ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino*
di Luigi Patronaggio
Due importanti convegni di studi, alla presenza delle più importanti cariche istituzionali dello Stato - quasi a farsi perdonare l’ancora non spento eco dell’epiteto di “giudice ragazzino” lanciato dall’ex Presidente delle Repubblica Cossiga all’indirizzo di quei giovani magistrati, come Rosario Livatino, su cui non riponeva alcuna fiducia neppure per affidare loro la gestione di una “casa terrena” - sono stati indetti in occasione del trentennale della barbara uccisione del Giudice Rosario Livatino, avvenuta per mano mafiosa il 21.9.90 in c.da Gasena di Agrigento.
Non è un caso che tema di entrambi i convegni sia una riflessione sul ruolo, la professionalità e la deontologia del magistrato a 30 anni dall’uccisione di Rosario Livatino.
E’ a tutti noto, infatti, che la magistratura italiana sta vivendo una crisi profonda, una crisi che è di sostanza, ma anche di forma se è vero che secondo un recente sondaggio IPSOS solo un italiano su tre ha fiducia nella magistratura come istituzione.
I recenti scandali, dal caso Saguto fino al caso Palamara, hanno inciso un solco profondo nelle coscienze degli italiani, li hanno lasciati sbigottiti, perché da una istituzione posta dalla Costituzione a garanzia del gioco democratico ci si attende alta professionalità e altissimo senso morale.
Eppure non può dirsi che Il CSM non abbia preso provvedimenti severi, al pari di altre istituzioni attraversate da crisi di credibilità analoghe, atteso che il Giudice Saguto è stata destituita prima della affermazione definitiva in sede penale della sua colpevolezza e che ugualmente il Sostituto Palamara è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, per non dire dei consiglieri del CSM, a vario titolo implicati nel caso Palamara, costretti alle dimissioni e sottoposti a procedimento disciplinare.
Evidentemente tali provvedimenti non sono bastati per rigenerare il rapporto fra magistratura ed opinione pubblica.
Ed invero, il rapporto fra magistratura, politica e opinione pubblica è stato in quest’ultimo trentennio di vita democratica sempre piuttosto critico e caratterizzato da un andamento ciclico.
Va ricordato, infatti, che fino agli ’80, per quel che riguarda la lotta alla mafia, la magistratura non godeva di fiducia nell’opinione pubblica, i capi degli Uffici Giudiziari erano spesso espressione del partito di maggioranza relativa, a sua volta in alcune sue articolazioni, strettamente legato a Cosa Nostra. Non per nulla negli anni ‘60 e ‘70 buona parte dei processi contro la mafia si concludevano con imbarazzanti assoluzioni “per insufficienze di prove”.
La strage Chinnici del 29.7.83 è stato forse il momento di svolta della lotta alla mafia. Si ricordi infatti che Chinnici fu sostituito alla guida dell’allora Ufficio Istruzione di Palermo da un grande uomo, dal tratto mite ma dal coraggio infinto, Antonio Caponnetto. Fu proprio Caponnetto che diede vita al primo pool antimafia, valorizzò la grande professionalità di Giovanni Falcone e in poco meno di tre anni permise di portate a dibattimento il primo maxi processo a Cosa Nostra.
La storia è poi nota: la sentenza del maxi processo e l’impostazione accusatoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono confermate in Corte di Cassazione; per ritorsione per il mancato “aggiustamento” del processo furono uccisi Salvo Lima e Ignazio Salvo e alla fine Giovanni Falcone e Paolo Borsellino persero la vita negli attentati terroristici del 1992, rei di avere combattuto frontalmente e a testa alta Cosa Nostra.
Dopo i tragici eventi del ’92 in Sicilia si respirò una aria nuova, la società civile era tutta con la magistratura, si viveva una nuova stagione di speranze e di entusiasmo.
E tuttavia occorre ricordare che la stagione antimafia della magistratura non è mai stata una strada facile, anzi tutt’altro: vanno qui ricordati i magistrati che lavorarono e morirono nell’isolamento della Provincia siciliana. Due esempi per tutti, il nostro Rosario Livatino ad Agrigento e i Giudici Ciaccio Montalto e Alberto Giacomelli a Trapani, a cui va aggiunto il tragico attentato al sostituto Carlo Palermo.
Analoghi crediti di consenso, peraltro, aveva vantato la magistratura nella lotta al terrorismo (1976/1983) e alla corruzione con la stagione di “mani pulite” (1991/1994).
Nella lotta al terrorismo la magistratura aveva avuto il merito di inventarsi un metodo di indagine ( i primi pool e i primi coordinamenti di indagine nascono proprio durante la lotta al terrorismo) e di avere garantito una giustizia senza Tribunali e leggi speciali così permettendo alla Prima Repubblica di continuare a vivere nella libertà e nella democrazia .
La stagione di “mani pulite” è stata una stagione controversa che, se da un lato ha fatto emergere la corruzione sistemica in cui versava ( e ancora versa ) il Paese accelerandone il cambiamento politico; dall’altro, ha registrato eccessi non sempre condivisi dalla società. Si ricordi infatti come si è passati nel giro di soli tre anni dal grido di “Milano ladrone, Di Pietro non perdona” fino alla sequela di falsi dossier e processi imbastiti contro lo stesso Di Pietro avanti l’Autorità Giudiziaria di Brescia e dai quali, va ricordato, venne sempre assolto.
Voglio quindi ricordare come lo sforzo della magistratura non si sia esaurito nella stagione successiva alle stragi ma abbia registrato la capacità della stessa magistratura - ma sarebbe più corretto dire di alcuni illuminati e coraggiosi magistrati, spesso isolati - di leggere una realtà criminale complessa, fatta di depistaggi, di apparati deviati, di trattative innominabili fra Stato e mafia, di un antistato occulto che pretende di reggere le fila delle istituzioni democraticamente elette.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono scoppiati, com’è noto, due fatti che hanno stravolto il rapporto fra la magistratura, la politica e l’opinione pubblica: il caso Saguto e il caso Palamara.
In verità ci sarebbe da annotare anche la recentissima difficile stagione vissuta da una parte della magistratura nel complesso controllo di legalità sulle azioni di contrasto del governo all’immigrazione clandestina, alla luce dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia e delle indicazioni della Corte EDU, ma essendo materia ancora sub iudice e fortemente divisiva appare opportuno rinviare ad altri tempi e ad altra sede un esame critico della stessa.
Il caso Saguto, ma per certi versi anche il caso Montante, ha realizzato purtroppo la profezia di Leonardo Sciascia nel famoso articolo comparso sul Corriere della Sera il 10.1.87 sui “professionisti dell’antimafia”, mettendo a nudo una magistratura assetata di potere e di soldi che piega ai suoi personali interessi la sua altissima funzione istituzionale.
Peggio ancora il caso Palamara, vittima di un sofisticato congegno elettronico che ne ha spiato per mesi i più rilevanti momenti della sua vita pubblica (ma purtroppo anche privata), ha messo in luce come nomine, promozioni, iniziative giudiziarie e disciplinari rispondessero a logiche di parte anziché a logiche di terzietà ed imparzialità come richiesto dall’Ordinamento Giudiziario e dalla deontologia professionale.
Da questi scandali è uscita una immagine della magistratura votata al rafforzamento delle proprie posizioni personali ed istituzionali, disinteressata alla corretta amministrazione della giustizia, sorda alle vicende di umane di vittime ed imputati.
Quali le cause e quali i rimedi?
Le cause - a parte gli appetiti di denaro e di potere che albergano in ogni animo umano in modo più o meno carsico - vanno ricercate nell’essersi la magistratura allontanata dal modello costituzionale secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, per andare verso un modello di magistratura votata al carrierismo più sfrenato e alla ricerca del potere. In ciò facilitata da norme che hanno accresciuto il potere gerarchico dei Procuratori ( il riferimento è alla riforma dell’Ordinamento Giudiziario del 2006) e dal turn over dei capi degli uffici all’esito dei pensionamenti anticipati e della regola della temporaneità degli incarichi direttivi.
Si ricordi, infatti, che il CSM ove sedeva il Dott. Palamara, nel quadriennio 2014/2018, ha proceduto alla nomina di 428 capi di uffici giudiziari e 617 fra presidenti di sezione e procuratori aggiunti, per un totale mai raggiunto in precedenza di 1045 incarichi. Numeri così elevati, in posti di assoluta rilevanza, non potevano non accendere insani appetiti e creare cordate di potere dove magistrati e politici di turno hanno annodato raffinate e complesse reti relazionali.
Il CSM, ma anche l’ANM, sono diventati da luogo di confronto, di garanzia del corretto esercizio dell’alta funzione del giudicare, una sorta di parasindacato corporativo che si occupa delle vicende dei magistrati esclusivamente sulla base di logiche di appartenenza.
Ricordava, in un suo recente articolo il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Gaetano Silvestri, che durante il suo mandato al CSM “c’erano due file di magistrati che si formavano a Palazzo dei Marescialli: quella di coloro che venivano a chiedere ascolto e sostegno nella loro quotidiana azione per la legalità, specie in terra di mafia, talvolta non ricevendo ne’ l’uno ne’ l’altro, e quella di coloro che venivano a raccomandarsi per trasferimenti, uffici direttivi e quant’altro; la prima fila era piuttosto esigua e andava accorciandosi, la seconda si allungava progressivamente”.
Il rimedio sta forse nel ritornare ad un magistratura dove non ci sia più spazio per il carrierismo fine a se stesso, dove i magistrati si distinguano solo per diversità di funzioni, e dove non esista una gerarchia ma solo funzioni diverse e concorrenti verso l’unico fine che è quello poi di rendere un servizio ai cittadini e al Paese tutto.
Occorre quindi riaffermare l’indipendenza esterna ed interna della magistratura, intesa la prima come indipendenza dal potere politico ed economico, e la seconda come indipendenza ed autonomia di giudizio del singolo magistrato nei confronti dei suoi capi.
