ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ricordo di Cesare Massimo Bianca
di Paolo Spaziani
È morto Cesare Massimo Bianca, Giurista illuminato, Maestro preclaro.
Apparteneva alla generazione dei civilisti italiani successiva a quella che aveva guidato la nuova codificazione: la generazione che aveva avuto il compito di far uscire il diritto privato dall’angusta concezione tradizionale paneconomica e di rivisitarne le categorie dogmatiche alla luce dei principi costituzionali, in funzione della preminenza dei valori della persona umana.
Nel nome di questi valori aveva ricostruito, nel suo sontuoso Trattato su cui si sono formate generazioni di giuristi, l’intero sistema dell’ordinamento civile.
La profonda capacità di elaborazione sistematica, la grandezza del genio, lo spessore della dottrina lo avevano portato ad anticipare, sin dagli scritti giovanili, soluzioni alle quali la giurisprudenza sarebbe approdata solo molti decenni più tardi, spesso all’esito di travagliati dibattiti e di annosi contrasti.
Sin dagli anni 70, aveva affermato la necessità di riformare il diritto delle persone, a cominciare da quegli istituti, come l’interdizione e l’inabilitazione, che ne limitano ingiustificatamente l’autonomia, incidendo sulla libertà di autodeterminazione.
Già prima della riforma del 1975 aveva sostenuto che la legge avrebbe dovuto eliminare le anacronistiche classificazioni dei "figli" in diverse categorie, che trovava ingiuriose rispetto alla stessa nozione di filiazione, quale rapporto tra genitori e figli basato anzitutto sull’affetto reciproco. Questo risultato sarebbe stato raggiunto solo nel 2013, grazie ad una “nuova” riforma, che Egli avrebbe scritto di suo pugno, all’esito di profonde e sofferte meditazioni.
Nel primo commento alla legge sull’adozione legittimante, che fondava il diritto del minore ad una famiglia sostitutiva al verificarsi della situazione di abbandono, aveva stigmatizzato che tale diritto presupponeva, peraltro, in primo luogo, quello, apparentemente contrario, a continuare a vivere nella propria famiglia, tutte le volte in cui la situazione di abbandono non fosse imputabile a colpevole incuria morale dei genitori, ma fosse dovuta alla difficoltà di assicurare al figlio, in una con l’apporto affettivo necessario alla sua piena maturazione, l’assistenza materiale di cui avrebbe avuto bisogno.
Il primo diritto del bambino - soleva ripetere - è il diritto all’amore dei suoi genitori, ma anche i genitori hanno il diritto di amare i loro figli e devono essere messi in condizione di esercitare questo diritto. Alla facile obiezione che faceva leva sulla non configurabilità dogmatica di un simile diritto in ragione della non coercibilità del comportamento preteso dal presunto titolare e dovuto dal presunto obbligato, soleva rispondere, con altrettanto agevole capacità argomentativa, che l’essenza del diritto soggettivo non è nella coercibilità del comportamento che ne forma oggetto ma nella valutazione sociale del comportamento contrario come violazione dell’ordinamento, e dunque come fatto illecito, che espone l’autore a forme socialmente satisfattive di responsabilità.
Un rilievo che per il Maestro era naturale; e che invece la giurisprudenza ha condiviso dopo anni di faticose e controverse decisioni: quante azioni di condanna ad un facere infungibile sono state dichiarate inammissibili perché l’eventuale pronuncia di accoglimento non sarebbe stata suscettibile di esecuzione coattiva secondo gli schemi ordinari di cui agli artt.2930 e ss. del codice civile? Quanti diritti fondamentali sono stati sacrificati sull’altare della necessaria corrispondenza tra condanna ed esecuzione forzata? Eppure oggi non vi è più dubbio che proprio la tutela dei diritti fondamentali della persona riposa su accertamenti giudiziari non eseguibili in forma specifica, l’ottemperanza ai quali è sostanzialmente rimessa, senza che ciò ne intacchi minimamente l’ammissibilità giuridica, alla spontanea esecuzione dell’obbligato, e garantita, oltre che da misure di coercizione indiretta (come quelle previste dall'art.614 bis del codice di procedura civile, introdotto soltanto nel 2009), esclusivamente dall’esposizione alla riprovazione sociale del comportamento inadempiente.
L’acme della sua riflessione giuridica Cesare Massimo Bianca ha tuttavia raggiunto, verosimilmente, nell’ambito di quelle materie che costituiscono le vette più alte del pensiero civilistico, su cui in molti hanno osato imprudentemente avventurarsi, ma che ben pochi Maestri hanno saputo raggiungere e sulle quali ancora di meno sono coloro che hanno lasciato i segni del loro passaggio.
La teorica dei contratti, delle obbligazioni, della responsabilità, è stata influenzata da Cesare Massimo Bianca come da nessun altro giurista contemporaneo e basta scorrere le massime giurisprudenziali per rendersene conto.
Dalla codificazione del 1942 avevamo ereditato la contrapposizione tra la teoria della volontà e quella della dichiarazione, la dicotomia tra causa e tipo negoziale, la distinzione tra causa e motivi: distinzioni, tutte, che, se non possono dirsi completamente superate, hanno peraltro assunto una rilevanza meramente descrittiva e classificatoria, alla luce dell’accoglimento, da parte della giurisprudenza, del concetto di “causa concreta”, e cioè di quella nozione della causa del contratto che, utilizzata con felice terminologia da Cesare Massimo Bianca nel terzo volume del suo Trattato, campeggia oggi rigogliosamente in 3.318 massime redatte dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.
Il tradizionale formalismo classificatorio delle obbligazioni, che identificava i vincoli debitorii a seconda della tipologia della prestazione (dare, fare, non fare) e che qualificava l’inadempimento sulla base della esecuzione o non esecuzione di tale prestazione, si è oggi trasformato, nelle pronunce giurisprudenziali, nella sostanziale realizzazione dell’ “interesse creditorio”, che rappresenta la duplicazione del concetto di causa concreta applicato all’obbligazione, prescindendo dalla fonte da cui essa deriva.
L’obbligazione è dunque il programma che consente di realizzare l’interesse creditorio ed è, di norma, un programma composito, in cui non è possibile distinguere il dare dal fare e dal non fare. Parimenti, l’adempimento non consiste nel dare, nel fare o nel non fare alcunché ma nell’impiego delle energie e dei mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse creditorio; e, infine, l’inadempimento (comprensivo dell’inesatto adempimento e qualificato come imputabile per distinguerlo da quello derivante dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione) non consiste nella mancata esecuzione della prestazione di dare, di fare o di non fare, ma nella condotta colpevolmente inadeguata al soddisfacimento di quell’interesse, la quale si identifica non solo con l’inesattezza esecutiva propriamente detta, ma anche con la violazione dei criteri legali di determinazione della prestazione, quali la diligenza (sotto i diversi profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità) e la buona fede in senso oggettivo, nelle due specificazioni della lealtà e della salvaguardia.
Sono nozioni oggi acquisite dalla giurisprudenza. Ma sono acquisizioni cui non si sarebbe arrivati senza la guida del Maestro, che ebbe l’intuizione di inserire le clausole generali nella dogmatica dell’obbligazione, raggiungendo il duplice risultato della costruzione di un sistema mirabile e dell’adeguamento dell’ordinamento privatistico ai principi costituzionali.
Il dialogo del Professore con la giurisprudenza era più che fecondo. La giurisprudenza non era, per Cesare Massimo Bianca, un insieme di pronunce rispetto alle quali assumere un atteggiamento scientifico adesivo o critico a seconda che fossero o meno condivisibili. Essa - quando si raccoglieva in orientamenti consolidati espressi dalle massime della Suprema Corte - era piuttosto la voce del diritto effettivo, perché indicava il significato, la misura e i limiti con cui la coscienza sociale accetta la norma giuridica.
La giurisprudenza consolidata è, pertanto, l’indice del diritto socialmente accettato ed applicato.
E il diritto socialmente accettato ed applicato è l’unico diritto possibile, in quanto dall’accettazione sociale della norma deriva lo stesso attributo della giuridicità: la norma, infatti, è giuridica se viene accettata ed applicata come tale dal corpo sociale. Esulano, dunque, dalla nozione stessa di diritto, perché prive di effettività, le norme che il corpo sociale non accetta e non applica come tali, sebbene formalmente valide.
In quanto indice dell’accettazione sociale delle norme, le massime giurisprudenziali possono bensì essere criticate ma vanno in primo luogo recepite come un dato della società, come il diritto effettivo che in essa vive e trova concreta applicazione.
È il diritto effettivo, ad esempio, il fondamento della regola secondo la quale il debitore risponde dell’inadempimento dell’obbligazione finché non si verifichi un impedimento imprevedibile e insuperabile con l’ordinaria diligenza: la dimostrazione di un simile impedimento, precisamente, coincide con quella dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile di cui all'art.1218 del codice civile, sicché la prova liberatoria che il debitore è tenuto a fornire si identifica con la prova dell’assenza di colpa.
La regola della responsabilità per colpa, desumibile dalle massime consolidate della giurisprudenza, concreta dunque la regola di diritto vivente con cui la coscienza sociale formula il giudizio di responsabilità contrattuale, certificando il superamento delle formulazioni tradizionali fondate sulla responsabilità oggettiva, le quali, anche quando temperate dal riferimento al tipo di obbligazione o al limite della buona fede, appaiono inconciliabili con la valutazione sociale dell’obbligazione come vincolo improntato a criteri di normalità e ragionevolezza.
Sono chiamato ad insegnare il diritto - diceva il Professore - ma che cos’è il diritto? È quello cristallizzato nella proposizione normativa scritta oppure è quello socialmente accettato ed applicato?
E che cos’è la norma giuridica? È la mobile regola concreta dei rapporti sociali che si evolve continuamente nel tempo, grazie all’assidua opera dell’interprete, in una con l’evoluzione della coscienza della società? Oppure è l’immobile enunciato scritto contenuto nella fonte di produzione, il quale, secondo il rigoroso insegnamento normativistico, non ostante il processo di integrazione svolto dall’operazione interpretativa, conserva sempre la medesima identità, lo stesso significato originario, così richiamando alla mente il capretto di pirandelliana memoria che rimane il medesimo oggetto di proprietà dell’ingenua turista pur essendosi trasformato nel “mostruoso caprone” in cui la proprietaria non ravvisa più la gentile creatura a suo tempo comprata?
Una volta – ormai molti anni fa – dopo aver superato il concorso in magistratura manifestai al Professore le perplessità che avevo nel prendere servizio. Avrei voluto fare il professore, non il magistrato. Avrei voluto insegnare il diritto anch’io.
Paolo – mi disse – come fa ad avere queste perplessità dinanzi alla possibilità di interpretare ed applicare il diritto? Dinanzi alla prospettiva di rendere giustizia?
Il diritto non sarà mai un mero enunciato scritto. Il diritto è la regola concreta dei rapporti sociali. È l’insieme delle regole socialmente accettate ed applicate. Le regole che il sentimento della società individua come tali e sceglie di rispettare. Questo diritto trova fondamento nel principio di effettività ma tale principio, a sua volta, non opera sulla base di un meccanismo casuale, ma in ragione di un processo collettivo in base al quale il corpo sociale riconosce i valori positivi e i valori negativi, rispettivamente da tutelare o da reprimere, attraverso il diritto.
Nelle moderne società civili i valori positivi si identificano con la preminenza dei valori della persona, l’unica via della giustizia.
Questo Suo insegnamento, Professore, io, ultimo tra i Suoi allievi, porterò sempre nella mente e nel cuore, unitamente al ricordo del consiglio amorevole e dell’affetto paterno, con devota gratitudine.
“Stop 5G!”: ordinanze sindacali e giudice amministrativo.
(nota a TAR Catania 549 e 5517 2020 e TAR Campania 3324 / 2020)
Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa. 2. Tecnologia “5G” ed emissioni elettromagnetiche: soglie di sicurezza e ricerca di “rischio zero”. 3. Gestione del rischio e principio di precauzione. Cenni. 4. L’ordinanza del Tar Catania n. 549/2020. 4.1. Incompetenza del Sindaco nella valutazione tecnico-scientifica del rischio. 4.2. Carenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza ex art. 50 t.u.e.l. 4.3. Il riparto di competenze amministrative in materia di “inquinamento elettromagnetico”. 4.4. Il richiamo allo jus superveniens ed il periculum. 5. La sentenza n. 3324/2020 del Tar Campania. 6. L’ordinanza n. 551/2020 del Tar Catania. 7. Considerazioni di sintesi.
1. Premessa
Le decisioni in rassegna attengono alla legittimità di provvedimenti con i quali è stato disposto il divieto di sperimentare ed installare sul territorio di alcuni Comuni impianti per la diffusione della tecnologia di telecomunicazioni “di quinta generazione”, il c.d. “5G”[1].
Esse costituiscono, sul versante giurisprudenziale, la risposta dell’ordinamento al fervente attivismo di alcuni Sindaci contro la tecnologia “5G” e alle conseguenze pregiudizievoli che tali scelte politico-amministrative determinano sullo sviluppo di un settore strategico per il progresso economico e sociale del Paese.
Il legislatore, il Governo, le Autorità indipendenti sono impegnati, infatti, a garantire condizioni adeguate alla realizzazione di ingenti investimenti infrastrutturali necessari per superare il grave digital divide che affligge il nostro Paese.
Come emerge dal Digital Economy and Society Index – che misura i risultati in ambito digitale conseguiti dagli Stati membri dell’Ue – l’Italia è quart’ultima in Europa per le performance digitali e diciassettesima su 28 Paesi europei con riferimento alla connettività.
Se è vero che i maggiori ritardi si registrano sulle competenze digitali – indicatore rispetto al quale il Paese occupa un poco lusinghiero ultimo posto –, è innegabile che lo sforzo di modernizzazione non può prescindere dalla creazione di infrastrutture adeguate alle nuove applicazioni della rete e, quindi, da condizioni favorevoli per il pieno sviluppo del relativo mercato, anche grazie ad interventi pubblici capaci di correggerne i fallimenti. Anche l’analisi comparativa tra diverse aree geografiche del Paese lascia emergere gravi disuguaglianze specie tra aree urbanizzate ed aree interne e rurali.
Tra le nuove tecnologie di telecomunicazioni vi è il “5G”, bersaglio delle ordinanze dei “Sindaci legislatori” [2] oggetto di alcune delle pronunce in commento.
2. Tecnologia “5G” ed emissioni elettromagnetiche: soglie di sicurezza e ricerca di “rischio zero”
La sigla “5G” indica un insieme di tecnologie di comunicazione mobile a banda larga che, rispetto alle precedenti, aumenta la velocità di connessione di circa venti volte e la capacità di supportare connessioni simultanee alla rete. Per tale ragione il “5G” è considerato un fattore imprescindibile per supportare i principali settori dell’economia europea – tra gli altri relativi alla produzione di automobili, a trasporti e logistica, all’assistenza sanitaria, all’energia, all’industria manifatturiera, a media e intrattenimento[3] – e per lo stesso sviluppo di una società democratica sempre più connotata dall’uso di internet[4].
Nel nostro Paese l’assegnazione delle radio frequenze per lo sviluppo dei sistemi “5G” è avvenuta attraverso procedure di gara che nel 2018 hanno generato introiti per 6,5 miliardi di euro per lo Stato e, simmetricamente, rilevanti impegni economici per gli operatori aggiudicatari che – può senza dubbio convenirsi – vantano l’interesse a sviluppare il proprio piano industriale secondo regole predeterminate e stabili e, dunque, in un contesto di certezza giuridica[5].
La diffusione della nuova tecnologia, tuttavia, è accompagnata da voci critiche sui rischi per la salute derivanti dall’esposizione alle onde elettromagnetiche generate dagli apparati “5G”.
In particolare, le norme tecniche che, sulla scorta di studi internazionali, individuano soglie di emissione ammissibili, sono contestate da quanti, invocando – non a proposito, come si dirà nel prosieguo – il principio di precauzione, vorrebbero impedire le installazioni “5G” per azzerare ogni rischio per la salute umana.
Numerosi Comuni hanno adottato ordinanze “contingibili e urgenti” per vietare l’installazione di tali impianti[6] introducendo così, a livello locale, barriere, talvolta insormontabili, allo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazioni, in pieno contrasto con le chiare indicazioni politiche e strategiche che provengono dalla Commissione europea e dal Governo nazionale.
Si tratta di atti generali che incidono sul diritto di ciascun cittadino a una connessione ad internet veloce ed adeguata agli usi della rete; sull’interesse pubblico alla realizzazione e al mantenimento di un’infrastruttura efficiente e tecnologicamente neutrale; sulla libertà di iniziativa economica degli operatori di telecomunicazioni che si sono aggiudicati le gare per l’uso delle frequenze “5G”; sull’interesse alla certezza giuridica rilevante anche nella sua dimensione super-individuale e di sistema.
Lo strumento adoperato per aggirare le disposizioni nazionali è quello delle ordinanze contingibili e urgenti adottate in forza degli artt. 50 e/o 54 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267/2000 (t.u.e.l.) e fondate sovente sul principio di precauzione.
3. Gestione del rischio e principio di precauzione. Cenni
È noto che sin dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. C nel nostro ordinamento sono stati ammessi poteri straordinari per la gestione del rischio sanitario a fronte di eventi pregiudizievoli ed imprevedibili.
In una società connotata da un’incessante evoluzione tecnologica e, quindi, da nuovi rischi, la frontiera della gestione del rischio sanitario si è gradualmente spostata dall’ “amministrazione dell’emergenza” all’ “amministrazione precauzionale” [7].
A tale fenomeno ha contribuito anche un’interpretazione estensiva del principio di precauzione[8], sovente posto a fondamento di ordinanze con le quali i Sindaci tentano di impedire la prosecuzione di attività produttive o l’insediamento di impianti tecnologici ritenuti pregiudizievoli per l’ambiente e la salute dei cittadini. Si tratta, spesso, di atti adottati sulla spinta delle comunità locali e di allarmismi giustificati solo dalla avversione delle stesse comunità alla realizzazione di opere di interesse pubblico sul proprio territorio (c.d. sindrome nimby). Altre volte prevale, specie in comunità già provate da gravi inquinamenti ambientali, una forte diffidenza verso emissioni la cui nocività si ritiene non sia stata ancora sufficientemente indagata in ambito scientifico.
Il principio di precauzione ha trovato una prima enunciazione positiva nel diritto comunitario in materia di protezione dell’ambiente (ora art. 191, par. 2, T.F.U.E.) ma ben presto è stato ritenuto applicabile nella generalità dei procedimenti amministrativi[9] ed è stato elevato, per via giurisprudenziale, a principio generale rilevante in materia di protezione della salute e dei consumatori[10].
Allo stesso è stata dedicata la Comunicazione della Commissione europea del 2 febbraio 2000[11] che individua alcune linee guida per una sua corretta applicazione. Per quanto rileva ai nostri fini, la Commissione osserva che l’esigenza cautelativa non può valere a fondare azioni delle amministrazioni “volte alla ricerca di un livello zero di rischio”, né “fungere da giustificazione per un protezionismo mascherato”. Affinché il principio possa essere legittimamente invocato è necessario che vi sia stata una “valutazione scientifica quanto più completa possibile”[12] e, ciò nonostante, sussista un grado apprezzabile di incertezza nella comunità scientifica in ordine alle conseguenze pregiudizievoli per la salute e per l’ambiente che potrebbero derivare da una determinata situazione.
