciata del neo-liberismo nostrano) –, mi pare che la deferenza mostrata dalla Corte risponda ad una concezione formalistica e indebitamente restrittiva del controllo di ragionevolezza, criticabile anche alla luce della sua stessa giurisprudenza.
Più che deferenza direi che il giudice costituzionale non vuole fare il legislatore; non è solo un problema di tecniche del giudizio costituzionale. A ciascuno il suo mestiere.
Colgo il tuo punto: in effetti, ci muoviamo su un terreno delicato e certamente gli sconfinamenti vanno evitati. Non mi pare, però, che la tua osservazione confuti la mia critica sulla estrema fragilità, se proprio non vogliamo seccamente affermarne la erroneità, dell’argomento del “fluire del tempo”.
L’anzianità di servizio rimane, comunque, un valido criterio prioritario di determinazione dell’indennità risarcitoria, anche per quanto la Corte costituzionale ha stabilito con la successiva sentenza n. 150/2020.
Ho sostenuto, mi pare tra i primi e tra i pochi, ricevendo critiche puntute, la tesi secondo cui l’anzianità di servizio dovesse restare la base di partenza della liquidazione della indennità dovuta al lavoratore, per una serie di argomenti ispirati ad una lettura sostanzialistica della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale. Ora, in effetti, sia pure ribadendo la tecnica decisoria della 194, la sentenza n. 150/2020 è esplicita, in un significativo passaggio della motivazione, nel fornire il proprio avallo a questa tesi. Mi pare, comunque, che nei fatti la prassi giurisprudenziale si stesse già attestando, in netta prevalenza, su tale linea interpretativa, di chiaro buon senso.
È per i motivi che hai ricordato sin qui che auspichi quindi l’abrogazione pura e semplice del d.lgs. n. 23/2015 (peraltro, come ricordi, da più parti invocata) e, provocatoriamente, come tu stesso riconosci, anche del comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, con il ritorno al testo dell’art. 18 St. lav. ante controriforma?
Sì, è per questi motivi, e più in generale perché giudico oggettivamente fallimentare l’esperienza applicativa in materia tanto del Jobs Act quanto della legge Fornero. Quell’auspicio, in realtà, rievoca semplicemente l’esito cui mirava la campagna referendaria della CGIL, il cui “sfogo” è stato tuttavia preluso dalla nota (e discussa) sentenza di inammissibilità della Corte costituzionale del 2017. Mi limito a osservare che, ove il quesito referendario si fosse limitato a chiedere l’abrogazione delle due controriforme, senza, per così dire, ulteriori “ambizioni manipolative” del testo dell’articolo 18, quel mio auspicio che oggi può apparire così provocatorio potrebbe non essere poi così lontano dalla realtà. Resto infatti convinto che il corpo elettorale – che, è bene ricordare, da poco aveva respinto la riforma costituzionale renziana e che di lì a poco avrebbe ridisegnato profondamente il volto della rappresentanza politica in Parlamento con le elezioni del marzo 2018 – avrebbe sostenuto le ragioni referendum abrogativo, approvando il quesito.
Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare, date per acquisite le affermazioni giurisprudenziali sul principio di proporzionalità della sanzione, anche in base alla tipizzazione contrattuale degli illeciti, la legge Fornero ha introdotto la nozione di “insussistenza del fatto contestato” come elemento discriminante per la concessione della tutela reintegratoria in caso di illegittimità del licenziamento. Se non ho capito male, ritieni, comunque, destabilizzate l’introduzione di questo criterio applicativo, anche per le differenziazioni, non sempre coerenti, che ne derivano.
Condivido la tua espressione: mi pare un criterio destabilizzante, perché affida alla discrezionalità del giudice una valutazione molto difficile da applicare con apprezzabile grado di prevedibilità e omogeneità nella straordinaria varietà dei casi in cui può realizzarsi il comportamento di rilevanza disciplinare, rendendo oltremodo difficile una prognosi ex ante sul possibile esito del giudizio (lo sanno meglio di tutti gli avvocati che, salve ipotesi relativamente eclatanti, difficilmente possono avventurarsi nel fornire al cliente, qualunque esso sia, previsioni attendibili sul possibile esito del giudizio in caso di illegittimità del licenziamento, tanto è impalpabile, nella pratica, la differenza tra ingiustificatezza semplice e qualificata). La Corte di cassazione ha certamente fornito un importante contributo in sede nomofilattica, ma temo che questo non sia sufficiente, per il semplice fatto che non può esserlo, data la strutturale ambivalenza della disposizione (che, ricordiamolo, prevede il rimedio reintegratorio anche nelle ipotesi in cui il contratto collettivo contempli, per l’illecito, una sanzione conservativa). Nel libro dedico al tema – a beneficio (spero) degli studenti, cui è talvolta necessario complicare la vita – un lungo capitolo.
Di controriforma in controriforma, secondo la tua opzione interpretativa, si arriva alla declinazione del secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, cui hai già fatto cenno, che solo dall’insussistenza del fatto materiale contestato, restando esclusa ogni valutazione sulla proporzionalità, fa derivare l’annullamento del licenziamento con la sanzione forte della reintegrazione.
Considero l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 il punto più basso del contro-riformismo di questi anni. Una norma puramente ideologica perché non necessaria neppure nell’ottica del legislatore del Jobs Act, ma appunto voluta per veicolare nella maniera più netta il messaggio politico della contro-riforma, che, ridotto all’osso, è questo: «Siate docili, abbassate la testa; il datore di lavoro vi può licenziare, pagandovi una miseria soprattutto se siete giovani con una modesta anzianità di servizio, anche se il vostro inadempimento è poca cosa, poco più che una bagattella». È una norma che incoraggia – oggettivamente – l’abuso di potere, favorendo un clima di soggezione all’esercizio finanche arbitrario delle prerogative datoriali, a ben vedere anche contro i dettami della famosa Law & Economics, contraria a previsioni dirette a incoraggiare così sfacciatamente l’azzardo morale. Un vulnus ai principi costituzionali che deve essere rimosso, nonostante la Cassazione abbia, anche in questo caso, meritoriamente stemperato la violenza ideologica del messaggio racchiuso nella disposizione.
Passiamo ad altro. Nel quadro normativo di progressivo affievolimento della tutela reintegratoria, non ritieni surreale o quantomeno in netta controtendenza l’affermazione giurisprudenziale, precedente alla riforma Madia, della contemporanea vigenza di un doppio testo normativo: la vecchia versione dell’art. 18, per il pubblico impiego contrattualizzato; la nuova, per i dipendenti privati?
In qualche modo hai ragione, sebbene anche io, pur consapevole della oggettiva problematicità della soluzione, abbia sostenuto la tesi della inapplicabilità del nuovo testo dell’art. 18 ai pubblici dipendenti per una serie di ragioni sulle quali mi soffermo diffusamente in un capitolo del libro. Si è trattato di uno dei tanti difetti di impostazione della novella del 2012: certamente di uno dei più rilevanti. Mentre nel caso del d.lgs. n. 23/2015 non mi pare ci siano stati dubbi significativi sulla sua inapplicabilità al lavoro pubblico, nonostante il decreto taccia sul punto.
È intervenuta poi la nuova formulazione dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, che ha configurato un sistema rimediale speciale e autonomo, autosufficiente, per tutta l’area del pubblico impiego contrattualizzato, centrato sulla reintegrazione e sulla indennità risarcitoria al massimo di 24 mensilità, a conferma della dualità delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nel settore pubblico e privato.
La riforma Madia ha sul punto avuto l’indubbio merito di fare chiarezza, aggiungendo, però, come hai appena notato, una ulteriore forma di rimedio, che presenta tratti indubbiamente peculiari (ho già ricordato, ad esempio, che non è contemplata l’opzione per la indennità sostitutiva della reintegra).
Resta (francamente non so quanto giustificata) la differenziazione tra settore pubblico e privato in materia di licenziamenti. Ritieni che il regime sanzionatorio a tutela dei dipendenti pubblici possa costituire un modello di riforma unitario per tutti i dipendenti?
Può forse costituire un buon punto di riferimento, anche se nel settore del lavoro privato sarebbero con ogni probabilità necessari degli adattamenti (ad esempio, non credo che sarebbe trasponibile in questo ambito la previsione del comma 2-bis dell'art. 63, che nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità autorizza il giudice a rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato).
Un capitolo del libro, il quarto, «è dedicato alla complessa tematica del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, in una prospettiva d’indagine che privilegia nettamente i nessi sistematici con la tutela antidiscriminatoria», per usare le tue stesse parole. La locuzione “disabilità fisica o psichica del lavoratore”, impiegata nella formulazione finale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 23/2015, è sovrapponibile a quella di “inidoneità” del vigente art. 18, comma 7, St. lav., o sono nozioni diverse? E, ove la risposta sia affermativa, quali sono le conseguenze sul piano sanzionatorio?
Nel libro sostengo, in sintonia con l’interpretazione prevalente, che le due formule sono sovrapponibili. Quanto alle conseguenze sanzionatorie, il legislatore del 2012 e quello del 2015 hanno fatto come noto scelte diverse, perché il primo prevede la tutela reintegratoria ad effetti risarcitori attenuati, mentre quello del 2015 stabilisce quella ad effetti pieni (uguali, cioè, a quelli cui dà accesso l’accertamento della nullità del recesso per il suo carattere discriminatorio). La questione di più difficile soluzione riguarda proprio i rapporti con la tutela antidiscriminatoria. Sempre nel libro, aggiornando una proposta interpretativa che avevo avanzato in un saggio del 2008, sostengo che, in difetto della adozione degli adattamenti ragionevoli previsti dalla direttiva europea del 2000 ed ora anche dalla norma di trasposizione contenuta nel d.lgs. n. 216/2003, il licenziamento diventa tecnicamente discriminatorio, per cui, ove si applichi l’art. 18, deve valere la tutela reintegratoria piena dei primi tre commi.
Resta, comunque, problematico il tema dei limiti sostanziali al potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, tra l’obbligo degli adattamenti ragionevoli e l’obbligo di repêchage, per non violare il divieto di discriminazione per la disabilità.
Non c’è dubbio che questo resti il profilo maggiormente problematico, non solo sul piano della selezione del rimedio correttamente applicabile. L’obbligo degli adattamenti ragionevoli non va in effetti confuso con quello di ripescaggio: esprime, infatti, una compressione ben più intensa della libertà di impresa, perché esige dal datore di lavoro – nei limiti della ragionevolezza – di modificare l’organizzazione produttiva esistente per consentire il proficuo utilizzo delle residue capacità lavorative del lavoratore (divenuto) disabile. Si tratta in realtà di una grande questione sociale, considerata l’elevata età media della popolazione attiva del nostro Paese, ed è importante che l’INAIL disponga ora di competenze, e di capacità finanziarie, utili ad affrontarla proattivamente, almeno in parte. Occorre però un impegno attuativo ben maggiore di quello che c’è stato sino ad oggi e una maggiore disponibilità delle imprese.
Nell’analizzare la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sottoponi a forte critica quello che definisci «il riassetto della disciplina del potere di recesso datoriale in una logica che ha complessivamente – e qui in modo particolarmente netto – privilegiato, nel bilanciamento degli interessi in conflitto, l’interesse dell’impresa su quello del lavoratore alla stabilità o meglio alla conservazione del posto di lavoro». Anche qui ritorna il presupposto della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguente tutela reintegratoria attenuata nella disciplina applicabile in base alla legge Fornero, o la sola tutela indennitaria per le ipotesi di applicazione del Jobs Act.
È vero, anche se la mia critica – in questo caso – è rivolta, oltre che al legislatore (del 2012 e del 2015), alla giurisprudenza di legittimità, per la nota svolta interpretativa del 2016.
L’esegesi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, che non contempla alcun onere per il datore di lavoro di provare l’esistenza di situazioni economiche negative, risultando rilevante la modificazione dell’organizzazione aziendale dalla quale consegua la soppressione del posto di lavoro, combinata con il principio della libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 1, comma 1, della Costituzione, non mi sembra, però, che lasci spazio alla sindacabilità delle decisioni datoriali (come espressamente ribadito, non a caso, dall’art. 30 della legge n. 183/2010). Cosa è che non ti convince di questo ragionamento della Cassazione?
L’esegesi letterale, come la farebbe un epigono della école de l’exégèse, in effetti, non contempla alcun onere di prova del genere a carico del datore di lavoro. Non, però, l’esegesi calata nella trama dei principi costituzionali (e consapevole, segnatamente, della direttiva interpretativa fornita dal secondo comma dell’art. 41 Cost.), come quella svolta per decenni dalla prevalente giurisprudenza, anche di legittimità, sulla scia di celebri ricostruzioni dottrinali (con le tesi di Federico Mancini che prevalsero, come noto, su quelle di Giuseppe Pera). Ma capisco bene che il nuovo orientamento della Cassazione è più in sintonia con lo spirito del tempo.
Ma le cose possono cambiare. E credo, anzi, debbano cambiare, non solo perché quella interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 è foriera di esisti paradossali (e per questo criticati da larga parte della dottrina, e non solo da quella orientata pro-labour, come si dice), ma perché saranno ancora una volta gli eventi a indurre, almeno spero, a un ripensamento. Il dopo pandemia – anche quando, come è necessario, sarà superato il cosiddetto “blocco dei licenziamenti” – non potrà essere semplicemente come il “prima”. Costringerà a gestire la crisi economica e occupazionale che già c’è e che verrà – almeno sino a quando non si saranno recuperati livelli produttivi paragonabili a quelli pre-pandemia (peraltro essi stessi ancora inferiori, in Italia, a quelli esistenti prima della crisi economico-finanziaria di dieci anni fa) – con una sensibilità che a mio avviso dovrà essere diversa. E l’approccio neoliberista all’art. 3 della Cassazione non esprime quel tipo di sensibilità, che richiede piuttosto di prendere sul serio il secondo comma dell’art. 41 (insieme agli artt. 3, comma 2, 4 e 35) della Costituzione.