Occorre evitare che poteri esterni, mossi da volontà punitiva, dettino regole per il governo della magistratura, peraltro spesso improvvisate e contraddittore, come la ventilata elezione per sorteggio dei componenti togati del CSM che buffamente ricorda il metodo del Giudice Brigliadoca di Rabelais. Così come occorre evitare che l’attuale calo di credibilità e di moralità della magistratura dia spazio a chi vuole “tagliare le unghie” ad un potere dello Stato che è gradito alla politica quando combatte i propri avversari e scomodo quando doverosamente esercita il controllo di legalità su tutte le attività di tutte le componenti la società nessuna esclusa.
Si possono, in fondo, dettare ai magistrati regole di comportamento sempre più stringenti e pesantemente sanzionate, imporre cause di incompatibilità e di ineleggibilità, introdurre responsabilità e decadenze, ma la vera riforma resta una riforma di tipo morale che deve provenire proprio dall’interno della magistratura la quale deve recuperare l’orgoglio del proprio ruolo fondato su autorevolezza e professionalità.
Ed in questa ricercata dimensione etica della giustizia si staglia la luce dell’insegnamento del giovane giudice Rosario Livatino, il quale nei suoi scritti, tutti vergati sotto la sigla STD, “sub tutela Dei”, si preoccupava, già più di 30 anni addietro, di indicare ai colleghi la strada da percorrere per onorare la figura del magistrato: “ … un giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire … se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato”
Un magistrato profondamente religioso ma anche profondamente rispettoso della laicità dello Stato secondo cui: “… il compito del magistrato è quello di decidere … una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare … in questo scegliere per decidere il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale senso spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia …”
Rosario Livatino, era lontanissimo da sms ammiccanti, accordi sottobanco, conventicole, cene eleganti, palazzi e corridoi di ministeri, lui era ed operava solo con la sua coscienza e con la sua scienza giuridica, con a destra i codici e a sinistra il Vangelo, ed oggi, a trent’anni dalla sua uccisone, ci appare come un fulgido ineguagliato simbolo di verità e giustizia.
Che i nuovi magistrati ne siano degni.
*Articolo tratto dall’intervento tenuto al convegno indetto dalla Sottosezione dell’ANM di Agrigento il 19.9.2020 dal titolo Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino
Dalla Grecia fascista alla Turchia di Erdogan: quali risposte dall’Europa libera?
di Pier Virgilio Dastoli
La storia ci ha drammaticamente insegnato che il passaggio dalla democrazia alla dittatura è avvenuto negli ultimi cento anni “a nome del popolo sovrano” e cioè giustificando la soppressione delle libertà costituzionali e dunque democratiche per difendere la sovranità del popolo con una contrapposizione grottesca fra il potere che appartiene al popolo (demos-crazia) e la sua apparente sovranità intesa – per dirla con Jean Bodin – come “quel potere assoluto e perpetuo che appartiene allo Stato”.
La soppressione delle libertà costituzionali, che sono alla base dello stato di diritto (legalità, uguaglianza, certezza del diritto, indipendenza della magistratura, protezione dei diritti umani), è stata talvolta giustificata per reagire al rischio della perdita dell’indipendenza per l’intervento di potenze esterne o per salvaguardare gli interessi e l’identità del popolo sovrano da poteri interni.
Per limitarsi al nostro continente, è stato così per tutti i regimi fascisti che si sono formati in Europa dal 1922 in poi, per i regimi comunisti che si sono formati nell’area di influenza sovietica dal 1945 in poi, per la dittatura dei colonnelli greci dal 1967 al 1974 ed ora nel passaggio dalla democrazia parlamentare al regime autoritario e islamico di Erdogan in Turchia.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa – quella occidentale fino al 1989 e quella continentale dal 1989 in poi – ha creato dei vaccini per evitare che il virus dell’autoritarismo contagiasse i paesi europei come era avvenuto fra le due guerre.
Il Consiglio d’Europa, concepito all’Aja nel 1948 e nato a Londra nel 1949, si è dotato di due vaccini: il primo di natura politica che consente all’Assemblea parlamentare e/o al Comitato dei Ministri di sospendere la partecipazione di uno Stato membro che violi i diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali così come definiti nella Convenzione firmata a Roma nel 1950 e il secondo di natura giurisdizionale che consente alla Corte europea dei diritti dell’Uomo di sanzionare la violazione puntuale di un articolo della Convenzione da parte di uno Stato membro.
Lo statuto del Consiglio d’Europa consente di giungere fino al punto di spingere uno Stato membro ad uscire dall’organizzazione (articolo 9) ma non si è mai giunti fino a questo punto sia perché ciò avrebbe fatto perdere ai cittadini di quello stato la protezione giurisdizionale garantita dall’accesso alla Corte - a cui si aggiunge il monitoraggio di altri organi del Consiglio d’Europa fra cui il commissariato per i diritti umani e il comitato per la prevenzione della tortura – sia perché il Consiglio d’Europa avrebbe perso i contributi finanziari dello Stato costretto al recesso.
Sulla base di queste regole, il Consiglio d’Europa – su proposta del presidente del Consiglio italiano Aldo Moro e del suo ministro degli esteri Pietro Nenni, quest’ultimo ispirato dal suo consigliere Altiero Spinelli - ha sospeso nel dicembre 1969 la Grecia dall’Assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri due anni e mezzo dopo il colpo di Stato dei colonnelli proclamato per “difendere il paese dall’occupazione comunista” reintegrandola nel 1975 dopo la caduta della dittatura. Vale la pena di ricordare il rischio del contagio greco nell’Italia attraversata dai servizi deviati e l’appello del leader della giunta greca Papadopoulos agli “anticomunisti italiani” perché seguissero l’esempio della Grecia.
Le Comunità europee, nate a Roma nel 1957, non erano allora dotate di strumenti politici e giurisdizionali per proteggere i diritti dell’Uomo e salvaguardare lo stato di diritto né al loro interno né nei rapporti con i paesi associati anche se la Corte di Giustizia aveva affermato che i valori legati ai diritti fondamentali facevano parte di fatto della sua ragion d’essere.
Nonostante questa grave lacuna nei trattati, le Comunità europee decisero di congelare l’accordo di associazione con la Grecia dei colonnelli con una scelta politica e giuridica che ebbe un innegabile effetto sull’indebolimento interno della dittatura e sulla sua caduta nel 1974 e che vale la pena di raccontare.
Dopo la decisione del Consiglio d’Europa era nato un dibattito all’interno della Commissione europea (allora presieduta dall’italiano Malfatti con Spinelli commissario all’industria e alla ricerca), del Consiglio dei Ministri e del Parlamento europeo sulle relazioni con la Grecia fascista.
Il dossier era di competenza del commissario tedesco Ralf Dahrendorf che, con apparente puntigliosità giuridica, sostenne il principio pacta sunt servanda suscitando inizialmente una reazione pilatesca dei suoi colleghi commissari e del Presidente Malfatti con l’eccezione di Altiero Spinelli che aveva mantenuto rapporti con la resistenza greca (oltre che con le opposizioni antifasciste nella Spagna di Franco e nel Portogallo di Salazar).
Aiutato dall’esule giurista greco Yankos Siotis, Spinelli smontò la tesi di Dahrendorf sostenendo il principio rebus sic stantibus e convincendo la Commissione a chiedere al Consiglio il congelamento dell’accordo di associazione con la Grecia fino alla caduta del regime e al ripristino della democrazia.
Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea si trovano oggi di fronte alla Turchia, membro quasi fondatore del primo (ha aderito nel 1950) e associato all’altra con lo status di paese candidato da vent’anni all’adesione, le cui libertà costituzionali sono state annullate e in cui lo stato di diritto è costantemente violato a cominciare dalla indipendenza della magistratura con la conseguenza di rendere di fatto impossibili i ricorsi dei cittadini turchi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea hanno fino ad ora usato nei confronti della Turchia il bastone e la carota – secondo l’espressione usata dalla diplomazia europea - dando la prevalenza alla seconda con effetti praticamente nulli sulla progressiva evaporazione della democrazia giustificando le loro reticenze per mantenere aperti i canali di dialogo con la società civile turca ma essendo prigionieri nel primo caso del sostanzioso contributo finanziario della Turchia al bilancio dell’organizzazione e nel secondo caso alla presenza in Turchia di due milioni e mezzo di rifugiati siriani secondo i dati ufficiali (o cinque milioni secondo le stime non ufficiali) dopo l’accordo firmato nel marzo 2016 su proposta della Germania.
Più in generale i governi europei sono paralizzati dal ruolo della Turchia in tutta la regione medio-orientale e dalle sue mutevoli alleanze, una paralisi aggravata dall’inesistenza di una politica estera e della sicurezza comune dell’Unione europea nel suo insieme.
Paralizzati dal ruolo della Turchia in tutta la regione, i governi si sono limitati a sollecitare un dialogo costruttivo auspicando il mantenimento della stabilità e della sicurezza in particolare con la Grecia e Cipro di cui sottolineano la sovranità e i diritti sovrani.
Nulla viene detto invece dai governi sulle violazioni delle libertà costituzionali ignorando il fatto che dal cosiddetto colpo di Stato nel 2016 oltre cinquantamila detenuti politici sono finiti nelle carceri turche in violazione degli articoli 2 e 10 della Costituzione nonché dell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e della libertà fondamentali in una situazione che si è aggravata a causa della pandemia.
Nessuna parola è stata spesa dal Consiglio europeo del 1° e del 2 ottobre per condannare le ripetute violazioni dei diritti fondamentali in Turchia, al contrario della denuncia di tali violazioni in Cina e in Bielorussia.
Di fronte al regime autoritario e islamizzato imposto con la violenza da Erdogan, è arrivato il momento di abbandonare la politica della carota e scegliere quella del bastone sospendendo la partecipazione della Turchia dalla assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e congelando l’accordo di associazione fra l’UE e la Turchia a cominciare dai suoi aspetti economici e dall’Unione doganale ma mantenendo attivi politiche comuni che vanno a vantaggio dei cittadini turchi come Erasmus Plus o gli aiuti alle organizzazioni non governative e alle associazioni rappresentative della società civile.