La precauzione in senso giuridico assume, per tal via, una precisa consistenza e si discosta da una mera scelta prudenziale volta ad evitare che da una determinata condotta derivi un certo evento.
Soltanto in caso di “rischio potenziale”, individuato sulla base di dati scientifici, si può applicare tale principio, comunque entro il limite dell’osservanza “dei principi generali di una buona gestione dei rischi” quali la proporzionalità, la non discriminazione, la coerenza delle misure adottate rispetto a quelle applicate in casi analoghi, l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione, la valutazione dell’evoluzione scientifica[13].
Sotto il profilo procedimentale, la “valutazione” del rischio su basi scientifiche è riservata ad esperti mentre la “gestione” del rischio spetta al decisore politico il quale, qualora dalla valutazione emerga un quadro di incertezza, potrà adottare un provvedimento ispirato al principio di precauzione[14].
Il principio di precauzione – proprio perché postula una valutazione dei rischi condotta su basi scientifiche e quanto più possibile completa – pare di per sé inidoneo a fondare o a rafforzare il potere sindacale di ordinanza ex art. 50, comma 4, t.u.e.l. Tale potere extra-ordinario è, infatti, previsto dall’ordinamento per consentire al Sindaco di adottare immediatamente i provvedimenti più idonei a scongiurare un’emergenza che incida sulla sanità ed igiene pubblica.
In presenza di situazioni di pregiudizio per la salute e l’igiene di tale gravità da poter essere considerate un’“emergenza”, l’urgenza di provvedere non consentirebbe di svolgere quell’approfondita “valutazione scientifica del rischio” che costituisce il presupposto per la “gestione del rischio” affidata all’Amministrazione.
Anche in relazione alle ordinanze adottate dal Sindaco quale ufficiale di Governo per fronteggiare “gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” (art. 54 t.u.e.l.), l’urgenza di provvedere pare inconciliabile con una gestione del rischio fondata sul principio di precauzione.
La discrasia tra tempo breve dell’intervento urgente e tempo dilatato della valutazione e successiva gestione precauzionale del rischio lascia emergere una tendenziale inidoneità del principio a fondare o a rafforzare l’esercizio del potere di ordinanza.
Al contrario il principio potrà costituire un limite del potere extra ordinem dovendosi considerare illegittime quelle ordinanze ispirate ad un approccio puramente ipotetico del rischio o nelle quali la valutazione del rischio è operata su basi non scientifiche, magari secondo un apprezzamento del tutto soggettivo del Sindaco.
Sul versante procedimentale, in assenza di dati scientifici certi sulla correlazione tra condotta che si intende vietare (o imporre) e pregiudizio che si intende prevenire, è necessario che sia svolta un’attività istruttoria “ineccepibile”[15], anche attraverso il coinvolgimento delle comunità locali[16].
D’altro canto, se l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali prevale finanche sulla discrezionalità politica pura del legislatore[17], è evidente che anche nell’esercizio della funzione amministrativa (come di quella giurisdizionale) non si possa prescindere dalle evidenze scientifiche che vengono in rilievo.
Tuttavia, come si è già ricordato, il principio di precauzione viene spesso invocato dai Sindaci per giustificare ordinanze contingibili e urgenti con le quali vietare determinate attività in deroga alle previsioni dell’ordinamento generale ed al fine di perseguire un “livello zero” di rischio per la salute e l’ambiente.
È quanto accaduto con i provvedimenti sindacali oggetto di alcune delle pronunce in esame.
4. L’ordinanza del Tar Catania n. 549/2020
Con ordinanza n. 133 del 27 aprile 2020 ex art. 50 d.lgs. n. 267/2000, il Sindaco di Messina, ha vietato sul territorio comunale “a chiunque di sperimentare, installare e diffondere (…) impianti con tecnologia 5G in attesa di dati scientifici più aggiornati”.
Nelle premesse si richiamano il principio di precauzione ed una ritenuta carenza di studi scientifici sui rischi sanitari e per l’ecosistema derivanti dall’installazione delle antenne “5G”, ritenendo che il rischio di insorgenza di possibili effetti collaterali, giustifichi l’adozione dell’ordinanza.
Avverso tale atto è insorta la ricorrente nel procedimento che ha dato origine all’ordinanza del Tar Catania n. 549 del 22 luglio 2020 che ne ha sospeso l’efficacia[18]. L’operatore di telecomunicazioni, in particolare, si era visto rigettare dal Comune, anche sulla base dell’ordinanza sindacale, l’istanza per l’adeguamento di una stazione radio base alla nuova rete “5G”.
4.1. Incompetenza del Sindaco nella valutazione tecnico-scientifica del rischio
La decisione cautelare si fonda su un primo argomento che attiene al profilo delle competenze[19], ma che lambisce anche la violazione del principio di precauzione: spetta all’ A.R.P.A., e non al Sindaco, la valutazione sui rischi da esposizione a campi generati dagli impianti in questione e, peraltro, tale valutazione era stata espressa in un parere dell’Agenzia regionale nel quale si preannunziava la necessità di procedere ad una verifica periodica dei livelli di esposizione[20].
Il Sindaco, dunque, ha ritenuto inadeguati gli studi sul rischio sanitario derivante dalla esposizione ai campi elettromagnetici generati dagli impianti “5G”[21]; ha, così, di fatto, operato una “valutazione del rischio” in termini scientifici che esula da quella “gestione del rischio” che, secondo il principio di precauzione, sarebbe di sua competenza.
Nel provvedimento impugnato si legge che “spetta al Sindaco, nella sua veste di ufficiale di Governo e massima autorità sanitaria locale in ossequio all’art. 32 della Costituzione ed al principio di precauzione sancito dal diritto comunitario e dall’art. 3-ter d.lgs. n. 152/2006, al fine di fronteggiare la minaccia di danni gravi ed irreversibili per i cittadini, di adottare le migliori tecnologie disponibili e di assumere ogni misura e cautela volte a ridurre significativamente e, ove possibile, eliminare l’inquinamento elettromagnetico e le emissioni prodotte ed i rischi per la salute della popolazione”. Emerge con evidenza la non condivisibile applicazione del principio di precauzione che affligge l’ordinanza sindacale.
4.2. Carenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza ex art. 50 t.u.e.l.
Sotto altro profilo il giudice siciliano afferma che “la materia in esame non si presta a essere regolata mediante ordinanza sindacale contingibile e urgente”, rinviando, sul punto, alla giurisprudenza della stessa sezione. Richiama, in particolare, la sentenza n. 1126 del 22 maggio 2020 relativa all’ordinanza con la quale il Sindaco di Capo d’Orlando aveva imposto ad un’emittente radiofonica, attiva da oltre un ventennio, di adottare le misure necessarie a ridurre i valori di emissioni elettromagnetiche entro le soglie di legge. In quel caso il Tar ha annullato l’ordinanza sindacale ritenendo non sussistenti i presupposti di legge in quanto il presunto superamento dei valori soglia poteva esser garantito “con gli strumenti ordinari, non integrando quel carattere di eccezionalità capace di giustificare l’emanazione dell’ordinanza contingibile”. Ricorda il giudice che “il potere di ordinanza contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, ed in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente”. Deve trattarsi, in altri termini, di situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento: “l’urgenza deve essere intesa come impossibilità di differire l’intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente, mentre la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (cfr., ex plurimis, T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 15 aprile 2020, n. 1378; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 12 novembre 2019, n. 268; T.A.R. Liguria, sez. I, 26 giugno 2019, n. 561)”[22].
Il giudice siciliano aderisce a quell’orientamento giurisprudenziale più rigoroso che, in ragione della eccezionalità del potere conferito dalla legge anche in deroga alle norme dell’ordinamento (ma pur sempre nel rispetto dei principi generali), tende a circoscriverne l’applicazione ad ipotesi di pericolo eccezionale e non a situazioni che, per quanto gravi e consolidatesi nel tempo, siano rimediabili con l’esercizio di poteri tipici[23].
Tuttavia, come è noto, in ordine al presupposto dell’urgenza di provvedere – declinato nell’art. 50 t.u.e.l. in termini di vera e propria “emergenza” – non mancano pronunce che ne hanno fornito un’interpretazione estensiva riconoscendo la legittimità di ordinanze adottate per far fronte a situazioni di pericolo note da anni e protratte nel tempo[24]. La natura extra-ordinaria del potere sindacale risulta mitigata anche da quell’orientamento giurisprudenziale in forza del quale “l’assoluta imprevedibilità della situazione da affrontare non è un presupposto indefettibile per l'adozione delle ordinanze sindacali extra ordinem”[25] e da una certa elasticità mostrata talvolta dal Consiglio di Stato nel valutare il requisito consistente nella impossibilità di fronteggiare la situazione di pericolo con gli strumenti tipici già previsti dall’ordinamento[26].
4.3. Il riparto di competenze amministrative in materia di “inquinamento elettromagnetico”
L’adesione all’orientamento giurisprudenziale più rigoroso sospinge il giudice siciliano a ricostruire la disciplina in materia di protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, e le relative competenze amministrative.
La legge n. 22 febbraio 2001, n. 36 aveva la dichiarata finalità di dettare in materia di c.d. “inquinamento elettromagnetico”, principi fondamentali diretti ad assicurare la protezione della salute, anche sulla base del principio di precauzione, la promozione della ricerca scientifica e tecnologica, la tutela dell’ambiente e del paesaggio (art. 1). È evidente che la natura stessa di tali interessi giustifica l’attribuzione di funzioni amministrative in capo allo Stato, affinché ne sia garantito un livello di tutela uniforme su tutto il territorio nazionale. La norma di cui all’art. 4, infatti, attribuisce allo Stato la “determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità” in considerazione “del preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee”.
In effetti con d.p.c.m. dell’8 luglio 2003 sono state fissate a livello nazionale delle soglie per i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità definiti dalla legge.
L’art. 8 della legge quadro aveva attribuito alle Regioni (“nel rispetto dei limiti dì esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità nonché dei criteri e delle modalità fissati dallo Stato, fatte salve le competenze dello Stato e delle autorità indipendenti”), l’esercizio di funzioni relative, tra l’altro, all’individuazione dei siti di trasmissione, le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla installazione degli impianti, l'individuazione degli strumenti e delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi di qualità, il concorso all’approfondimento delle conoscenze scientifiche relative agli effetti per la salute, in particolare quelli a lungo termine, derivanti dall’esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. La norma di cui all’art. 8, comma 6, in fine, attribuiva ai comuni il potere di adottare un “regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
I Sindaci, tuttavia, attraverso il potere di ordinanza ex artt. 50 e 54 t.u.e.l. sono intervenuti in numerose occasioni a vietare l’esercizio di impianti radiotelevisivi o di telefonia mobile sul presupposto della loro nocività.
La tensione tra spinte conservatrici dei Sindaci e ordinario riparto di competenze – o, in altri termini, tra potere di ordinanza e principio di legalità, sotto il profilo della tipicità – ha trovato la propria composizione innanzi al Giudice amministrativo, che ha contribuito a tracciare i confini di un potere da sempre considerato “valvola di sicurezza del sistema”[27].
L’incessante intervento del Giudice amministrativo in questa materia, sollecitato da imprese e cittadini lesi dalle sortite dei Sindaci, mostra come il potere di ordinanza sia stato erroneamente inteso come potere di dettare regole valevoli sul territorio comunale e derogatorie della disciplina dettata dalla legge, purché ammantate dalla dichiarata necessità di far fronte a situazioni di pregiudizio per la sanità e l’igiene pubblica ovvero per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
L’abuso di un potere concepito come extra-ordinario ha tuttavia generato una reazione difensiva dell’ordinamento.
L’art. 38 del c.d. “decreto semplificazioni”[28] ha introdotto una nuova formulazione dell’art. 8, comma 6, della l. 36/2001: il già ricordato potere dei Comuni di adottare regolamenti per assicurare il legittimo insediamento degli impianti sotto il profilo urbanistico e territoriale e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, viene circoscritto prevedendo l’esclusione “della possibilità di introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate del territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualsiasi tipologia e, in ogni caso, di incidere, anche in via indiretta o mediante provvedimenti contingibili e urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sui valori di attenzione e sugli obiettivi di qualità, riservati allo Stato ai sensi dell'articolo 4”.
4.4. Il richiamo allo jus superveniens ed il periculum
Il Tar Catania ha richiamato la nuova disciplina che, sebbene non sia applicabile in quanto sopravvenuta rispetto ai fatti di causa, costituisce comunque argomento che rafforza l’apparato motivazionale dell’ordinanza cautelare.
Il giudice etneo affronta, infine, il profilo del periculum evidenziando, con pochi, efficaci richiami, la strategicità e la rilevanza dello sviluppo delle reti di comunicazione elettronica quali caratteristiche idonee a fondare la misura cautelare. In particolare, ai sensi dell’art. 82, comma 5, del d.l. “cura Italia”[29] le imprese fornitrici di reti e servizi di comunicazioni elettroniche accessibili al pubblico “sono imprese di pubblica utilità e assicurano interventi di potenziamento e manutenzione della rete”[30]. Per altra via il Tar ricorda che l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha recentemente segnalato la necessità di eliminare gli ostacoli amministrativi che restringono la concorrenza nei mercati delle telecomunicazioni con particolare riferimento all’installazione di impianti di telecomunicazioni e di accesso ad internet mobili[31], evocando, così, con argomento suggestivo, lo sforzo sinergico che l’ordinamento nel suo complesso sta compiendo per la creazione di una rete di telecomunicazioni efficiente.
5. La sentenza n. 3324/2020 del Tar Campania
Con la sentenza dello scorso 24 luglio, il Tar Campania ha annullato l’ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. con la quale il Sindaco del Comune di Carinola aveva ordinato “la sospensione della sperimentazione 5G sul territorio comunale (…) applicando il principio precauzionale sancito dall’Unione europea pendendo in riferimento i dati scientifici più aggiornati indipendenti da legami con l’industria e già disponibili sugli effetti delle radiofrequenze, estremamente pericolose per l’uomo”.
In questo caso il Sindaco aveva addirittura fondato il proprio atto richiamando l’art. 54 t.u.e.l. che attribuisce all’organo di vertice dell’Amministrazione, in quanto ufficiale del Governo, il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Sul punto il giudice amministrativo ritiene fondate le censure proposte dal ricorrente e richiama principi già affermati dalla giurisprudenza. Anzitutto osserva che “le proteste, pur reiterate, da parte dei cittadini finalizzate al blocco dei lavori propedeutici all’installazione di infrastrutture per il servizio di telefonia mobile all’interno del territorio comunale” (delle quali, peraltro, non si fa alcun cenno in sentenza) non integrano il presupposto del “grave pericolo” per l’ordine pubblico previsto dalla norma attributiva.
Altro argomento attiene all’assenza di competenze amministrative in capo al Comune in relazione alle opere relative agli impianti di telefonia mobile. In proposito si richiama l’orientamento secondo il quale il potere dei Comuni – previsto dall’art. 8, comma 6, l. n. 36/2001 nella sua previgente formulazione – di adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, “non si può mai tradurre nel potere di sospendere la formazione dei titoli abilitativi formati o in corso di formazione ai sensi degli artt. 86 e 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche”[32]. Da epoca risalente il Consiglio di Stato ha precisato che la potestà regolamentare dei Comuni non può comportare un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate né prevedere limiti di esposizione alle onde elettromagnetiche diversi da quelli individuati dalla norma statale. Se così non fosse, si consentirebbe ai Comuni di introdurre “una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche, che l’art. 4 della legge n. 36/2000 riserva allo Stato attraverso l’individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità”[33].
Il Tar Campania, inoltre, ricorda la natura eccezionale del potere di ordinanza esercitato dal Comune, ritenendo non sussistenti i relativi presupposti in quanto l’ordinamento affida alle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente la funzione di accertare il rispetto dei valori soglia definiti dalla legge quadro sull’inquinamento elettromagnetico n. 36/2001 e dal già richiamato d.p.c.m. dell’8 luglio 2003.
In fine il Tribunale ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento con il quale il Comune – applicando l’ordinanza contingibile e urgente – aveva sospeso l’efficacia della SCIA presentata dal ricorrente per il posizionamento di nuove antenne “5G”. A tal proposito, in disparte i profili di illegittimità derivata, si osserva che la sospensione sine die dell’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati si pone in evidente contrasto con l’art. 21 ter (recte, 21 quater) della l. n. 241/1990 secondo il quale “l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
6. L’ordinanza n. 551/2020 del Tar Catania
Tale argomentazione sottende anche l’ordinanza del Tar Catania n. 551 del 22 luglio 2020 che ha sospeso in via cautelare l’efficacia dei provvedimenti impugnati (questa volta non riconducibili ad ordinanze ex art. 50 o 54 t.u.e.l.). Con deliberazione della Giunta, il Comune di Ispica, in attesa di definire un “piano di localizzazione” degli impianti di radiocomunicazione, aveva sospeso a tempo indeterminato i lavori di installazione di tutti gli impianti già assentititi nonché le procedure di autorizzazione in itinere. Il Giudice siciliano ha accolto la misura cautelare richiesta ed ha osservato, per un verso che la disciplina di settore (art. 86 e 87 d.lgs. n. 259/2003) non solo non prevede alcuna sospensione della funzione amministrativa autorizzatoria, ma, al contrario, è ispirata da finalità di semplificazione ed accelerazione dei procedimenti per la realizzazione delle reti di telecomunicazioni, confermate dalle recenti modifiche introdotte con d.l. 16 luglio 2020, n. 76; per altro verso, il Tar ha rilevato possibili profili di incompetenza dell’Amministrazione in relazione alla determinazione delle soglie di emissione che, come si è già ricordato, è affidata dalla legge allo Stato.
Già il Consiglio di Stato aveva rilevato che “la pendenza dell’iter approvativo del regolamento comunale non potrebbe giustificare la sterilizzazione dei titoli già formati, avuto riguardo alla natura urgente e indifferibile delle opere riguardanti gli impianti di telefonia mobile nonché alla loro assimilazione ope legis [art. 86, comma 3, d.lgs. 259/2003] alle opere di urbanizzazione primaria”[34], ben prima che il decreto c.d. “cura Italia” introducesse le ricordate misure atte a rafforzare la rilevanza degli interventi di potenziamento delle infrastrutture di telecomunicazioni.
7. Considerazioni di sintesi
Quella del “5G” non è che l’ultima frontiera della battaglia (talvolta di retroguardia) che, a dispetto delle evidenze scientifiche e della tutela di interessi pubblici parimenti rilevanti, i Sindaci conducono in nome del diritto alla salute dei propri concittadini.
Non può parlarsi certo di un fenomeno nuovo considerato il cospicuo contenzioso che proprio in materia di inquinamento elettromagnetico, ma non solo, si registra da oltre un ventennio nei repertori della giurisprudenza.
Il grimaldello utilizzato sovente per scardinare il sistema delle competenze amministrative delineate dalla legge nazionale, con il ruolo preponderante dello Stato, è quello delle ordinanze extra ordinem, fondate, sul principio di precauzione, erroneamente interpretato quale principio che consente di adottare provvedimenti volti a minimizzare o addirittura azzerare i rischi per la salute e per l’ambiente derivanti da alcune attività.
Nella vicenda delle infrastrutture “5G” si coglie, tuttavia, qualche elemento di novità, utile, forse, al progresso delle riflessioni in una materia così delicata e rilevante in ordine al rapporto tra cittadino e Stato.
