"Fratelli tutti" e la sfida della fraternità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Processo all’enciclica «Fratelli tutti» - 2. Una enciclica “diversa” - 3. La rilevanza pubblica della - fraternità - 4. La guerra, le migrazioni e la proprietà - 5. Il problema della pena - 6. Una sfida al sistema in nome dell’umano.
1. Processo
all’enciclica «Fratelli tutti»
Che gli esseri umani, secondo il Vangelo, siano tutti fratelli, non è certo una novità. Questo spiega perché l’enciclica di papa Francesco «Fratelli tutti» sia apparsa a qualcuno una semplice riaffermazione di verità già note.
A mettere in discussione questa lettura è la reazione di una parte tutt’altro che irrilevante del mondo cattolico, per lo più legata alla destra politica, che in questo documento ha visto un’ulteriore prova dell’allontanamento dell’attuale pontefice dall’ortodossia.
La più lucida argomentazione di questa tesi è nell’articolo di Marcello Veneziani, su «La Verità» del 6 ottobre, intitolato «L’ideologia della fratellanza in Bergoglio». Secondo l’autore, infatti, «“Fratelli tutti” è il manifesto ideologico del bergoglismo. Non c’è più teologia ma ideologia, seppur impregnata di moralismo».
Ed ecco perché: «La fratellanza a cui allude Papa Francesco è il terzo principio della Rivoluzione Francese, dopo liberté ed égalité». Quella proposta dal Vangelo «è una fratellanza nel Padre. Bergoglio invece, compie un percorso inverso, partito da Cristo arriva alla religione dell’umanità. Bergoglio rimuove la figura del Padre, converte interamente alla storia e all’umanità la figura del Figlio e vota la Chiesa alla fratellanza universale (…). L’esperienza della vita ma anche della storia dimostra che ogni fratellanza priva di un Padre degenera in fratricidio o scema nella retorica: è stato il destino del giacobinismo come del comunismo (…). È il Padre a garantire l’unità dei fratelli prima che il reciproco riconoscimento».
Da qui la valutazione del significato dell’enciclica «L’ideologia di Bergoglio cerca un posto alla Chiesa postcristiana nella modernità laica in nome della fratellanza (…). E lui la riprende, inserendo la Chiesa dentro il mondo moderno, ateo e laicista, disceso dalla Rivoluzione francese».
2. Una enciclica “diversa”
Come si può vedere, non sono critiche banali. E in effetti, è indiscutibile che «Fratelli tutti», portando all’estremo una tendenza già presente nella «Laudato sì», segni un cambiamento importante nel concetto stesso di “enciclica”. Basta dire che, mentre tradizionalmente con questo termine si indicava una lettera del papa ai vescovi della Chiesa cattolica e, attraverso di loro, ai soli fedeli, questa di papa Francesco è rivolta a tutti gli uomini e le donne, credenti e non credenti, nella consapevolezza che, non potendo contare ormai sulla premessa della fede, il senso del messaggio è quello di un contributo alla riflessione comune. Lo spiega lo stesso Francesco, fin all’inizio dell’enciclica: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n.6).
Da qui un cambiamento profondo nella struttura stessa del documento. Mentre le encicliche normalmente partivano dalla esposizione dei dati della fede già nella «Laudato si’» il primo capitolo è dedicato ai problemi della terra. Solo nel secondo capitolo entrava in gioco il discorso relativo alla Rivelazione. La motivazione fornita dal papa in quel documento deve essere tenuta presente anche per «Fratelli tutti»: «Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (LS, n.17).
Nell’ultima enciclica addirittura il riferimento esplicito alla prospettiva religiosa e a quella più specificamente evangelica compare solo nell’ottavo capitolo, l’ultimo. E, alla luce di quanto si è detto, dovrebbe essere chiaro perché: Francesco ha voluto parlare a tutti, anche a quell’immenso numero di persone che non si riconoscono nella sua Chiesa. Perciò – «pur partendo dalle sue convinzioni cristiane» - ha scelto di usare il linguaggio dell’esperienza e della ragione, prendendo atto dei problemi drammatici che sono sotto gli occhi di credenti e non credenti e interpellando le coscienze non sui misteri divini, ma sulla dignità dell’umano.
In questo senso, paradossalmente Veneziani esprime abbastanza bene, anche se in forma negativa, l’intenzione fondamentale del papa: fare uscire la Chiesa e il suo annuncio del Vangelo dal ghetto in cui la cultura del mondo moderno li hanno da tempo relegati e puntare sui valori che questa stessa cultura ha accolto e celebrato, per evidenziare le loro radici cristiane e denunciare l’incoerenza della società attuale rispetto ad essi.
Certo, questo è in contrasto con il ricorrente appello ai pastori, da parte di esponenti della destra, di occuparsi esclusivamente della “salvezza delle anime”, restandosene ben chiusi fra le mura dei loro templi e non interferendo con le questioni sociali e politiche. Ma corrisponde alla missione evangelizzatrice della Chiesa, che non può ridursi alla dimensione devozionale e rituale.