Il Parlamento europeo ha adottato in marzo e in settembre risoluzioni senza equivoci di condanna dell’autoritarismo interno e dell’escalation nelle relazioni con i paesi vicini da parte della Turchia suscitando ogni volta dure reazioni del governo di Istanbul che ha contestato il diritto dell’assemblea europea di esprimersi sulle relazioni con paesi terzi.
Il governo turco contesta così un potere del Parlamento europeo che è stato rafforzato con il Trattato di Lisbona in cui è stato esteso il suo diritto di parere conforme (in sostanza un potere di ratifica) in tutti gli accordi ai quali si applica nelle politiche interne la procedura legislativa ordinaria. Cosicché il Parlamento europeo è chiamato a dare la sua approvazione negli accordi di associazione sulla base dell’art. 218 TFUE mentre deve essere “immediatamente e pienamente informato” nel caso in cui il Consiglio – su proposta della Commissione o dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e della politica di sicurezza – adotti la decisione di sospendere l’applicazione di un accordo di associazione come quello sottoscritto a suo tempo dalle Comunità europee e dalla Turchia.
Uno Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione posso chiedere inoltre il parere della Corte di Giustizia sulla compatibilità di un accordo con i trattati pur tenendo conto che tale richiesta riguarderebbe strettamente gli accordi in corso di negoziato.
Tutto ciò ci porta a concludere che l’iniziativa di mettere in discussione le relazioni con la Turchia potrebbe venire dal Parlamento quando dovrà esaminare i risultati del Consiglio europeo e/o dalla Commissione e/o dall’Alto Rappresentante degli affari esteri e della politica di sicurezza. L’occasione immediata di un’azione sanzionatoria dovrebbe essere legata ai processi avviati il 21 settembre contro decine di avvocati turchi accusati di terrorismo.
Ancora su figli maggiorenni e diritto al mantenimento
di Gianfranco Gilardi
Sommario:1. L’indirizzo della Corte di cassazione e l’ordinanza 14 agosto 2020, n. 17183 - 2. Funzioni di “nomofilachia” e critiche all’ordinanza - 3. Il sistema positivo e la lettura dell’art. 337-septies c.c. - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’indirizzo della Corte di cassazione e l’ordinanza 14 agosto 2020, n. 17183
Con una sorprendente decisione, emessa in pieno periodo feriale, la Prima sezione della Corte di cassazione ha compiuto una brusca sterzata rispetto al pluridecennale orientamento (peraltro confermato in una decisione di appena qualche mese anteriore rispetto a quella che adesso si annota: Cass., n. 7555/2020, ord., in tema di revisione delle condizioni economiche del divorzio riguardanti l'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni ma non autosufficienti) secondo cui l'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio a norma degli artt. 147 e 148 c.c. (v., oggi, gli artt. 315-bis c.c., introdotto dalla legge n. 219/2012 e 316-bis c.c. introdotto dal d.lgs. n.154/2013) non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta (cfr., ex multis, Cass. n. 32529/2018, ord.; n. 5088/2018, ord.; n. 12952 /2016; n. 18076/2014; n. 1773/2012; n. 19589/2011; n. 1830/2011; n. 16612/2010; n. 407//2007; n. 22491/2006 ; n. 12477/2004 n. 1353/1999; n. 24498/2006; n. 4765/2002; n. 9109/1999; n. 7195/1997; n. 496/1996; n. 12952/1993); ed il raggiungimento della maggiore età del figlio minore non può determinare nel coniuge separato o divorziato, tenuto a contribuire al suo mantenimento, il diritto a procedere unilateralmente alla riduzione od eliminazione del contributo o a far valere tale condizione in sede di opposizione all'esecuzione, essendo necessario, a tal fine, procedere all'instaurazione di un giudizio volto alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio (Cass. n. 13184/2011).
Riassuntivamente, secondo il precedente e consolidato orientamento l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia o di rifiuto ingiustificato da parte del figlio; ed il corrispondente accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione: con la conseguenza di doversi escludere, in via generale, che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio il quale rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia (Cass. n. 18076/2014 e n. 4765/2002, citate)[1].
Tale indirizzo si era mantenuto costante così nel vigore dell’art. 155-quinquies c.c., introdotto con la riforma di cui alla legge n. 54/2006, come dopo le modifiche al c.c. apportate dal d.lgs. n. 154/2013, modifiche che, peraltro, hanno lasciato immutato il contenuto dell’art. 155-quinquies anteriormente vigente. E nell’ambito di tale orientamento si era precisato di volta in volta che la prova della mancanza di indipendenza economica del figlio divenuto maggiorenne deve essere fondata su un accertamento di fatto avente riguardo “all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell'avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età” (così, ad es. Cass. n. 12952 /2016, n. 19589/2011 e n. 15756/2006, citate); che l'onere della prova incombente sul genitore interessato alla declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento può essere assolto anche in via presuntiva alla stregua di circostanze di fatto da cui desumere l'estinzione dell'obbligo, “con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all'età dei beneficiari, in guisa da escludere che la tutela della prole….possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe…..in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani" (Cass. n. 18076/2014, citata ed, ivi, i precedenti richiamati); che tra le circostanze presuntive possono essere annoverate l'avvenuto svolgimento, con rapporto di collaborazione continuativa, di un’attività di lavoro, anche se venuta successivamente a cessare (Cass. n. 24498/2006, n. 12477/2004 e n. 7195/1997, citate); la sopravvenuta adozione del figlio da parte del nuovo marito della madre, ove ne derivi il suo stabile inserimento nel contesto familiare così venutosi a creare (n. 7555/2020, cit.), mentre il raggiungimento dell'indipendenza economica non è dimostrato né dalla mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista (n. 407//2007, citata), né dal conseguimento di una borsa di studio (nella specie, di 800 euro mensili: n. 2171/2012, citata) o di un titolo di studio universitario, né dalla mera celebrazione di un matrimonio cui non consegua la costituzione di una nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente (n. 1830/2011, citata).
All’improvviso revirement dell’ordinanza, riassumibile nella conclusione che con la maggiore età cessa il diritto al mantenimento del figlio salvo che non sia provata dal richiedente (il coniuge o lo stesso figlio divenuto maggiorenne) la condizione di non autosufficienza economica per cause al figlio non imputabili, la Corte è pervenuta sulla base delle seguenti considerazioni:
- la previsione dell’art. 337-septies c.c. introdotta con l’art 55 del d.lgs. n. 154/2013 che ha riprodotto integralmente il contenuto dell’art.155-quinquies c.c. subordina il diritto all’attribuzione dell’assegno di mantenimento al figlio divenuto maggiorenne - oltre che alla circostanza dell’essere quest’ultimo economicamente non indipendente - ad una valutazione discrezionale (il giudice “può”) delle circostanze relative al caso concreto (par.1 dell’ordinanza). In base a tale disposizione, con il raggiungimento della maggiore età il diritto al mantenimento non potrebbe più correlarsi ad un obbligo dei genitori discendente “direttamente ed automaticamente” dalla mancanza di indipendenza economica del figlio, ma costituirebbe l’effetto di una dichiarazione giudiziale attributiva di un diritto “prima di quel momento inesistente”, l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni essendo collegata dalla legge “all'acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età”, salva la prova “che il diritto permanga per l'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l'indipendenza economica” (par.4.4);
- nella giurisprudenza della Cassazione sono ormai acquisiti i principi relativi alla "funzione educativa del mantenimento" ed all’"autoresponsabilità", da coniugare tenendo conto correlativamente dei “doveri gravanti sui figli adulti: il riconoscimento in favore dei figli conviventi e “sedicenti non autonomi” di un diritto al mantenimento protratto oltre tali i limiti finirebbe per determinare una "disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile" nei confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza resi autosufficienti, abbiano in seguito perduto tale condizione: solo i primi, infatti, si gioverebbero della normativa più favorevole del mantenimento, mentre per gli altri varrebbe unicamente il diritto agli alimenti[2] (par. da 4.2 a 4.2.2.);
- le mutate condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza di autonomia "di ritorno", a volte in capo allo stesso genitore, hanno indotto la giurisprudenza a sottolineare la rilevanza connessa all'avanzare dell'età, l'obbligo di mantenimento non potendo “essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un'occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto” e l'attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative potendo “costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli". La funzione educativa del mantenimento è invero “nozione idonea a circoscrivere la portata dell'obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società"; e si renderebbe dunque “esigibile l'utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell'auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore”. Tenuto conto anche dell’indirizzo interpretativo che si è venuto affermando con riguardo al diritto all'assegnazione della casa familiare, ciò confermerebbe che - ogniqualvolta vengono in rilievo i concetti del dovere e dell’autoresponsabilità - “ e non solo quelli del "diritto ad ogni possibile diritto" - anche il nostro ordinamento procede “di pari passo con l'evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l'applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost.” (par.4.2.3 dell’ordinanza, che nel par. successivo si produce in un’ampia esemplificazione della casistica in cui la cassazione nelle materie più diverse - come ad esempio nei contratti di investimento finanziario, nella compravendita, nella trascrizione, in materia di risarcimento del danno con riguardo all’art. 1227 c.c., in campo processuale - ha fatto applicazione del principio dell’autoresponsabilità “anche in presenza di un diritto che chieda di essere affermato, ed, anzi, proprio per rendere ragionevole e "sostenibile" qualsiasi diritto”, la pienezza della scelta esistenziale personale dovendo sempre “ fare i conti nel bilanciamento con le libertà e diritti altrui di pari dignità”;
- tale conclusione sarebbe coerente con gli artt. 1, 4 e 30 Cost. e costituirebbe applicazione del “principio dell’abuso del diritto” o - più precisamente - “della buona fede oggettiva”, il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non potendo “sorgere già "abusivo" o "di mala fede". Poiché la capacità lavorativa si acquista con la maggiore età, e cioè in quell’età in cui, secondo l'id quod plerumque accidit, “si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita” e la legge presuppone raggiunta un'autonomia che giustifica l’attribuzione della “capacità di agire (e di voto)”, al figlio maggiorenne - in ragione dello stretto collegamento tra doveri educativi e di istruzione, da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro - dovrebbe essere negato il diritto al mantenimento, salva la prova di circostanze tali da giustificare il permanere dell’obbligo in capo ai genitori (par.4.4 e 4.5.1);
- tra le evenienze determinanti il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si porrebbero: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione diligente di studi ultraliceali, da cui poter desumere “l'esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini” da ritenere “ancora legittimamente in corso di svolgimento” se vengano dimostrati “effettivo impegno ed adeguati risultati” quali emergenti “dalla tempestività e l'adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso”; c) l'essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi che il figlio abbia reputato a sé idoneo; d) il mancato reperimento - nonostante tutti i possibili tentativi di ricerca cui il figlio si sia ”razionalmente ed attivamente adoperato” - di un qualsiasi lavoro, confacente o no alla propria specifica preparazione professionale” (par. da 4.5.2 a 4.5.4).