Già la Corte Costituzionale, nella notissima sentenza sul caso Ilva[35], ha osservato che “la qualificazione come «primari» dei valori dell’ambiente e della salute significa (…) che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”. La Consulta, in quell’occasione, ha ribadito che il punto di equilibrio tra valori ed interessi costituzionalmente rilevanti, ivi compresi i valori primari dell’ambiente e della salute, deve essere valutato “secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.
Nella materia che ci occupa accanto al diritto alla salute ed alla tutela dell’ambiente – dei quali deve esser preservato il nucleo essenziale – convivono anzitutto la libertà di iniziativa economica delle imprese aggiudicatarie delle gare per la concessione delle frequenze “5G”, ma anche diritti costituzionalmente rilevanti il cui effettivo godimento dipende ormai in larga misura dall’accesso alla rete da parte dei cittadini e delle imprese.
Durante l’emergenza sanitaria ad esempio è apparso evidente come non solo la libertà d’informazione, la libertà di corrispondenza, la libertà d’iniziativa economica, la libertà d’associazione siano costantemente esercitate online, ma anche il diritto alla tutela giurisdizionale, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione trovino attraverso la rete nuove declinazioni.
L’esperienza vissuta quotidianamente da ciascuno di noi ha improvvisamente destato, anche nel dibattito pubblico, una rinnovata attenzione al tema del diritto di accesso alla rete, precondizione indispensabile per l’esercizio dei su richiamati diritti.
La dottrina sin dall’inizio del secolo si è interrogata sul fondamento di tale diritto nell’ordinamento nazionale non meno che in quello internazionale e dell’Ue. In particolare, esso è stato configurato da taluni come diritto fondamentale, da altri come “diritto sociale” o addirittura come “diritto umano”.
Non è questa la sede per ripercorrere tale dibattito[36] e, non di meno, pare utile sottolineare che, a Costituzione invariata, deve riconoscersi alla Repubblica, in attuazione del principio personalista e del principio di uguaglianza sostanziale, il compito di attuare interventi volti a garantire un accesso consapevole e tecnologicamente adeguato alla rete, onde superare i fattori che determinano il divario digitale infrastrutturale e culturale e, per tal via, il pieno esercizio di libertà e diritti di sicura rilevanza costituzionale.
L’esistenza di una rete efficiente e capace di supportare rilevanti volumi di traffico ad una velocità adeguata e secondo criteri di neutralità, rappresenta, dunque, un obiettivo ineludibile per uno Stato impegnato a garantire lo sviluppo sociale, civile ed economico dei propri cittadini.
In piena coerenza con gli obiettivi della Agenda digitale europea, nel 2015 l’Italia si è dotata di una propria “strategia per la banda ultralarga” nell’ambito della quale sono state stanziate ingenti risorse per la costruzione, manutenzione e gestione in regime di concessione di una rete pubblica nelle aree “a fallimento di mercato”.
Anche l’assegnazione delle radiofrequenze per lo sviluppo dei sistemi “5G” si iscrive in uno sforzo di modernizzazione infrastrutturale del Paese che non ammette ulteriori ritardi.
Certamente tale processo non può avvenire a scapito di interessi primari quali la salute e l’ambiente, tuttavia l’individuazione di soglie per le immissioni ed il riparto di competenze amministrative delineati dalla legge quadro paiono salvaguardare il nucleo essenziale di tali interessi secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza. La scelta operata dal legislatore pare pienamente coerente con l’esigenza di definizione di criteri unitari e normative tecniche omogenee da applicarsi in maniera uniforme su tutto il territorio dello Stato nonché rispondente “a impegni di origine europea e all’evidente nesso di strumentalità tra impianti di ripetizione e diritti costituzionali di comunicazione, attivi e passivi” [37].
Occorre tuttavia vigilare affinché l’omogeneità della disciplina non sia surrettiziamente aggirata attraverso sortite extra ordinem dei Sindaci che sarebbero non solo illegittime, per le ragioni ben evidenziate dalla giurisprudenza esaminata, ma profondamente inopportune in un momento nel quale la celere infrastrutturazione del Paese non può ammettere ulteriori ritardi.
L’ordinamento pare, in tutte le sue componenti, ben avvertito di tale esigenza e procede verso il conseguimento di un obiettivo che sembra ineludibile.
In questo sforzo corale possono iscriversi non solo le pronunce in rassegna, ma anche la ricordata segnalazione dell’AGCM e le numerose disposizioni introdotte negli ultimi mesi attraverso la decretazione d’urgenza e gli ingenti stanziamenti pubblici per la realizzazione dell’infrastruttura e per il sostegno della domanda di connettività[38].
La norma che esclude espressamente la possibilità per i Comuni di introdurre limitazioni alla localizzazione di impianti per reti di comunicazioni elettroniche ed in ogni caso di incidere in qualsiasi modo, anche mediante provvedimenti contingibili e urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettromagnetici (art. 8, comma 6, della l. 36/2001, nella sua versione introdotta da d.l. “semplificazioni”) rappresenta, tuttavia, un segnale di debolezza del sistema.
Per garantire l’osservanza delle regole poste dalla legge statale, evidentemente, si è ritenuto di non poter fare affidamento sulla corretta applicazione dei principi generali e sul rispetto del riparto di competenze da parte dei Sindaci, spesso troppo sensibili alle ragioni del consenso elettorale e ad una visione dei processi circoscritta ai confini del territorio che amministrano.
È stato necessario, piuttosto, prevedere per decreto la non applicabilità di un istituto di carattere generale quale l’ordinanza contingibile e urgente, che per oltre un secolo ha costituito una valvola di sfogo del sistema, affidata all’Amministrazione più vicina ai cittadini e per ciò stesso più capace di reagire tempestivamente in caso di effettivo pericolo per la salute e l’incolumità pubblica.
Ciò rappresenta un passo avanti verso la modernizzazione del Paese e verso la sempre vagheggiata certezza giuridica[39], ma al contempo una battuta d’arresto per l’ordinamento amministrativo.
* * *
[1] L’ordinanza del Tar Sicilia - Catania, sez. I, n. 549 del 22 luglio 2020 e la sentenza Tar Campania – Napoli, sez. VII, n. 3324 del 24 luglio 2020 si riferiscono ad ordinanze contingibili ed urgenti; l’ordinanza Tar Sicilia – Catania, sez. I, n. 551 del 22 luglio 2020 sospende l’efficacia di una delibera di Giunta comunale e di altri atti consequenziali.
[2] L’espressione, come è noto, si deve a V. Cerulli Irelli, Sindaco legislatore, in Giur. cost., 2011, 1600 ss.
[3] Si vedano, per una prima analisi del fenomeno, i documenti elaborati dal gruppo 5G Infrastructure Public Private Partnership.
[4] Commissione europea, Raccomandazione su “Cybersecurity of 5G networks”, C(2019) 2335 final, del 26 marzo 2019: “Once rolled out, 5G networks will form the backbone for a wide range of services essential for the functioning of the internal market and the maintenance and operation of vital societal and economic functions – such as energy, transport, banking, and health, as well as industrial control systems. The organisation of democratic processes, such elections, will also rely more and more on digital infrastructure and 5G networks”.
Si veda anche la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale ed al Comitato delle regioni “5G for Europe: An Action Plan” COM (2016) 588 final del 14 settembre 2016.
[5] Alla certezza delle regole è stato dedicato il Convegno AIPDA del 2014 i cui atti sono raccolti in L’incertezza delle regole. Atti del Convegno annuale AIPDA Napoli 3-4 ottobre 2014, Napoli, 2015. Si vedano anche i saggi raccolti in F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, spec. F. Francario, Il diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, ivi, 9 ss.; R. Bin, Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale, ivi, 29 ss.; M.A. Sandulli, Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza del diritto, ivi, 305 ss. Per ulteriori riferimenti bibliografici e per una ricostruzione della certezza giuridica quale oggetto di un interesse pubblico meritevole di tutela nello “Stato del mercato” sia consentito il rinvio a P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, 13 maggio 2020, 235 ss.
[6] Sulla pagina web del “comitato informale Alleanza italiana stop 5G” è disponibile l’elenco degli oltre 390 Comuni che avrebbero adottato ordinanze “anti 5G” e delle Amministrazioni che avrebbero adottato altri atti in materia (delibere, ordini del giorno, mozioni).
[7] Dovendoci limitare a riferimenti essenziali, è opportuno ricordare che al diritto amministrativo dell’emergenza è stato dedicato il convegno annuale AIPDA, Roma 6-7 ottobre 2005, i cui atti sono raccolti nell’Annuario 2005. Il diritto amministrativo dell’emergenza, Milano, 2006. Si vedano, in particolare, i contributi di R. Cavallo Perin, Il diritto amministrativo dell’emergenza per fattori esterni all’amministrazione pubblica, ivi¸ 31 ss.; M.P. Chiti, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, ivi¸ 142 ss.; M. Gnes, Limiti e tendenze dei poteri di urgenza, ivi, 209 ss.; C. Marzuoli, Il Diritto amministrativo dell’emergenza: fonti e poteri, ivi, 5 ss. Si veda anche lo studio monografico di A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza, tra autorità e garanzie, Bologna, 2008. Cfr., inoltre, L. Giani – M. D’Orsogna – A. Police (a cura di), Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018, dove si indaga sul principio di precauzione nel passaggio dal “diritto dell’emergenza” al “diritto del rischio”.
[8] In dottrina tra gli studi monografici, cfr. F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005; A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006; R. Titomanlio, Il principio di precauzione fra ordinamento europeo e ordinamento italiano, Torino, 2018.
Cfr. anche F. Merusi, Dal fatto incerto alla precauzione: la legge sull’elettrosmog”, in Foro amm., 2001, 221; G.D. Comporti, Contenuto e limiti del governo amministrativo dell’inquinamento elettromagnetico alla luce del principio di precauzione¸ in Riv. giur. amb., 2005, 205 ss.; F. Trimarchi, Principio di precauzione e qualità dell’azione amministrativa, en Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 1673 ss.; R. Ferrara, La protezione dell’ambiente e il procedimento amministrativo nella ‘società del rischio, in Dir. soc., 2006, 507 ss.; Id., Precauzione e prevenzione nella pianificazione del territorio: la ‘precauzione inutile’?, in Riv. giur. ed., 2012, 61 ss.; Id., Il principio di precauzione e il “diritto della scienza incerta”: tra flessibilità e sicurezza, in Riv. giur. urb., 2020, 1, 14 ss.; M. L. Antonioli, Precauzionalità, gestione del rischio e attività amministrativa, in Riv. it. Dir. pubbl. com., 2007, 52 ss.; A. Zei, voce Principio di precauzione, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Aggiornamento III, Torino, 2008, 670 ss.; I.M. Marino, Aspetti propedeutici del principio di precauzione, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli, 2011, 2177 ss..; S. Puddu, Amministrazione precauzionale e principio di proporzionalità, in Dir. e proc. amm., 2015, 1155 ss.; M. Allena, Il principio di precauzione: tutela anticipata v. legalità-prevedibilità dell’azione amministrativa, in Il diritto dell’economia, 2016, 411 ss.; F. Follieri, Decisioni precauzionali e stato di diritto. La prospettiva della sicurezza alimentare, in Riv. dir. pubbl. com., 2016, 1495 ss.; B. Marchetti, Il principio di precauzione, in M.A. Sandulli, (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 194 ss.
[9] Corte di Giustizia Ue, sentenza 21 marzo 2000, causa C-6/99, Greenpeace.
[10] Trib. Ue, sentenza 26 novembre 2002, cause riunite T-74/00, T-76/00 e altre.
[11] “Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione”, COM (2000)1 def.
[12] COM (2000)1 def., § 6.1.
[13] COM (2000)1 def., § 6.3.
[14] COM (2000)1 def., § 5.
[15] Cons. St., sez. V, 16 aprile 2013, n. 2094.
[16] Cons. St., sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250.
[17] Corte Cost., 26 giugno 2002, n. 282, in Foro amm. – CdS, 2002, 2787 con nota di C.E. Gallo, La potestà legislativa regionale concorrente, i diritti fondamentali ed i limiti alla discrezionalità del legislatore davanti alla Corte costituzionale, ivi, 2791 ss., nonché in Giur. cost, 2002, 2012, con nota di A. D’Atena, La Consulta parla… e la riforma del titolo V entra in vigore, ivi, 2027 ss. In proposito la Corte ricorda che “un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l'elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi - di norma nazionali o sovranazionali - a ciò deputati, dato l'«essenziale rilievo» che, a questi fini, rivestono «gli organi tecnico-scientifici» (cfr. sentenza n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica”.
[18] Sulla medesima ordinanza sindacale si segnala la decisione “gemella” Tar Sicilia - Catania, sez. I, 27 luglio 2020, n. 566.
[19] Nell’ordinanza n. 549/2020 del Tar Catania si legge: “A un primo esame, tipico della fase cautelare, va premesso che in linea di principio «la valutazione sui rischi connessi all’esposizione derivante dagli impianti di telecomunicazioni è di esclusiva pertinenza dell’A.R.P.A., organo deputato al rilascio del parere prima dell’attivazione della struttura» (cfr. TAR Catania, I, 26/11/2019, n. 2858; Ord., I, 30.3.2020, n. 236) e al monitoraggio del rispetto dei limiti prestabiliti normativamente dallo Stato, impegno, quest’ultimo, che sembra emergere nel parere riportato nell’ordinanza impugnata”.
[20] Si riporta di seguito un passo dell’ordinanza n. 133/2020 del Sindaco di Messina: “con nota prot. 17440 del 24 aprile 2020 l’Arpa Sicilia, pronunciandosi sulla richiesta avanzata da Wind Tre S.p.a., acquisita al prot. n. 16678 del 17/04/2020, relativa alla relazione di conformità dei livelli attesi di campo elettromagnetico a seguito della riconfigurazione di una stazione radio base (SRB) e inserimento delle tecnologie 4G_B38 2600 MHz e 5G 3600 MHz (…) «visto che al momento la normativa sulla tecnologia trasmissiva m-MIMO tipicamente utilizzata dal 5G, sia tecnica che legislativa, è in itinere ed è opportuna una valutazione continua in attesa della normativa di merito» ha rilasciato un parere «subordinato, a seguito delle simulazioni svolte da questa Agenzia, alla verifica post attivazione da parte di Arpa Sicilia dei valori di campo elettrico prodotti nell’edificio ubicato a circa 15 m di distanza e a Nord dell’impianto e sue pertinenze esterne» chiarendo ulteriormente «Tenendo in debito conto le premesse del presente parere, la sperimentazione risulta mirata alla verifica periodica dei livelli di campo elettromagnetico generati dalla nuova tecnologia con opportuni report forniti dall’operatore di rete, a cadenza mensile o, se tecnicamente non realizzabile, con cadenza massima trimestrale, tramite i valori di potenza massima, e media giornaliera, forniti al bocchettone d’antenna del sistema in parola. Il presente parere sperimentale non sostituisce in alcun modo le autorizzazioni»”.
[21] Nell’ordinanza sindacale si afferma: “non esistono studi che, preliminarmente alla fase di sperimentazione, abbiano doverosamente fornito una valutazione del rischio sanitario e per l’ecosistema derivante da una massiccia, multipla e cumulativa installazione di milioni di nuove antenne che, inevitabilmente, andranno a sommarsi su quelle esistenti”. Si tratta di un giudizio tecnico-scientifico sulla attendibilità degli studi condotti, precluso all’Amministrazione.
[22] Tar Sicilia – Catania, sez. I, 22 maggio 2020, n. 1126, punto 3.1.
[23] Cons. Stato, sez. III, 20 marzo 2015, n. 1519; Id., 29 maggio 2015, n. 2697; Id., 22 settembre 2017, n. 4425; Id., 28 febbraio 2018, n. 1253.
[24] Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2015, n. 533, ha affermato la legittimità dell’ordinanza sindacale ex art. 54 t.u.e.l. che imponeva oneri di bonifica e messa in sicurezza della falda sottostante la discarica di Malagrotta per far fronte ad un inquinamento noto da anni. Ad avviso del giudice, infatti, la circostanza che la situazione di pericolo sia protratta nel tempo non rende illegittima l'ordinanza dal momento che in determinate situazioni il trascorrere del tempo non elimina da sé il pericolo, ma può, invece, aggravarlo. Sulla scorta di argomentazioni analoghe Cons. St., sez. V, 25 maggio 2012, n. 3077 ha ritenuto legittima l’ordinanza con la quale si imponeva all’appaltatore di un’opera pubblica, il cui cantiere occupava da anni parte di una pista ciclabile, di realizzare un percorso ciclabile alternativo.
[25] Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2015, n. 533; Id., 3 giugno 2013, n. 3024.
[26] Ad esempio, Cons. St., 3 giugno 2013, n. 3024, ha ritenuto legittima l’ordinanza sindacale che imponeva la demolizione di una rampa per disabili realizzata in difformità dal titolo abilitativo, sebbene, come è noto, in caso di inosservanza dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo l’art. 31 del t.u. ed. preveda lo strumento tipico dell’acquisizione al patrimonio comunale e della eventuale demolizione in danno.
[27] Secondo Tar Lazio – Latina, sez. I, 20 novembre 2017, n. 572, il potere di ordinanza rappresenta una “valvola di sicurezza del sistema, cioè uno strumento che è utilizzabile residualmente quando difettino altri strumenti giuridici per fronteggiare una situazione di emergenza”. Per Tar Campania, sez. III, 1° giugno 2015, n. 3011, “l’ordinanza ex artt. 50 e 54 del Testo unico sugli enti locali rappresenta dunque l’extrema ratio del potere amministrativo, la valvola di chiusura del sistema, configurando un rimedio extra ordinem che, sia pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, è atto a derogare al principio di legalità e al suo corollario in cui tale principio declina sul versante dell’attività provvedimentale e che è costituito dal principio di tipicità dei provvedimenti”.
La metafora si deve a M.S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 102, secondo il quale il regime giuridico dell’emergenza costituisce “una valvola, in tutti gli ordinamenti moderni, a disposizione dell’amministrazione, per sfuggire alla condizione rigidissima della legge” da far valere in tutte le situazioni imprevedibili.
[28] Art. 38, comma 6, d.l. 16 luglio 2020, n. 76.
[29] D.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27.
[30] Ai sensi dell’art. 82, comma 2, l. n. 18/2020, “le imprese che svolgono attività di fornitura di reti e servizi di comunicazioni elettroniche (…) intraprendono misure e svolgono ogni utile iniziativa atta a potenziare le infrastrutture e a garantire il funzionamento delle reti e l’operatività e continuità dei servizi”.
[31] Il riferimento è alla segnalazione (ex art. 21 l. 10 ottobre 1990, n. 287) del 1° luglio 2020 “relativa allo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione fissa e mobile a banda ultralarga in un’ottica di promozione degli investimenti e tutela di un necessario gioco concorrenziale”. L’Autorità sottolinea l’importanza dell’infrastruttura di rete a banda larga ed ultralarga per la crescita dell’economia e del tessuto imprenditoriale e sociale e richiama la propria precedente segnalazione del 12 dicembre 2018, AS1551 “Ostacoli nell’installazione di impianti di telecomunicazione mobile e broadband wireless access e allo sviluppo delle reti di telecomunicazione in tecnologie 5G”. Già nel 2018, infatti, si auspicava la definizione di un quadro normativo e regolamentare volto alla promozione degli investimenti in reti di comunicazione elettroniche wireless tali da dotare il Paese di connessioni tecnologicamente avanzate e capaci di sostenere la domanda di servizi di connettività. L’Autorità, inoltre, auspicava la rimozione degli ostacoli ingiustificati all’installazione di impianti di telecomunicazioni mobile e broadband wireless e la modifica delle restrizioni alle emissioni elettromagnetiche alla luce dei risultati delle richiamate valutazioni scientifiche.