3. La rilevanza pubblica della fraternità
Così, in questa enciclica, papa Francesco denuncia l’assenza della fraternità in una civiltà in cui, della triade di valori proclamati con la Rivoluzione francese, sono state valorizzate solo la libertà e l’uguaglianza, le quali, senza la dimensione fraterna, spesso sono degenerate (cfr. n.103).
La fraternità mette in primo piano, nella vita pubblica, l’amore. Che non è un vago sentimento, e neppure solo una virtù teologale – la carità - riservata ai credenti, bensì una «forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici» (n.183, cit. da Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207).
Non si può ridurre l’amore alla sfera dell’emotività, privatizzandolo. Ma neppure celebrarlo nei termini di una carità cristiana concepita solo come solidarietà con chi soffre, dimenticando «quegli atti della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali (…) per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza» (n.186).
Nei termini laici che Francesco ha scelto di usare, per farsi capire da tutti ed evidenziare la portata pienamente umana del suo discorso, l’amore fraterno deve esprimersi piuttosto nella politica.
Ma ciò può accadere solo se quest’ultima si emancipa dal dominio dell’economia e della finanza. Per questo, però, è importante il riferimento alla verità. Nella diversità di punti di vista che caratterizza la nostra società pluralista, «il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento» (n.206).
Proprio la ricerca della verità, in un regime democratico, richiede uno stile dialogico nell’affrontare i problemi: «La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio» (n.203). Sempre nella consapevolezza che «nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri» (n.221).
4. La guerra, le migrazioni e la proprietà
A livello internazionale, la fraternità esclude che la soluzione dei problemi sia la guerra. Nell’enciclica si fa presente che lo sviluppo terrificante dei mezzi di distruzione ne ha reso i costi umani inaccettabili, quali che siano le sue motivazioni: «Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (n.258).
E si fa una proposta: le risorse che finora sono state impiegate per combattere i fratelli vengano piuttosto impiegate per aiutarli: «E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (n.262).
Il tema delle migrazioni, come è noto, sta molto a cuore a Francesco. Su di esso la sua posizione è chiara: «L’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona» (n.129).
Non si può respingere chi chiede di essere accolto, come se si avesse un diritto esclusivo sul territorio che si abita. Citando Giovanni Paolo II (Centesimus annus, 31), Francesco sottolinea che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno» (n.120).
Questo si collega al fatto che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (ivi). La proprietà, come i padri, i dottori e i papi della Chiesa hanno sempre insegnato, ha senso solo in funzione di una migliore destinazione dei beni della terra alla piena realizzazione di tutti. E questo vale anche per i profughi e per tutti coloro che cercano una vita migliore là dove è possibile trovarla (cfr. n.124)
5. Il problema della pena
L’amore fraterno, sempre aperto alla misericordia e al perdono, deve ispirare anche il diritto penale. Ma esso non deve essere scambiato per superficiale buonismo e non esclude la pena: «Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale (…). Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere» (n.241).
Più in generale, «il perdono non implica il dimenticare» (n.250). La giustizia non è il contrario dell’amore, anzi ne garantisce la serietà. Però non bisogna confonderla con la vendetta: «La giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira» (n.252).
Perciò, la fraternità, facendoci riconoscere «l’inalienabile dignità di ogni essere umano» (n.269), esclude che si possa punire qualcuno con la pena di morte: «Oggi affermiamo con chiarezza che “la pena di morte è inammissibile” e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» (n.263).
Ma una giustizia che nasce dal rispetto per la persona del colpevole non può neppure accettare le modalità disumane che a volte caratterizzano anche le pene detentive: «Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà» (n.268).
Da qui discende anche, nell’enciclica, il netto rifiuto della pena dell’ergastolo: «L’ergastolo è una pena di morte nascosta» (ivi).
Siamo davanti a riflessioni che trovano una consonanza con l’evoluzione del diritto attuale, quali la mediazione, la giustizia riparativa, la messa alla prova, in cui è chiara l’esigenza di far entrare la dimensione della fraternità nella sfera giuridica.
6. Una sfida al sistema in nome dell’umano
Così, proponendo al mondo d’oggi la fraternità in termini umani, papa Francesco traduce il Vangelo nel linguaggio degli uomini e delle donne del nostro tempo e lo mette nuovamente in rapporto con la storia, facendolo uscire dal recinto sacro in cui spesso è di fatto confinato (e in cui molti desiderano che resti).
Il pontefice non «rimuove la figura del Padre», come lo si è accusato di fare. Egli è consapevole che il fondamento ultimo del suo discorso va cercato nella trascendenza e lo dice chiaramente, nell’ultimo capitolo: «Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità» (n.272). Ma questo non vanifica gli argomenti - validi anche per chi non condivide la motivazione religiosa - che egli, nei sette capitoli precedenti, ha sviluppato, sulla base dell’esperienza e dell’intelligenza umane - in cui pure, anche se oscuramente, Dio si manifesta.
Quel che è certo è che, in questa “traduzione” laica – che non è per ciò stesso «ideologia»! - , la verità del Vangelo si pone come una sfida al sistema globale della civiltà che abbiamo costruito e che l’enciclica contesta: non solo perché questo sistema è contrario alla legge divina, ma innanzi tutto perché viola la dignità umana.