Corollario della tesi secondo cui con la maggiore età cessa il diritto al mantenimento - salva l’esistenza di circostanze tali da giustificare la permanenza del relativo obbligo in capo ai genitori - è che l'onere della prova della ricorrenza di tale condizione sia a carico del richiedente: una conclusione che, tra l’altro, sarebbe si porrebbe in armonia “con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell'onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all'art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa compete l'onere della prova, pur negativa” (par. 4.6.).
2. Funzioni di “nomofilachia” e critiche all’ordinanza
L’ordinanza presta il fianco a diverse critiche[3], alcune delle quali sono state già sollevate in questa stessa Rivista[4].
Essa appare innanzi tutto criticabile sotto il profilo del metodo, l’improvvisa sterzata rispetto al precedente e consolidato orientamento essendo stata affidata non ad una sentenza, ma alla forma dell’ordinanza, in contrasto con la funzione di nomofilachia della cassazione e con la stessa formulazione delle norme positive.
Com’è noto, alla funzione di nomofilachia della Cassazione il legislatore è venuto attribuendo rilievo prioritario e crescente a partire dalle modifiche al codice di rito introdotte con il d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40[5] in attuazione della legge delega 14 maggio 2005 n. 35, proseguendo poi con la legge 18 giugno 2009 n. 69[6]; con la legge 7 agosto 2012 n. 134 di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83[7] e con il decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016 n. 197 che, introducendo come regola la trattazione in camera di consiglio, conclusa con ordinanza, e come eccezione l’udienza pubblica, conclusa con sentenza da adottare nei (soli) casi in cui “sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale (la Corte) deve pronunciare” (art. 375, secondo comma)[8] ha dato origine a quella che è stata definita la sostanziale “cameralizzazione” del giudizio civile di cassazione”[9]. Il percorso legislativo si è poi concluso con la legge 23 giugno 2017, n. 103 che ha esteso al giudizio penale la regola già vigente per quello civile, secondo cui la sezione semplice ha l’obbligo di rimessione alle sezioni unite ogniqualvolta ritenga di non condividere il principio di diritto da queste enunciato (nuovo comma 1-bis dell’articolo 618 cpp).
Anche l’appropriata applicazione delle norme processuali costituisce un aspetto della “certezza del diritto” cui deve contribuire la funzione di nomofilachia, il processo essendo il luogo in cui più che mai deve essere garantita l’esigenza di certezza e stabilità delle regole del gioco[10]. E se è vero che la forma prescelta nel caso in esame (ordinanza anziché sentenza) non ha alcuna conseguenza rispetto alla fattispecie decisa, ciò non toglie che il provvedimento si ponga pur sempre come precedente, con potenziali effetti futuri anche sotto il profilo dell’incremento della litigiosità e del contenzioso[11].
Ora non sembra potersi affermare che, a fronte di un discostamento di tale rilevanza, l’ordinanza (forma propria dei provvedimenti che hanno caratterizzato numerosi precedenti allineati sull’orientamento consolidato) fosse lo strumento più adatto; né potrebbe sostenersi che si fosse in presenza di un caso di manifesta infondatezza del ricorso dal punto di vista del revirement interpretativo accolto nell’ordinanza,
Ugualmente sorprendente, non solo nel metodo, ma anche nel merito è che ai copiosi richiami ed all’ampio excursus sui precedenti giurisprudenziali contenuti nei paragrafi da 4.2.1.1 a 4,4. dell’ordinanza (in cui sono ribaditi principi alla stregua dei quali sarebbe stato probabilmente possibile - e questa volta proprio con la forma dell’ordinanza - pervenire al rigetto del ricorso o, prima ancora, alla declaratoria della sua inammissibilità senza dover aggiungere altri argomenti[12]) faccia seguito - quasi ne costituisse un corollario o uno sviluppo - quella che in realtà costituisce una repentina virata rispetto all’indirizzo espresso in tali precedenti, a tutti i quali è sotteso (o nei quali a volte è anche espressamente richiamato) quel concetto di “autoresponsabilità” cui l’ordinanza sembra affidare principalmente le ragioni della svolta: laddove l’”autoresponsabilità” altro non esprime che quel dovere di attivazione cui nelle precedenti decisioni si era fatto costante riferimento, senza con questo ricavarne la conseguenza che al raggiungimento della maggiore età venga a cessare, da un giorno all’atro, l’obbligo di mantenimento in capo al genitore con corrispondente estinzione del relativo diritto in capo al figlio.
E proprio perché a tale conclusione (peraltro formulata, almeno sul piano terminologico, con una ricorrente scambio del concetto di attribuzione ex art. 337-septies c.c. di un diritto prima inesistente, con quello di estinzione del diritto a causa della mancata prova in ordine all’incolpevole condizione di non indipendenza economica dopo il raggiungimento della maggiore età[13]) l’ordinanza è pervenuta con affermazioni implicanti una netta cesura rispetto a quanto anteriormente e costantemente affermato dalla medesima sezione della Corte, nel caso deciso veniva a profilarsi - in considerazione appunto di tale cesura – la particolare rilevanza della questione di diritto che avrebbe imposto la pronuncia con sentenza.
Anni di elaborazione e fiumi di inchiostro intorno al concetto di nomofilachia sembrano dunque dispersi nell’enunciazione di un principio di diritto che nel contesto dell’ordinanza affiora quasi come un obiter dictum; e si perde ogni significato del valore del precedente che - pur non avendo nel nostro ordinamento il carattere vincolante di una “regola juris” - “quando si traduca in un orientamento consolidato della Suprema corte, non ha soltanto una valenza persuasiva ma assume anche una più pregnante rilevanza giuridica”[14]; e “se non giunge mai ad intaccare il principio della soggezione del giudice solo alla legge”, restando pur sempre garantiti “il dissenso e l’evoluzione della giurisprudenza, la correzione, il ripensamento o l’innovazione dei suoi orientamenti”, si colloca in un quadro normativo in cui dissenso e cambiamento “devono essere motivati e fondati su elementi ..così convincenti da far prevalere le ragioni del cambiamento rispetto alla tutela dell’affidamento ed al diritto dei cittadini ad essere uguali dinanzi all’interpretazione della legge, ad avere un uguale trattamento giurisdizionale”[15].
3. Il sistema positivo e la lettura dell’art. 337-septies c.c.
Come s’è detto, la conclusione accolta nell’ordinanza in commento si fonda - quanto alle norme positive – sulla considerazione che il dovere di mantenimento dei figli avrebbe assunto connotati nuovi sin dalla riforma di cui alla legge n.54/2006, che mediante l'art. 155-quinquies c.c. (poi riprodotto nell’art. 337-septies c.c. nel corpo delle innovazioni di cui al d.lgs. n. 154/201) ha dettato una disposizione ad hoc in favore di figli maggiorenni. Fin da allora, pertanto, sussisterebbero modalità diverse per l'adempimento del dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda che questi sia un minorenne (valendo in tal caso la disciplina dettata dagli artt. 147 - richiamato dall’art. 48, 2° comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 - e 315-bis c.c) ovvero un maggiorenne economicamente non indipendente, per il quale la regolamentazione andrebbe rinvenuta nell’art. 337-septies c.c.in base al quale l’obbligo di mantenimento per il figlio divenuto maggiorenne “non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore”, ma sarebbe rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto. Affinché tale obbligo possa configurarsi, non sarebbe pertanto sufficiente – “pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice” – la mancanza di indipendenza economica del figlio maggiorenne, ma occorrerebbe una statuizione del giudice attributiva “del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente” (cfr. altresì il par. 4.5.4., in cui vengono indicate le evenienze che «comportano il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne»).
Questa lettura “innovativa” dell’art. 337-septies (già art. 155-quinquies) c.c. trascura di considerare che, nel sistema normativo, i doveri nei confronti dei figli scaturiscono dalla filiazione e prescindono sia dal rilievo che con il conseguimento della maggiore età il figlio acquista la piena capacità di agire (ivi compresa la possibilità di esercitare il diritto di voto, che l’ordinanza ha cura di richiamare senza che se ne intraveda l’utilità rispetto alla questione decisa), sia dalla circostanza che da quel momento vengono meno i poteri disciplinari e rappresentativi in capo ai genitori; lo stesso art. 337-septies c.c. sta anzi a dimostrare che per il legislatore un obbligo di mantenimento può sussistere anche quando la funzione educativa (ma anche quella di assistenza e di istruzione) “debba confrontarsi con il raggiungimento della maggiore età del figlio”, né la norma conosce distinzione alcuna, sotto il profilo dell’età dei figli, con riguardo alla “speculare materia dell’assegnazione della casa coniugale”[16].