[32] Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9414.
[33] Cons. St., sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5258. Sul punto, Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9414 afferma: “Tale previsione verrebbe infatti a costituire una inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in contrasto con l’art. 4 l. n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato”.
[34] Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2010, n. 9414.
[35] Corte cost., 9 aprile 2013, n. 85.
[36] Sul punto sia consentito il rinvio a P. Otranto, Internet nell’organizzazione amministrativa. Reti di libertà, Bari, 2015, 72 ss.
[37] Corte cost., 7 novembre 2003, n. 331.
[38] Ci si riferisce ad alcune recentissime iniziative governative quali il “piano voucher” – per il sostegno della domanda di connessione a banda ultralarga per le famiglie con redditi più modesti – ed il “piano scuole” per la connessione di tutti gli edifici scolastici del Paese.
[39] Appare ineludibile il riferimento a N. BOBBIO, La certezza del diritto è un mito?, in Riv. int. fil. dir., 1951, 146 ss.
Gianni Canzio in magistratura
Intervista di Roberto Conti e Giovanni Liberati a Gianni Canzio
La varietà delle esperienze professionali e di studio di Gianni Canzio e il loro dispiegarsi dalla giurisdizione di merito a quella di legittimità, dalla dirigenza di grandi uffici giudiziari di merito a quella della Corte di cassazione, dall’Ufficio del Massimario alla presidenza di Commissioni ministeriali (che hanno varato le più importanti riforme in campo processuale penale degli ultimi anni), stimola la curiosità sulla interazione tra loro di queste così articolate esperienze. L’intervista al Presidente Canzio è stata così pensata per favorire una riflessione tra i rapporti tra dottrina, giurisdizione di merito e di legittimità e attività legislativa. È però la lettura delle risposte a dimostrare che essa è molto più di un intervista, dispiegandosi come un lungo viaggio nel mondo della giurisdizione vissuto dal protagonista ad un livello che merita, tutto, di essere conosciuto per quanto è stato poliedrico, ricco, provocatorio ed esaltante per l'intera giurisdizione, soprattutto oggi.
1. Cominciamo dall’inizio. Sei entrato nell’ordine giudiziario a 25 anni. Cosa ricordi del tuo periodo da “giudice ragazzino”.
Avevo appena compiuto 25 anni quando il 15 gennaio 1970, dopo un lungo concorso iniziato ben due anni prima, ho intrapreso l’ “uditorato giudiziario” a Roma. Un’esperienza – incomparabile con l’odierno tirocinio dei MOT - di cui ricordo soprattutto il periodo di affidamento in Procura con Antonino Scopelliti, un magistrato indipendente, colto e brillante. Il caso volle che, trent’anni dopo, fossi designato relatore nel giudizio di legittimità sull’omicidio mafioso di cui Egli fu vittima il 9 agosto 1991, pochi mesi prima della celebrazione in Cassazione del maxiprocesso palermitano a Cosa Nostra, per il quale era stato indicato come PG di udienza. Terminato l’uditorato e destinato come tutti i magistrati di quel concorso a una sede del Nord, scelsi di fare il giudice civile presso il Tribunale di Vicenza, dove rimasi fino al 1977, con un breve intervallo nel 1973-74 presso la Corte costituzionale come assistente di studio. La tecnica e lo strumentario delle operazioni giudiziarie si apprendevano ascoltando o leggendo i magistrati più anziani ed esperti (ricordo, fra tutti, il fine argomentare in camera di consiglio di Bruno Meneghello, fratello del noto scrittore). Negli stessi anni 1970-77 collaboravo con la Rivista giuridica dell’edilizia di Aldo Sandulli – impareggiabile Maestro -, nei settori dell’urbanistica e dell’espropriazione. Intanto, di cultura della giurisdizione, valori costituzionali e politica giudiziaria si dibatteva vivacemente all’interno delle correnti dell’ANM. Partecipavo attivamente alle riunioni del gruppo di MD del Triveneto, che era forte di personalità prestigiose, come Dusi, Palombarini, Borraccetti e altri di cui, con rammarico, non ricordo i nomi: tempi e luoghi indimenticabili di riflessioni sui rapporti fra magistratura, politica, società e istituzioni, e di crescita culturale e professionale. Corrente, quella di MD, in cui non ho poi militato attivamente ma alla quale, seppure con costante spirito critico verso le posizioni più estreme, sono rimasto idealmente e intellettualmente legato anche dopo la sua confluenza in Area, che ho condiviso.
2. Pensi che l’attuale sistema di accesso abbia migliorato la qualità dei magistrati, sia stato neutro o l’abbia impoverito? Viene subito spontaneo chiederti se l’accesso in magistratura e l’attuale assetto che valorizza le scuole di preparazione alla magistratura alle quali partecipano esclusivamente accademici, avvocati e giudici non ordinari, accanto al ruolo, disomogeneo rispetto alle varie realtà territoriali, delle scuole di specializzazione delle professioni forensi. Manca l’apporto dei magistrati ordinari (al di fuori di quello, limitato, che gli stessi possono offrire all’interno delle scuole di specializzazione e/o dei tirocini che le stesse organizzano all’interno degli uffici giudiziari)? E se sì quale potrebbe essere secondo te?
Un modello di accesso al concorso in magistratura immediatamente aperto ai laureati in giurisprudenza, senza essere preceduto da forme di partecipazione a qualche corso seppure rudimentale di preparazione, probabilmente non è mai esistito nella pratica. Anche io, come tanti altri, subito dopo essermi laureato e prima di presentarmi al concorso in magistratura nel marzo 1968, seguii per circa un anno il (pressoché gratuito) corso napoletano di preparazione tenuto presso la sua abitazione dal mitico presidente Guido Capozzi, di tradizione civilista, che insegnava a noi giovani laureati a risolvere le questioni e i temi controversi ragionando attraverso le linee generali degli istituti e più in generale del sistema delle fonti. L’attuale progetto governativo di tornare al passato, dopo le esperienze certamente non del tutto positive delle scuole di specializzazione, gestite sia da enti privati che dalle Università, pone tuttavia una serie di problemi, attinenti sia alla corretta ed efficiente gestione di concorsi che sarebbero verosimilmente caratterizzati da un troppo alto numero di concorrenti (evento verificatosi in passato e causa della sopravvenuta modifica legislativa), sia alla più difficoltosa individuazione di quelli realmente meritevoli. Inoltre, il concorso in magistratura potrebbe perdere la connotazione di concorso di secondo livello, con eventuali conseguenze negative sul piano del trattamento retributivo. A me sembra che stia avendo un indubbio successo (ne sono stato testimone diretto quanto alla Corte d’appello di Milano e alla Corte di cassazione) e meriti perciò di essere valorizzato – ampliandone anzi il perimetro - il meccanismo di selezione dei più meritevoli, costituito dal tirocinio di diciotto mesi presso gli uffici giudiziari, laddove esso venga seguito seriamente da gruppi di magistrati professionalmente preparati e si concluda con un parere favorevole motivato. Un buon tirocinio di questo tipo permea i giovani laureati della cultura della giurisdizione e prepara i migliori magistrati del futuro.
3. Torniamo alla tua esperienza di giudice di merito negli uffici giudicanti e requirenti. Anche qui il tema è caldissimo, ponendosi sempre più frequentemente, soprattutto dal mondo forense, l’idea della separazione delle carriere come momento di garanzia massima dei diritti del cittadino. Alla luce della tua esperienza, di merito e di legittimità, condividi l’attuale assetto costituzionale o pensi che sia perfettibile e, se sì, in quale modo?
Innanzitutto, mi sia consentito qualche ricordo personale delle esperienze vissute. Il 1977 fu segnato da una serie di episodi di eversione dello Stato democratico che videro in prima linea, anche con il rischio della vita, i magistrati italiani. Mi sembrò doveroso lasciare per qualche tempo il confortevole mestiere di giudice civile e contribuire a fronteggiare il fenomeno del terrorismo, sperimentando il differente percorso professionale dell’inchiesta e dell’esercizio dell’azione penale. Di qui, in assenza di regole ostative, l’immediato passaggio alla funzione inquirente presso la Procura di Rieti (in quel momento scoperta e la più prossima a Roma, dove intendevo trasferirmi). La Sabina reatina venne investita negli anni 1978-1980 da una serie di indagini: sia su talune organizzazioni terroristiche “rosse” (il gruppo toscano di Prima Linea e le Unità Comuniste Combattenti, lasciando da parte il falso comunicato n. 7 delle BR, che annunciava la presenza del cadavere di Aldo Moro nel lago della Duchessa sui monti reatini), che impiegavano i casolari di campagna come nascondigli e deposito di armi; sia su quelle di matrice “nera” (Ordine Nuovo, Terza Posizione, Costruiamo l’azione ecc.), quest’ultime collegate ai NAR laziali. Furono perciò numerosi in quegli anni gli incontri e gli scambi informativi con Mario Amato, del cui isolamento e della cui sofferenza, per gli attacchi ricevuti anche dall’interno della magistratura romana, sono stato partecipe e resi testimonianza – dopo la sua uccisione - alla Prima Commissione del CSM. Nel 1988, con la pubblicazione del nuovo codice di procedura penale, decisi di tornare alla funzione giudicante, come giudice (civile e penale) del Tribunale di Rieti, senza che questo passaggio fosse annotato criticamente da alcuno: non vi erano all’epoca regole ostative, ma quel che contava era la considerazione di imparzialità e oggettività che il magistrato – nel mio caso, fra l’altro, notoriamente di estrazione civilistica - aveva nel tempo acquisito. Dei valorosi giudici con i quali ho lavorato a Rieti vorrei ricordare almeno la figura stimatissima di Alberto Caperna, un amico fraterno scomparso troppo prematuramente, dopo che era passato - anche lui - da giudice di tribunale a sostituto procuratore di Roma, diventando poi un brillante procuratore aggiunto nel settore dei reati contro la P.A.
Vorrei, a questo proposito, svolgere alcune considerazioni critiche rispetto alla, pur legittima e autorevole, proposta legislativa di separazione delle carriere dei magistrati. Il progetto di riforma, oltre a destrutturare larga parte del modello costituzionale sull’ordinamento professionale della magistratura, sul sistema di governo autonomo del CSM, sulla obbligatorietà dell’azione penale ecc., potrebbe a mio avviso determinare, per una paradossale eterogenesi dei fini, l’effetto perverso di una più spiccata autoreferenzialità (anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e di una ancora più accentuata indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo. Infatti, si rileva costantemente l’ipertrofia del fenomeno dell’inchiesta, che, in assenza di pregnanti controlli del giudice per le indagini preliminari, è divenuta l’effettivo baricentro del rito. Da essa spesso sorge - anche per il ricorrente e (almeno disciplinarmente) illecito intreccio di relazioni e scambi di atti fra uffici di Procura e organi di stampa - il prevalere nella collettività di ansie securitarie e del pregiudizio di colpevolezza dell’indagato, che viene inesorabilmente colpito dalla “gogna mediatica”. Con il conseguente rischio che prevalgano logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata da Calamandrei, dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione. Meriterebbe viceversa attenzione, a mio avviso, la proposta alternativa di aprire più pregnanti finestre di controllo giurisdizionale in taluni momenti topici delle indagini preliminari (dall’iscrizione nel registro degli indagati alla durata delle indagini, fino alla correttezza delle scelte imputative, laddove esse incidano sulla selezione di differenti binari processuali o sull’utilizzo di strumenti altamente pervasivi delle libertà individuali, come il trojan), oltre ad implementare quelle già disciplinate dalla legge (per la proroga delle indagini, le misure cautelari personali e reali, le intercettazioni, l’esercizio o non dell’azione penale ecc.); anziché introdurre interventi di tipo gerarchico come l’avocazione o di rilievo disciplinare, che esaltano vieppiù la logica di separatezza dell’ufficio del pubblico ministero e si rivelano potenzialmente compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati. Con la sentenza Scurato n. 26889 del 2016, riguardante l’utilizzo a fini intercettativi del captatore informatico – trojan – nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, le Sezioni unite sottolineavano, infatti, “… l'esigenza che, nei rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata, risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettatIve; fermo restando il sindacato di legittimità della Corte di cassazione in ordine all'effettiva sussistenza di tali presupposti…”.
4. L’approdo alla Corte di Cassazione, mediato da un’esperienza importante come Presidente delle Corti di appello di L’Aquila e Milano ed il ritorno come Primo Presidente. Anche qui proviamo a cominciare dall’inizio e dall’impatto con le funzioni di legittimità di un giudice di merito che non aveva svolto funzioni di appello. Saprai certamente che è in gestazione al CSM la modifica al sistema di accesso alle funzioni di legittimità. Alla luce della tua esperienza professionale, pensi sia condivisibile la prospettiva che valorizza l’esperienza di chi ha esercitato le funzioni di consigliere di appello o presso l’ufficio del Massimario?
Comincio a rispondere alla prima parte della domanda, certamente la più difficile perché s’affollano nella mente tanti ricordi, alcuni felici e altri tristi. Avevo appena compiuto 50 anni quando venne accolta la mia domanda di trasferimento dal Tribunale di Rieti alla Corte di cassazione, non mediato dall’esercizio – allora non prescritto - delle funzioni di consigliere di appello. Verosimilmente, le sentenze e le note di dottrina pubblicate e le relazioni svolte nei corsi di formazione dei magistrati vennero considerate titoli idonei per l’esercizio delle funzioni di legittimità. Fui assegnato come consigliere alla Prima sezione penale, dove rimasi dal 1995 al 2009. In sezione venni addetto già nel 1997 al compito davvero formativo dell’esame preliminare (‘spoglio’) dei procedimenti, svolgendo altresì il ruolo di referente informatico. Furono per me anni di straordinaria crescita professionale, grazie soprattutto al fortunato incontro umano e intellettuale con figure indimenticabili di colleghi ed amici, come Torquato Gemelli e Giovanni Silvestri - poi nominati presidente aggiunto e rispettivamente presidente di sezione -, Maestri impareggiabili delle garanzie di legalità e libertà. Fra le tantissime sentenze redatte in quegli anni (com’è noto, in Cassazione i consiglieri scrivono un numero impressionante di sentenze ogni anno!), di cui molte riguardanti delitti di mafia o di criminalità organizzata, resta incancellabile nella mia memoria, al di là delle soluzioni decisorie adottate, la dolorosa lettura degli atti relativi alla strage delle Fosse Ardeatine (Sez. I, 16/11/1998, Priebke), agli eccidi delle foibe (Sez. I, 22/4/1998, Motika) e alla tragica vicenda del funzionario di polizia Calipari in Iraq (Sez. I, 19/6/2008, P.G ed altri in proc. Lozano): i procedimenti riguardavano, per aspetti diversi, il tema dei limiti della giurisdizione italiana per i crimini di guerra e contro l’umanità. Negli stessi anni, sollecitato da Giovanni Silvestri, curavo per Il Foro Italiano note redazionali o di commento a sentenze: una straordinaria e rigorosa palestra di studi e ricerche, questa, che consiglio ad ogni giovane giurista. Venni quindi assegnato dal presidente Sgroi, nel gennaio 1998, alle Sezioni unite penali, delle quali fin dal 2000 divenni coordinatore, prima con Gino De Roberto e poi con Giorgio Lattanzi, sotto la lunga presidenza Marvulli, redigendo come estensore numerose sentenze. Era intanto entrata in vigore la legge n. 128 del 2001 che aveva previsto la creazione di un’apposita sezione per le inammissibilità dei ricorsi penali. Fummo De Roberto e io a premere - nonostante l’avversione mostrata dai presidenti di sezione più anziani - per l’istituzione della Settima sezione (del cui primo coordinamento venni incaricato) e per l’avvio della fase di organizzazione e sperimentazione delle modalità di trattazione e decisione delle decine di migliaia di ricorsi inammissibili, anche alla luce degli indirizzi interpretativi inaugurati in materia da alcune importanti sentenze delle Sezioni unite, redatte proprio da Gino De Roberto. Va riconosciuto che le attuali, brillanti, performance (di durata dei processi e di qualità delle decisioni) della Cassazione penale devono essere attribuite non solo alla scelta del legislatore ma anche alle soluzioni pratiche autonomamente adottate dalla Corte per il successo di quella riforma, fino a riconoscere che fra i consiglieri penali è andata crescendo nel tempo una vera e propria “cultura della inammissibilità”.
Furono quelli, fra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo, anni vivaci, perfino creativi, per la Corte. Partecipai attivamente all’organizzazione dell’Assemblea generale del 23/4/1999 e all’attuazione delle proposte di autoriforma da essa formulate, collaborando fra l’altro alla istituzione nel 2002 del Gruppo consultivo presso la Prima Presidenza, antesignano dell’odierno Consiglio Direttivo.
Riservando al prosieguo la narrazione di alcune esperienze nella direzione delle Corti di appello di L’Aquila e di Milano, provo ora a rispondere alla seconda parte della domanda.
A me sembra che, come la modernità esige per ogni organizzazione complessa, ancor più se di rilievo costituzionale come il CSM, anche il governo autonomo della Magistratura dovrebbe ispirarsi nelle sue molteplici valutazioni non a rigidi e burocratici automatismi, bensì a una qualche ragionevole e motivata flessibilità delle regole predeterminate. Quel che dovrebbe contare, per sfuggire all’arbitrio dei decisori, è che ogni scelta fosse assistita dal rigore e dalla trasparenza delle relative giustificazioni e che si facesse perno, perciò, sulla duplice garanzia della motivazione, chiara ed essenziale nell’applicazione dei criteri inferenziali, e del successivo, eventuale sindacato impugnatorio, anziché sull’ossequio formale e automatico a regole fissate una volta per tutte e assolutamente inderogabili. Vorrei ricordare un episodio verificatosi nel corso della precedente consiliatura. La Quinta Commissione aveva proposto due consiglieri di corte d’appello come presidenti di sezione della stessa corte, pretermettendo un presidente di sezione del tribunale, pure più anziano e obiettivamente meritevole, e però privo delle funzioni di consigliere di appello. In Plenum osservai che il presidente di sezione del tribunale aveva per circa dieci anni diretto la sezione per il riesame e per l’appello in materia di libertà personale, svolgendo pertanto le tipiche funzioni di controllo proprie del giudice delle impugnazioni, talora anche su ricorsi avverso provvedimenti de libertate della medesima corte d’appello. La sua pretermissione appariva dettata dall’applicazione fredda ed ottusa di un pur esplicito criterio predeterminato, che tuttavia – a mio avviso - andava interpretato dal Consiglio con ragionevole flessibilità. Il rilievo fu accolto all’unanimità, la pratica tornò in Commissione, che infine propose come presidente di sezione della corte d’appello quel presidente di sezione del tribunale. La stessa osservazione sarebbe apparsa valida in passato e dovrebbe valere anche oggi, laddove (oltre le funzioni di giudice del tribunale della libertà) il giudice di tribunale avesse esercitato o eserciti di fatto le funzioni tipiche del consigliere di appello, deliberando ad esempio sulle impugnazioni delle sentenze di primo grado del pretore o attualmente del giudice di pace.