L’obbligo di repêchage e l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore riportati dalla giurisprudenza più recente, come fatto, nell’ambito della nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo, risolvono questo problema, da sempre oggetto di discussione, oppure restano ancora aspetti irrisolti?
Non mi pare che possa parlarsi di orientamenti veramente assestati e di problemi effettivamente risolti, neppure sui fronti che evochi. Mi pare, d’altra parte, che ancora manchi una soluzione condivisa alla questione del rapporto con il nuovo art. 2103 cod. civ. La mia tesi, neanche a dirlo, è che l’art. 2103 ampli notevolmente l’area dell’obbligo di repêchage, che deve essere equi-estesa rispetto alla più ampia sfera di esercizio dello jus variandi. Ma esistono, come sin troppo noto, autorevoli opinioni di diverso segno. Non mi consta, tuttavia, che la Cassazione si sia ancora specificamente pronunciata sulla questione.
La complessiva riforma dei licenziamenti collettivi introdotta dalla legge Fornero (art. 1, commi 44 – 46, legge n. 92/2012), da una parte semplifica gli obblighi procedurali e di comunicazione che gravano sul datore di lavoro ex art. 4 della legge n. 223/1991, dall’altra riconnette alla loro inosservanza la tutela indennitaria-risarcitoria, a seguito della novellazione dell’art. 5, comma 3, della legge n. 223/1991. Anche su questo aspetto la tua valutazione è fortemente critica.
Stavolta è una critica di natura, per così dire, più dottrinale, perché a me sembra che, dopo la legge Fornero (per non parlare del Jobs Act, of course), la sistemazione dogmatica del licenziamento collettivo, che aveva proposto per primo Massimo d’Antona e che è stata poi seguita dalla giurisprudenza dominante, sia entrata in crisi. Quella ricostruzione, infatti, assegnava una funzione decisiva al controllo svolto ex ante dal sindacato, ridimensionando di converso quello effettuato ex post dal giudice, cui in pratica è precluso intrudersi nella “causale” della riduzione di personale: l’oggettivo depotenziamento delle sanzioni per i vizi procedurali mi pare, però, che incrini la tenuta di questa sistemazione.
La scelta della tutela meramente indennitaria-risarcitoria è sposata in pieno dal Jobs Act (con l’eccezione del caso di scuola del licenziamento collettivo intimato in forma orale), sia per la violazione delle regole procedurali e dei criteri di scelta dei lavoratori di cui, rispettivamente, all’art. 4 e all’art. 5 della legge n. 223/1991. Anche qui il problema non è (soltanto) la limitazione del controllo giudiziario, ma il sistema rimediale adottato dal legislatore.
Non c’è dubbio. Qui, però, c’è l’aggravante del problema della macroscopica disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo la fatidica data del 7 marzo 2015. La questione di legittimità costituzionale, discutibilmente dichiarata inammissibile dalla Consulta con la ricordata sentenza n. 254/2020, è destinata a riproporsi. Io resto fermamente convinto – come dico a più riprese anche nel libro – che la questione, stante la evidenza della ingiustificata disparità, debba essere accolta; ma sono ben consapevole che la Corte costituzionale, da ultimo proprio nella sentenza n. 254 (che pure, tecnicamente, non è entrata nel merito), ha dato segnali non incoraggianti in tal senso.
Sono curioso (e insieme a me saranno curiosi anche i lettori). Cosa è che non ti convince della sentenza n. 254/2020 della Corte costituzionale?
Semplicemente non mi pare che il petitum fosse indeterminato o, comunque, afflitto da quella insanabile ambiguità che vi ha scorto la Corte: si chiedeva piuttosto chiaramente l’estensione della tutela reintegratoria ex art. 18 St. lav. (con le correlate conseguenze anche processuali) ad una ipotesi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, toccato in sorte a lavoratore la cui unica differenza rispetto ai compagni di lavoro stava nella data di assunzione. Mi pare, poi, che la Corte abbia voluto porre un’enfasi eccessiva su taluni passaggi, per quanto non cristallini, della ordinanza di rimessione in sede di descrizione della fattispecie, che non mi sembrava tuttavia lacunosa al punto da meritare una bocciatura così netta per difetto di motivazione sulla rilevanza.
Non credo sia ad ogni modo il caso di soffermarsi troppo su quello che, in definitiva, è un “non-evento”, che per definizione lascia intatte le questioni sostanziali cui ho accennato.
Nell’ultimo capitolo, il settimo, del tuo libro affronti infatti le questioni di legittimità costituzionale ed euro-unitaria sollevate con riferimento alla disciplina italiana dei licenziamenti. Qual è lo stato dell’arte, ad oggi?
Il libro era già uscito quanto è stata pubblicata la più volte citata sentenza n. 254/2020, di cui quindi non ho potuto dar conto. Ma nel capitolo che hai richiamato, tenuto conto della ordinanza Romagnuolo della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’altro corno della avventurosa e ormai famosa “doppia pregiudiziale” napoletana, formulavo previsioni negative, non troppo diverse dall’esito che si è poi avuto.
Resta ora in piedi il rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Milano. Ma per come è tecnicamente formulato, incentrato in particolare com’è sulla direttiva sul contratto a termine, non mi pare possa costituire l’occasione adatta per affrontare veramente la questione fondamentale della disparità di regimi applicabili in caso di licenziamento collettivo illegittimo (non solo, peraltro, per violazione dei criteri di scelta). Spero naturalmente di sbagliarmi, ma temo che non sarò smentito. Comunque, dopo l’interpretazione iper-restrittiva dei limiti di applicabilità dell’art. 30 della Carta di Nizza fatta propria (anche) con la ordinanza Romagnuolo, non mi pare ci si possa attendere granché dalla Corte di giustizia. Un discorso, questo, che faccio per la verità da anni più in generale: ma è un’altra storia, di cui non è possibile parlare qui (spero mi permetterai di rinviare a un altro mio volume, piuttosto recente: Diritto del lavoro europeo. Una introduzione critica, pubblicato con Wolters Kluwer/CEDAM nel 2017).
Una delle differenze di disciplina introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 attiene, come è noto, alla applicabilità del c.d. rito Fornero, un rito accelerato da alcuni enfatizzato per la migliore, e tempestiva, tutela dei lavoratori licenziati, ma anche per dare certezza, in tempi brevi, al datore di lavoro. Qual è il tuo giudizio sull’applicazione di questo rito in questi anni?
Il fatto che il legislatore abbia deciso di non applicare il rito ai licenziamenti dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (e, ora, dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, a quanto sembra, anche ai dipendenti pubblici “contrattualizzati”) mi pare di per sé piuttosto sintomatico della scarsa fiducia riposta sul farraginoso meccanismo processuale previsto dalla legge n. 92/2012. Condivido comunque il giudizio per lo più negativo che ne viene dato: i vantaggi in termini di (relativa) celerità della decisione potrebbero essere probabilmente assicurati con accorgimenti più semplici, riservando una corsia preferenziale e accelerata alle cause di impugnazione del licenziamento. Ma mi rendo conto di avere – per miei limiti culturali – un approccio piuttosto grossolano alle questioni processuali, per cui è bene che non mi avventuri oltre in suggerimenti che potrebbero apparire rozzi e semplicistici.
Nel libro c’è solo un accenno al divieto dei licenziamenti stabilito dalla normativa emergenziale, entrato in vigore quando l’opera era – mi par di capire – già scritta. Anche se non offri una analisi dettagliata di questa normativa, ne affermi comunque con nettezza la sua legittimità costituzionale. Vuoi riprendere meglio questo passaggio?
Trovandomi già a collaborare con l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro quando è stato adottato il primo decreto-legge di contrasto della emergenza pandemica, il c.d. “Cura Italia”, debbo dire per trasparenza e onestà intellettuale di aver pienamente condiviso questa scelta, senza dubbio difficile, e di avervi anche contribuito. La disciplina del cosiddetto “blocco dei licenziamenti” ha poi avuto, come ben noto, una evoluzione, che ne ha certamente comportato una attenuazione, per quanto selettiva, e una flessibilizzazione, come ha osservato una nutrita dottrina.
Difendo con convinzione la legittimità costituzionale (ed euro-unitaria) di questa disciplina, che, per il suo carattere temporaneo, mi pare adeguata e proporzionata rispetto allo scopo (di ordine pubblico economico) di contenimento della distruzione di posti di lavoro dovuta alla pandemia, cui è immediatamente preordinata. Nel bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco non può del resto trascurarsi il massiccio intervento finanziario compensativo a favore delle imprese, ben al di là dell’uso – esso stesso di eccezionale ampiezza – della cassa integrazione per Covid.
Cosa proponi, in concreto, e in conclusione, quale linea di una nuova e diversa politica del diritto in materia di licenziamenti?
Mi parrebbe doveroso accogliere l’invito autorevolmente rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 150/2020. È un invito formulato in termini sobri ma netti: «Spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari».
I miei ideali auspici li ho formulati poco fa, a partire da quello del definitivo superamento del d.lgs. n. 23/2015. Quel che è certo, è che urge un intervento capace di restituire un minimo di ragionevolezza e di coerenza complessiva alla nostra disciplina, ricomponendo, e quindi riducendo e razionalizzando, i troppi regimi di tutela, tenendo conto delle indicazioni già offerte al legislatore sia dalla Corte costituzionale che dal Comitato europeo dei diritti sociali.
A conclusione di questo interessante dialogo, devo segnalare che ogni capitolo del libro è corredato da ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza, che i lettori sapranno apprezzare, visto che rendono completa e organica la trattazione di una materia – come scrivi – «fluida e contesa», qual è quella dei licenziamenti, sempre densa di cambiamenti e in continua evoluzione, per la quale hai opportunamente richiamato, riprendendolo da un saggio di Carl Schmitt, il motto jüngeriano: «Assomigliamo ai marinai sempre in viaggio, e ogni libro non può essere niente più che un giornale di bordo».
Scuola, regioni e COVID-19. Sviluppi giurisprudenziali.
di Clara Napolitano
Sommario: 1. Gli interventi del Giudice amministrativo territoriale. – 2. Il caso Piemonte. – 3. Il caso Calabria. – 4. Spunti conclusivi.
1. Gli interventi del Giudice amministrativo territoriale.
Il tema del contrasto tra salute e istruzione e del complesso bilanciamento dei diritti fondamentali aventi per oggetto questi due beni continua a essere oggetto di pronunce giurisdizionali.
Il rapporto tra le istanze tese alla riapertura delle scuole e quelle che, invece, sono a questa contrarie in ragione di esigenze di tutela della salute di chi vi studia e vi lavora, nonché delle loro famiglie, è variamente composto dalle ordinanze regionali che regolano lo spazio loro concesso dai d.p.c.m. e dai decreti-legge che ne costituiscono la fonte primaria.
Il fondamento giuridico del potere generale dei vertici degli enti territoriali – regionale o comunale – di disporre in materia di igiene e sanità pubblica è sito nell’art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833, che consente ai presidenti della giunta regionale e ai sindaci di emanare ordinanze contingibili e urgenti, «con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale».
A ciò si aggiunge il potere loro specificamente attribuito di derogare alle norme di fonte statale in materia di Covid-19: inizialmente profilato in maniera estremamente limitata, per cui nelle more dell’adozione dei d.p.c.m., e con efficacia limitata fino a quel momento, le Regioni potevano introdurre misure restrittive ma soltanto «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso» ed «esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale»[1]; poi ampliato «per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali», sicché le Regioni possono, sulla base di monitoraggi quotidiani delle curve epidemiologiche che interessano il loro ambito territoriale, «introdurre misure derogatorie restrittive» rispetto a quelle statali, «ovvero anche ampliative»[2].
Il quadro normativo tenta dunque di operare un inquadramento dei poteri regionali – anche nella materia sanitaria, di competenza concorrente – impedendo a questi enti di disporre in modo confliggente con la fonte statale ma conferendo loro poteri derogatori in relazione alle specifiche realtà territoriali, purché teleologicamente orientati a consentire lo svolgimento in sicurezza delle attività (dunque, non a impedirle) e solo ove strettamente necessari, implicando così un peculiare onere motivazionale dei provvedimenti delle Regioni.
La materia della scuola costituisce un punto nevralgico e sensibile: se non altro per il comune sentire, che parrebbe tollerare un rallentamento – o anche una sospensione – delle attività economiche, ma non di quelle didattiche e formative, evidentemente ritenute “più fondamentali” delle altre, e dunque incomprimibili. Diverso però è l’orientamento delle Amministrazioni territoriali regionali, le quali fanno un uso del principio di precauzione abbastanza marcato e dunque – in ragione della tutela della salute e della sicurezza pubblica – dispongono misure più restrittive di quelle statali in materia scolastica: mentre i d.p.c.m. non impongono la chiusura delle scuole, ma tentano di contemperare la prosecuzione delle attività didattiche con le esigenze di tutela della salute tramite apertura degli istituti scaglionata e limiti percentuali alle ore di formazione erogate anche a distanza, le ordinanze regionali sono più radicali e provvedono – almeno per le fasce d’età più giovani – alla chiusura degli istituti scolastici e alla predisposizione di piattaforme per la cosiddetta DaD.