Come è stato puntualmente osservato nelle note critiche degli autori più sopra ricordati, il dovere di mantenimento trova il proprio titolo nell’ art. 30 della Cost. e negli artt. 147 e 315 e segg. c.c che, nell’imporre ai genitori l’obbligo di “mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni”, non contengono alcuna distinzione con riguardo all’età dei figli, in tal modo configurando un regime unitario salve le eccezioni espressamente previste, come quella relativa alla norma dell’art. 315-bis, terzo comma c.c. applicabile ai soli figli minorenni. L’art. 337-septies (come già, prima, l’art. 155-quinquies) c.c., inserendosi nel contesto delle disposizioni di cui agli artt. 315 e segg. c.c., non ha il significato di prevedere la reviviscenza - subordinata alla prova della condizione di non autosufficienza economica - di un diritto venuto ad estinguersi per effetto del raggiungimento della maggiore età da parte del figlio ma, più semplicemente, quello di escludere che il raggiungimento della maggiore età sia incompatibile con il diritto al mantenimento, tanto che il giudice (nonostante il figlio sia diventato maggiorenne e sempre che, naturalmente, un assegno di mantenimento non sia già stato disposto in precedenza) può disporlo, ed favore dello stesso figlio direttamente, una volta valutate le circostanze del caso concreto: tra le quali deve essere annoverata, naturalmente, anche la situazione concreta dei genitori, fermo altresì restando - ciò di cui mai si è dubitato nella giurisprudenza, senza necessità di ricorrere alla categoria dell’”abuso del diritto” elaborata per altre situazioni[17] - che non può esservi spazio per “rendite parassitarie, escluse dal principio di responsabilità che investe qualunque soggetto adulto e capace” [18]. In altri termini, il campo di operatività dell’art. 337-septies c.c. è limitato alle modalità di esercizio dei diritti dei figli maggiorenni (economicamente non autosufficienti) e di adempimento dei doveri genitoriali in caso di separazione, divorzio, cessazione della convivenza; ed ha la sola funzione di specificare che l’obbligo di mantenimento può essere assolto mediante il versamento di un assegno periodico da corrispondere direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice [19].
4. Considerazioni conclusive
Nell’affermazione secondo cui il raggiungimento dalla maggiore età comporta l’estinzione del diritto al mantenimento salvo prova della mancanza di autonomia economica del figlio divenuto maggiorenne, sembra in qualche modo disperdersi il senso dell’evoluzione che, sotto la spinta della dottrina, della giurisprudenza e della cultura giuridica e nella cornice delle più ampie sollecitazioni provenienti dalla carta costituzionale e dalle convenzioni internazionali, è venuta progressivamente adeguando il diritto di famiglia alle vecchie/nuove istanze ed ai nuovi bisogni di giustizia maturati all’interno della società: un’evoluzione di cui, ad esito di un processo ancora oggi lontano dall’essere compiuto, costituiscono tra le espressioni più significative la legge n. 219/2012 sull’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi' ed il d.lgs. n. 154/2013 volto a completare il percorso di equiparazione ed introducendo il principio dell’unicità dello stato di figlio, anche adottivo, in un solco in cui sono venute emergendo la figura e la soggettività non solo del minore ma, più in generale, dei figli quali titolari di aspettative e di diritti e, in particolare, di quel diritto al futuro che la Costituzione riconosce e garantisce, non solo nelle norme specifiche contemplanti la famiglia, il dovere di istruzione, educazione e mantenimento dei figli, la maternità, l'infanzia e la gioventù, la scuola e l'insegnamento, ma nel tessuto intero del suo impianto in cui si esprime, appunto, l'impegno di costruzione del presente anche come garanzia di tutela del futuro, in un continuum in cui le generazioni che oggi si affacciano al mondo siano viste come beneficiarie e, insieme, come artefici del progetto per cui il desiderio di vivere una vita serena e dignitosa, il bisogno di essere liberi dalla paura, a cui tutti giustamente aspiriamo, ed a cui occorre dare risposte concrete, siano perseguiti per tutti in nome dei diritti che ogni uomo ed ogni donna acquistano per il fatto stesso della nascita.
Nel quadro di questa evoluzione, il d.lgs. n. 154/2013 ha sostituito “l’obsoleto istituto della potestà genitoriale con quello della responsabilità genitoriale” eliminando la limitazione temporale originariamente collegata nell'art. 316 c.c. al compimento della maggiore età dei figli o alla loro emancipazione: con la conseguenza che, nell’assetto normativo vigente, la cura cui il genitore è tenuto nei confronti del figlio prosegue oltre il raggiungimento della maggiore età e fino al conseguimento della indipendenza economica[20].
Se l’evoluzione legislativa cui si è fatto accenno fosse stata tenuta in maggiore considerazione, forse la Corte sarebbe stata più cauta nell’affermare che la maggiore età, “tanto più quando è matura - perché sia raggiunta, secondo l'id quod plerumque accidit, quell'età in cui si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita," anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne” implica “l'insussistenza del diritto al mantenimento”; e, nel teorizzare l’estinzione del diritto (salvo reviviscenza per effetto di un provvedimento del giudice ex art. 337-septies c.c.), si sarebbe quanto meno preoccupata di dare una risposta al quesito su chi ricada, nel frattempo, il dovere di mantenimento di un figlio che - a dispetto del raggiungimento della maggiore età, nonostante che la Repubblica italiana sia “fondata sul lavoro” e benché con la maggiore età si acquisti per legge “piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro”[21] – si trovi nella condizione di non poter provvedere a se stesso. Forse la Corte si sarebbe prospettata l’evenienza che l’obbligato possa cessare - indipendentemente dalla propria condizione economica, e quindi anche quando la situazione patrimoniale gli permetterebbe tranquillamente di assolvere i il proprio obbligo[22] - la corresponsione di qualunque assegno al compimento del diciottesimo anno dì età del figlio, con l’effetto di trasferire su quest’ultimo o sull’altro genitore non soltanto l’onere della prova[23] ma, prima ancora, quello dell’iniziativa giudiziaria, anche solo per la conservazione della parte corrispondente al più ridotto importo alimentare che nell’ordinanza si riconosce comunque dovuta a prescindere dall’età[24]; e riflettendo sull’interpretazione accolta, non avrebbe mancato di porsi qualche dubbio in relazione al fatto che durante il tempo occorrente al conseguimento di una decisione giudiziaria, il figlio verrebbe a trovarsi privato dei mezzi necessari per fronteggiare esigenze che hanno bisogno di essere soddisfatte giorno per giorno e non in tempi differiti proprio negli anni più vicini, secondo quanto normalmente accade, al momento dei reali bisogni formativi[25], con inevitabili ricadute sul genitore convivente costretto a farsi interamente carico del suo mantenimento.
Prima ancora che il Covid 19 gettasse nell’angoscia l’intera umanità, la precarizzazione del mondo del lavoro costituiva già una piaga sociale che, non risparmiando i lavoratori adulti di entrambi i sessi, aveva investito soprattutto le fasce giovanili e, sovvertendo ciò che per alcuni decenni era stato il modello sociale europeo, aveva messo a nudo il volto di un mondo in cui alla perdita ed alla mancanza del lavoro facevano riscontro la povertà crescente e la perdita di senso individuale e collettivo. Termini come incertezza, rischio, disagio psicosociale, che connotavano ormai tanto il lavoro manuale e operaio, quanto il lavoro della conoscenza, costituivano aspetti di una dolorosa dimensione esistenziale.
Di fronte a ciò, affermazioni come quella che individua quale preciso dovere del figlio la ricerca dell'autosufficienza economica, ipotizzando che tale dovere sussista, sia ex ante,”sin dagli esordi del corso di studi, che il figlio ha l'onere di ponderare in comparazione con le proprie effettive capacità personali, di studio e di impegno, oltre che con le concrete offerte ed opportunità di prestazioni lavorative”, sia ex post, quando esso si atteggia quale dovere di ricercare “qualsiasi lavoro e di attivarsi in qualunque direzione”, in attesa “dell'auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni” hanno quasi il sapore di un abbandono a se stesse delle nuove generazioni, somigliano ad una sorta di invito ad “arrangiarsi” che finisce per cancellare ogni spazio a quelle legittime aspirazioni ed a quelle attitudini personali che - mai pretermesse dai precedenti giurisprudenziali richiamati nell’ordinanza - costituiscono parte specifica ed integrante del diritto positivo e presupposto per la realizzazione di quel valore della dignità della persona in cui è racchiuso il senso più profondo della carta costituzionale.
Si è dunque in presenza di un provvedimento che, pur non sussistendone alcuna necessità ai fini della decisione, si è discostato da quei “parametri di riferimento” e da quei principi che la Corte, in più di vent’anni di giurisprudenza, era venuta elaborando “in coerenza al proprio compito di nomofilachia ex art. 65 ord. giud..…ai fini di uniformità, uguaglianza e più corretta interpretazione ed applicazione della norma” (così l’ordinanza in commento, par. 4.1), tutti riassumibili nella massima secondo cui non è la maggiore età, ma il conseguimento dell'indipendenza economica (o il colpevole mancato raggiungimento di essa) il fatto estintivo della obbligazione di mantenimento gravante sui genitori, un fatto che - come tutti quelli estintivi del credito - deve essere provato dal debitore; e tale discostamento è avvenuto, in forma quasi incidentale, senza alcuna conseguenzialità con quei parametri e quei principi che pure l’ordinanza aveva mostrato di condividere.
Ma, com’è stato osservato, fermo il diritto-dovere di ogni giudice (sia di merito, sia di legittimità) di sottoporre a critica gli orientamenti giurisprudenziali pregressi che non gli appaiano convincenti, l’esigenza – per quanto attiene alla Corte di cassazione – “di tener conto dei propri stessi precedenti si radica nella istituzionale funzione di assicurare l’unità del diritto oggettivo nazionale” e “nella conseguente necessità di garantire (almeno tendenzialmente) i valori di coerenza ed uguaglianza insiti nell’ordinamento”; ed è sempre necessario “saper bilanciare l’etica della convinzione con l’etica della responsabilità”, anche perché - egli osserva – “ogni decisione è certo un unicum, in rapporto alla specifica controversia che risolve, ma nel medesimo tempo è il tassello di un più ampio tessuto giurisprudenziale in cui deve potersi armonizzare”.