5. L’Ufficio del Massimario nel quale hai svolto nel tempo le funzioni di vicedirettore e di direttore è poco conosciuto dai non addetti ai lavori. Nella macchina della Corte di Cassazione e dei numeri che la caratterizzano, sia nel settore civile che in quello penale, qual è il suo peso e quale potrebbe essere, anche in considerazione delle recenti modifiche che, estendendo il numero di assistenti destinati a quell’Ufficio, hanno visto un decremento delle professionalità destinate in via esclusiva alla massimazione delle sentenze?
Annovero gli anni di direzione del Massimario (2002-2009) fra i più interessanti e intensi della mia vita di magistrato, perché caratterizzati dall’impresa collettiva di costituire una vera e propria comunità di studiosi del diritto, con una forte spinta all’innovazione tecnologica e informatica e alla sperimentazione di vie nuove. Ho iniziato a lavorare con Stefano Evangelista, un grande giurista prematuramente scomparso, per poi incontrare e dialogare con tanti giovani e valenti magistrati, diventati infine presidenti di sezioni o avvocati generali o anche – Domenico Carcano e Margherita Cassano – presidenti aggiunti della Corte e qualcuno giudice costituzionale – Stefano Petitti -. Va ricordato che, in stretta contiguità storico-sistematica con il riconoscimento della funzione nomofilattica della Corte «del precedente», l’art. 68 O.G. del 1941 istituiva l’Ufficio del Massimario e del Ruolo, al quale è tradizionalmente affidato il compito di favorire la formazione della giurisprudenza di legittimità e la sua documentazione e diffusione (mediante la massimazione dei principi di diritto estratti dalle decisioni selezionate). Le riforme degli anni 2006-2009 hanno inciso profondamente sia sulla struttura organizzativa, sia sul tradizionale ruolo e sulle funzioni del Massimario. Dall’esigenza di conformare alla riforma ordinamentale lo schema dei settori civile e penale conseguirono rilevanti provvedimenti di riorganizzazione dell’ufficio, ispirati al duplice criterio della collocazione dei magistrati in omogenee aree tematiche e della valorizzazione delle rispettive professionalità, anche mediante il loro collegamento con le singole sezioni della Corte, secondo forme d’interazione nuove e originali. Va rimarcata altresì l’importanza, a partire dal 2004, della Rassegna annuale di giurisprudenza civile e penale di legittimità, curata dai magistrati del Massimario, caratterizzata dalla selezione e dall’analisi sistematica dei più significativi arresti giurisprudenziali nella formazione del diritto vivente. Nasce pure nell’ottobre 2004 il Servizio Novità, gestito a cura del Massimario nel sito web della Corte di cassazione, diretto a consentire la massima diffusione dell’informazione giuridica, com’è tuttora testimoniato dalle numerosissime visite degli utenti, segno di fiducia nella puntualità e qualità dei documenti e degli abstracts. Non è rimasta dunque immutata, nel tempo, l’opera del Massimario di razionalizzazione e di analisi dei più significativi approdi ermeneutici della Corte di cassazione. L’obiettivo pratico dovrebbe essere oggi quello di affidare a studiosi del diritto di sicura professionalità (aprendo dunque l’ufficio a un limitato numero di figure diverse dai magistrati) l’opera di rigorosa selezione delle (poche) decisioni davvero meritevoli di massimazione, onde consentire la costruzione di coerenti schemi argomentativi in fattispecie paradigmatiche, da utilizzare in casi simili o analoghi; passare quindi dall’opera di redazione della singola «massima/precedente» alla realizzazione di un più razionale «sistema di precedenti» per singoli settori, temi o materie.
6. Torniamo un attimo indietro. In che misura l’esperienza di studioso e docente della organizzazione giudiziaria ha influito sulla sua attività di Presidente delle Corti di L’Aquila e Milano? Quali differenze hai riscontrato tra la teoria della organizzazione giudiziaria e la realtà di quelle Corti, tenendo conto della particolarissima situazione della città di L’Aquila e dell’intero distretto e dell’importanza e delle dimensioni della Corte d’appello di Milano? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai percepito nella direzione di quelle Corti, provenendo da una lunga esperienza di giudice di legittimità?
Paradossalmente, proprio la lunga esperienza di autorganizzazione e di organizzazione del faticoso lavoro in Cassazione ha reso meno difficoltoso l’approccio ai - per me inediti - compiti di direzione di una Corte di appello, articolata in vari tribunali e composta da numerosissimi magistrati del distretto. D’altra parte, anche lo studio e la conoscenza della disciplina ordinamentale si è rivelata utile per assicurare, pur nella necessaria mediazione con la dura realtà, la legalità e la correttezza di base delle soluzioni operative adottate. Le due esperienze – L’Aquila e Milano – sono state tuttavia profondamente diverse.
Il tragico sisma aquilano del 6 aprile 2009 aveva comportato, oltre la perdita di centinaia di vite umane, abitazioni, uffici, studi professionali, il crollo disastroso dell’intero palazzo di giustizia, ove erano allocati tutti gli uffici giudiziari di primo e secondo grado, inquirenti e giudicanti. Quando arrivai, poco tempo dopo, avvertii un’atmosfera di sospensione dei ritmi della vita, perciò anche della giurisdizione, e però anche la voglia di ricominciare, tutti insieme, magistrati, avvocati e cancellieri. Quei trenta mesi vissuti a L’Aquila restano indimenticabili per la coralità dell’impegno, etico e professionale, di tutte le persone, giovani e meno giovani, che ho conosciuto e con le quali ho lavorato collegialmente, giorno dopo giorno. La Protezione civile accolse subito le nostre richieste e costruì in tempi rapidissimi appositi prefabbricati dove collocare provvisoriamente uffici e aule; i Vigili del Fuoco, accompagnati dai cancellieri, recuperarono tempestivamente fra le macerie la maggior parte dei fascicoli; fu quella l’occasione di procedere mano a mano allo spoglio ragionato dei procedimenti, in vista della loro “pesatura” e fissazione; il Consiglio giudiziario adottò per la prima volta il modulo delle sedute “itineranti”, ognuna presso la sede di uno degli otto tribunali del vasto territorio, per verificarne le criticità e i bisogni ed esprimere ad essi vicinanza e solidarietà; anche la formazione decentrata divenne uno strumento “itinerante” di aggregazione; vennero presentati e approvati i progetti di ricostruzione del nuovo palazzo di giustizia (effettivamente inaugurato nel 2015). Attraverso questa imponente e corale capacità di mobilitazione organizzativa fu possibile dopo pochi mesi, nel settembre 2009, riavviare, anche grazie all’attiva partecipazione dell’Avvocatura e del personale amministrativo, la giurisdizione civile e penale nel distretto aquilano, raggiungendo risultati inimmaginabili, addirittura con incrementi di produttività. Ho avuto modo di conoscere a l’Aquila – insieme a tante figure straordinarie delle istituzioni, come Franco Gabrielli, Francesco Paolo Tronca ecc. - magistrati davvero eccezionali per umiltà, coraggio e generosità, di molti dei quali non ha mai saputo l’appartenenza correntizia: alcuni di loro sono oggi stimati presidenti di corti di appello (Fabrizia Francabandera e Luigi Catelli) e di tribunali o procuratori della Repubblica.
Affatto diversa e incomparabile è stata la entusiasmante esperienza di presidente della Corte d’appello di Milano, per oltre quattro anni dal settembre 2011 al dicembre 2015. Alle serie criticità riscontrate al momento della presa di possesso nel complessivo assetto organizzativo, determinate dalla prolungata assenza del presidente e caratterizzate, in particolare, da un indice di ricambio dei procedimenti molto basso, da un incremento esponenziale delle sopravvenienze rispetto ai procedimenti definiti, dalla stasi di realizzazione dei programmi di informatizzazione dei servizi, si rese necessario procedere innanzitutto ad un’approfondita analisi dei problemi, che venne condotta attraverso una serie di studi e interlocuzioni collegiali. Poi, elaborato un condiviso disegno organico, fu data una decisa risposta alle criticità: da un lato, con l’urgente adozione di variazioni tabellari, che consentirono di registrare una radicale inversione di tendenza sia nel settore civile che in quello penale, con una rilevante riduzione delle pendenze e un significativo incremento della produttività e della qualità delle decisioni; dall’altro, con prassi virtuose di riordino dell’assetto organizzativo, fra cui la realizzazione del sito web della Corte e dell’Ufficio Innovazione, per dare concreta esecuzione alle attività di coordinamento dei vari progetti di innovazione tecnica e informatica. Penso all’applicazione in appello del PCT, che già funzionava brillantemente in Tribunale grazie ai moduli introdotti dalla Presidente, Livia Pomodoro, con il lungimirante apporto dell’Avvocatura milanese). Insomma, la Corte divenne un vero e proprio ‘cantiere’ di iniziative, corroborato – oltre che da un dialogo serrato e proficuo con l’Avvocatura - dal coinvolgimento dei consiglieri e presidenti di sezione, in un continuo lavoro collettivo di elaborazione ed affinamento di modelli operativi mirati al miglioramento del servizio giustizia (in un territorio economicamente e socialmente ricco ed esigente nei confronti delle istituzioni locali), frutto della mobilitazione e della valorizzazione delle potenzialità professionali e progettuali di ciascuno. Anche il Consiglio giudiziario, tradizionalmente ben strutturato e composto da magistrati dotati di sicuro prestigio e forte personalità, si rese protagonista della promozione di modelli organizzativi più efficienti, soprattutto per gli uffici investiti in quegli anni dalla revisione della geografia giudiziaria, anche in virtù della partecipazione attiva ai lavori consiliari degli avvocati e dei professori universitari e del carattere parzialmente “itinerante” delle sedute presso i vari tribunali del distretto. L’atmosfera del palazzo di giustizia di Milano è assolutamente unica nel panorama nazionale soprattutto perché – inserito com’è nel cuore della città e munito di sufficienti spazi per le stanze dei magistrati e per le udienze – è frequentato e vissuto fisicamente da coloro che ivi operano per l’intera giornata: uno storico luogo di incontri, dibattiti, studio e formazione, in cui si intessono significative relazioni umane e professionali, in un costante e serrato dialogo, talora conflittuale ma sempre trasparente. Molti ricordi s’affollano nella mente. Ne focalizzo due fra i più significativi. Fu davvero un bel giorno quello del 30 maggio 2013, in cui l’aula magna della Corte di appello venne intitolata alle figure luminose e indimenticabili di Guido Galli ed Emilio Alessandrini, che sacrificarono la vita in difesa della libertà, della dignità e della democrazia. Rivedo le immagini del commosso abbraccio fra Marco Alessandrini, figlio di Emilio, e la moglie Bianca e i figli Alessandra, Carla, Giuseppe e Paolo di Guido Galli. Fu viceversa una tragica giornata quella del 9 aprile 2015 in cui persero la vita in un’aula di giustizia di quel palazzo, nel corso di un’udienza, uno stimato magistrato, un giovane e brillante avvocato e un cittadino testimone, uccisi dalla furia omicida di un folle killer: le immagini delle vittime innocenti riverse a terra e il senso di sconfitta per la pure imprevedibile falla apertasi nel sistema di sicurezza sono ancora impressi nella mia mente.
Vorrei concludere sottolineando che la lunga e appassionata esperienza di giudice di legittimità mi ha insegnato a non dismettere mai l’esercizio concreto dell’attività giurisdizionale anche quando si è chiamati a dirigere un ufficio, e cioè a continuare in qualche misura - come ho fatto in realtà sia a L’Aquila che a Milano - a fare il giudice civile o penale, insieme con gli altri giudici, a studiare e decidere collegialmente i processi, a scrivere sentenze e ordinanze.
7. Due momenti diversi della tua esperienza in Corte di Cassazione. Il primo, da relatore di una delle sentenze che più si ricordano - Cass. S.U. penali n. 30328/2002 sul nesso di causalità -. Cosa ti ha lasciato?
Il diritto vivente viene elaborato da uomini e donne che studiano, riflettono, dibattono, per poi costruire il ‘precedente’, auspicabilmente condiviso e utile per la soluzione di casi simili o analoghi. Dietro ogni arresto giurisprudenziale si intravedono volti, parole, discussioni dei tanti protagonisti del complesso itinerario decisorio, ciascuno espressione di diversi saperi e valori. Proverò a ricostruire l’indimenticabile e affascinante ‘milieu’ storico-culturale nel quale è venuta alla luce la sentenza Franzese, che riguarda due norme del codice penale, gli articoli 40 e 41 intitolati al rapporto di causalità e articolati in brevissime disposizioni, che sembrano scolpite nel marmo e che sono state fatte salve da ogni progetto riformatore. Insomma, proverò a raccontare chi eravamo e come eravamo circa venti anni fa. Ricordo dentro la Corte di cassazione, primo fra tutti, Mariano Battisti, consigliere e presidente della Quarta sezione penale, giurista raffinato e autore di importanti sentenze in materia di causalità e colpa, il quale, fin dal processo sul disastro di Stava, privilegiava l’efficienza causale ex post rispetto all’aumento e alla mancata diminuzione del rischio ex ante. E poi Carlo Brusco, consigliere della medesima sezione, che a sua volta investigava il terreno epistemologico delle inferenze probabilistiche e il modello delle leggi scientifiche di copertura. In Procura generale, ricordo Gianfranco Iadecola, studioso attento della causalità nel campo della responsabilità medica, P.G. d’udienza nella causa Franzese. E, nell’Ufficio del Massimario, Teresa Massa, magistrato giovane e sfortunata, scomparsa prematuramente, che spiegava ai giudici i paradigmi della scienza e della logica movendosi fra “nuvole e orologi” di ascendenza popperiana. All’esterno della Corte, debbo menzionare, innanzi tutto, lo straordinario contributo culturale offerto negli anni 1999-2001 da professori (Carlo F. Grosso, Filippo Sgubbi, Francesco Palazzo, Sergio Seminara), avvocati (Ettore Randazzo) e magistrati di cassazione (rappresentati da Giovanni Silvestri e da me), partecipi dei fervidi lavori della Commissione ministeriale “Grosso” di riforma della parte generale del codice penale: lavori che hanno lasciato indubbie tracce nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, con particolare riguardo al terreno della causalità e della colpa. La contaminazione intellettuale fra sapere scientifico ed esperienziale, maturata in quel contesto, ruppe gli argini del dogmatismo autoreferenziale della dottrina e della giurisprudenza, incrociandosi con le moderne riflessioni di Federico Stella e Michele Taruffo, nonché di giovani studiosi, come Ombretta Di Giovine, Massimo Donini e Rocco Blaiotta (poi consigliere e presidente della Quarta sezione penale), sui temi della causalità e della colpa, della prova e della decisione, della verità e del dubbio. Sembrò allora vincente l’intuizione che le strutture delle categorie del diritto penale classico, per essere adeguatamente applicate, dovessero concretizzarsi verso il fatto, nel crogiuolo esperienziale del processo. E così, la causalità, posizionata tanto al centro delle teorie della conoscenza quanto nel cuore del processo, nel contesto della singola imputazione e dell’ascrizione della responsabilità individuale, si palesò in tutta la complessità della sua duplice dimensione, logico-giuridica e scientifica, di elemento costitutivo del reato. Si riconobbe quindi che, nel passaggio dall’ipotesi di accusa alla ricostruzione probatoria del fatto, nel contraddittorio proprio del rito accusatorio, fino alla conclusiva conferma/falsificazione dell’ipotesi, secondo inferenze di valenza induttivo-probabilistica, viene a snodarsi il dramma del giudicare, fra verità e dubbio, in condizioni di incertezza probatoria soprattutto laddove siano in gioco vicende di elevata complessità e rilevanza sociale. Certo, il garantismo della teoria condizionalistica, secondo il modello di spiegazioni causali supportate da leggi di copertura, continua a presentare varianti applicative e nuovi capoversi, quali: la causalità omissiva, quella psicologica, il concorso di persone nel reato, lo slittamento della causalità verso la colpa ecc. E però, dopo un ventennio, mi sembra che le difficoltà probatorie di settore non giustifichino un mutamento verso una teoria causale di tipo alternativo. Sicché, ancora oggi, sembra più saggio tenere ferma la prospettiva garantista del diritto penale classico, secondo cui non si può mai confondere il fattore di rischio e la ’possibile’ causa ex ante con la causa ‘certa’ ex post. D’altra parte, va ribadito – come sosteneva Pino Borré - che anche il più autorevole ‘precedente’ rappresenta solo la soluzione più ragionevole che fino a quel momento è stata raggiunta dalla giurisprudenza e che resiste fino a quando non ne venga acquisita un’altra più persuasiva e ragionevole. Ebbene, anche il precedente Franzese non si configura affatto come una ‘gabbia della ragione’; anzi mi sembra che abbia aperto percorsi di ricerca e scenari nuovi, nella consapevolezza del debito culturale che ogni arresto giurisprudenziale ha verso la comunità dei giuristi nello storico fluire del diritto nazionale. Debbo aggiungere che quello stesso clima culturale di stampo liberaldemocratico degli anni ‘90 del secolo scorso ispirò notevolmente il percorso ermeneutico della giurisprudenza di legittimità in tema di crimine mafioso organizzato, i cui arresti hanno contribuito alla solida costruzione di categorie giuridiche di straordinario rilievo in materia sia sostanziale, quanto alla delimitazione dell’area di tipicità delle fattispecie criminose, sia processuale. Intendo riferirmi agli approdi interpretativi di legittimità (ad esempio, Sez. Un., n. 33748/2005, Mannino, fortemente debitrice del precedente Franzese) nell’analisi delle forme di manifestazione della direzione, della partecipazione interna o della contiguità esterna all’associazione mafiosa e, quindi, nella fissazione dei criteri discretivi fra le diverse figure del capo, dell’associato, del concorrente esterno, o dello scambio elettorale politico-mafioso: fattispecie, quest’ultime, del concorso esterno e del voto di scambio certamente non di mera creazione giurisprudenziale. Come pure vanno richiamati i canoni affermati dalla giurisprudenza e ormai condivisi sul terreno più strettamente processuale (secondo il modello del “doppio binario”), in tema di applicazione delle massime di esperienza e dei criteri di inferenza e valutazione della prova indiziaria, di governo delle presunzioni per le misure cautelari personali, di verifica dei requisiti di affidabilità della chiamata di correo, di legittimità e utilizzabilità delle intercettazioni. Va pure sottolineato che, anche nelle fasi dell’emergenza criminale più acuta, come quella degli omicidi “eccellenti”, astrattamente riferibili come delitti fine a un mandato della “cupola” di Cosa nostra, la Corte di cassazione, negli anni ’90, non ha affatto sostenuto il principio di una corresponsabilità automatica ed oggettiva, “di posizione”, dei “capi” per l’esecuzione del delitto. Ma, in ossequio al principio liberale di personalità della responsabilità penale e ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, ha preteso che risultassero concretamente accertati, caso per caso e alla stregua di indizi convergenti e univoci, l’effettivo ruolo di ciascun rappresentante dei mandamenti alle deliberazioni collegiali della “commissione” palermitana, anche con riguardo ai diversi tempi che ne hanno segnato la vita e il funzionamento col prevalere della fazione egemone e sanguinaria di Totò Riina e dei corleonesi. Un contributo nomofilattico, quello della Corte di cassazione, di cui va riconosciuta l’obiettiva utilità ai fini della corretta direzione delle indagini e della chiara formulazione delle contestazioni da parte del pubblico ministero, prima, e del controllo probatorio dell’ipotesi accusatoria, nel contraddittorio e nel giudizio di merito, poi, in funzione del giusto processo e della giusta decisione.