Un equilibrio, è evidente, di difficile composizione: che conduce a un fiorente contenzioso giurisdizionale e che ha visto pronunciarsi sul punto diversi Giudici amministrativi territoriali[3], i quali offrono un quadro complessivo che può compendiarsi come segue.
Anzitutto, sotto il profilo processuale, la peculiarità delle situazioni giuridiche tutelate consentirebbe un utilizzo dei mezzi del processo inusuale, ampliando i casi di ammissibilità di domande cautelari (anche in secondo grado) di tipo monocraticoex art. 56 c.p.a.: un criterio, questo, che sembra suggerire che vi siano diritti “più fondamentali di altri”.
Sotto il profilo sostanziale, lo scrutinio dei Giudici territoriali – quello leccese ne costituisce un fulgido esempio – si avvicina moltissimo al merito del bilanciamento operato dalle Regioni, pur senza sostituirsi a esse. Più in generale, l’ingresso nelle valutazioni amministrative è effettuato tramite l’utilizzo del principio di precauzione e di proporzionalità, nonché – da un angolo visuale più squisitamente tecnico – tramite l’esame della motivazione delle ordinanze, che fa rinvio ai dati epidemiologici monitorati per brevi finestre temporali. L’impressione che se ne ricava è che la sospensione della didattica in presenza nelle scuole è un provvedimento talmente forte che la sua motivazione dev’essere tecnicamente affidabile, approfondita e conoscibile a tutti, nonché sempre aggiornata. Altrimenti le ordinanze sono illegittime per vizio motivazionale e per violazione del principio di proporzionalità.
Ma – come detto in apertura – il percorso giurisprudenziale prosegue. Due gli ultimi interventi: quello del Giudice amministrativo piemontese e quello del Tribunale calabrese, esaminati in quest’ordine per criterio puramente cronologico.
2. Il caso Piemonte.
Con sentenza semplificata il Tar Piemonte[4] si è pronunciato sull’impugnazione di un decreto, il n. 132 del 28 novembre 2020, con il quale il Governatore della Regione ha ordinato la sospensione dell’attività didattica in presenza per le classi seconde e terze delle scuole secondarie di primo grado (rectius, scuole medie), sostituendola con quella a distanza fino al 23 dicembre 2020.
Secondo i ricorrenti, se quelle misure – in un primo momento – erano in linea con le disposizioni di fonte statale[5] in ragione della collocazione del Piemonte nella c.d. zona rossa, la successiva “declassificazione” della medesima Regione da rossa ad arancione[6] avrebbe richiesto la ripresa della didattica in presenza e, dunque, misure regionali meno rigide.
Il Tribunale motiva la reiezione del ricorso sulla base di un iter logico che guarda prima all’an e poi al quomodo del potere regionale in materia di igiene e pubblica sicurezza.
Il Giudice amministrativo ribadisce, anzitutto, che il sistema delle fonti nella gestione dell’emergenza consente espressamente un potere derogatorio in pieus da parte delle Regioni rispetto alle disposizioni statali: non v’è, dunque, una unilateralità del sistema per cui il livello statale prevale su tutti i livelli di governo inferiore. Anzi, al contrario, le Regioni hanno un pieno potere di deroga, tanto in pejus quanto in melius[7]. Addirittura, mentre il potere di deroga in senso restrittivo è generalizzato, richiedendo solo la previa comunicazione delle misure peggiorative al Ministero della Salute, quello in senso migliorativo è limitato a ipotesi tassative e prevede anche un iter procedimentale aggravato, richiedendo la previa intesa con il Ministero medesimo. Ciò «a riprova del fatto che la ratio immanente al sistema emergenziale delle fonti privilegia le misure più contenitive, mentre irreggimenta in un fitto reticolo di cautele l’eventuale allentamento dei regimi ad iniziativa delle Regioni».
Dal quadro normativo statale emerge che i presupposti della legislazione emergenziale cui viene subordinato l’esercizio del potere regionale in senso più restrittivo sono invariabilmente ricollegati all’evoluzione del quadro epidemiologico: oltretutto, ex art. 1, comma 16, d.l. n. 33/2020, i poteri derogatori sono declinati, sul versante temporale, in termini di cedevolezza rispetto al successivo intervento di decretazione a livello nazionale del Presidente del Consiglio dei ministri. Il sistema regolatorio è multi-livello e ha una «efficacia interinale la cui regìa generale resta intestata all’autorità statale che decide, volta per volta, il nuovo regime di default su cui possono giustapporsi le autorità regionali secondo il regime di derogabilità differenziato» a seconda delle curve epidemiologiche.
Nell’ottica del Giudice amministrativo, quindi, la Regione Piemonte ha esercitato un potere derogatorio in pejus del quale dispone, in applicazione del sistema delle fonti profilato nell’emergenza, e lo ha esercitato in conformità ai limiti previsti dal combinato disposto dei dd.ll. n. 19 e 33 del 2020, avendo anche ampiamento motivato le misure restrittive con riferimento all’andamento della situazione epidemiologica nel territorio piemontese («un indicatore Rt puntuale pari a 0,89 con classificazione complessiva di rischio moderata con probabilità alta di progressione a rischio alto»).
Quanto, poi, al quomodo del potere derogatorio. Qui il punto nevralgico sta nell’analisi della correlazione tra didattica a distanza e decremento dei contagi (o, viceversa, tra didattica in presenza e incremento dei contagi). Su questo il Giudice è da subito molto chiaro: nessuna parte può utilmente argomentare circa la correlazione tra i due fattori, per il semplice fatto che non esiste una copertura scientifica che ne provi l’esistenza nemmeno in via probabilistica o statistica.
In difetto, dunque, di una evidenza scientifica consolidata, il fulcro argomentativo del Tribunale sta nell’esame della discrezionalità amministrativa esercitata dalla Regione in ossequio al principio di precauzione.
Dopo una qualificazione ermeneutica del principio, che ne ripercorre le origini comunitarie nella materia dell’ambiente e ne traccia la potenzialità espansiva anche in altri ambiti regolativi, il Giudice piemontese fa proprio il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale «l’attuazione del principio di precauzione comporta […] che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche»[8]. Il principio, insomma, obbliga le pp.AA. a evitare e prevenire per quanto possibile il rischio (non il pericolo, già più probabile e verificato scientificamente) individuato a seguito di una «preliminare valutazione scientifica obiettiva».
Questa valutazione consiste in un «ragguardevole novero» di pareri proveniente da esperti dell’ambito sanitario-amministrativo per i quali l’incremento della frequenza in presenza avrebbe potuto indurre un aumento dei contagi: non una circostanza verificata, ma un pericolo plausibile.
La scelta della Regione, pertanto, appare logica laddove motiva che – per assicurare un alto livello di protezione in ossequio al principio di precauzione – l’attenuazione del rischio di diffusione del virus si possa attuare mantenendo il ricorso alla didattica digitale integrata. Il punto di sintesi raggiunto dalla Regione corrisponde a una scelta indubbiamente discrezionale, non vincolata dalla legge né necessitata dalle condizioni di contesto, tanto che non sarebbe stata doppiata in altre contesti regionali, senonché non può bollarsi come irragionevole o illogica, visto il solido ancoraggio logico-epistemologico al principio di precauzione e il grado di corroborazione fornita dai pareri scientifico-sanitari su cui si è basata.
Il Giudice piemontese affonda ancor di più nell’analisi, operando un – pur inespresso – test di proporzionalità delle misure restrittive della Regione: queste non sono assolute, prevedono deroghe per specifiche categorie di studenti, prevedono modalità compensative di erogazione della didattica; sono accompagnate da misure economiche che sostengono le famiglie nell’acquisto di devices in modo da compensare il c.d. digital divide; sono soltanto alcune tra la panoplia di misure restrittive che – per il rischio di contagio – non colpiscono solo il settore scolastico, ma in genere tutte le attività che interferiscono con la protezione della salute.
Ciò ne sancisce definitivamente la legittimità. Nondimeno, il Giudice si premura di rimarcare che l’eventuale futura declassificazione del livello di rischio della Regione – nel passaggio a c.d. zona gialle – comporterà un onere motivazionale aggravato per il mantenimento di misure derogatorie in pejus, specie in materia di didattica scolastica.
3. Il caso Calabria.
Ben diverso l’esito di una controversia analoga instaurata dinanzi al Giudice calabrese[9], il quale – con ampia e motivata sentenza – ha accolto il ricorso avverso l’ordinanza della Regione Calabria n. 87 del 14 novembre 2020, nella parte in cui ordina sull’intero territorio regionale, dal 16 novembre 2020 a tutto il 28 novembre 2020, la sospensione in presenza di tutte le attività scolastiche di ogni ordine e grado, con ricorso alla didattica a distanza, rimettendo in capo alle autorità scolastiche la rimodulazione delle stesse.
Anche in questo caso i gangli argomentativi concernono il fondamento e i limiti del potere di ordinanza introduttiva di misure derogatorie in pejus da parte delle Regioni; l’applicazione del principio di precauzione; la proporzionalità delle misure medesime. Come detto, l’analisi di questi tre aspetti conduce a un esito accoglitivo del ricorso.
La disamina sull’an, prima di tutto, s’inserisce in una cornice che limita il potere di ordinanza contingibile e urgente ai soli casi tassativi di pericolo di un danno grave e irreparabile. Limitare la portata del potere di ordinanza ne costituisce la condizione di esercizio legittimo in ossequio al principio di legalità in senso sostanziale.
Il Giudice calabrese individua il pericolo di un potere di ordinanza sostanzialmente “in bianco”, retto da disposizioni normative che ne definiscono solo il profilo teleologico; per far ciò, opera un utile richiamo alla nota sentenza della Consulta, n. 115/2011, la quale – in relazione al potere di ordinanza sindacale ex art. 54, comma 4, T.U.E.L. – tentò di scongiurare il pericolo di un utilizzo di quel potere senza una efficace copertura legislativa: «[Q]uesta Corte ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente “l’assoluta indeterminatezza” del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una “totale libertà” al soggetto od organo investito della funzione […]. Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa». La disposizione costituzionale di riferimento era costituita dall’art. 23 Cost., il quale istituisce una riserva di legge per le attività amministrative che limitano la libertà dei cittadini: «[I]l carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini»[10].
Sicché la legge deve determinare contenuto e modalità del potere e degli atti per evitare l’assoluta indeterminatezza di quanto attribuito all’autorità amministrativa, nelle ipotesi “emergenziali”, in deroga al principio di legalità sostanziale.
Ciò esclude, pertanto, che le ordinanze contingibili e urgenti, di per sé dotate di portata derogatoria del principio di legalità, possano essere emanate al di fuori degli stretti presupposti di emergenza, e dunque in situazioni permanenti o, ormai, prevedibili: l’intervento con ordinanza deve rivelarsi indispensabile, suffragato da adeguata istruttoria e approfondita motivazione circa lo stato di pericolo effettivo che intende affrontare.
Il Giudice, dunque, puntualizza la necessità di una situazione di stretta indispensabilità per derogare alle disposizioni dell’ordinamento statale e al principio di legalità da parte di enti territoriali sub governativi: i quali, specifica ancora, non hanno potere provvedimentale extra ordinem in ambiti di competenza che esulino dalla ripartizione di cui agli artt. 117 e 118 Cost., a meno di una norma che espressamente li autorizzi in via del tutto eccezionale.
In relazione alle ordinanze regionali in materia sanitaria nell’ambito di emergenza Covid-19, l’analisi si diffonde sul quadro normativo in continua evoluzione[11], il quale restituisce un potere delle Regioni di provvedere in senso più restrittivo rispetto agli standard statali nell’ambito di limiti ben precisi: solo cioè in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio e con limitazione di efficacia temporale di tali interventi sino alla adozione del successivo d.p.c.m.
Lo conferma la disposizione applicabile ratione temporis: il d.p.c.m. 3 novembre 2020 prevede infatti l’ordinaria erogazione dell’attività didattica ed educativa per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione (articolato come noto nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado); mentre, in relazione alle aree del territorio nazionale caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto (c.d. zone rosse) come la Calabria, per effetto dell’Ordinanza del Ministro della Salute del 4 novembre 2020, prevede in via più restrittiva «lo svolgimento in presenza della scuola dell’infanzia, della scuola primaria, dei servizi educativi per l’infanzia di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65 e del [solo] primo anno di frequenza della scuola secondaria di primo grado».
Quanto alla fattispecie sottoposta al suo vaglio, il Giudice amministrativo della Calabria individua profili di spiccata illegittimità nel provvedimento impugnato per carenza motivazionale: i dati in esso richiamati, infatti, non trovano alcun riferimento in verbali, pareri o altri atti conosciuti. La stessa Amministrazione – rileva il Tribunale – non ha prodotto in giudizio i documenti che giustificherebbero la sospensione su tutto il territorio regionale di tutte le attività scolastiche di ogni ordine e grado.
Sotto il profilo del deficit motivazionale, poi, il provvedimento regionale non dà specificamente conto di quelle precipue specifiche situazioni sopravvenute rispetto al d.p.c.m. del 3 novembre 2020 di aggravamento del rischio sanitario nel territorio regionale che da un lato legittimano l’intervento in termini più restrittivi del quadro statale e che dall’altro ne condizionano l’esercizio.