[1] Cfr., per l’indirizzo della Cassazione sul tema dell’assegno di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Forum 2016, pag. 77 e segg., che alla formazione di tale indirizzo come a quella di altri fondamentali ed innovativi orientamenti della Corte di cassazione ha dato un contributo decisivo.
[2] Così la motivazione dell’ordinanza, in cui vengono richiamati diversi precedenti tra cui quello secondo cui l'obbligo dei genitori - a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall'ordinamento - non può protrarsi “sine die”, trovando il suo limite logico e naturale nei casi in cui i figli si siano già avviati ad un'effettiva attività lavorativa tale da consentire loro una concreta prospettiva d'indipendenza economica, o siano stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo ad assicurare loro le normali esigenze di vita; quando abbiano conseguito la possibilità di ottenere un titolo sufficiente ad esercitare un'attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; quando comunque abbiano raggiunto un'età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a se stessi, o ancora si siano inseriti in un diverso nucleo familiare o di vita comune.
[3] Vedi, ad es. G. De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso dalla recente pronuncia della S.C. in Foro It., 24 agosto 2020.
[4] Cfr. R. Russo, Figli maggiorenni e mantenimento: la Cassazione cambia orientamento? Nota a Cass. Civ. (ord.) Sez. I, 16 luglio/14agosto2020, n. 17183, in GiustiziaInsieme,3settembre2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1289-figli-maggiorenni-e-mantenimento-la-cassazione-cambia-orientamento
[5] Con tale intervento l’art. 374 cpc è stato modificato prevedendo tra l’altro che “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
[6] Che ha valorizzato i “precedenti” della Corte (art. 360-bis), prevedendo a tal fine l’istituzione di un’apposita sezione.
[7] Che ha ridotto i motivi di ricorso per cassazione concernenti l’accertamento di fatto del giudizio di merito, ripristinando il testo originario dell’art. 360 n. 5 ed escludendo, più radicalmente, la deducibilità di tale motivo in alcuni casi (art. 348-ter).
[8] Cfr. per un breve excursus sull’evoluzione legislativa in materia, La Cassazione civile vista dai suoi giudici - Recensione di Ernesto Lupo a “La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana” (terza edizione, Bari 2020) a cura di Acierno, Curzio e Giusti in Giustizia insieme, 1 ottobre 2020, Intervista di F. De Stefano https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1318-la-cassazione-civile-vista-dai-suoi-giudici-recensione-di-ernesto-lupo-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana-terza-edizione-bari-2020-a-cura-di-acierno-curzio-e-giusti
Come osserva E. Lupo nell’intervista citata, per effetto di questa evoluzione possono individuarsi due aspetti della Cassazione: quello relativo alla cassazione “dei casi singoli, che controlla la motivazione adottata dal giudice del merito” e quello attinente alla cassazione “dei principi di diritto”, che persegue l’unità della giurisprudenza e quindi la funzione di nomofilachia rivolta non al passato del caso singolo da decidere, ma essenzialmente al futuro dei casi analoghi da definire. La prima si esprime normalmente con ordinanze che decidono sui ricorsi che censurano la motivazione (degli accertamenti di fatto) o che pongono questioni di diritto la cui soluzione non implica l’esercizio della nomofilachia; la seconda pronunzia, invece, le sentenze attraverso le quali si esprime questa ultima funzione”.
L’obbligo di rimessione obbligatoria alle sezioni unite ogni qualvolta una sezione semplice ritenga di non condividere il principio di diritto da queste enunciato, è stato introdotto con le riforme del 2006 e del 2017 anche in considerazione delle difficoltà della Corte di cassazione (chiamata ad un tempo ad assicurare «l’esatta osservanza e l’uniformità dell’interpretazione della legge” in base all’art. 65 ord. giud., ed a svolgere il ruolo di giudice di terza istanza in base all’art. 111, comma 7, Cost.) ad assolvere alla funzione di “nomofilachia”. Cfr. al riguardo, anche per le conseguenze che ne sono derivate, E. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, fascicolo n. 4/2018 dal titolo Una giustizia (im)prevedibile? Il dovere della comunicazione
http://questionegiustizia.it/rivista/2018/4/introduzione-una-giustizia-imprevedibile-_572.php
Sulla nomofilachia cfr., tra gli altri, R. Rordorf, Magistratura Giustizia Società, Cacucci editore, Bari 2020, in particolare la parte IV dedicata “Corte di cassazione e nomofilachia”.
[9] Per rilievi critici sulla “cameralizzazione” cfr., tra gli altri, G. Costantino, Note sulle «misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, in Il nuovo procedimento in cassazione, a cura di D. Dalfino, Giappichelli, 2017.
Le critiche rivolte alle eccessive limitazioni del contraddittorio nelle procedure camerali, in cui il legislatore ha escluso ogni possibilità di intervento orale dei difensori, sono condivise anche da E, Lupo, op.cit. il quale osserva come la scelta molto restrittiva del legislatore del 2016 può accettarsi soltanto come modalità utile a fare percepire agli operatori (magistrati ed avvocati), in modo evidente, la diversità tra i ricorsi da trattare in udienza pubblica (perché implicano l’esercizio della nomofilachia) ed i ricorsi da definire con procedura camerale (che interessano soltanto il caso concreto)”.
[10] G. Costantino, Introduzione, in Atti del XXXI Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, svoltosi a Padova il 29-30 settembre 2017, sul tema La tutela dei diritti e le regole del processo.
[11] E vedi, infatti, il commento all’ordinanza apparso su Altalex (Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione) ove si osserva che “un'innovativa decisione della Suprema Corte smantella una quantità di stereotipi giurisprudenziali, restituendo ai figli centralità e riconoscendo loro piena affidabilità”.
[12] Cfr. per una ricostruzione della fattispecie sottostante al ricorso su cui si è pronunciata la Cassazione con l’ordinanza in esame, R. Russo, op. cit.
[13] Cfr., ad es. il passo in cui si parla di permanenza del diritto (in relazione all'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, di un percorso formativo in fieri, ovvero in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione tale da assicurare l'indipendenza economica,) e l’altro passo in cui si afferma che, salva la prova di circostanze capaci di giustificare il permanere di un obbligo di mantenimento, il figlio maggiorenne non ne ha diritto, con ciò implicitamente ribadendosi che, allo scoccare della maggiore età, l’obbligo di mantenimento cessa fino a quando non sia data la prova dell’esistenza di circostanze idonee a farlo rivivere.
[14] Così R. Rordorf, op. cit., pag. 343.
Sul “peso” del precedente e sui modi in cui la giurisprudenza si pone rispetto ai precedenti propri cfr. lo stesso Autore, op. cit, pagg. 349-360, nonché - tra le altre - Cass. S.U. n. 23675/2014 e n. 13620/2012.
Con riguardo ai temi del valore del precedente, anche nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici nonché nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti; dell’overruling e della prevedibilità delle decisioni, della certezza del diritto; della giustizia “predittiva” ed altri temi connessi cfr. il fascicolo n. 4/2018 di Questione Giustizia, citato nonché tra gli altri, G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite penali della Corte di cassazione, in Diritto Penale Contemporaneo, 30 novembre 2018.
[15] P. Curzio, Il giudice e il precedente, in Questione Giustizia, fascicolo n. 4/2018, cit., il quale osserva come “il bilanciamento e il contemperamento di questi valori, è rimesso dal legislatore alla giurisprudenza, da intendersi, qui più che mai, come prudenza dei giudici”.
[16] Cr., per queste considerazioni, G. De Marzo, op. cit.
[17] Cfr., ad es. Cass. n. 30555/2019, ove si osserva come la figura dell'abuso del diritto possa reputarsi ormai “un principio immanente nel sistema”, volto “a fungere da adeguato strumento correttivo per le condotte giuridiche che - non confacendosi ai….principi di buona fede e correttezza, quali rivisitati alla luce dei principi costituzionali - tradiscono lo scopo e le finalità delle norme in virtù delle quali sono poste in essere”. Nel ricordare alcuni precedenti con i quali ha riaffermato l'operatività e l’esteso ambito di applicazione del principio, la Cassazione ha riassuntivamente osservato che si ha abuso del diritto “quando il titolare, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”.
[18] G.De Marzo, op, cit.
[19] R. Russo, op. cit .
[20] Così R. Russo, op. cit., ove viene richiamato il passo della relazione illustrativa al d.lgs. n. 154/2013 in cui si osserva che “il concetto di responsabilità genitoriale è necessariamente più ampio, in quanto nella sua "componente" economica vincola i genitori al mantenimento dei figli ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino cioè al raggiungimento della indipendenza economica, come ormai pacificamente affermato nel diritto vivente”.
[21] Così l’ordinanza in commento.
[22] Come si legge nell’ordinanza (par. 4.2.1) “nessun rilievo ha la situazione economico-patrimoniale del genitore”, posto che il diritto e l'obbligo di cui si sta discutendo “si fondano sulla situazione del figlio, non sulle capacità reddituali dell'obbligato”.
[23] Che l’ordinanza in commento presume più agevole in capo al figlio: vedi, in contrario, le osservazioni di R.Russo, op. cit.
[24]Cfr. De Marzo, op. cit.
Come osserva R. Rosa, op. cit., sarebbe anche difficile qualificare “richiedente” il figlio che nel giudizio di revisione delle condizioni di separazione e divorzio non abbia spiegato neppure un intervento, e ancora di più il figlio divenuto maggiorenne nel corso di un giudizio di separazione o divorzio già instaurato.
[25] Così ancora, testualmente, De Marzo, op. cit.