8. Nella sentenza delle S.U. penali n. 8770/2018 le Sezioni Unite da te presiedute affermano che all’interprete non è “vietato andare 'oltre' la letteralità del testo, quando l’opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l’unica plausibile e perciò compatibile col principio della prevedibilità del comando; sia, cioè, il frutto di uno sforzo che si rende necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi così a dare luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al 'diritto vivente' nella materia in esame.” Dietro questa affermazione di principio qual è la visione del ruolo del giudice che si è inteso offrire alla comunità degli interpreti?
Ius litigatoris e ius constitutionis. Parole auliche ancora attuali nell’attuale assetto delle funzioni di legittimità o dimostrative che le intuizioni di Piero Calamandrei non sono più coerenti con i “numeri” di una Corte di Cassazione come quella italiana?
Le Sezioni unite penali, con la sentenza Mariotti n. 8770 del 2018, hanno preso posizione sul tema della responsabilità penale del medico dopo le riforme «Balduzzi» e «Gelli-Bianco», con particolare riferimento alla portata del novellato art. 590-sexies cod. pen. Oltre alla lettura ermeneutica del dettato dell’art. 6 della «Gelli-Bianco», condivisa dal successivo indirizzo giurisprudenziale della Quarta sezione penale (in termini di rilevanza della sola colpa da imperizia e non da negligenza o imprudenza, per difetto di conformità alle linee guida nella fase dell’esecuzione e non della selezione della migliore pratica, e della sola colpa lieve e non anche di quella grave), va rimarcato che le Sezioni unite hanno evidenziato il nucleo forte di razionalità racchiuso nel dettato dell’art. 2236 cod. civ., come scrutinato per ben due volte dalla Corte costituzionale, e ne hanno sottolineato la portata applicativa per l’interprete. A me sembra che il passo motivazionale trascritto nella domanda si ponga in perfetta linea di continuità con quanto affermato in una precedente sentenza delle Sezioni unite penali (n. 18288 del 2010, PG in proc. Beschi), circa il ruolo del formante del diritto vivente, opera della giurisprudenza di legittimità in funzione nomofilattica, nella costruzione della trama regolatrice della decisione nel caso concreto. Il diritto vivente postula «la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente creativa della interpretazione, la quale, senza varcare la linea di rottura col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima». Nella relazione di tipo concorrenziale tra potere legislativo e potere giudiziario, il reale significato della norma, in un determinato contesto socioculturale, non sempre emerge dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniuga tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Sicché, in tali casi, «la struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività concretizzatrice della giurisprudenza». D’altra parte, nel difficile equilibrio fra il principio di legalità penale e la mediazione interpretativa del giudice, che rende talora incalcolabile l’agire dell’interprete, il sistema non è sprovvisto di antidoti, soccorrendo – nonostante la incomparabile mostruosità dei numeri dei ricorsi per cassazione - la rete coerenziatrice della «nomofilachia», ad opera della Corte «del precedente», e, oggi ancor più, il proficuo dialogo fra le Corti.
9. Il ruolo della Corte di Cassazione rispetto al tema dei diritti fondamentali e dei rapporti con le Corti sovranazionali. Come hai visto cambiare la Corte di legittimità negli anni in cui vi hai lavorato?
Il mondo è davvero cambiato – si potrebbe ben dire – da quando entrai per la prima volta in Corte di cassazione nel 1995, un’epoca in cui per la giurisprudenza di legittimità vi era una sola fonte primaria e sovraordinata alle altre: la Costituzione; mentre il rilievo degli interventi della Corte Edu o della Corte di Lussemburgo era davvero minimo. Oggi, a valle del primo ventennio del XXI secolo e dopo un’intensa stagione di studi e ricerche sulla portata delle Carte dei diritti e sul ruolo delle Corti sovranazionali, si riconosce viceversa che l’inesistenza di una gerarchia fra le fonti e la configurazione dei rapporti fra ordinamenti in termini di parità orizzontale pretendono la costante ricerca delle ragionevoli compatibilità e giustificano la necessità di quello che si chiama “il dialogo fra le Corti”, nel rispetto effettivo del principio di leale cooperazione e in vista del comune fine di dare concretezza ai diritti fondamentali della persona e alle garanzie della Rule of Law. È diventato centrale il ricorso a prassi virtuose di coordinamento che consentano di scongiurare le eventuali aporie ermeneutiche, mediante peculiari modalità di confronto fra giudici interni e sovranazionali, soprattutto fra le Corti supreme e le giurisdizioni sovranazionali. Nell’ambito di una straordinaria stagione d’incontri, seminari e colloqui, la Corte di cassazione ha siglato nel 2015-2016 un Protocollo d’intesa e un Memorandum con la Corte di Strasburgo e nel 2017, nell’ambito della Rete giudiziaria dell’Unione europea, un Protocollo di accordo sulla cooperazione con la Corte di Lussemburgo, la cui precipua finalità è quella di individuare le linee generali di sviluppo delle rispettive giurisprudenze, attraverso tecniche di formazione e informazione dei giudici e nel rispetto dell’indipendenza di ciascuna giurisdizione. Un sistematico confronto appare lo strumento più efficace per realizzare la cornice metodologica dentro la quale verificare l’effettività dell’applicazione giudiziale della Carta dei diritti fondamentali e approfondire le tematiche che, più di altre, hanno segnato il recente atteggiarsi dei rapporti fra le Corti (cons., da ultimo, il precariato scolastico, il mandato d’arresto europeo, la prescrizione dei reati, il divieto di bis in idem, il principio di non discriminazione, il diritto di asilo ecc.). La strada segnata dai Protocolli d’intesa rappresenta un punto di non ritorno e una straordinaria evoluzione di cui non potrà farsi a meno nel percorso di costruzione dell’ordinamento integrato. Una speciale importanza va attribuita all’approfondimento dei meccanismi di funzionamento in action delle giurisdizioni e delle best practices processuali, nonché all’analisi dei registri del linguaggio, del ragionamento giuridico e dello stile delle motivazioni nei più rilevanti arresti delle Corti, interne e sovranazionali, in grado di veicolare codici comportamentali, linee guida e tecniche di argomentazione condivise, in una sorta di nuovo ius commune europeo. Il “dialogo fra le Corti” si è sviluppato negli anni 2016-2017 anche in sedi extraeuropee, sottoscrivendo, talora anche con la partecipazione del CSM, formali Memorandum of Understanding con le Corti supreme della Federazione Russa, della Repubblica Popolare di Cina e dello Stato di Israele, diretti anch’essi allo scambio sistematico di documentazione e informazioni sulle linee generali di sviluppo della relativa giurisprudenza, nel rispetto dell’indipendenza di ciascuna giurisdizione. Ricordo inoltre che la Corte di cassazione italiana è rappresentata dal suo Presidente nella Rete delle Corti supreme europee. In tale veste ho fatto da relatore sia a Madrid nel 2016, sul tema delle Corti supreme come Corti del precedente, che a Tallin in Estonia nel 2017, sul tema della indipendenza delle Corti supreme, con particolare riguardo alle vicende della suprema Corte della Repubblica di Polonia, che, insieme con l’intero sistema giudiziario, era stata investita da una serie di controriforme ordinamentali dirette a comprimere l’autonomia di quella magistratura nel suo complesso.
10. Veniamo ai temi più caldi. Il 2016 è l’anno in cui ti insedi come Primo Presidente della Corte. Qual è stato, secondo te, il ruolo delle correnti nella nomina a quell’incarico all’interno del CSM?
E qual è il tuo avviso sul ruolo delle correnti nella magistratura alla luce delle vicende a tutti note di quest’ultimo periodo? Da più parti, soprattutto all’interno della magistratura, si era avvezzi all’idea che rispetto agli incarichi direttivi o semidirettivi entrassero in gioco elementi non esclusivamente legati alla professionalità. E ciò ancorché il nostro sistema, a differenza di quello nordamericano, non prevede la nomina fiduciaria dei giudici da parte di organi politici. Tutto marcio e da buttare?
L’esperienza al CSM. Ci verrebbe da dire: nessuna domanda! Raccontaci se lo ritieni utile, qualche episodio che possa dare la misura del tuo rapporto con i consiglieri e con le correnti della magistratura.
Il ruolo del Primo Presidente all’interno del CSM quando in gioco ci sono questioni che riguardano l’assetto della Corte di Cassazione. Pensiamo alla nomina dei Presidenti di sezioni o agli assetti interni collegati alle tabelle: neutralità assoluta, attiva partecipazione in relazione alla conoscenza dell’organo supremo della giurisdizione e dei consiglieri che vi operano o rispettosa terzietà pur nella istituzionale necessità di fornire il proprio apporto conoscitivo?
Non ne sono personalmente a conoscenza, ma mi sembra legittimo che i rappresentanti delle correnti in seno al CSM dialoghino fra loro – e, perché no, anche con i membri laici – in occasione della importante nomina del Primo Presidente della Corte di cassazione. D’altra parte, avevo autorizzato la pubblicazione della domanda con i relativi allegati che attestavano la presenza dei requisiti per la nomina. Il CSM deliberò all’unanimità a mio favore con le astensioni dei due rappresentanti di MD (con i quali, peraltro, subito s’instaurò un rapporto amichevole e proficuo); mentre gli autorevoli concorrenti, Renato Rordorf, a sua volta nominato presidente aggiunto, e Franco Ippolito, presidente della Sesta sezione penale, si rivelarono i più validi e leali collaboratori nel biennio di presidenza della Corte.
Quanto, più in generale, al ruolo e alla funzione delle correnti nella magistratura associata, non si può non riconoscere lo straordinario rilievo che, a partire dalla metà degli anni a’60 del secolo scorso, ha avuto per lo sviluppo della giurisdizione il vivace dibattito aperto fra le diverse e talora opposte visioni delle correnti sui rapporti fra la magistratura, la società, la politica e le istituzioni democratiche (in proposito, consiglio la lettura di quella sorta di atlante storico disegnato dal bel libro di E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, 2018). Voglio dire che mi sembra davvero riduttivo pensare di scrivere la storia della magistratura italiana attraverso la pubblicazione di talune chat fra i magistrati, che pure evidenziano condotte gravemente riprovevoli e profonde degenerazioni del fenomeno correntizio, o di approvare una riforma ordinamentale definendola spregiativamente “spazzacorrenti”. In verità, come non è lecito “spazzare” le persone, neppure le più corrotte, così non meritano - in nome della giustificata repressione di comportamenti illeciti di singoli magistrati - di essere “spazzati” i valori e le idee che sostengono la legittima distinzione dei magistrati in autonomi gruppi associativi. Voglio aggiungere che non ho mai apprezzato i laudatores temporis acti, quelli di “dopo di me il diluvio”, e però neppure i fautori di una radicale palingenesi, quelli di “prima di me le tenebre”. Il giurista non può rinunciare all’analisi critica e non può non intravedere nei fatti del passato, insieme con le ombre, anche le luci. Dico questo anche a proposito dell’esperienza biennale (2016-2017) di partecipazione ai lavori della precedente consiliatura. Sia il Procuratore Generale, Lello Ciccolo, che io abbiamo condiviso molte deliberazioni del Plenum, adottate quasi sempre all’unanimità, aventi ad oggetto la nomina di tanti, eccellenti, presidenti e procuratori generali di Corti d’appello, presidenti di sezione e avvocati generali della Corte di cassazione, procuratori della Repubblica delle città più importanti, e fra essi per la prima volta numerose donne: dirigenti che hanno dato e stanno dando prove altamente positive di svolgere con onore e impegno l’incarico loro affidato e di non meritare quindi un’ingiustificata opera di delegittimazione. E’ stato ancora quel Consiglio a dare una forte spinta alla riattivazione sia dei rapporti con la Scuola della Magistratura che dei lavori della Nona Commissione con riguardo alle relazioni internazionali, non solo all’interno della Rete dei consigli di giustizia europei (preparando così il terreno alla recente nomina del Prof. Donati a presidente dell’ENCJ) e delle Reti balcanica e mediterranea, ma anche attraverso la stipulazione di memorandum d’intesa con diverse e lontane realtà giudiziarie (come la Repubblica popolare di Cina, lo Stato d’Israele ecc.); ad intervenire con un giudizio netto di riprovazione in ordine alle drammatiche vicende conseguenti al golpe fallito in Turchia e alle gravi violazioni dell’indipendenza dei magistrati in Polonia, pretendendo la sospensione dei due Paesi dalle rispettive Reti; a promuovere visite presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea e incontri di studio a Roma fra CSM, Corte costituzionale, Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte di giustizia UE; a siglare intese significative con l’Avvocatura e il CNF; a procedere alla non semplice e faticosa revisione del regolamento interno, in cui – tra l’altro - vengono per la prima volta puntualmente disegnati i termini dei rapporti fra il Comitato di presidenza, le singole Commissioni e il Plenum. Ed è stato quel Consiglio a deliberare la desecretazione e la pubblicazione in due volumi degli atti riguardanti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nonché la commemorazione degli ottanta anni dalle leggi razziali del 1938, mediante la cura e la pubblicazione di una bella raccolta di saggi, intitolata “Razza e in-giustizia”, che fu presentata in Senato con gli interventi della Sen. Liliana Segre e della Presidente della Corte suprema israeliana.
Per quanto mi riguarda, posso affermare che non ho affatto inteso il ruolo di componente di diritto del CSM e di membro del Comitato di presidenza in termini di asettica neutralità, essendomi sembrato doveroso dare il responsabile contributo di sapere e di esperienza del presidente della Corte di cassazione per ogni deliberazione di rilievo dell’Assemblea plenaria, prendendo spesso la parola ed esprimendo di volta in volta un voto motivato e consapevole, a volte in senso favorevole e altre volte in senso contrario alla proposta di Commissione. E ciò è avvenuto ripetutamente, soprattutto quando oggetto di trattazione e decisione da parte del Plenum erano questioni riguardanti l’assetto ordinamentale della Corte di cassazione (nomine di consiglieri o presidenti di sezione, modifiche tabellari ecc.). Ricordo anzi che il Procuratore Generale ed io fummo auditi in Commissione in occasione della nomina dei presidenti di sezione e degli avvocati generali, esprimendo liberamente le nostre valutazioni, ovviamente non sui singoli concorrenti ma sui criteri generali che avrebbero dovuto presiedere la selezione, come pure partecipammo attivamente alle audizioni dei c.d. meriti insigni, per poi autonomamente determinarci in occasione delle votazioni delle relative proposte in assemblea plenaria.
11. La Prima Presidenza della Corte e le Sezioni Unite, civili e penali. La funzione nomofilattica vissuta. Ricordi particolari?
Tanti ricordi certamente, soprattutto delle persone che ho incontrato! Si dimentica spesso che quest’organo, le Sezioni unite, che s’immagina riunito in un’aulica torre, è composto in realtà da nove uomini e donne che provengono dal lavoro quotidiano in sezione e che – con il prezioso ausilio del Massimario - studiano e si confrontano sulle varie questioni prima e durante l’udienza collegiale. Il presidente ha il dovere di alimentare i dubbi e sollecitare la discussione sui temi controversi, per esplorare fino in fondo i concreti effetti della decisione sull’assetto dell’istituto e talora sull’intero sistema e quindi contribuire a portare ad unità le differenti opinioni emerse nel dibattito. Va rimarcato che la stragrande maggioranza delle decisioni viene presa all’unanimità, mentre solo raramente si provvede alla sostituzione del relatore dissenziente. Per le Sezioni unite penali vi è poi l’ulteriore onere di formulare in tempo reale le c.d. informazioni provvisorie a beneficio della comunità dei giuristi: un’operazione, questa, che pretende chiarezza, puntualità e sintesi. Insomma, come consigliere prima e presidente poi, ho sempre vissuto le Sezioni unite come un luogo ideale in cui s’intrecciano importanti relazioni umane e s’incrociano vari saperi ed esperienze giudiziarie; negli ultimi tempi anche come una straordinaria palestra di educazione alla collegialità del dialogo per i giovani tirocinanti della Corte, che invitavo di volta in volta a partecipare alle udienze.
12. I procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati e la competenza esclusiva delle Sezioni unite civili. Avevi proposto una modifica dell’attuale assetto. Ci potresti ricordare da cosa nasceva quell’idea?
La proposta di integrare la composizione delle Sezioni unite civili con (tre) consiglieri delle Sezioni unite penali - non approvata dalla maggioranza del Plenum del CSM - nasceva dall’intento di assicurare al collegio giudicante in materia di disciplina dei magistrati il proficuo apporto del sapere e dell’esperienza di un limitato numero di magistrati della giurisdizione penale, in considerazione della struttura bifasica del giudizio disciplinare di legittimità e dell’elevato numero di questioni processuali o sostanziali di natura penalistica che il giudice disciplinare è chiamato ad affrontare. E ciò - attraverso il meccanismo tabellare della coassegnazione - al solo fine di rafforzare l’autorevolezza delle Sezioni unite civili nel gravoso compito di realizzare una più larga e condivisa nomofilachia nel settore. In linea di principio, debbo peraltro rimarcare il deficit ordinamentale quanto alla previsione di un organo (distinto e di competenza superiore rispetto alle Sezioni unite civili, da un lato, ed a quelle penali, dall’altro), destinato a risolvere gli eventuali conflitti di giurisprudenza infrasezionali, non già all’interno del medesimo settore (civile o penale) bensì fra i due distinti settori, su materie o istituti di comune interesse. Il non più raro verificarsi di tale complicata situazione potrebbe suggerire la costituzione per via tabellare (ad esempio, mediante il modulo della “coassegnazione”) di un Collegio in composizione “mista”, formato da giudici civili e penali di legittimità in pari numero di quattro, i quali, con cadenza semestrale o annuale, venga convocato dal primo Presidente per risolvere le eventuali questioni controverse, nei casi in cui la soluzione offerta ab externo, seppure nell’ambito della propria competenza ratione materiae, dalla Corte civile possa incidere sull’indirizzo giurisprudenziale di quella penale e viceversa. Laddove la nomofilachia, in casi del genere, rischia di vedere pregiudicati i caratteri della dinamicità e della orizzontalità, verrebbe attivato un virtuoso ed efficace meccanismo compensativo di formazione di autorevoli “precedenti”, diretto a paralizzare l’indubbio pregiudizio recato per contro alla certezza del diritto dalla imprevedibilità e disomogeneità di quelle decisioni giudiziali.
13. Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati. Utilità, opportunità, gratuità per un consigliere di cassazione. Cosa ne pensi alla luce della tua esperienza professionale che ti ha anche visto componente di una commissioni ministeriali per la riforma del codice penale? Esiste una risposta secca, ovvero occorre distinguere tra la tipologia degli incarichi e degli enti proponenti. Ma in ogni caso, in che misura la società civile è disposta ad accettare lo svolgimento di funzioni non giudiziarie, se remunerate, da parte di un vincitore di un concorso pubblico in magistratura?