La carenza istruttoria – che si riflette poi sul piano della motivazione di quell’ordinanza – rivela l’esiguità dell’attenzione sul dato medico-scientifico della asserita correlazione tra frequenza scolastica e aumento dei contagi: un dato – come rilevato anche dal Tar Piemonte – non provato né suffragato da evidenze certe. La Regione ha pertanto errato nel non tenere– e nel non dare – conto della situazione territoriale, stante la già attuata misura statale di contenimento della frequenza nelle scuole medie e superiori (comunemente le più esposte al contagio) e il passaggio stagionale dall’estate all’autunno quale momento di maggior circolazione del virus: una situazione che, incoerentemente nel testo della stessa ordinanza, consente di rilevare un basso tasso d’incidenza del Covid-19 sulla popolazione regionale.
Resta, dunque, scoperto da qualsivoglia istruttoria il provvedimento sospensivo adottato nei confronti della popolazione scolastica delle scuole primarie: la quale è, pertanto, sacrificata da un atto sproporzionato nel suo contenuto dispositivo e non sorretto da adeguata motivazione, bensì solo da un generico riferimento alla possibile problematicità delle scuole dell’infanzia e primarie quali luoghi di aggregazione nei quali «il rispetto del distanziamento interpersonale è complicato e la possibilità di trasmissione del contagio di origine domiciliare è amplificata». Un assunto, questo, non sorretto da evidenze scientifiche, che rivela una pura valutazione precauzionale dell’Asp e che va a sovrapporsi a quelle già compiute dalla Autorità statale cui, secondo l’impianto normativo dei dd.ll. e dei d.p.c.m., è riservata la competenza, anche in ragione della possidenza di plurime e più attrezzate competenze.
Il principio di precauzione è stato qui utilizzato in modo sbilanciato; «oltre ogni limite», dice il Tribunale: porta, dunque, al blocco delle attività. Senza tener conto – come rileva il Giudice – che nel caso di specie le scuole si erano già tutte attrezzate per contenere eventuali focolai.
Il provvedimento rivela poi l’incoerenza dell’Ente regionale, il quale aveva pure impugnato l’ordinanza ministeriale che includeva la Calabria tra le zone rosse.
Ancora, il provvedimento difetta d’istruttoria laddove non tiene conto della difformità tra i diversi territori della regione, specie tra piccoli e grandi centri, circa l’utilizzo dei mezzi pubblici da parte dei più piccoli e del grave deficit di digitalizzazione che rende praticamente impossibile usufruire della didattica a distanza.
Quanto, poi, alla violazione del principio di proporzionalità, l’analisi giurisdizionale si sofferma sul diritto alla salute e sul suo “peso” rispetto agli altri diritti costituzionalmente tutelati. A questo proposito il Giudice si allinea alle note statuizioni della Consulta nel caso ILVA[12]: il diritto alla salute ha un valore primario poiché la sua tutela costituisce il presupposto essenziale perché i cittadini possano esercitare anche gli altri diritti sanciti in Costituzione; questo, tuttavia, non ne decreta un ruolo necessariamente preponderante – o “tiranno” – ma obbliga pur sempre la Repubblica a cercare una mediazione, a bilanciarlo con gli altri diritti, quali – per esempio – quello al lavoro o all’istruzione.
Questo deve spingere le pubbliche Autorità a cercare sempre, o almeno in prima battuta, un punto d’equilibrio tra le esigenze di protezione della salute e quelle di garanzia dell’istruzione, le quali peraltro vengono “poco dietro” alle prime. Tutelare la salute non può significare – secondo il Giudice amministrativo – chiudere sic et simpliciter le scuole. Non in un territorio come quello calabrese, caratterizzato da un forte digital divide che rischia di estraniare i giovanissimi da un circuito anche elementare d’istruzione e socializzazione.
Qui non è sufficiente un generico rischio di contagio per provvedere in modo più restrittivo rispetto alle misure statali, già di per sé ben prudenziali e precauzionali per evitare la diffusione del virus nelle scuole.
Il principio di precauzione, insomma, dev’essere bilanciato dal criterio di proporzionalità: questo, nell’ordinanza regionale gravata, non è accaduto. Il che la rende illegittima e meritevole di annullamento.
4. Spunti conclusivi.
Le due sentenze, emanate a pochissimi giorni di distanza l’una dall’altra, sono esempio di un dialogo incessante tra i Giudici in una materia che, se non altro per la sua estensione cronologica, rischia di dettare nuove regole che resteranno anche una volta terminato lo stato d’eccezione.
Anche se gli esiti processuali sono opposti – di reiezione del ricorso quello piemontese, di accoglimento quello calabrese – non può non notarsi una certa simmetria argomentativa tra le due pronunce.
L’esigenza manifesta è quella di provare a mettere ordine nel fitto quadro normativo per identificare i presupposti del potere regionale di ordinanza e di deroga rispetto alle misure statali, nonché per segnarne i limiti per l’esercizio legittimo.
Mentre il Tribunale piemontese accoglie una lettura più generale del potere di deroga in pejus, il Giudice calabrese par assumere una posizione nettamente più sorvegliata sul punto. Questo sulla base dell’equiparazione del potere di ordinanza contingibile e urgente del Sindaco a quello dei Presidenti delle Regioni in materia di sanità: il rischio è che la norma, solo teleologicamente orientata alla tutela di specifici interessi pubblici, consegni in mano alle Autorità sub statali un potere “in bianco”. Vero è che, sotto altro profilo, le disposizioni settoriali in tema di Covid-19, in realtà, esprimono limiti abbastanza definiti di questo potere: ancorandone l’esercizio al monitoraggio dei dati epidemiologici e alle sopravvenute situazioni di aggravamento sanitario.
Se le disposizioni statali favoriscono la deroga in peius – come segnalato dal Tar Piemonte – è altresì vero che questo potere derogatorio dev’essere esercitato con una rigorosa istruttoria e con una convincente motivazione, suffragata da pareri e dati scientifici che mostrino l’andamento del contagio e giustifichino, dunque, l’assunzione di misure più restrittive rispetto a quelle statali da parte dei governatori delle Regioni.
Su questo punto i due Giudici sono allineati: l’approfondito scrutinio motivazionale consente di valutare se i provvedimenti impugnati costituiscano esercizio illegittimo del potere derogatorio o meno.
L’ordinanza regionale piemontese si rivela ben strutturata e assistita da un’istruttoria approfondita e da dati scientifici precisi; viceversa, l’ordinanza calabrese mostra un profilo motivazionale troppo debole e generico.
Questi aspetti, peraltro, sono qui cautamente valutati dai Giudici perché le misure regionali toccano un diritto fondamentale quale quello all’istruzione: il provvedimento piemontese presta ossequio sia al principio di precauzione sia a quello di proporzionalità; viceversa, quello calabrese è sbilanciato solo sul primo, con un effetto di sostanziale alienazione degli alunni dal circuito scolastico.
Ne deriva un quadro estremamente complesso, nel quale il Giudice amministrativo ricopre ancora un ruolo-chiave, esercitato con pronunce sempre più approfonditamente motivate, le quali costituiscono volta per volta lo standard sul quale le Amministrazioni regionali possono compiere future valutazioni.
Ma risalta fulgido anche il ritratto di un Giudice particolarmente attento al proprio territorio: Calabria e Piemonte sono realtà diverse, sicché mentre nella prima il digital divide è strutturale, ampio e le peculiarità territoriali e sociali rendono molto più necessaria la presenza della scuola (e, per converso, una forte rigorosità motivazionale della sospensione di quella presenza), viceversa in Piemonte questi problemi sembrano meno spinosi, consentendo l’adozione di misure di sospensione delle attività didattiche in presenza che possono essere ben compensate da un puntuale aiuto per la digitalizzazione per le famiglie in difficoltà.
Le sensibilità di chi si pronuncia sui provvedimenti in materia scolastica tengono conto di questa diversità, con grande attenzione a che le Amministrazioni territoriali regionali garantiscano – assieme al diritto alla salute – l’assolvimento di quei doveri inderogabili di solidarietà che la Repubblica assume su di sé perché gli individui – di oggi e di domani – possano avere una formazione (anche) sociale il più completa possibile.
La Repubblica – anche attraverso l’intervento del potere giurisdizionale – rimuove così ostacoli e disuguaglianze, nell’attuazione sinergica degli artt. 2 e 3, comma 2, Cost.
[1] Così, art. 3, comma 1, d.l. 25 marzo 2020, n. 19, conv. con l. 22 maggio 2020, n. 35. Queste disposizioni si applicano anche in materia di sanità.
[2] Così, art. 1, comma 16, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, conv. con l. 14 luglio 2020, n. 74. Le deroghe devono essere previamente comunicate al Ministero della Salute ove peggiorative delle disposizioni statali; sono invece sottoposte a previa intesa con il medesimo Ministero nel caso di deroga in melius.
[3] Sia consentito un veloce rinvio a C. Napolitano, Regioni, scuola e COVID-19: il Giudice Amministrativo tra diritto allo studio e tutela della salute (Nota Cons. Stato 6453/2020), in www.giustiziainsieme.it, 18 dicembre 2020.
[4] Tar Piemonte, I, 12 dicembre 2020, n. 834.
[5] Ordinanza del Ministro della Salute del 4 novembre 2020 in applicazione dell’art. 3, d.p.c.m. 3 novembre 2020.
[6] Ordinanza del Ministro della Salute del 27 novembre 2020.
[7] Art. 1, comma 16, d.l. n. 33/2020, conv. con l. n. 74/2020, cit.
[8] Cons. Stato, III, 3 ottobre 2019, n. 6655.
[9] Tar Calabria, I, 18 dicembre 2020, n. 2075.
[10] Cfr. Corte cost., 13 aprile 2011, n. 115, punto 5 in diritto.
[11] D.l. 25 marzo 2020 n. 19 convertito, con modificazioni, dalla l. n. 35/2020 e seguito dai successivi interventi dei d.l. 16 maggio 2020, n. 33 convertito con modificazioni dalla l. n. 74/2020, d.l. 30 luglio 2020, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. n. 159/2020 e da ultimo dal d.l. 2 dicembre 2020, n. 158, non ancora convertito (decreto questo non applicabile alla fattispecie in quanto sopravvenuto al provvedimento impugnato).
[12] Corte. Cost., n. 85/2013.
Era la sera
di Bruno Giordano
La sera del 5 gennaio 1984 cinque proiettili calibro 7,65 spengono la voce di Giuseppe Fava all’ingresso del Teatro Stabile di Catania dove si rappresenta “Ultima Violenza”, il dramma con cui si processa una società corrotta nella politica, nell’economia, nell’università, nella giustizia. Un processo che si poteva solo immaginare, recitare, inventare in un teatro, sempre pieno. Gli studenti universitari di Catania che affollammo i suoi funerali dicemmo subito che era un omicidio di mafia, intelligente, strategico, dissuasivo: volevano zittire i siciliani. Il giornale e tutti noi.
Fava sui "I Siciliani" scriveva del forte doppio filo che legava i quattro cavalieri del lavoro di Catania, Prefetti, la mafia di Santapaola, la stampa regionale e una certa magistratura “alta” del palazzo di giustizia di Catania. Tutti i numeri offrivano un vero giornalismo di inchiesta con la ricerca e la denuncia di fatti, uomini, interessi economici e politici ben saldi attorno alle banche che operavano in Sicilia (troppe rispetto all’economia reale), agli appalti (soprattutto quelli per realizzare la base missilistica di Comiso per l’istallazione dei Cruise), a una certa chiesa pavida se non collusa rispetto a una diffusa accettazione della corruzione morale. Memorabile rimane l’articolo in cui ci si interrogava sull’ospitalità di un convegno di magistrati presso un grande albergo sul mare di Catania di proprietà di uno dei cavalieri del lavoro. Un anno dopo un’inchiesta della magistratura torinese svelerà una serie di fatti di corruzione riguardanti alti magistrati di Catania.
Più Fava e i suoi ragazzi alzavano il tiro, più cresceva la diffusione delle copie, spesso in ristampa, e l’interesse a leggere quello che tutti sapevano e sussurravano ma che fino ad allora non avevano il diritto di leggere e capire: c’era un sistema di potere, di tutti i poteri, e poi c’erano tutti gli altri schiacciati da quel sistema, cittadini, studenti, emigrati, contadini. Ma I Siciliani lo scrivevano e tanti lo leggevano, non più soltanto in sicilia. Lievitava la coscienza. E questo faceva paura.
Per l’uccisione di Giuseppe Fava la prima Corte d’assise di Catania ha condannato il boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, ritenendoli mandanti, e Marcello D’Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, come organizzatori ed esecutori dell’omicidio. La Corte d’appello di Catania ha poi confermato le condanne all’ergastolo per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mentre ha assolto D’Agata, Giammuso e Vincenzo Santapaola che in primo grado erano stati condannati all’ergastolo come esecutori dell’omicidio. Sentenza che è stata confermata dalla Corte di cassazione nel mese di novembre del 2003.
Quella sera del 5 gennaio comunque non vinse la paura.
Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare - si arricche con il saggio del Prof.Bruno Nascimbene, già professore ordinario di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea.