[26] Il precedente nella giurisprudenza, op. cit. pagg.356-357
Covid-19 e sorte dei contratti di locazione commerciale durante e dopo il lock down
(nota a Trib. di Roma, ord. 27.08.2020)
di Roberto Natoli
Sommario: 1. La questione oggetto di giudizio - 2. La rinegoziazione dei contratti di locazione stipulati tra imprese e il dovere di solidarietà - 3. La riduzione del canone come conseguenza di un vizio sopravvenuto della cosa locata - 4. L’art. 1584 c.c. come regola espressiva di un principio di ripartizione del rischio dell’impossibilità di far uso della cosa locata - 5. La strada della garanzia per i vizi e il ricorso alla disciplina contrattuale di parte speciale - 6. An e quantum della riduzione del canone - 7. La riduzione del canone tra clausole generali e regole puntuali.
1. La questione oggetto di giudizio
Una premessa a questa nota di commento è doverosa. Si tratta di una pronuncia importante e coraggiosa che recepisce l’appello, rivolto ai giudici civili anche da chi scrive, a individuare senza timori, “in un contesto storico in cui la vita non può certo soccombere innanzi alla dogmatica”[1], rimedi contrattuali per reagire al più clamoroso sconvolgimento delle nostre esistenze dalla seconda guerra mondiale in poi.
Poiché il commentatore non è condannato, a differenza dei giudici, all’urgenza del decidere, le osservazioni, anche di taglio critico, che seguiranno vogliono solo apportare un più meditato contributo di riflessione allo studio di un caso, qual è quello deciso dal giudice monocratico romano, quasi di scuola, tant’è che era stato facile immaginarlo già ai primi di marzo, nei primi e caotici giorni di diffusione dell’epidemia e dei, più o meno riusciti, tentativi di contenerne l’espansione.
La vicenda trae infatti origine da un ricorso, depositato dalla società conduttrice di un immobile urbano adibito a uso commerciale (in particolare, ad attività di ristorazione), tramite il quale è stato chiesto al Tribunale di intervenire, in sede cautelare, per ordinare alla società locatrice di non escutere la fideiussione prestata a garanzia del pagamento dei canoni e di ridurre il canone concordato, a partire dal mese di aprile 2020 e fino al marzo 2021, del 50%.
Il giudice monocratico accoglie parzialmente la domanda di cautela rivoltagli, disponendo la sospensione della garanzia fideiussoria fino all’importo di 30.000,00 euro e la riduzione del canone dovuto del 40% per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020, e del 20% da luglio 2020 a marzo 2021.
A questa soluzione giunge attraverso un percorso motivazionale complesso e non privo di spunti interessanti e innovativi. Nell’ordinanza si osserva, infatti:
i) che la buona fede contrattuale ha funzione integrativa del regolamento contrattuale, sì che, pur se non espressamente previsto dalle parti, sussiste un obbligo di rinegoziarne il contenuto se sopravvengono eventi imprevedibili che ne alterano significativamente i presupposti;
ii) che, nel caso in cui una delle parti si sottragga a quest’obbligo, si deve fare ricorso alla clausola generale di buona fede, letta nel prisma del principio di solidarietà costituzionale;
iii) che è dunque ammissibile un’azione di riduzione in via equitativa dei canoni di locazione in ragione del mancato rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, proposta in via principale senza previa domanda di risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità.
La decisione in commento rende un tributo al principio di effettività, perché non si limita all’astratta declamazione di un diritto ma predispone un rimedio attuarlo. L’ordinanza non si arresta, infatti, sulla soglia della sterile affermazione secondo cui dalla buona fede può dedursi un obbligo di rinegoziare, ma le dà corpo con un dispositivo dirompente per l’esito cui conduce, per nulla ovvio[2] e fin qui sostanzialmente ignoto alla giurisprudenza italiana[3]: se le parti non si accordano per condividere il rischio sopravvenuto, le condizioni che riportano il contratto “entro i limiti dell’alea normale” sono stabilite dal giudice.
2. La rinegoziazione dei contratti di locazione stipulati tra imprese e il dovere di solidarietà
Chiariti gli innegabili pregi della decisione in commento, può ampliarsi il raggio del discorso. L’ordinanza prende posizione su una questione che affligge i moltissimi operatori economici che, esercitando le proprie attività in locali condotti in locazione, sono tenuti al rispetto delle misure di contenimento della pandemia nel corso del tempo varate dal Governo per tutelare la salute pubblica: i quali, dunque, sono stati costretti nella primavera 2020 a chiudere al pubblico per più di due mesi e, in seguito (così ancora nel momento in cui si scrive), hanno dovuto rimodulare, sovente con aumento dei costi e riduzione dei ricavi, le proprie attività.
Sotto questo profilo, il settore della ristorazione rappresenta davvero un caso di scuola. Non solo, infatti, i ristoranti sono rimasti chiusi per oltre due mesi, per evitare la proliferazione dei contagiati nel momento di maggior timore per l’incontrollabile diffusione del virus, ma, quando hanno potuto riaprire le porte, hanno dovuto predisporre onerosi presìdi di sicurezza (frequente sanificazione dei locali; acquisto di ingenti quantità di gel igienizzanti; etc.) e hanno dovuto adottare misure di distanziamento all’interno dei propri locali che hanno intuitivamente ridotto il numero di clienti sia seduti, sia — e soprattutto — in piedi.
Il Tribunale di Roma ha valorizzato questi indiscutibili elementi per ridurre il canone in misura consistente (40%) per i mesi di chiusura al pubblico e, in misura minore, ma non insignificante (20%), per i mesi fino al marzo 2021, giustificando la riduzione quale “applicazione dell’antico brocardo ‘rebus sic stantibus’”, in base al quale i contratti devono “essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio”.
Alla cautela apprestata dal Tribunale sembrerebbe sottesa l’idea che la perdita secca del conduttore, costretto per fatto dell’autorità a sospendere prima e a limitare poi la propria attività d’impresa, debba essere condivisa con il locatore: sì che la riscrittura del contratto si fa carico di una vicenda che tipicamente inerisce alla dimensione interna dell’impresa conduttrice, qual è la contrazione dell’utile netto per ingovernabili fatti sopravvenuti[4].
Tanti commentatori hanno osservato che, in linea di principio, nei tempi eccezionali che stiamo vivendo, una tale idea è, per varie ragioni, molto condivisibile: e, tra queste ragioni, rileva, forse ancora prima del principio di solidarietà, il principio lavorista dettato dall’art. 1 della Carta costituzionale[5]: giacché nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che pretende per intero il canone concordato e il conduttore che ne chiede la riduzione argomentando dalla chiusura dell’attività, far prevalere il proprietario (magari sul rilievo che l’obbligazione di corresponsione del canone, avendo natura pecuniaria, non è mai impossibile), significa privilegiare, contro i principî fondativi dell’ordinamento costituzionale, la rendita sul lavoro.
Non può tuttavia essere ignorata l’acuta osservazione secondo cui, nei contratti di impresa, “la risposta dell’attuale diritto dei contratti all’esigenza segnalata sia necessariamente e rigorosamente negativa, anche rileggendolo alla luce del principio di solidarietà, anche vivificandolo attraverso la clausola di buona fede. (…) Basti dire che per molti imprenditori in difficoltà di cassa a pagare, ce ne sono altrettanti, anche bloccati dai decreti, che più forniti di liquidità o avendo predisposto un piano finanziario, continuano a pagare locazioni, forniture, servizi: e allora dov’è l’’impossibilità? (…) Nessuno però ritiene che il locatore, il fornitore, il professionista, siccome in base alla causa in concreto dovrebbero ex lege partecipare ai rischi, possano richiedere di partecipare ai profitti. Una solidarietà a senso unico!” [6].
La critica è affilata e parrebbe ben prestarsi al caso deciso dall’ordinanza in commento, nel quale anche il locatore è un’impresa (nella specie, una s.r.l.) che fa, a sua volta, affidamento sui proventi derivanti dai canoni per pianificare la propria attività imprenditoriale, sicché la loro riduzione inevitabilmente si riflette in minore liquidità e in una ridotta possibilità di pagare i propri debiti commerciali.
3. La riduzione del canone come conseguenza di un vizio sopravvenuto della cosa locata
Nondimeno, nel caso delle locazioni commerciali, anche stipulate tra imprese, si può forse giungere all’esito della riduzione temporanea del canone, raggiunto dal Tribunale romano, percorrendo strade diverse, tutte interne al sistema codicistico e non confliggenti con l’orizzonte costituzionale che giustamente illumina l’ordinanza del giudice monocratico.
È noto infatti che il sinallagma contrattuale, nel contratto di locazione, prevede non poche obbligazioni in capo al locatore, a fronte di due sole in capo al conduttore: i) corrispondere il canone pattuito e ii) far uso della cosa nel modo convenuto o in quello che poteva presumersi secondo le circostanze (cfr. art. 1581 c.c.).
Pertanto, poiché tra le obbligazioni che fanno capo al locatore vi è quella di garantire che l’immobile sia idoneo all’uso pattuito, il punto di vista potrebbe essere agevolmente ribaltato osservando che l’inidoneità all’uso pattuito, determinata da fatto dell’autorità, si ripercuote interamente sul locatore, il quale, sia pure non per sua colpa, non può oggettivamente adempiere l’obbligazione dovuta[7].
4. L’art. 1584 c.c. come regola espressiva di un principio di ripartizione del rischio dell’impossibilità di far uso della cosa locata
Ricondotta la soluzione del problema alla disciplina del contratto di locazione, l’obiezione dottrinale secondo cui la solidarietà non può spingersi fino al punto di far partecipare l’altra parte ai rischi d’impresa sembra perdere di consistenza: non si tratta, infatti, di accreditare una condivisione di rischi e profitti tra due contraenti imprenditori, ma di disciplinare, nel singolo rapporto contrattuale, le conseguenze dell’alterazione del sinallagma in conseguenza della sopravvenuta inidoneità della cosa all’uso convenuto o che poteva “altrimenti presumersi dalle circostanze” (arg. ex art. 1587, comma I, n. 1, c.c.)[8].