Sono stato (con Giovanni Silvestri) componente della Commissione ministeriale “Grosso” per la riforma della parte generale del codice penale (1999-2001) e della Commissione ministeriale “Riccio” per la riforma del codice di procedura penale (2006-2008) e presidente della Commissione ministeriale “Canzio” per elaborare una proposta di interventi in tema di processo penale (2013-2014), il cui articolato ha costituito la base della legge di riforma n. 47 del 2015 in materia di misure cautelari personali e di quella n. 103 del 2017 (“Orlando”), recante significative modifiche ai codici penale e di rito, con particolare riguardo al sistema delle impugnazioni. Tali incarichi sono stati svolti a titolo gratuito e hanno costituito una straordinaria occasione di confronto fra i vari protagonisti della giurisdizione - professori universitari, avvocati, magistrati –, al fine di offrire al decisore politico una piattaforma razionale e condivisa di alcuni articolati di riforma con le rispettive relazioni illustrative. Il contributo dei magistrati al lavoro di siffatte Commissioni di studio si rivela a mio parere prezioso se non addirittura doveroso, così da mettere a fattor comune, con l’Accademia e l’Avvocatura, gli specifici saperi e le esperienze pratiche della magistratura. Come pure mi sembra che presso il Ministero della giustizia alcune funzioni ben possano essere tradizionalmente e legittimamente attribuite ai magistrati. Penso al gabinetto del Ministro, all’ufficio legislativo, all’organizzazione giudiziaria, alle direzioni generali dei settori civile e penale, al DAP. Uffici che - è bene ricordarlo - sono stati ricoperti in passato da personalità prestigiose, le quali, sia prima che dopo l’incarico ministeriale, si sono impegnate nell’esercizio della giurisdizione (mi limito a fare i nomi, fra i tanti, di Liliana Ferraro, Livia Pomodoro, Giovanni Falcone, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Vladimiro Zagrebelsky, Giorgio Fidelbo, Loris D’Ambrosio, Mimmo Carcano, Peppe Santalucia, Renato Bricchetti, Gianni Melillo, Betta Cesqui). Lo stesso è a dirsi per il contributo di conoscenze offerto dai magistrati mediante gli incarichi (peraltro molto modestamente remunerati) di insegnamento delle materie giuridiche presso Università, Scuole di specializzazione o Istituti di ricerca, purché senza scopo di lucro. Viceversa, non vi è dubbio che altri, invero non pochi, servizi di tipo meramente amministrativo (soprattutto se estranei al settore della giustizia) ben potrebbero essere affidati a funzionari dell’amministrazione anziché a magistrati. Insomma, intendo dire che anche in questo campo occorre opportunamente esercitare l’analisi critica in considerazione delle diverse tipologie di incarichi e dei diversi enti proponenti.
14. Quanto e in che misura la tua esperienza di studioso, quella al Massimario della Corte di cassazione, nonché di giudice di legittimità e di dirigente di importanti Corti d’appello ha influito sulla tua partecipazione alle Commissioni ministeriali di riforma del codice penale e di procedura penale e nella elaborazione delle proposte di modifiche legislative? Quali differenze ha riscontrato nell’approccio ai problemi da risolvere da parte degli accademici?
Nella successiva applicazione delle riforme hai riscontrato che i risultati che si erano prefissati (sia in termini di deflazione, alleggerimento e semplificazione del lavoro, soprattutto della Corte di cassazione e delle Corti d’appello, sia nella prospettiva di adeguamento alle indicazioni interpretative fornite dalle Corti sovranazionali) sono stati raggiunti?
Quanto hanno influito nell’esercizio dell’attività giurisdizionale di legittimità, in particolare di Presidente delle Sezioni Unite penali, l’esperienza del merito (in particolare la presidenza delle Corti di L’Aquila e Milano), quella di studioso e quella di partecipazione alla elaborazione delle riforme processuali da applicare? L’anticipazione di soluzioni interpretative poi recepite sotto forma di innovazioni legislative (pensiamo soprattutto all’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen. e all’introduzione dell’obbligo di rinnovazione istruttoria per il caso di riforma di sentenza di assoluzione) ha costituito motivo di difficoltà o di imbarazzo per la reciproca influenza tra i ruoli?
Come giudichi, in definitiva, il rapporto e l’interazione tra giudice di merito, giudice di legittimità, dirigente giudiziario e partecipe della elaborazione delle riforme processuali?
Credo di avere già risposto implicitamente a questo gruppo di domande. In estrema sintesi, la mia idea è che il magistrato (ancor più se di ispirazione liberaldemocratica) debba essere un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica, per poter diventare un responsabile ed efficace valutatore del fatto e interprete del diritto e un decisore di qualità. A condizione che egli rimanga libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l’etica del limite, non solo non ravviso alcuna incompatibilità fra il ruolo del giudice, di merito o di legittimità, quello dello studioso che insegna e scrive libri, note o saggi e quello del componente di una Commissione ministeriale di studio ed elaborazione di progetti di riforma della giustizia; ma anzi ritengo che l’interazione di questo tipo di esperienze, così ricche e plurali, possa influenzare positivamente la crescita umana e professionale del magistrato e contribuire al miglioramento della qualità della giustizia che egli amministra e, più in generale, al rafforzamento della legittimazione democratica dei magistrati nella società e nelle istituzioni. Inoltre, va sempre rammentato che i progetti di riforma camminano sulle gambe degli uomini e delle donne chiamati ad applicarle. Spetta a tutti i protagonisti della giurisdizione fare, ciascuno, la propria parte perché il modello processuale prescelto dal legislatore funzioni efficacemente, e nello stesso tempo sperimentarne le criticità applicative per proporne – con spirito riformista - gli aggiustamenti, le modifiche o addirittura il superamento. Per quanto riguarda, in particolare, la regola dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, che era stata suggerita nell’articolato della Commissione ministeriale “Canzio” ed è stata poi positivamente stabilita dall’art. 603, comma 3-bis c.p.p., introdotto dalla legge di riforma “Orlando” n. 103 del 2017, mi preme sottolineare che la sentenza delle Sezioni unite n. 27620/2016, Dasgupta (che – redatta da quel fine giurista che è Gianni Conti - ne aveva anticipato la portata, per essere poi seguita da SU 18620/17, Patalano, SU 14800/18, P.G. in proc. Troise e SU 14426/19, Pavan) costituiva in realtà l’ineludibile approdo di un itinerario ermeneutico risalente sia a un indirizzo giurisprudenziale già avviato dalle Sezioni unite (n. 45276/2003, Andreotti e n. 33748/2005, Mannino) che all’ormai consolidato orientamento della Corte di Strasburgo. Per questa ragione, i componenti del collegio delle Sezioni unite che decisero il caso Dasgupta nel 2016 non avvertirono alcuna difficoltà, né imbarazzo, nel fissare il principio di diritto in questione.
15. Rimpianti rispetto a qualcosa che avresti potuto fare in più o di diverso per la Corte di Cassazione?
Per la verità, il tempo a disposizione – appena due anni – non è stato molto, poiché, fra gli effetti negativi della riforma dell’età pensionabile dei magistrati, va annoverata anche quello delle presidenze di breve durata. E però, nel biennio 2016-2017 (di cui il secondo anno di “proroga”, com’è noto), ogni energia, da parte mia e del Presidente Aggiunto, insieme con i presidenti di sezione e numerosi consiglieri, con l’ausilio del segretariato generale e dell’apparato amministrativo, è stata dedicata, in una sorta di impresa collettiva: prima ad un’attenta analisi delle criticità presenti in alcuni settori (ponendo in assoluta evidenza la priorità d’intervenire sull’assetto della sezione tributaria, a causa dell’enorme peso dell’arretrato e del carico notevole delle sopravvenienze); poi alla definizione di moduli organizzativi e linee guida condivisi in merito all’avvio e al funzionamento delle due importanti riforme del giudizio civile e di quello penale di legittimità, di cui, rispettivamente, al decreto legge n. 168, conv. con legge n. 197 del 2016, e alla legge n. 103 del 2017 (“Orlando”). Riforme strutturali, queste, che hanno disegnato un’architettura più moderna ed efficace del giudizio di legittimità, civile e penale, in linea di continuità con il lavoro delle competenti Commissioni ministeriali e con le proposte avanzate dall’Assemblea generale della Corte del 23 aprile 1999 e del 25 giugno 2015. Tornando indietro nel tempo ritengo che sarebbe stata necessaria una più forte determinazione nel propugnare innovazioni ancora più radicali dei modelli organizzativi della sezione tributaria, non essendo i pur ampi interventi adottati sufficienti a sciogliere il nodo del pesante fardello accumulato negli anni passati. Ancora: oltre la pubblicazione dei decreti in tema di motivazione sintetica o semplificata delle sentenze e sui moduli di relazione fra le sezioni semplici e le sezioni unite, avrei dovuto contrastare con maggiore decisione i fenomeni – seppure non molto diffusi – delle c.d. sentenze-trattato e della inosservanza, consapevole o meno, da parte della sezione semplice del vincolo interpretativo costituito dal principio di diritto affermato dalle sezioni unite. Fenomeni, entrambi, che a mio avviso realizzano un serio vulnus all’efficacia della funzione nomofilattica di una Corte suprema “del precedente”.
16. Pietro Curzio, nelle poche parole pronunziate in occasione del suo insediamento, ha insistito sull’art. 54 della Costituzione in cui si parla delle funzioni affidate ai pubblici funzionari che devono assolverle con disciplina e onore. Che augurio ti senti di rivolgere a chi è stato chiamato, in un delicato momento come quello che tutti noi stiamo vivendo, a ricoprire il ruolo di Primo Presidente?
Ho apprezzato la scelta coraggiosa e nient’affatto scontata operata dal CSM. Com’è noto, sono da tempo un estimatore delle qualità umane e professionali di Pietro Curzio e, aggiungo, di Margherita Cassano, con i quali è già avvenuto un proficuo scambio di idee e di auguri in occasione della loro nomina ai prestigiosi incarichi di Primo Presidente e, rispettivamente, Presidente Aggiunto. Sono certo che, nonostante la non lunga durata, sarà questa una presidenza di svolta per il settore civile e tributario della Corte, i cui presidenti e consiglieri dovranno procedere con maggiore slancio e più sicura convinzione alla realizzazione dei modelli di giudizio prefigurati dalla recente riforma del giudizio civile di cassazione, tenuto conto che essi sono coerenti – quasi alla lettera - con quelli indicati nelle deliberazioni conclusive delle due assemblee generali del 1999 e del 2015.
17. Ad un giovane brillante che abbia ultimato gli studi universitari consiglieresti oggi di fare il magistrato?
Certamente! Il “mestiere” di giudice, per il connotato di indipendenza, etica e razionalità della funzione esercitata, si annovera senz’altro fra i più interessanti e ricchi di esperienze. Anzi, direi meglio: i “mestieri” del giudice. Infatti, la pluralità e la varietà delle funzioni costituiscono un antidoto sia alla pigrizia culturale e professionale, sia alla prefigurazione dell’esercizio della giurisdizione come “potere” anziché come “servizio”: un serio rischio, questo, che può annidarsi laddove esso venga svolto dal magistrato per tanti anni o addirittura per l’intera vita professionale in uno stesso ufficio e con le medesime funzioni.
Posizioni organizzative e dirigenza amministrativa: aperture di credito della Consulta per l’efficienza della P.A.
(nota a Corte Costituzionale 25 giugno 2020, n. 128 e Corte Costituzionale 24 luglio 2020, n. 164)
di Roberto Bellè
La nota esamina due recenti pronunce della Corte Costituzionale in tema di posizioni organizzative per incarichi di alta professionalità, rispettivamente presso le Regioni e le Agenzie tributarie. Il commento evidenzia come la Corte, rigettando le questioni di legittimità proposte, abbia riconosciuto l’utilità delle posizioni organizzative nel fornire alla P.A. strumenti efficaci di persecuzione del buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione. Ciò attraverso un sistema che allontana sempre più il pubblico impiego dall’istituzione della categoria dei “quadri” e che valorizza piuttosto forme temporanee di incentivo motivazionale, sotto il profilo economico e professionale, cui peraltro, almeno nella normativa sulle Agenzie fiscali, si accompagnano incentivi a favore dei dipendenti in occasione dei concorsi di accesso alla dirigenza. Incentivi ritenuti anch’essi legittimi dalla Consulta e che, risultando ragionevolmente finalizzati a valorizzare, in un assetto normativo maturo, l’imprescindibile contributo che deriva dall’assurgere alla dirigenza di personale interno, possono consentire una positiva attuazione della regola sul pubblico concorso.
Sommario: 1. Due sentenze, un’unitaria ispirazione - 2. La sentenza della Corte Cost. n. 128/2020 - 3. La sentenza della Corte Cost. n. 164/2020 - 4. Dirigenza e p.o.: profili ricostruttivi - 5. Il piano lavoristico: sempre più lontana l’ipotesi dei “quadri” nel pubblico impiego ? - 6. Corte Costituzionale e regime concorsuale della dirigenza - 7. Conclusioni.
1. Due sentenze, un’unitaria ispirazione
Le due sentenze pressoché coeve che si annotano, intervenendo in modo tra loro complessivamente coerente su questioni di fondo relative alla disciplina delle c.d. posizioni organizzative [1], anche nella delimitazione di esse rispetto alla dirigenza, tracciano un importante solco interpretativo, caratterizzato non solo dai tratti giuridico-argomentativi, di cui si dirà, ma altresì ispirato dal fine di attribuire alla P.A. margini significativi, sia per quanto attiene alle potestà organizzative, sia per quanto riguarda il transito del proprio personale migliore dalle predette posizioni di rango elevato allo status dirigenziale vero e proprio.
2. La sentenza della Corte Cost. n. 128/2020
La sentenza n. 128 riguarda la disciplina toscana (Legge Regione Toscana 7 maggio 2019, n. 22, artt. 1, 2 e 3), con la quale si è regolata la complessa vicenda del transito di personale destinatario di incarichi di alta professionalità dalle province e città metropolitane alla Regione, rispetto al quale la normativa statale (art. 1, co. 800, L. 205/2017) consentiva un incremento di fondi degli enti di destinazione, a condizione del rispetto di regole da stabilirsi, tra l’altro, con apposito d.p.c.m. Contestualmente il C.C.N.L. di comparto del 2018 aveva previsto (art. 14) una nuova regolamentazione per l’attribuzione delle posizioni organizzative, stabilendo la proroga di quelle preesistenti non oltre il 18 maggio 2019. Nelle more della definizione del citato d.p.c.m. e considerando la prossima scadenza della proroga disposta dal C.C.N.L., la legge regionale ha autonomamente disposto una propria proroga di tali posizioni, fino al completamento delle procedure di attribuzione che sarebbero conseguite allorquando il d.p.c.m. fosse entrato in vigore.
La Corte Costituzionale, raggiunta dal ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha rigettato, ritenendo - per quanto qui interessa - che la normativa regionale non avesse avuto ad oggetto la materia, riservata allo Stato, dell “ordinamento civile” (art. 117 lett. l Cost.), ovverosia delle obbligazioni e diritti derivanti da un dato rapporto di lavoro pubblico, quanto la potestà organizzativa degli enti, rientrante nell’ambito della competenza residuale regionale. L’esercizio della potestà legislativa è stato poi ritenuto non irragionevole, perché coerente con l’esigenza di disciplinare, in una prospettiva di buon andamento della P.A. ed attraverso l’assicurazione di continuità all’attività amministrativa, la necessaria transizione verso il riassetto conseguente alle citate deliberazioni centrali.
L’asse argomentativo è convincente, in quanto la possibilità per la contrattazione collettiva di destinare, nell’ambito dei comparti, «apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità» (art. 40, co. 2, d. lgs. 165/2001), da cui si desume la possibilità di costituire posizioni organizzative, non significa certamente che essa sia preclusiva rispetto alla decisione del singolo ente sul se e come istituire le medesime, la cui definizione ad opera della P.A. (e qui, anzi, direttamente ad opera della legge quanto a proroga temporale delle posizioni pregresse) è discrezionale[2], in applicazione dell’assetto delineato dal d. lgs. 165/2001 (art. 40, co. 1 [3]), esprimendo l’intenzione datoriale di perseguire un certo risultato, attraverso quella modalità, ovverosia preponendo a certi uffici di alta professionalità, con potestà esterne e corrispondenti responsabilità, le persone dei livelli impiegatizi più elevati[4].
3. La sentenza della Corte Cost. n. 164/2020
L’altra pronuncia in commento riguarda una parimenti intricata vicenda normativa, relativa agli assetti apicali delle Agenzia delle Entrate e di quella delle Dogane.
I prodromi di essa risalgono al fatto che tali Agenzie hanno provveduto, nel corso degli anni, a sopperire alla vacanza di posti dirigenziali attraverso una norma del proprio regolamento che consentiva, per inderogabili esigenze di funzionamento, la copertura mediante contratti a tempo determinato con funzionari del medesimo ente, fino all’attuazione delle procedure di accesso alla dirigenza e, comunque, entro un termine finale reiteratamente prorogato a partire dal 2006 e fino al 31.12.2012, con delibere del Comitato di gestione delle Agenzie. L’art. 8, co. 24 d.l. 16/2012, conv. con mod. in L. 44/2012, oltre a far salvi i contratti stipulati in passato con i funzionari, consentì l’ulteriore attribuzione di tali incarichi a tempo determinato[5], in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso, ma con successive proroghe normative dei contratti (art. 1, co. 14 d.l. 150/2013 conv. con mod. in L. 15/2014 e art. 1, co. 8, d.l. 192/2014) fino al 30.6.2015. Corte Costituzionale 17 marzo 2015, n. 37, chiamata dal Consiglio di Stato a valutare la predetta normativa, ne dichiarò l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 Cost., in quanto attraverso essa si era «determinato un indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura aperta e pubblica», con aggiramento della regola del concorso pubblico e della stessa legittimità di una reggenza, ammissibile per la temporanea copertura di posizioni dirigenziali in attesa di concorso, ma non compatibile con reiterare proroghe dei corrispondenti incarichi.
Il legislatore è quindi intervenuto per regolare nuovamente la medesima esigenza organizzativa, stabilendo, con l’art. 1, comma 93, L 205/2017, che le Agenzie fiscali potessero istituire posizioni organizzative di elevata professionalità (POER), da conferire a personale interno con almeno cinque anni di esperienza nella terza area, chiamato a svolgere, in esito ad apposita selezione, incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione. Tali incarichi, espressamente definiti come di natura non dirigenziale, contemplano il potere di adottare atti e provvedimenti amministrativi, anche a rilevanza esterna, poteri di spesa e di acquisizione delle entrate, con responsabilità dell’attività amministrativa, della gestione e dei risultati dei propri uffici, da perseguire mediante autonomi poteri di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, il tutto assistito dalla previsione di appositi benefici, attraverso voci retributive di posizione e di risultato. Il sistema si completa poi con la ulteriore previsione per cui l’istituzione delle POER deve avvenire nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, sicché, in sostanza, essa è complementare ad una diminuzione quantitativa della dirigenza, quale conseguenza di una rimodulazione organizzativa degli assetti apicali degli enti interessati.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 164/2020 qui in commento, ha ritenuto questa volta infondata la questione rimessa dal T.A.R. del Lazio, argomentando, da un primo punto di vista, sulla effettiva natura non dirigenziale degli incarichi inerenti le POER e rilevando, in ricostruzione della normativa di dettaglio, come, nonostante l’ampiezza dei poteri attribuiti in tal modo ai funzionari, mancasse quella responsabilità «esclusiva» (art. 4, co. 2, d. lgs. 165/2001) ed «autonoma» che caratterizza la dirigenza. Pertanto, persisteva il nesso gerarchico – e di potenziale corresponsabilità - rispetto ai dirigenti, che giustificava la classificazione giuridica delle POER in uno status non parificabile a quello apicale massimo, ma da riportare ancora, come si dirà, all’area non dirigenziale di formale inquadramento. Da ciò la conseguenza che tali incarichi non comportavano quel mutamento di status che avrebbe imposto il pubblico concorso aperto agli esterni e che aveva giustificato la pronuncia di incostituzionalità della precedente normativa.