La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto
di Bruno Nascimbene *
Sommario. - 1. La mancata ratifica del Protocollo n. 16. La ratifica e l’entrata in vigore del Protocollo n. 15. – 2. Il rinvio consultivo alla Corte EDU previsto dal Protocollo n. 16: analogie con il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. – 3. L’intreccio fra rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale. Dialogo fra giudici, ruolo del giudice nazionale. – 4. La tutela dei diritti del singolo. Casi pratici e soluzioni. – 5. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e la facoltà di rinvio consultivo. La necessità di assicurare un coordinamento fra strumenti e sistemi. – 6. Considerazioni conclusive. Una valutazione positiva del Protocollo n. 16 nel contesto della cooperazione e del dialogo fra giudici.
1. La mancata ratifica del Protocollo n. 16. La ratifica e l’entrata in vigore del Protocollo n. 15
La mancata ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU, diversamente dalla ratifica del Protocollo n. 15 che consentirà l’entrata in vigore del Protocollo (l’Italia era l’ultimo dei Paesi membri del Consiglio d’Europa a non averlo ratificato), ha suscitato e continua a suscitare un vivace dibattito, soprattutto dopo le audizioni alla Camera dei deputati di professori, giudici, esperti[1]. Lo “stralcio” del ddl di ratifica del Protocollo n. 16, a seguito di emendamenti approvati il 29 luglio e il 23 settembre 2020 (veniva espunto dal testo e dal titolo dell’articolato ogni riferimento al Protocollo[2]) ha fatto sì che i percorsi siano stati diversi, consentendo per il n. 15 che introduce alcuni emendamenti alla Convenzione (diversamente dal n. 16, che è di completamento), la ratifica e, quindi, l’entrata in vigore, per la quale, diversamente dal n. 16, è prevista l’unanimità degli Stati contraenti (c.d. clausola si omnes)[3]. In sintesi, il n. 15 modifica la Convenzione in questi termini: a) aggiunge un “considerando” al preambolo della Convenzione, che contiene un riferimento espresso al principio di sussidiarietà e al margine di apprezzamento degli Stati; b) riduce il termine, da sei a quattro mesi, entro cui il ricorso deve essere introdotto; c) elimina la seconda condizione di ricevibilità di un ricorso relativa all’esame, debitamente compiuto da un giudice interno (resta la prima condizione del pregiudizio significativo, salvo che il rispetto dei diritti umani esiga un esame del merito); d) priva le parti di un processo, della possibilità di opporsi alla decisione di una Camera di declinare la propria competenza a favore della Grande Camera; e) modifica il limite di età (prima di settanta anni) per essere eletto giudice, prevedendo che i candidati abbiano meno di sessantacinque anni alla data in cui la lista dei tre candidati viene comunicata all’Assemblea parlamentare[4].
Lo “stralcio”, tuttavia, dovrebbe comportare un rinvio, non già un abbandono, come invece molti auspicano[5]. Il dibattito sulla ratifica resta comunque aperto, anche in considerazione, come si è detto, della diversa sorte del Protocollo n. 15, e della ripresa dei negoziati per l’adesione dell’Unione europea alla CEDU interrotti dopo il primo parere negativo n. 2/13 espresso dalla Corte di giustizia[6]. I negoziati sono in corso e oggetto della discussione è anche il Protocollo n. 16, più precisamente il confronto fra Corte EDU e parere consultivo reso ai sensi del Protocollo, da un lato, e Corte di giustizia e sentenza pregiudiziale pronunciata ai sensi dell’art. 267 TFUE, dall’altro lato[7]. Anche se il Protocollo, dalla data della sua firma (2 ottobre 2010, in vigore dal 1 agosto 2018) è stato ratificato da un numero limitato di Stati (quindici; nove appartenenti all’Unione europea), merita attenzione sotto più profili[8]. Perché esso si colloca nel più ampio contesto del dialogo fra giudici europei e fra giudici nazionali ed europei, nonché della protezione o maggior protezione dei diritti della persona, e perché questo nuovo strumento di collaborazione internazionale-europea è l’occasione per svolgere alcune riflessioni su analogie e differenze fra il “tradizionale” rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e il rinvio previsto dal Protocollo[9].
2. Il rinvio consultivo alla Corte EDU previsto dal Protocollo n. 16: analogie con il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
Il Protocollo consente alle più “Alte giurisdizioni” di una Parte contraente di chiedere alla Corte EDU dei pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli (art. 1)[10]. Se lo scopo è chiarire, in termini di interpretazione e applicazione, i profili giuridici di questa o quella norma del sistema europeo di protezione dei diritti della persona, non si può negare una qualche analogia con il rinvio pregiudiziale, con i limiti, tuttavia, di a) applicabilità materiale, b) di non utilizzabilità da parte di tutti i giudici nazionali, c) di non vincolatività della pronuncia della Corte EDU (come si dirà). Un’analogia parziale, che ha fatto ritenere, erroneamente, che sia nata, per via convenzionale, una sorta di nuovo rinvio pregiudiziale, qualificabile tale anche se di carattere “speciale” perché riguarda la tutela dei diritti della persona[11].
È dunque inevitabile chiedersi se questo rinvio alla Corte EDU si coordina, o non, con il rinvio ex art. 267 TFUE, se sia utile e vantaggioso per la tutela dei diritti della persona e, soprattutto, se possa in qualche modo pregiudicare quel meccanismo o strumento di grande successo per la collaborazione fra giudici e fra sistemi, rappresentato dal rinvio pregiudiziale: definito, com’è noto, la “chiave di volta del sistema giurisdizionale”[12].
All’indomani della sua entrata in vigore ( grazie alla ratifica francese) il Presidente della Corte EDU dell’epoca così si espresse: «L’entrée en vigueur du Protocole n. 16 va renforcer le dialogue entre la Cour européenne des droits de l’homme et les juridictions supérieures nationales. C’est une étape fondamentale dans l’histoire de la Convention européenne des droits de l’homme et un développement majeur de la protection des droits de l’homme en Europe. C’est aussi un nouveau défi pour notre Cour »[13].
La Corte EDU si rafforza, l’opportunità di dialogo viene definita (forse con un eccesso di ottimismo) storica, ma certamente si tratta di una “sfida” per un sistema giurisdizionale europeo che richiede collaborazione e intesa fra giudici. Non deve rappresentare occasione di contrasto né con i giudici nazionali, né tanto meno con la Corte di giustizia. Se esiste un “concorso”, questo deve intendersi in senso positivo, non potendo pregiudicare le competenze nazionali o addirittura la sovranità dello Stato, come è stato sostenuto da alcuni autori (ed esperti), ma soprattutto da alcuni politici in sede di discussione del ddl di ratifica[14]. Tale preoccupazione non è giustificata. È lo stesso “Rapport explicatif” del Protocollo che spiega, pur rivendicando “le rôle constitutionnel de la Cour”, in primo luogo che la domanda di parere è posta soltanto dai giudici di ultima istanza e dai giudici costituzionali; in secondo luogo, che “une telle demande d’avis […] serait toujours facultative et l’avis rendu par la Cour n’aurait pas de caractère obligatoire”[15]. Rilievi, questi, che da soli differenziano il “rinvio CEDU” dal “rinvio UE”, peraltro tesi a giustificare la ratio e l’utilità degli orientamenti di principio che verranno forniti.
Ci si può chiedere, peraltro, quale sia l’utilità di tale strumento, e anche quali siano le ragioni di tanto contrasto, cui è seguito lo “stralcio” di cui si è detto[16], se è vero che non solo non vincola il giudice che se ne avvale, ma anche gli altri giudici, né di ultimo grado, né di grado inferiore. Inoltre, il fatto che il giudice nazionale non è obbligato a conformarsi al parere, può offrire l’occasione per proporre un motivo di doglianza da parte di chi, rimasto pregiudicato dalla sentenza del giudice nazionale non conforme al parere, intenda ricorrere alla Corte EDU una volta esaurite le vie di ricorso interne[17].
3. L’intreccio fra rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale. Dialogo fra giudici, ruolo del giudice nazionale
L’intreccio fra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rinvio consultivo alla Corte EDU (solo sfiorato, considerata la sua tecnicità, nel dibattito parlamentare, ma di sicuro interesse anche di carattere pratico) può porre qualche problema al giudice nazionale.
a) Il giudice nazionale può chiedere un parere e, poi, rivolgersi alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE. La Corte terrà conto del parere, non diversamente da come tiene conto della giurisprudenza della Corte EDU (senza pregiudicare, come più volte ha ricordato la Corte di giustizia, “l’autonomia del diritto dell’Unione e della Corte di giustizia”)[18]. E se viene in rilievo la Carta dei diritti fondamentali, precisamente le disposizioni della stessa che contengono diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi, come prevede la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 52, par. 3 Carta, sono uguali a quelli conferiti dalla CEDU. Fatta salva la competenza della Corte a riconoscere una protezione più estesa, prevista dal diritto dell’Unione (che “non preclude” tale protezione) per i diritti che vengono in rilievo[19].
b) Il giudice nazionale può chiedere un parere alla Corte EDU dopo la pronuncia in via pregiudiziale. E la Corte EDU, malgrado l’orientamento espresso nella nota sentenza Bosphorus circa il livello di tutela dei diritti umani fornito dall’ordinamento dell’Unione, ritenuto equivalente a quello della CEDU (pur non essendo l’Unione una parte della stessa), sarebbe legittimata a fornire un’interpretazione diversa da quella della Corte di giustizia[20]. Il problema di compatibilità, tuttavia, si porrebbe per il giudice nazionale, vincolato alla sentenza della Corte di giustizia e al rispetto del principio del primato del diritto UE[21]. Si tratta di una situazione di non facile soluzione, che potrebbe determinare il giudice nazionale ad effettuare un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per chiedere chiarimenti oppure (nel nostro ordinamento) a rivolgersi alla Corte costituzionale, considerato il possibile contrasto fra obblighi che discendono da due fonti diverse, la CEDU e i Trattati UE, e considerato il precetto contenuto nell’art. 117, 1° comma Cost., che impone il rispetto, quanto all’esercizio della potestà legislativa, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”[22].
c) Per completezza, si ricorda anche una terza ipotesi: un rinvio contemporaneo alla Corte EDU e alla Corte di giustizia. Si tratta di un modus operandi sicuramente vantaggioso sotto il profilo temporale della durata del processo, ma che potrebbe creare maggiori incertezze per il giudice nazionale qualora le due interpretazioni fossero divergenti, pur non essendo vincolante quella della Corte EDU. L’intreccio, come si vede, è complesso e la durata del processo, se fossero esperiti entrambi i rinvii, si allungherebbe in modo sensibile. La protezione di diritti fondamentali, tuttavia, può giustificare una maggiore durata (in termini ragionevoli) del processo, ma la durata non sembra di per sé elemento sufficiente, e dirimente, ad escludere l’opportunità della ratifica[23].
4. La tutela dei diritti del singolo. Casi pratici e soluzioni
Qualche caso pratico merita attenzione anche per offrire ipotesi di soluzione quando, nella pratica, fonti diverse sono applicabili. In un caso in cui un giudice comune (italiano) si è rivolto prima alla Corte di giustizia, e poi alla Corte costituzionale, la quale, tuttavia, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità, ben avrebbe potuto, o potrebbe, se fosse una “alta giurisdizione”, ai sensi del Protocollo, rivolgersi alla Corte EDU. Nella specie era venuta in rilievo la diversa interpretazione, in materia di ne bis in idem, dell’art. 50 della Carta e dell’art. 4, Protocollo n. 7 della Convenzione. La sentenza resa dalla Corte di giustizia in via pregiudiziale (Menci) distingue il diritto UE dalla CEDU e dichiara di non ignorare la giurisprudenza della Corte EDU, che espressamente menziona, ma dichiara espressamente che essa “non incide” sulla propria decisione, distinguendo, appunto, il sistema UE di tutela giurisdizionale da quello CEDU[24]. Una distinzione, questa, ripetuta in altra sentenza della Corte di giustizia in cui veniva in rilievo (in Austria) la riapertura di un processo penale a seguito di violazione della CEDU, ma non a seguito della violazione di una norma di diritto UE. La Corte, in tale occasione (XC, YB, ZA), ribadendo quanto affermato nel parere 2/13, ha sottolineato l’importanza del rinvio pregiudiziale nel “quadro costituzionale” rappresentato dal sistema di diritto UE. La Corte sottolinea, in tale quadro, in cui deve essere assicurata la tutela effettiva dei diritti al singolo, il ruolo dei giudici nazionali ai quali è conferita la facoltà o obbligo, a seconda dei casi, di proporre un rinvio pregiudiziale ogniqualvolta ne ritengano la necessità o l’opportunità”[25]. L’avvocato generale (nella causa ricordata XC, YB, ZA), svolgendo rilievi sulla distinzione fra diritto UE e CEDU, sulle garanzie giurisdizionali e l’effettività dei diritti, precisa che, per quanto vi possano essere analogie fra i due sistemi, il rinvio pregiudiziale presenta “tre differenze principali”, poiché a) il “meccanismo” previsto dal Protocollo n. 16 consente il rinvio solo alle più alte giurisdizioni; b) la Corte EDU esercita un controllo preventivo di ricevibilità delle domande (art. 2 Protocollo); c) i pareri consultivi non sono vincolanti (art. 5 Protocollo)[26].
Differenze importanti, dunque, che rivendicano (per così dire) la differenza fra sistemi. La Corte EDU, quasi a voler replicare alla Corte di giustizia nella materia ricordata relativa all’interpretazione e applicazione del principio del ne bis in idem, si limita (sentenza Nodet c. Francia) a dare atto della giurisprudenza della Corte di giustizia, citando i passaggi maggiormente rilevanti di alcune sentenze di detta Corte (soprattutto la sentenza Menci), ma senza trarne alcuna conseguenza al fine del decidere[27]. Considerazione reciproca fra Corti e rispettiva giurisprudenza, dunque, senza contrasti, nel rispetto di una valutazione distinta seppur ispirata ai medesimi valori di fondo.
5. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e la facoltà di rinvio consultivo. La necessità di assicurare un coordinamento fra strumenti e sistemi
Considerato che il giudice nazionale di ultima istanza (“avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno”, art. 267, 3°comma TFUE) ha l’obbligo di rivolgersi alla Corte di giustizia e che la mancata motivazione del rinvio assume rilievo anche sotto il profilo della CEDU, come ha recentemente sottolineato la Corte EDU (sentenza Sanofi Pasteur c. Francia), in conformità ad un precedente orientamento, ha ritenuto violato l’art. 6, par. 1 perché la Corte di Cassazione francese nel decidere di non rinviare una questione di interpretazione del diritto UE alla Corte di giustizia (come avrebbe dovuto ex art. 267, 3°comma) non aveva motivato la non necessità del rinvio secondo i criteri fissati nella nota sentenza Cilfit[28]. Nei casi in cui si pone una sorta di concorso fra rinvio pregiudiziale e rinvio ai sensi del Protocollo 16, la soluzione preferibile, se non imposta (come si dirà poco oltre) dal primato del diritto UE e dalla necessaria coerenza fra Carta e CEDU, è adire prima la Corte di giustizia e poi, se del caso, alla luce del criterio di corrispondenza fra norme, contenuto nell’art. 52, par. 3 Carta, adire la Corte EDU. Il coordinamento insomma è possibile, e anche sotto questo profilo vengono meno le ragioni di contrasto alla ratifica del Protocollo.
Il parere della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU (il cui contenuto, come si è accennato, è stato ribadito nella giurisprudenza successiva della Corte)[29], indica, peraltro, questa soluzione di possibile coordinamento. Il parere ben distingue il rinvio pregiudiziale dal rinvio ai sensi del Protocollo e censura il progetto di accordo di adesione perché non contiene alcuna disposizione sull’ “articolazione del meccanismo istituito dal Protocollo n. 16 con la procedura di rinvio pregiudiziale contemplata nell’art. 267 TFUE”, giudicando l’accordo come “idoneo a pregiudicare l’autonomia e l’efficacia di tale procedura” e, quindi, “suscettibile di pregiudicare le caratteristiche specifiche del diritto dell’Unione e l’autonomia di quest’ultimo[30].
Il “rischio di elusione della procedura di rinvio pregiudiziale”[31] a vantaggio del meccanismo di cui al Protocollo è messo in evidenza, soprattutto, nella presa di posizione dell’avvocato generale Kokott, anche nel caso in cui l’Unione non aderisse alla CEDU, poiché il giudice di uno Stato membro che ratifica il Protocollo può disporre il rinvio indipendentemente dall’adesione. I giudici nazionali non possono comunque sottrarsi agli obblighi posti dal diritto UE. L’art. 267, 3°comma “prevale sul diritto nazionale e dunque anche su un accordo internazionale eventualmente ratificato da singoli Stati membri dell’Unione”. Il primato del diritto UE ha per conseguenza che i giudici “laddove chiamati a decidere su una controversia rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, devono sottoporre eventuali questioni attinenti ai diritti fondamentali prioritariamente [alla] Corte e prioritariamente conformarsi alle decisioni di quest’ultima”[32].
Insomma, l’autonomia del diritto dell’Unione nonché della Corte di giustizia non può essere pregiudicata, anche se il parere reso dalla Corte EDU è facoltativo[33]. Il rapporto fra i due sistemi, se considerati in sede di dibattito circa la ratifica del Protocollo, avrebbe potuto portare a queste conclusioni, fondate sulla distinzione, appunto, fra i due sistemi, che non esclude, anzi richiede il coordinamento, a favore della miglior tutela dei diritti della persona.
Quanto all’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale, diversamente dalla facoltatività del rinvio ai sensi del Protocollo, sembra opportuno ricordare le affermazioni della Corte di giustizia in occasione di un procedimento di infrazione (contro la Francia). Il Conseil d’Etat, giudice di ultima istanza, avrebbe dovuto adire la Corte “al fine di evitare il rischio di un’errata interpretazione del diritto dell’Unione”. L’interpretazione fornita da detto giudice circa norme di diritto UE (nella specie gli artt. 49, 63 TFUE) che erano state oggetto di una precedente interpretazione pregiudiziale della Corte, non era conforme, non essendo stata data piena attuazione alla sentenza della Corte da parte del Conseil d’Etat. Esisteva, dunque, un “dubbio ragionevole”, tale da imporre (secondo quanto affermato dalla giurisprudenza Cilfit) il rinvio. L’interpretazione accolta dal Conseil d’Etat “delle disposizioni del diritto dell’Unione nelle sentenze [precedenti] non si impone[va] con un’evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio”[34].
La Corte ha avuto, dunque, l’occasione di confermare la ratio dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, cioè “evitare che in qualsiasi Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme di diritto dell’Unione”[35]. Un rischio ricordato, di recente, dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, che ha posto tre questioni pregiudiziali che investono la propria competenza a giudicare, ex art. 111, 8°comma Cost., su sentenza resa dal Consiglio di Stato in violazione del diritto UE, non essendosi conformato alla giurisprudenza della Corte di giustizia, e non avendo motivato il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte[36].
6. Considerazioni conclusive. Una valutazione positiva del Protocollo n. 16 nel contesto della cooperazione e del dialogo fra giudici
A fronte dei vantaggi che il rinvio ai sensi del Protocollo offre, primo fra i quali la possibilità per il giudice nazionale di conoscere l’orientamento interpretativo della Corte EDU e prevenire-impedire la violazione della CEDU da parte dello Stato ovvero della giurisdizione nazionale, sembrano oggi prevalere, come si è detto, alcuni motivi di preoccupazione: la dilatazione della durata del processo; la creazione di una sorta di subordinazione del giudice nazionale di ultimo grado (“Alta giurisdizione”) alla Corte EDU; il non facile coordinamento con il rinvio pregiudiziale e con le competenze della Corte di giustizia. Non vi è dubbio che il rinvio possa fornire l’occasione di ricorrere a tecniche dilatorie da parte dei soggetti in causa, considerato che la c.d. Alta corte sarebbe legittimata sia al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, sia al rinvio ai sensi del Protocollo, e che se non si trattasse di rinvio contemporaneo, come già si è ricordato[37], quello alla Corte EDU potrebbe precedere quello alla Corte UE, oppure una volta effettuato quest’ultimo, potrebbe manifestarsi la necessità di adire la Corte EDU.
Vi è tuttavia da chiedersi quanto graverebbe, in ordine di tempo, un doppio rinvio e se tale dilatazione della durata rispetto alla tutela dei diritti in gioco, non sia comunque giustificata, ragionevole e proporzionata. Non lo sarebbe qualora i meccanismi di diritto interno, considerata la sospensione del processo nazionale, fossero complessi e non tempestivi, pregiudicando, alla fine, la tutela effettiva della persona. Ma non sarebbe questo un buon argomento per non ratificare il Protocollo cui non sono imputabili lacune o deficienze del diritto interno[38].
Il giudice nazionale, ma anche le parti del procedimento nazionale, potrebbero trarre un vantaggio dal rinvio per parere consultivo in tutti i casi in cui la giurisprudenza della Corte EDU non fosse chiara o suscitasse dubbi nell’affermazione di principi: sono, d’altra parte, le questioni di principio (e solo queste, non già le vicende del caso concreto) ad essere oggetto di esame da parte della Corte. L’orientamento della Corte sarà, certamente, utile a indirizzare il giudice nazionale (giudice di ultimo grado, ma anche Corte costituzionale) ed evitare una violazione della Convenzione. Proprio perché il parere consultivo non è vincolante, resta al giudice nazionale la competenza di valutare la “risposta” della Corte EDU, e di non adeguarsi, rischiando la violazione della Convenzione da parte dello Stato. Un rischio calcolato, tuttavia, che dipende non dal Protocollo, bensì dal giudice, dalla sua valutazione autonoma.
Altro sarebbe se il parere fosse vincolante, poiché il giudice nazionale si dovrebbe adeguare, ma non sarebbe legittimato a farlo qualora si ponesse in contrasto con la Costituzione: una situazione di conflitto che provocherebbe una questione incidentale di costituzionalità con rinvio da parte dell’ “Alta giurisdizione” nazionale alla Corte costituzionale o sulla quale si pronuncerebbe la Corte costituzionale stessa se fosse il giudice nazionale davanti a cui si pone la questione. Anche in tal caso non è imputabile al Protocollo la conseguenza di eventuali conflitti di carattere costituzionale, poiché esso non incide sulla competenza e funzione del Giudice delle leggi, che non potrà mai consentire l’ingresso di norme e principi in contrasto con i valori fondamentali del nostro ordinamento. Il Protocollo “non toglie” sovranità allo Stato e ai suoi giudici[39]. Rappresenta un complemento alla CEDU, come afferma il suo preambolo[40]. Se questa fosse una delle ragioni per non ratificarlo, ci si dovrebbe chiedere, allora, per quale motivo si è rinunciato alla sovranità a favore della ratifica della CEDU, pur in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dall’art. 11 Cost. che, com’è noto, “consente […] alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” e che prevede che siano promosse e favorite “le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, quale è il Consiglio d’Europa nel cui contesto è stata stipulata la CEDU (e successivamente i vari Protocolli) e dall’art. 117, 1°comma Cost. che impone, come già si è ricordato, il vincolo del rispetto degli obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e di quelli internazionali quali sono gli obblighi della CEDU e dei suoi Protocolli. Obblighi, norme e contesto generale che ben sono state inquadrati e definiti nella loro ratio e storia dalle note sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 della Corte costituzionale[41].
* Già professore ordinario di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea.
[1] Sulla audizione e sulla discussione alla Camera dei deputati, sul dibattito ospitato da questa Rivista, si vedano l’editoriale L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU, in questa Rivista, 2020, ivi i contributi di A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?; C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa; C.V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts; E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del protocollo n. 16; P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16; nel 2021 il contributo di S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare. Si vedano inoltre A. Cannone, Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione dei Protocolli 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: audizioni parlamentari, in Rivista di diritto internazionale, 2020, p. 859 ss.; G. Zampetti, Ordinamento costituzionale e Protocollo n. 16 alla CEDU: un quadro problematico, in Federalismi.it, n. 3/2020: E. Crivelli, The Italian debate about the ratification of Protocol n. 16, in eurojus, 2021. Il testo delle audizioni è leggibile in https://www.camera.it/leg18/1104?shadow_organo_parlamentare=2803&id_tipografico=03. Si vedano, in particolare, le opinioni espresse da M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sistema penale, 2019; G. Cerrina Ferroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi.it, n. 5,/2019; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in Dirittifondamentali.it, 2019. In senso diverso R. Sabato, Sulla ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 della CEDU, in Sistema penale, 2019. Per una rassegna delle opinioni espresse e per rilievi sull’utilità della ratifica, R. Conti, Chi ha paura del Protocollo n. 16 e perché?, in Sistema penale, 2019( in precedenza, dello stesso si veda anche La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU ed il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consultaonline, 2014): A. Guerra Il rinvio consultivo alla Corte EDU, in F. Ferraro, C. Iannone, Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 355 ss.
[2] Si vedano i riferimenti alle sedute delle Commissioni riunite alla Camera II (Giustizia) e III (Affari esteri e comunitari) del 29 luglio e del 23 settembre 2020 in www.camera.it/leg18/824?tipo=IG&anno=2020&mese=07&giorno=29 e in www.camera.it/leg18/824?tipo=IG&anno=2020&mese=09&giorno=23; sui lavori in Assemblea (sedute del 28 e 30 settembre 2020 cfr. www.camera.it/leg18/410?idSeduta=0399&tipo=stenografico#sed0399.stenografico.tit00190, www.camera.it/leg18/410?idSeduta=0401&tipo=stenografico#sed0401.stenografico.tit00120, nonché L’estremo saluto cit. Come si legge nel resoconto della seduta del 23 settembre 2020, soltanto la Commissione Politiche dell’Unione europea, pur esprimendo parere favorevole alla espunzione, invitava “le Commissioni ad addivenire quanto prima anche alla ratifica del Protocollo n. 16 al fine di potersi avvalere di nuovi strumenti atti a favorire ulteriormente l’interazione e il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in coerenza con l’obiettivo di una maggiore armonizzazione ed efficacia della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali contemplati nella Convenzione e nei suoi Protocolli”. Sulla procedura di ratifica cfr. anche il documento della Camera dei deputati, Servizio Studi, Documentazione per l’esame di progetti di legge, A.C.35, A.C.1124, Dossier n. 83 del 21.1.2019, in http://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/testi/ES0083.htm.
[3] Cfr. la legge 15.1.2021, di ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
[4] Sugli emendamenti alla Convenzione si veda il Rapport explicatif del Protocole n° 15 portant amendement à la Convention de sauvegarde des Droits de l’Homme et des Libertés fondamentales (STCE n° 213), nonchè la discussione avvenuta alla Camera in occasione della ratifica del Protocollo (cfr. i riferimenti alla nota 2). L’entrata in vigore del Protocollo (art. 7) è il primo giorno del mese successivo alla scadenza di tre mesi dopo l’ultima ratifica; la riduzione a quattro mesi del termine per proporre ricorso decorre sei mesi dopo l’entrata in vigore (art. 8, par. 3): non riguarda, quindi, i ricorsi relativi a decisioni definitive pronunciate prima dell’entrata in vigore.