4. Dirigenza e p.o.: profili ricostruttivi
Le due sentenze in commento convergono poi espressamente tra loro nel delineare le POER come posizioni create «per sottrazione» rispetto alle funzioni dirigenziali, cui non sono pertanto equiparabili per la fisionomia dei contenuti.
Esse aggiungono tuttavia un ulteriore importante considerazione, consistente nel fatto che le POER, per quanto soggette ad un termine, potrebbero essere oggetto di revoca («anche prima del tempo indicato» si legge nella sentenza n. 164) [6], in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di valutazione negativa della performance individuale.
Non vi è dubbio che qui la valutazione della performance viene richiamata nel suo versante oggettivo[7], ovverosia come espressione della mancata riuscita della scelta organizzativa (essendo palese che, ove si guardasse al versante soggettivo, ovverosia quello di un’eventuale responsabilità disciplinare del dipendente, essa non potrebbe costituire tratto differenziale rispetto alla dirigenza) così confluendo nell’argomentazione di fondo che ispira le due pronunce della Consulta, in quanto volte ad assicurare alla P.A. uno strumento di flessibilità organizzativa.
Le POER sono infatti intese come forme di maggior articolazione settoriale e territoriale degli uffici, con parallela riduzione quantitativa della dirigenza, cui viene però attribuito uno spessore direzionale se si vuole ancora maggiore, perché destinato ad operare attraverso il coordinamento ed il controllo di importanti unità, il cui rilievo amministrativo risulta significativamente incrementato.
La razionalità del sistema e della scelta appare evidente e la sentenza n. 164 si fa carico di precisare come essa si fondi sull’avallo istruttorio dato alla Consulta dall’audizione di esperti che ne hanno saputo sottolineare la coerenza rispetto a report e studi ufficiali di livello internazionale (OCSE e FMI).
5. Il piano lavoristico: sempre più lontana l’ipotesi dei “quadri” nel pubblico impiego ?
In tale complesso e stimolante scenario, un dato non può sfuggire.
Come sostiene ampiamente la sentenza n. 164, anche le POER non configurano una nuova area intermedia, perché i compiti ed i requisiti per esse delineati non possono ritenersi estranei a quelli propri dei funzionari dell’area non dirigenziale di appartenenza, confermando anzi espressamente, la stessa Consulta, la temporaneità ed il principio di turnazione [8] che sono ritenuti caratterizzanti e che palesemente contrastano con l’inserimento di essi in un’autonoma area.
L’impostazione normativa, sotto il profilo classificatorio, mantiene le posizioni organizzative come incarichi temporanei, revocabili o modificabili in ragione di eventuali mutamenti organizzativi, se esse risultino in concreto inidonee agli scopi per i quali siano di tempo in tempo istituite.
Il favore va dunque più verso l’elasticità organizzativa della P.A., che non verso la introduzione di nuove aree, confermando lo sfavore verso l’istituzione di figure apicali di carriera, in continuità con l’inclinazione che già accompagnò l’eliminazione della c.d. vicedirigenza [9] e che non ha mai permesso la creazione nell’ambito del pubblico impiego della figura dei quadri [10].
Il sacrificio rispetto alla stabilità di “carriera” che ne deriva, trova tuttavia un equilibrio, nel dinamismo che sottende l’intero sistema, oltre che attraverso la portata economicamente e professionalmente incentivante di tali incarichi[11], mediante regole concorsuali di favore per l’accesso alla dirigenza, coinvolte nella seconda parte della sentenza n. 164.
6. Corte Costituzionale e regime concorsuale della dirigenza.
Sostrato analogo è infatti da ravvisare allorché la Corte Costituzionale affronta la materia sotto il diverso tema, sollecitato anch’esso dall’ordinanza di rimessione, della legittimità del sistema di reclutamento della dirigenza degli enti tributari, contestualmente introdotto dalla medesima disposizione censurata.
Costituisce dato acquisito quello per cui l’accesso alla dirigenza, comportando tra l’altro l’acquisizione di uno status autonomo, soggiace anch’esso alla regola del pubblico concorso (art. 28 e 28-bis, d. lgs. 165/2001) e non avviene per mera progressione verticale dei dipendenti interni.
La questione del caso di specie si è incentrata sull’esonero dalla prova selettiva, che la norma, nel regolare i concorsi pubblici per la dirigenza, ha previsto a favore del personale interno qualificato (dipendenti che abbiano svolto negli ultimi due anni mansioni dirigenziali o incarichi di POER; personale assunto con pubblico concorso e con dieci anni di anzianità nella terza area), nonché sulla riserva del 50 % dei posti sempre a favore del personale assunto con pubblico concorso e con dieci anni di anzianità nella terza area.
La sentenza n. 164 disattende la prima questione ritenendo che l’esperienza pregressa così valorizzata, sia profilo meritevole di apprezzamento da parte del legislatore, non in contrasto con il principio di buon andamento, anche perché i beneficiari dell’esonero sono comunque tenuti poi a superare le prove concorsuali.
Quanto alla seconda questione, la pronuncia apre con l’affermazione, vera, ma assai significativa nel contesto interpretativo in cui essa si inserisce, per cui la giurisprudenza della Corte Costituzionale «non è mai pervenuta ad escludere l’ammissibilità di riserve parziali», in favore dei dipendenti, «poiché ciò comporterebbe un sostanziale disconoscimento del potere di fare eccezione alla regola attribuito al legislatore dallo stesso art. 97, quarto comma, Cost.».
Potendo la Corte poi concludere agevolmente nel senso che una riserva del 50 % dei posti [12] e non la previsione di concorsi riservati (quella sì, non legittima [13]), costituisce un ragionevole punto di equilibrio tra il principio del pubblico concorso e l’interesse a consolidare pregresse esperienze lavorative presso la stessa P.A. Ciò per la coerenza rispetto alla norma generale dell’art. 52, co. 1-bis, d. lgs. 165/2001 (secondo cui «le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso) a propria volta calibrata su precedenti indicazioni della stessa giurisprudenza costituzionale.
Da quest’ultimo punto di vista, nulla quindi di effettivamente nuovo, ma nell’insieme il sistema delineato dal legislatore ed avallato dalla Consulta appare sufficientemente elastico per consentire alla P.A. di valorizzare le proprie professionalità interne.
Se si considera l’importanza che può avere l’esperienza di settore necessaria per un efficace conduzione della dirigenza, si può anzi affermare che la soluzione non preclusiva adottata sia sintomo di un grado di maturazione più avanzato dell’ordinamento, meno condizionato da una reazione a tutti i costi verso eventuali automatismi di carriera del passato.
7. Conclusioni
Il quadro complessivo, legislativo ed interpretativo, è dunque chiaramente indirizzato nel senso di assicurare alla P.A. strumenti agili di gestione[14].
Una dirigenza ridotta, associata ad incarichi di alta professionalità al personale di maggior qualifica, ma con moduli temporalmente flessibili, esprime senza dubbio una apprezzabile duttilità organizzativa. E’ del resto chiaro che gli effetti positivi della privatizzazione del pubblico impiego non possono che esprimersi in presenza di forme elastiche e dinamiche di organizzazione datoriale[15].
D’altra parte, la necessità di non deprimere le aspettative di chi sia già dipendente va coniugata con la capacità di dare ingresso anche ad esterni muniti delle qualifiche necessarie e di dimostrata capacità. Il che ad esempio imporrà un esercizio consapevole della discrezionalità, con riferimento, ad esempio, al grado di rigore da destinare alle preselezioni degli esterni, da cui gli interni sono esonerati, onde evitare di tradurre il beneficio in una sorta di esclusiva.
Senza dubbio, al di là delle norme, comunque di portata strumentale[16], saranno quindi i fatti, i comportamenti e le persone ad essere decisivi e a permettere di verificare se l’apertura di credito del legislatore, così indubbiamente concessa, risulterà realmente funzionale all’auspicato – e sinceramente non rimandabile in un paese evoluto - buon andamento (inteso come efficiente funzionamento) del sistema amministrativo.
[1] Sulle posizioni organizzative, in generale, v. V. Tenore, Il manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2020, 218 ss., nonché A.M. Perrino, L’inquadramento, le mansioni, lo ius variandi e le progressioni, in AA.VV., Lavoro pubblico, Milano, 2018, 228 ss.
[2] V. Cass. 29 maggio 2015, n. 11198 e, più di recente, Cass. 25 ottobre 2019, n. 27384; analogamente, rispetto all’istituzione della c.d. vicedirigenza, v. Cass. 2 dicembre 2019, n. 31378 e Cass. 6 novembre 2018, n. 28247.
[3] V. G. Mammone, art. 40, in Commentario breve alle leggi sul lavoro, fondato da M Grandi e G. Pera, a cura di R. De Luca Tamajo e O. Mazzotta, 1713.
[4] Una ricostruzione del tema delle posizioni organizzative, con ampio richiamo anche ai precedenti di legittimità, è contenuta in Cass. 3 aprile 2018, n. 8141, nel cui contesto si rintraccia anche la conclusione per cui «ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento di formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa».
[5] Cass. 10 luglio 2020, n. 14814 ha recentemente chiarito che «il conferimento di un incarico dirigenziale a termine ai funzionari dell'Agenzia delle Entrate, ai sensi dell'art. 24 del regolamento di organizzazione dell'ente e poi dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 44 del 2012, si innesta su un rapporto di lavoro subordinato già esistente ed in quanto equiparabile all'ipotesi della reggenza, o dell'esercizio di mansioni superiori, non determina la costituzione di un rapporto dirigenziale a termine assimilabile a quello con i soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali della P.A. ex art.19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001».
[6] Peraltro, le regole sulla revocabilità delle posizioni organizzative dipendono anche dalle previsioni della contrattazione collettiva. V. in proposito, Cass. 2 settembre 2010, n. 19009, secondo cui «in materia di incarichi dirigenziali per le posizioni organizzative del personale degli enti locali, l'art. 9 del C.C.N.L. comparto Regioni ed autonomie locali - personale non dirigente - del 31 marzo 1999 consente la revoca dell'incarico prima della scadenza solo con atto scritto e motivato ed in relazione ad intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi; ne deriva l'illegittimità dell'atto che revochi anticipatamente l'incarico in difetto di tali presupposti, anche se non vi sia dequalificazione ma la restituzione a compiti rientranti della qualifica posseduta; analogamente, Cass. 18 aprile 2017, n. 9728 ha ritenuto che la revoca della posizione organizzativa prima della scadenza può essere disposta, ai sensi degli artt. 109 del d.lgs. n. 276 del 2000 e 9, comma 3, del c.c.n.l. del 31 marzo 1999, per casi determinati, correlati a profili disciplinari o al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, sicché è illegittima se motivata sulla base del mero mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
[7] In argomento, con riferimento alla performance dei dirigenti, v. V. Tenore, Il Manuale del pubblico impiego, cit. , 793
[8] Su tutti i predetti punti la Corte Costituzionale si allinea con l’orientamento consolidato della S.C.: v. Cass. 30 marzo 2015, n. 6367 e, poi Cass. 10 luglio 2019, n. 18561, citata anche dalla Corte Costituzionale.
[9] Per la ricostruzione dell’intera vicenda, v. ancora V. Tenore, Il Manuale del pubblico impiego, cit. , 769 ss.
[10] V. sul tema, Cass. 5 luglio 2005, n. 1089, in Lav. p.a., 2006, 1089, con nota di P. Matteini, La Cassazione e i "quadri" nel settore pubblico.
[11] Sulle posizioni organizzative quali strumenti utile alla motivazione del personale più capace, v. G. Nicosia, L’accesso alle amministrazioni e la “carriera” dei dipendenti pubblici nel prisma delle procedure selettive e concorsuali, in Lav. p.a., 2012, 139.
[12] Sui concorsi con riserva di posti, v. A.M. Perrino, L’inquadramento, cit., 222
[13] v. Corte Costituzionale 1 luglio 2013, n. 167, in Giur. Cost., 2013, 2487; Corte Costituzionale 21 aprile 2005, n. 159, in Giur. Cost., 2005, n. 1290, con annotazione di R. Alesse, Corte Costituzionale 16 maggio 2002, n. 194, in Giur. Cost., 2002, 1521, con nota di F. Giglioni; Corte Costituzionale 4 gennaio 1999, n. 1, in Giur. Cost., 1999, 1.
[14] V. A. Bianco, Gli incarichi di posizione organizzativa per la Corte Costituzionale, in www.paefficace.it, 2020.
[15] L. Zoppoli, La dirigenza pubblica tra mancata riforma e persistenti equivoci, in La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, a cura di M. Esposito, V. Luciani, A. Zoppoli, L. Zoppoli, sottolinea come dovrebbe essere la duttilità organizzativa ad esprimere oggi il significato «più autentico, per non dire corretto, della c.d. privatizzazione del pubblico impiego».
[16] V. R. Ruffini, Percorsi di innovazione dell’organizzazione pubblica, in Lavoro pubblico fuori dal tunnel, a cura di C. Dell’Aringa e G. Della Rocca, Roma, 2017, 413, che plasticamente sottolinea come il processo di cambiamento possa trovare innesco dalle riforme, generando un cambiamento dall’alto al basso, ma per effettivamente fornire risultati imponga un mutamento delle routine organizzative di base che manifestino, secondo un andamento inverso, ovverosia dal basso, l’effettiva modificazione delle strategie e degli assetti organizzativi.
Le libertà violate e i giudici in Turchia**
di Vladimiro Zagrebelsky
*Articolo pubblicato il giorno 7 settembre 2020 sul quotidiano La Stampa, su autorizzazione dell'autore.
*In allegato, in formato pdf, i discorsi pronunciati dal Presidente della Corte Europea dei diritti dell'uomo - Robert Spano - in occasione della sua visita ufficiale in Turchia, presso l'Accademia della Giustizia della Turchia il 3 settembre 2020 e presso l'Università di Istanbul il 4 settembre 2020.
I presidenti della Corte europea dei diritti umani compiono regolarmente visite in ciascuno dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Qualche volta si tratta di visite che consentono contatti con le autorità locali in una atmosfera cortese, piena di complimenti reciproci. Sono allora visite piacevoli. Altre volte la visita è organizzata per avere con quelle autorità un duro confronto sui temi che in quel Paese vedono gravi o persistenti violazioni della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In questi casi la buona educazione e certe regole protocollari, consentono lo svolgimento della visita secondo il programma. Ma il confronto è durissimo e non serve solo a mettere le cose in chiaro con governi che violano gli obblighi assunti ratificando la Convenzione, ma anche permettono al presidente della Corte di esprimersi in pubblico, raggiungendo l’opinione pubblica generale o àmbiti specifici di essa, oggetto delle violazioni. Talora la voce del presidente, che non può essere zittito, è una delle poche che risuonano liberamente per richiamare i principi e i valori che si assumono propri dell’Europa. Fin dal 1950 la Turchia è membro del Consiglio d’Europa e ha avuto una storia complessa quanto a democrazia, diritti e libertà fondamentali. Una storia che ha visto fasi in cui, anche con riforme costituzionali e mutamenti di prassi, essa ha introdotto nel suo sistema regole che altrove in Europa sono stabilmente acquisite. La fase attuale, che fa seguito al fallito colpo di stato del 2016, è di segno contrario ed è gravissima la situazione delle libertà e dei diritti individuali, condizioni essenziali della democrazia. A centinaia sono stati arrestati o destituiti giudici, avvocati, insegnanti. Con le scuole e le università, la magistratura è stata drasticamente epurata. Molti sono stati colpiti, tutti, si può pensare, sono stati intimiditi. La visita compiuta in Turchia dal presidente della Corte europea, Robert Spano, si è svolta in un simile, grave e teso contesto. Poche altre missioni sono state così difficili, ma proprio per questo anche utili. Certe perplessità che anche in Italia sono state sollevate sulla opportunità del viaggio nella attuale Turchia, si dimostrano prive di fondamento se solo si legge ciò che il presidente ha detto e si tiene conto di dove lo ha detto (il sito della Corte europea ne riporta il testo). Il tenore di ciò che ha detto in pubblico corrisponde certo a quello dei colloqui privati con Erdogan, il ministro della giustizia, i presidenti della Corte costituzionale e della Corte di cassazione. Svolgendo una lezione in una delle Università di Istanbul che gli ha offerto una laurea honoris causa, il presidente della Corte europea ha esordito dicendo di avere accettato quell’onore solo perché si trattava di un momento protocollare, mai rifiutato in nessuno Stato membro del Consiglio d’Europa, ma anche perché la cerimonia gli dava occasione di sottolineare l’importanza della libertà accademica e della libertà di espressione in una democrazia retta dallo Stato di diritto. Dopo questa non usuale apertura, Spano ha sottolineato che tra le libertà di pensiero e di espressione, quella accademica è particolarmente importante. Lo ha detto proprio in una Università che ha subìto la drastica espulsione di docenti. Ma non si è trattato di un discorso di taglio teorico, poiché ha fatto seguito la dettagliata menzione dei fatti che hanno portato ad una recente sentenza della Corte europea di condanna della Turchia per violazione della libertà di espressione di un professore, sanzionato per avere partecipato ad una trasmissione televisiva senza aver chiesto il permesso alla sua Università. Il discorso era rivolto alle autorità accademiche presenti, naturalmente, ma soprattutto ai docenti che vivono in una atmosfera di oppressione e che però hanno sentito richiamati non solo la loro libertà, ma anche l’esempio di un loro collega che, rivoltosi alla Corte europea, ha avuto soddisfazione contro le autorità turche. E alla Scuola della magistratura, Spano ha lungamente trattato della necessaria indipendenza dei giudici sollecitando la scuola a formare i giudici a quel valore. Egli ha denunciato la grave violazione costituita dagli arresti dei giudici. Esplicitamente ha menzionato la ricorrente accusa secondo la quale «l’autorità giudiziaria costituisce una minaccia per la politica e le decisioni prese democraticamente, in particolare quando i giudici applicano le garanzie dei diritti umani» e ha sollecitato i giudici ad operare in modo indipendente come argine alle prevaricazioni del potere politico. La qualità della giustizia (un giudice non indipendente non è un giudice) è essenziale nel sistema che gli Stati europei hanno creato con la Convenzione. Infatti la protezione dei diritti e libertà della Convenzione sono prima di tutto nelle mani dei giudici statali. Solo dopo può intervenire la Corte europea se vi sono state violazioni, non riparate in sede nazionale. Il ruolo della Corte europea dei diritti umani si esercita con la decisione dei vari ricorsi che le sono presentati. Ciascun ricorso è diverso dall’altro e viene deciso sulla base degli argomenti e delle prove presentati dal ricorrente e dal governo convenuto in giudizio. Ma vi è una funzione ulteriore, nella quale il presidente ha un ruolo preminente. Si tratta della continua illustrazione dei principi che hanno mosso i Paesi membri del Consiglio d’Europa a mettere in piedi, con la Convenzione europea dei diritti e della libertà fondamentali, un sistema continentale che consente alle singole persone di denunziare ad una Corte indipendente il comportamento dei governi. Nel caso della Turchia (ma non solo di essa in questi difficili tempi) non si tratta solo di svolgere discorsi di alto tenore culturale, ma anche di contestare duramente violazioni gravi e continue. Il presidente Spano ha usato della libertà di parola che la sua posizione gli garantisce, in luoghi che molto soffrono, per dar coraggio a chi merita di ricevere un messaggio libero e giusto. Con questo la Corte, con il suo presidente, ha svolto il ruolo che le è proprio per le libertà e la democrazia europee.
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