[5] Si vedano le opinioni espresse in occasione delle audizioni e del dibattito parlamentare, riferimenti alle note 1 e 2, nonché 14.
[6] Su tale parere cfr. la nota 12.
[7] Sulla ripresa dei negoziati nel 2019 fra i “47+1”, cioè fra i membri del Consiglio d’Europa e la Commissione UE (gruppo ad hoc del CDDH-Comitato direttivo per i diritti dell’uomo, avente il compito di condurre i negoziati) si veda più recentemente I. Anrò, B. Nascimbene, The devil in the details: does the end of Protocol n° 16 to the ECHR lie in the wrinkles of EU accession to ECHR process?, in eurojus, 2021 con i riferimenti, in particolare, alle sedute svoltesi nel 2020 (sesta e settima). Fra gli argomenti in discussione, indicati in cinque “panieri”, vi sono il meccanismo del convenuto aggiunto (Stato membro o Unione europea) e della sua responsabilità, e la procedura di coinvolgimento della Corte di giustizia quando siano in discussione questioni di diritto UE (temi su cui si è pronunciata la Corte nel parere n. 2/13).Iin discussione vi è, in particolare, la possibile sospensione, su richiesta dell’Unione, del procedimento di parere consultivo, al fine di verificare se la richiesta di parere possa pregiudicare il rispetto del diritto UE e, quindi, l’autonomia del sistema e la competenza pregiudiziale della Corte di giustizia.
[8] Sullo stato delle firme e delle ratifiche del Protocollo cfr. https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/214/signatures?p_auth=YGajAR9E (i Paesi membri della UE che l’hanno ratificato sono Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovacchia, Slovenia). Fra i molti commenti al Protocollo si vedano, in epoca più recente, quelli in Les défis à l’entrée en vigueur du Protocole 16 à la Convention européenne des droits de l’Homme, in Actes de la journée d’étude de l’Institut de Recherche Carré de Marré de Malberg, 29 janvier 2019, en ligne sur https://univ-droit.fr/actualites-de-la-recherche/manifestations/30400-les-defis-lies-a-l-entree-en-vigueur-du-protocole-16-a-la-convention-europeenne-des-droits-de-l-homme, di F. Benoît-Rohmer, Le Protocole 16 ou le renouveau de la fonction consultative de la Cour européenne des droits de l’Homme ; L. Blanku, La Cour européenne des droits de l’Homme et le Protocole 16 ; A. Rivière, Le renvoi préjudiciel en interprétation : un modèle pour la procédure de demande d’avis consultatifs du Protocole 16 ; C. Giannopoulos, En guise de synthèse : les avantages et les inconvénients du Protocole 16, pp. 1, 10, 58, 80 ss. ; M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei diritti fondamentali davanti al giudice amministrativo, in Federalismi.it, n. 3/2019; S. O’Leary, T. Eicke, Exposé à l’occasion de l’ouverture de l’année judiciaire de l’Europe, 2019, Cour européenne des droits de l’homme, 2020, p.33 ss. (a p. 52 un « addendum » di aggiornamento sul primo parere della Corte) ; C. Masciotta, Il Protocollo n. 16 alla CEDU alla prova dell’applicazione concreta e le possibili ripercussioni sull’ordinamento italiano, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2020, p. 183 ss.; L. Pierdominici, Genesi e circolazione di uno strumento ideologico: il rinvio pregiudiziale nel diritto comparato sovranazionale, in Federalismi.it, n. 20/2020; A. Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale, in Rivista di diritti comparati, 7.1.2020. Si permette inoltre di rinviare al nostro Le Protocole n° 16 en tant qu’instrument de collaboration entre juges nationaux et européens, in L.-A. Sicilianos, I.A. Motoc, R. Spano, R. Chenal (eds.), Regards croisés sur la protection nationale et internationale des droits de l’homme / Intersecting Views on National and International Human Rights Protection, Liber Amicorum Guido Raimondi, Tilburg, 2019, p. 657 ss. Per una illustrazione del Protocollo e delle sue ragioni cfr. il Rapport explicatif du Protocole n° 16, anche per i riferimenti alle proposte sia del “Groupe de sages” incaricato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di approfondire il tema del controllo del rispetto dei diritti dell’uomo, sia al Document de réflexion sur la proposition de l’élargissement de la compétence consultative de la Cour predisposto dalla Corte EDU. Si vedano inoltre le Lignes directrices concernant la mise en œuvre de la procédure d’avis consultatif prévue par le Protocole n° 16 à la Convention (tel qu’approuvé par la Cour plénière le 18 septembre 2017.
[9] Su analogie e differenze si vedano i rilievi e i riferimenti nei parr. 4 e 5.
[10] Per una illustrazione del Protocollo e delle sue finalità si vedano i riferimenti nella nota 1.
[11] Analogie e differenze sono sottolineate, in genere, dalla dottrina che ha esaminato il nuovo Protocollo: si vedano in particolare gli autori citt. alle note 1, 8, e sulla qualificazione di “pregiudiziale”, M. Lipari, Il rinvio pregiudiziale cit.; M. Luciani, Note critiche cit., pp. 6-10; R. Conti, Chi ha paura cit., p. 10; A. Rivière, Le renvoi cit. Cfr. inoltre, nel passato, E. Cannizzaro, Pareri consultivi e altre forme di cooperazione giudiziaria nella tutela dei diritti fondamentali: verso un modello integrato?, in E. Lamarque (a cura di), La richiesta di pareri preventivi da parte delle più alte giurisdizioni nazionali, Milano, 2015, p. 81 ss.; F.G. Jacobs, Le renvoi préjudiciel devant la Cour de justice – un modèle pour d’autres systèmes transnationaux?, in La Cour de justice de l’Union européenne sous la présidence de Vassilios Skouris (2003-2015), Liber Amicorum Vassilios Skouris, Bruxelles, 2015, p. 282 ss.
[12] In questi termini il parere 2/13 del 18.12.2014, EU:C:2014:2454, par. 176; per alcuni rilievi sul parere con particolare riguardo alla tutela dei diritti fondamentali (e al quadro costituzionale di cui si dirà oltre, par. 4) cfr. H. Labayle, F. Sudre, L’avis 2/13 de la Cour de Justice sur l’adhésion de l’Union européenne des droits de l’homme. Pavane pour une adhésion défunte ?, in Revue française de droit administratif, 2015, p. 3 ss. ; F. Picod, J. Rideau, L’avis 2/13, morceaux choisis, in Revue des affaires européennes, 2015, p. 7 ss.; J.L. da Cruz Vilaça, De l’interprétation uniforme du droit de l’Union à la « sanctuarisation » du renvoi préjudiciel. Etude d’une limite matérielle à la révision des traités, in Liber Amicorum Antonio Tizzano, Torino, 2018, spec. p. 252 ss. Sui vari aspetti del rinvio pregiudiziale si vedano, più recentemente, i contributi in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio cit.; per alcuni rilievi si permette rinviare al nostro La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali. (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), in eurojus, 2020.
[13] Si veda il communiqué de presse du Greffier de la Cour, CEDH 276 (2018) dell’1.8.2018.
[14] Si vedano le riserve e le critiche espresse, a proposito della progettata ratifica, in particolare da M. Luciani, Note critiche cit., spec. p. 8 sul contrasto con l’art. 101, 2° comma Cost., e sull’incidenza del parere consultivo per quanto riguarda il libero convincimento del giudice, e quindi sul pregiudizio apportato da quella sorta di rinvio pregiudiziale “mascherato” alla sovranità del giudice nazionale, mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Cfr. anche i rilievi di G. Cerrina Ferroni, Il disegno cit., p. 5; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica cit., p. 5; R. Bin, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista AIC, n. 4, 2018; E. Malfatti, La Cedu come parametro, tra Corte costituzionale e giudici comuni, in Riv. del Gruppo di Pisa, 2019, p. 159 ss. Sul dibattito svoltosi alla Camera si vedano i riferimenti alla nota 2; in particolare sulla negatività della ratifica, pur prospettando un rinvio al futuro, si ricorda l’affermazione della relatrice on. Ehm secondo cui il Protocollo presenta “profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento”.Secondo l’on. Dalmastro delle Vedove, la ratifica del Protocollo, “sciagurato”, rappresenterebbe “una pietra tombale sulla sovranità giuridica italiana sull’autonomia del diritto italiano”; sulle conseguenze “di una dilatazione certa della lunghezza dei processi”, sulla “deriva europeista in campo giuridico” e ( in senso critico all’opinione espressa dall’on. Boldrini nei confronti dei “cattivi sovranisti”, ricordando invece a favore della propria tesi “importanti professori universitari”) e sulla preoccupazione di “andare verso una super Corte costituzionale europea” creando “una sovranità sovra costituzionale, sovranazionale”, si veda l’intervento dell’on. Di Muro.
[15] Cfr. il Rapport explicatif cit., par. 1.
[16] Cfr. il par. 1.
[17] Sulla non vincolatività e sulle conseguenze del parere in ordine alla proposizione del ricorso alla Corte EDU, si vedano i nostri rilievi in Le Protocole n° 16 cit., p. 8 s.; cfr. pure gli autori citt. alle note 1 e 8. Sembra opportuno ricordare, a conferma della non vincolatività del parere, che la Corte di Cassazione francese, dopo avere attivato la procedura, per la prima volta successivamente all’entrata in vigore del Protocollo (rinvio alla Corte EDU disposto con sentenza del 5.10.2018, n. 368), ha tenuto conto del parere (pronunciato il 10.4.2019, GC, P16-2018-001), ma se ne è discostata (sentenza del 4.10.2019, n. 648). La richiesta riguardava, in sostanza, gli effetti e le conseguenze di precedenti sentenze della Corte EDU, Mennesson c. Francia e Lebasu c. Francia del 26.6.2014 in tema di maternità surrogata e di trascrizione di atti di nascita di minori nati all’estero da maternità surrogata (valutazione del margine di apprezzamento dello Stato con riferimento all’art. 8 CEDU, quanto al diritto alla vita familiare dei genitori e a quello dei figli). La Corte ha ritenuto che nel supremo interesse del minore deve essere riconosciuto il rapporto di filiazione (tra la madre designata come tale nell’atto di nascita e il figlio nato da maternità surrogata), lasciando agli Stati la discrezionalità circa le modalità del riconoscimento, non sussistendo un obbligo di trascrizione dell’atto, perché tale fine può essere conseguito tramite l’adozione o altri mezzi previsti dal diritto nazionale (purché le modalità garantiscano il diritto del minore, conformemente al suo superiore interesse). La Corte di Cassazione, considerato il tempo trascorso nella fattispecie (vent’anni circa), ha ritenuto pregiudizievole il ricorso ad una procedura di adozione e ha privilegiato il riconoscimento della filiazione in base alla trascrizione (che non deve, quindi, essere annullata, ma confermata). Per alcuni rilievi sulla conclusione del caso, R. Russo, Il caso Mennesson, vent’anni dopo. Divieto di maternità surrogata e interesse del minore, in questa Rivista, 2019; nel senso che il giudice nazionale si è discostato dal parere della Corte EDU, offrendo una tutela superiore, R. Conti, Chi ha paura cit., p. 9. Si vedano in argomento, fra gli altri, A. Gouttenoire, F. Sudre, Protocole 16. L’audace d’une première demande d’avis consultatif à la Cour EDH, in La Semaine Juridique Edition Générale, 12 novembre 2018; I. Anrò, Il primo parere reso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU: il nuovo strumento alla prova del dialogo sul delicato tema della maternità surrogata, in SIDIBlog, 2019; O. Feraci, Il primo parere consultivo della CEDU su richiesta di un giudice nazionale e l’ordinamento giuridico italiano, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019J. Houssier, L’affaire Mennesson ou la victoire du fait sur le droit, in Actualité juridique. Famille, 22019, p. 592 ss.; L. Poli, Il primo (timido) parere consultivo della Corte europea dei diritti umani: ancora tante questioni aperte sulla gestazione per altri, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, p. 418 ss.; P. Pustorino, Maternità surrogata e prima applicazione del Protocollo n. 16 alla CEDU, in Liber Amicorum Angelo Davì, Napoli, 2019, vol.II, p.1985 ss.; M. Sarzo, La nuova procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 alla luce del parere della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità, in Rivista di diritto internazionale, 2019, p. 1158 ss. La Corte EDU, 19.11.2019, C e E c. Francia (spec. punti 22,39), decidendo su una questione già oggetto del proprio parere, considera il predetto parere in modo non diverso da una sentenza pronunciata a seguito di ricorso. Sembra utile ricordare che la sentenza della Corte cost.,4.11.2020,n.230 ha fatto riferimento al parere, punto 6 del “Considerato in diritto”, senza porsi il problema della non ratifica del Protocollo da parte italiana, e quindi della non vincolatività dello stesso. Un secondo parere è stato reso su richiesta della Corte costituzionale armena, il 29.5.2020 (su una norma del codice penale relativa al rovesciamento dell’ordine costituzionale, in riferimento all’art. 7 CEDU), su cui si vedano i rilievi di S. Giordano, La ragionevole prudenza della Corte Edu: tra prevedibilità e accessibilità del precetto. Considerazioni a caldo sul parere della Corte (CEDH 150) del 29.5.2020, in questa Rivista,2020. Un terzo e un quarto parere sono stati chiesti rispettivamente dalla Corte amministrativa suprema della Lituania il 5.11.2020 (sulle norme in materia di impeachment, in riferimento al Protocollo n. 1, art. 3); dalla Corte suprema della Slovacchia il 19.11.2020 (sulle norme relative alle denunce contro le autorità di polizia, in riferimento agli artt. 2, 3, 6, par. 1 CEDU).
[18] Cfr. Corte di giustizia, 15.2.2016, C-601/15 PPU, N., EU:C:2016:84, punto 47; 23.3.2018, C-524/15, Menci, EU:C:2018:197, punti 20-22; in precedenza il parere 2/13, punti 179-180, le sentenze 24.4.2012,C-571/10, EU:C:2013:233, punto 60; 26.2.2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, EU:C:2013:105, punti 44,45 (ivi riferimenti), nonché 26.2.2013, C-399/11, Melloni, EU:C:2013:107, punti 50,59-60.
[19] Si vedano le “Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali”, con particolare riguardo all’art. 52 (le “Spiegazioni”, come si afferma nella premessa all’illustrazione delle singole norme, “Benchè non abbiano di per sé status di legge […] rappresentano un prezioso strumento d’interpretazione destinato a chiarire le diposizioni della Carta”). Nella “Spiegazione all’art. 52” si precisa che “Il riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli” e che “Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea”; un riferimento alla giurisprudenza, di entrambe le Corti, è anche nel preambolo della Carta. Per alcuni rilievi sulla rilevanza della Convenzione nella giurisprudenza della Corte di giustizia e sulla “coesistenza” fra le due Corti, cfr. I. Anrò, L’adesione dell’Unione europea alla CEDU, Milano, 2015, p. 68 ss. (rifer. ivi). Sui rapporti fra le due Corti, fra gli altri, K. Lenaerts, La CEDH et la CJUE: créér des sinergies en matière de protection des droits fondamentaux, intervention pour l’Ouverture de l’Année judiciaire à la CEDH, 2018, in www.echr.coe.int/Documents/Speech_20180126_Lenaerts_JY_FRA.pdf.; G. Raimondi, Cour de justice de l’Union européenne & Cour européenne des droits de l’homme: « condamnées à s’entendre et à coopérer »?, in Liber Amicorum Antonio Tizzano cit., p. 797 ss. Per alcuni rilievi sull’art. 52 (anche con riferimento all’art. 47 della Carta e alla c.d. “presunzione Bosphorus”, di cui poco oltre, F. Picod, Les limites au droit à une protection juridictionnelle effective devant les juridiction nationales, in Liber Amicorum Antonio Tizzano cit., pp. 730, 802 ss. Sulla considerazione, da parte della Corte di giustizia, della CEDU e dei suoi Protocolli, con specifico riferimento al Protocollo n. 7, cfr. la sentenza Menci cit., punti 60-62; cfr. pure la sentenza Åkerberg Fransson cit., punto 44.
[20] Cfr. sulla presunzione di protezione equivalente (o “presunzione Bosphorus”) la sentenza della Corte EDU, 30.6.2005, GC, Bosphorus c. Irlanda, spec. parr. 156-157; e con riferimento alle condizioni cui la presunzione è sottoposta, 6.12.2012, Michaud c. Francia, parr. 112-115; 23.5.2016, GC, Avotiņš c. Lettonia, parr. 105-125. Secondo tale principio si presume che le istituzioni dell’Unione assicurano un livello di protezione equivalente a quello proprio della CEDU; in casi eccezionali, quando sia accertata una carenza nazionale, anche per quanto riguarda il controllo giurisdizionale della tutela dei diritti fondamentali, la Corte può giudicare il comportamento degli Stati in sede di attuazione delle norme di diritto UE. Cfr. i rilievi in V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, 2°ed., Bologna, 2019, p. 91 ss.
[21] Sul vincolo per il giudice a quo cfr., fra le altre, Corte, 16.6.2015, C-62/14, Gauweiler, EU:C:2015:400, punto 16 (ivi riferimenti); sugli effetti obbligatori al di fuori del contesto processuale nazionale che ha provocato la sentenza (giudici nazionali diversi, giudici di altri Paesi membri, amministrazioni nazionali, soggetti privati), dovendo essere applicate le norme di diritto UE così come interpretate dalla Corte, cfr. fra le altre Corte cost., 13.7.2007, n. 284, punto 3 del “Considerato in diritto”. Per una disamina di diritto comparato circa l’obbligo , per il giudice nazionale, di rinvio pregiudiziale si vedano i vari contributi dans L. Coutron (sous la direction de), L’obligation de renvoi préjudiciel à la Cour de justice: une obligation sanctionnée?, Bruxelles, 2014. Sull’obbligo del rinvio e le conseguenze del mancato rinvio, F. Ferraro, Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio, G. Grasso, Il rinvio pregiudiziale nel diritto interno; F. Spitaleri, Facoltà e obbligo di rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), in Il rinvio cit., pp. 139, 307, 113 ss.; ivi, p. 199 ss., sugli effetti della sentenza della Corte, A.Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale. Si veda anche la nota 28.
[22] Sulla possibilità di esperire un nuovo rinvio alla Corte di giustizia (non, però, con riguardo alla validità della sentenza), Corte, 5.3.1986, ord., 69/85, Wünsche, EU:C:1986:104, punti 11-14; 11.6.1987, 14/86, Pretore di Salò, EU:C:1987:275, punto 12. In precedenza, fra le altre, 27.3.1963, cause riunite 28, 29 e 30/62, Da Costa, EU:C:1963:6 (parte “In diritto”, si distinguono le funzioni del giudice nazionale e la sua ampia facoltà di rinvio da quelle della Corte). Quanto alla duplicità delle fonti, alla diversa natura e rilevanza delle norme di diritto UE rispetto a quelle CEDU, nonché degli ordinamenti cui appartengono (UE, Consiglio d’Europa) si vedano le note sentenze “gemelle” della Corte cost., 24.10.2007, n. 348 e 24.10.2007, n. 349; più recentemente, anche sull’esclusione di una “comunitarizzazione” (o “lisbonizzazione”) della CEDU da parte del Trattato di Lisbona, Corte cost., 11.3.2014, n. 80. Sulla diversità delle fonti per la protezione dei diritti dell’uomo, pur dovendosi realizzare una “integrazione fra le tutele” offerte e una valutazione complessiva del “sistema”, evitando comunque “un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative che potrebbe finire “per contraddire le stesse loro finalità di tutela”, cfr. Corte cost. 15.1.2013, n. 1 (punto 8.1. del “Considerato in diritto”); 28.11.2012, n. 264 (punti 4-5 del “Considerato in diritto”). Per alcuni rilievi in proposito e per altri riferimenti sui rapporti fra “pregiudizialità comunitaria” e “pregiudizialità nazionale”, anche con riferimento alla CEDU, cfr. i contributi di R. Mastroianni, P. Mori, B. Nascimbene, in occasione dell’intervista di R.G. Conti, pubblicata con il titolo “La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?”, in R.G. Conti (a cura di), Il mestiere del giudice, Milano, 2020, p. 39 ss.; sulla doppia pregiudizialità, più recentemente, G. Tesauro, P. De Pasquale, La doppia pregiudizialità, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio cit., p. 289 ss.
[23] Sul profilo della durata, valutato nella discussione relativa all’opportunità, o non, della ratifica, si vedano gli autori citt. nelle note 1, 8 e gli interventi citt. nella nota 14.
[24] Cfr. la sentenza Menci cit., punto 62. Per alcune riflessioni sull’orientamento della giurisprudenza cfr. A. Tizzano, Il ne bis in idem nel dialogo tra le Corti europee, in L.-A. Sicilianos, I.A. Motoc, R. Spano, R. Chenal (eds.), Regards croisés cit., p. 935 ss.
[25] Cfr. la sentenza 24.10.2018, C-234/17, XC, YB, ZA, EU:C:2019:283, spec. punti 37-48, ove è richiamata, oltre alla sentenza 5.2.1963, Van Gend en Loos, 26/62, EU:C:1963:1, pag. 23, il parere 2/13, EU:C:2018:2454, punti 175-177. Sul ruolo dei giudici nazionali cfr. i punti 42-44, ove sono richiamate, fra le altre, le sentenze 5.7.2016, Ognyanov, C-614/14, EU:C:2016:514, punto 17; 9.9.2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C-160/14, EU:C:2015:565, punto 37; 9.3.1978, Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49, punti 21-24. Precisa la Corte, sentenza XC, YB, ZA, loc. cit., che i giudici nazionali sono “liberi di esercitare tale facoltà in qualsiasi momento da essi ritenuto opportuno”, dovendo garantire, “nell’ambito delle loro competenze […] la piena efficacia” delle norme di diritto dell’Unione “disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione nazionale, senza chiedere né attendere la previa soppressione di tale disposizione nazionale per via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.
[26] Conclusioni dell’avvocato generale H. Sangmandsgaard Øe, causa XC, YB, ZA, EU:C:2018:391, punti 81-83.
[27] Sentenza della Corte EDU, 6.6.2019, Nodet c. Francia, parr. 31-32
[28] Sentenza della Corte EDU, 13.2.2020, Sanofi Pasteur c. Francia, parr. 68-80. Sull’obbligo di rinvio, salvo alcune eccezioni, e sulla violazione dell’art. 6, par. 1 si vedano le sentenze della Corte EDU 20.9.2011, Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio, parr. 54-63; 10.4.2012, Vergauwen e altri c. Belgio, dec., parr. 89-90; 8.4.2014, Dhabi c. Italia, parr. 31-34; 21.7.2015, Schipani e altri c. Italia, parr. 69-72; 8.9.2015, Wind Telecomunicazioni spa c. Italia, dec., parr. 34-37 (si afferma, in particolare, che pur mancando un qualunque riferimento, nella sentenza della Corte di Cassazione, alla domanda di rinvio pregiudiziale, era tuttavia deducibile, per via implicita, la motivazione del rigetto, perché la questione posta non era pertinente); cfr. pure la sentenza Avotiņš cit., par. 110; 16.4.2019, Baltic Master LTD c. Lituania, parr. 41-43. Per alcuni rilievi cfr. S. Fortunato, L’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, par. 3: una disciplina in continua evoluzione, in Liber Amicorum Antonio Tizzano cit., p. 356 s. Sui “criteri Cilfit”, che giustificano il mancato rinvio pregiudiziale, cfr. la sentenza 6.10.1982, C-283/81, Cilfit, EU:C:1982:335, spec. par. 2.1.; si veda anche la nota 21. Si ricordi, peraltro, che la l. 13.4.1988, n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati prevede, all’art. 2, comma 3-bis, un’ipotesi di responsabilità del magistrato per violazione manifesta del diritto dell’Unione europea quando non sia stato osservato l’obbligo ex art. 267, 3°comma TFUE, e quando l’atto o provvedimento sia in contrasto con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia.
[29] Si veda la sentenza XC, YB, ZA, punti 40-46.
[30] Cfr. il parere 2/13, punti 198-200.
[31] Cfr. il parere 2/13, punto 198.
[32] Presa di posizione dell’avvocato generale Kokott nel procedimento 2/13, punti 140-141.
[33] Si vedano sulla necessità che in materia di diritti fondamentali non possa essere pregiudicato il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, nonché sulla necessità di coerenza fra Carta e CEDU, le sentenze ricordate alla nota 10 e, in precedenza, quanto si è detto nel par. 3 con riferimento all’art. 52, par. 3 e, quindi, alle “Spiegazioni”.
[34] Sentenza 4.10.2018, C-416/17, Commissione c. Francia, EU:C:2018:811, punti 105-114, ricordando, sull’obbligo di rinvio, la sentenza 15.3.2017, C-3/16, Aquino, EU:C:2017:309, punto 42. Per rilievi sulla sentenza Commissione c. Francia, J.D. Lefeuvre, L’arrêt de la CJUE du 4 octobre 2018, Commission c. France, vertus et limites du dialogue des juges au Palais Royal, in www.gdr.elsj.eu/2018/10/17/informations-generales/.
[35] Sentenze Aquino, punto 33; Commissione c. Francia, punto 109.
[36] Sull’ordinanza della Corte di cassazione, S.U. 18.9.2020, n. 19598,fra i molti commenti, cfr. i più recenti di R. Baratta, Le pregiudiziali Randstad sull’incensurabilità per cassazione della violazione di norme europee imputabile al giudice amministrativo, in eurojus, 2021; M. Santise, L’eccesso di potere giurisdizionale delle sezioni unite, in Questione giustizia, 2021, F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020, e con riferimento a successiva pronuncia delle Sezioni Unite, P. Biavati, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107), in questa Rivista, 2021. Per alcuni rilievi si permette rinviare anche a B. Nascimbene, P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 2020.
[37] Si veda in proposito il par. 3.
[38] Si vedano, in proposito, i rilievi nel par. 2 e i riferimenti nella nota 14.
[39] Per rilievi in tal senso cfr. i riferimenti nella nota 14.
[40] Afferma il preambolo, terza frase, che “l’estensione della competenza della Corte a emettere pareri consultivi permetterà alla Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà”.
[41] Cfr. le sentenze n. 348/2017 e n. 349/2017 citt. nella nota 22 e per alcuni riferimenti, anche con riguardo all’adeguamento al diritto UE e alla differenza, pur nel medesimo contesto di vincoli posti da norme internazionali, i contributi di R. Mastroianni, P. Mori, B. Nascimbene, in R.G. Conti (a cura di), Il mestiere cit.
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