A partire da queste basi, ci si può porre il problema, logicamente successivo, di temperare la rigidità della soluzione che emerge dalla disciplina del contratto di locazione, secondo cui “non è da escludere a priori l’eventualità che, in certi casi, la riduzione del canone dovuto si spinga — per una o più mensilità — sino a portarlo allo zero” [9].
Per operare tale temperamento si può probabilmente attingere alla regola dettata dall’art. 1584 c.c. per il caso di impossibilità di far uso della cosa locata durante le necessarie riparazioni[10]: regola, a ben vedere, espressiva di un più generale principio di ripartizione del rischio tra le parti per il caso d’impossibilità d’uso del bene locato in ragione della durata dell’impossibilità d’uso della cosa locata: il rischio grava interamente sul conduttore solo per durate brevi, cioè inferiori a venti giorni, altrimenti restando in linea di principio in capo al locatore.
Questa regola offre altresì dei criteri per sindacare la correttezza dell’eccezione di inadempimento opposta dal conduttore (sempre che la si ritenga operante anche nel contratto di locazione[11]), la quale non potrà dirsi ex fide bona se sollevata a fronte di impossibilità d’uso di breve durata, atteggiandosi in quel caso a pretesto malizioso per sottrarsi alla corresponsione del canone; potrà, invece, reputarsi legittima qualora l’impossibilità d’uso si protragga oltre i venti giorni, e dunque per un arco temporale dal legislatore reputato significativo.
5. La strada della garanzia per i vizi e il ricorso alla disciplina contrattuale di parte speciale
È dunque anzitutto alla disciplina dei vizi del contratto di locazione che si può attingere per offrire una soluzione a casi come quello deciso dal giudice monocratico romano, nel quale entrambe le parti del contratto rivestono la qualifica di imprenditori commerciali e rispetto al quale non ha quindi senso invocare la prevalenza del lavoro sulla rendita[12].
Dall’art. 1578, comma I, c.c. si desume infatti che il concetto di vizio è strettamente collegato a quello di idoneità all’uso pattuito e che la garanzia trova fondamento nella necessità di garantire l’immutabilità del sinallagma funzionale[13], di talché, se il bene non è più idoneo, il conduttore può, a sua scelta, chiedere la risoluzione o la riduzione del canone. Dal capoverso del medesimo articolo si evince, poi, che il rilievo del vizio (i.e.: dell’inidoneità all’uso convenuto) è oggettivo[14], nel senso che il vizio apre alla doppia strada risoluzione / riduzione del canone quale ne sia la causa, rilevando l’eventuale condotta del locatore solo in punto di (ulteriore e diversa) domanda di risarcimento dei danni: è, infatti, “vizio della cosa qualunque fatto esterno, anche se dovuto a terzi o forza maggiore, che sia tale da procurare una diminuzione del godimento della cosa (…) per cui l’imperfetta realizzazione del sinallagma su verifica anche quando la causa del vizio sia estranea alla sfera di azione e di previsione del locatore” [15].
Poiché nel caso scrutinato dal Tribunale romano siamo indubbiamente al cospetto di una sopravvenuta inidoneità all’uso pattuito — cioè di un vizio — può applicarsi, giusta il rinvio operato dall’art. 1581 c.c., la disciplina dettata dall’art. 1578 c.c.[16]
A differenza delle regole sui rimedi contrattuali di parte generale, improntate (come correttamente osservato nell’ordinanza in commento e come si evince in particolare dall’art. 1467, comma III, c.c.) a un favor per i rimedi demolitori, l’applicazione di questa disciplina di parte speciale accorda direttamente al conduttore, in alternativa alla tutela risolutoria, un diritto alla riduzione del canone: riduzione che, in casi come quello deciso dall’ordinanza, potrebbe essere addirittura più consistente di quella richiesta dalla società ricorrente e parzialmente concessa dal Tribunale di Roma[17].
Si è già detto che si potrebbe persino ritenere che nulla sia dovuto per i mesi del lock down e che, finché perdureranno le misure di distanziamento interpersonale, si potrebbe disporre una riduzione anche più consistente del 20% accordato dal Tribunale capitolino.
Dall’applicazione dell’art. 1581 c.c., infatti, consegue che, se il conduttore non può completamente godere del bene secondo l’uso convenuto, non è tenuto a corrispondere il canone; se può farne un uso ridotto ha, invece, diritto a una riduzione che, nell’impostazione qui coltivata, tutta interna alla tutela dell’equilibrio sinallagmatico del contratto di locazione perturbato dall’evento pandemico, non dipende dai minori ricavi o dai maggiori costi ottenuti o sostenuti dalla società conduttrice in conseguenza dell’evento pandemico, ma tiene conto del legame tra l’uso possibile del bene locato e il canone originariamente convenuto sul presupposto che i locali oggetto di locazione potessero ospitare un certo numero di clienti e non il più ridotto numero conseguente all’adozione delle misure di contenimento.
6. An e quantum della riduzione del canone
Con un’ovvia dose d’approssimazione, un punto di partenza per quantificare an e quantum del canone post pandemia può quindi essere il seguente: per il periodo del lock down nulla è dovuto perché, per più di venti giorni, non è stato possibile far uso del bene per lo scopo ristorativo convenuto; per il periodo successivo al lock down è dovuto un canone ridotto, in proporzione al minor uso che del bene locato si può fare, nel rispetto delle misure di contenimento.
A partire da qui, la società locatrice può tuttavia dimostrare, anche presuntivamente, che durante il lock down il locale è parzialmente servito all’uso pattuito (ad esempio, perché ha consentito di preservare gli alimenti non deperibili, stivati nei magazzini o nei congelatori rimasti in funzione; di ospitare macchinari e attrezzature; di utilizzare le cucine per confezionare cibo da asporto; di preservare l’avviamento dell’attività economica); oppure che, alla riapertura successiva al lock down, l’uso convenuto del bene non sia mutato rispetto al periodo prepandemico (tanto può accadere, ad esempio, per i ristoranti particolarmente esclusivi, con tavoli già distanziati per garantire riservatezza alla clientela): in questo caso il rispetto delle misure di distanziamento interpersonale è infatti compatibile con l’uso originariamente convenuto[18], sì che il conduttore non avrà diritto ad alcuna riduzione di canone, neppure se, per ipotesi, avesse subìto comunque una contrazione di utili (che potrebbe derivare dalle maggiori spese da sostenere per sanificare i locali o anche dal ridotto flusso di clienti dovuto al generale timore di uscire di casa): una tale contrazione non è infatti in alcun modo imputabile all’idoneità del bene all’uso convenuto e rientra nel tipico rischio di impresa che grava sull’impresa conduttrice[19].
7. La riduzione del canone tra clausole generali e regole puntuali
La linea interpretativa proposta in queste note ha, forse, il pregio di ridurre quell’ampio margine di discrezionalità che inevitabilmente consegue alla creazione di regole di matrice giudiziale, derivante dall’uso, non mediato da norme puntuali e dalle regole generali che da esse possono ritrarsi, di princìpi costituzionali e clausole generali[20].
L’ordinamento è necessariamente incompleto e ricco di lacune normative. Quando, però, le norme puntuali esistono, e la loro applicazione non confligge, come nel caso di cui si sta discutendo, con i princìpi costituzionali, decidere in base a esse riduce la discrezionalità (e i conseguenti margini di opinabilità e imprevedibilità) che sempre accompagna l’applicazione delle clausole generali. La bontà del richiamo alle norme codicistiche si coglie del resto riflettendo proprio sul caso affrontato, sia pur con apprezzabilissimo coraggio, dal giudice romano: perché per i tre mesi del lock down la riduzione del canone dovrebbe essere del 40% e per i successivi mesi del 20%?
La soluzione qui suggerita ha, forse, il pregio di dettare una regola operativa (o, meglio, un principio di regola operativa) con un aggancio normativo un po’ più solido delle ragioni equitative che hanno sorretto la cautela concessa. D’altro canto, conoscere con ragionevole probabilità l’esito di un contenzioso è sempre il miglior viatico per evitare le liti e stimolare le parti a rinegoziare volontariamente: confrontandosi magari, nel caso delle locazioni commerciali, non sul solo canone ma anche su ulteriori e non meno rilevanti profili[21].
[1] Così Benedetti – Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in https://www.dirittobancario.it/editoriali/alberto-maria-benedetti-e-roberto-natoli/coronavirus-emergenza-sanitaria-e-diritto-dei-contratti-spunti-un-dibattito, p. 4.
[2] Una sintesi completa del dibattito sul tema in Tuccari, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, 2018, spec. p. 64 ss.
[3] Anche le pronunce di merito più innovative raramente si spingono sul terreno della riscrittura delle condizioni (o di talune condizioni) contrattuali. Se non ci si inganna, tra le pronunce edite solo Trib. Bari (ord.) 14 giugno 2011, in Contr., 2012, p. 571, ha modificato in sede cautelare il quadro complessivo delle obbligazioni di fonte contrattuale la cui economia fosse stata alterata da fatti sopravvenuti, ordinando alla resistente di eseguire una prestazione diversa da quella originariamente dovuta e “adattata” alle nuove circostanze.
[4] “nel caso di specie, a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea atteso che nella fattispecie a fronte del recupero di poco più della metà del credito di imposta per un solo mese si sono verificate delle perdite nette dei ricavi per i mesi di marzo, aprile, maggio di euro 136.555,11 rispetto al corrispondente periodo di gestione dell’anno precedente.
[5] Natoli (e Roppo), Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza economica, in questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1033-contratto-e-covid-19-dall-emergenza-sanitaria-all-emergenza-economica-di-vincenzo-roppo-e-roberto-natoli
[6] Gentili, Una proposta sui contratti d’impresa al tempo del Coronavirus, in giustiziacivile.com, approfondimento del 29 aprile 2020, p. 7.
[7] Altra questione è se, in questi casi, il conduttore possa in autotutela sospendere o ridurre il canone in applicazione del principio, codificato all’art. 1460 c.c., per cui inadimplenti non est adimplendum. Questione tradizionalmente risolta in senso negativo dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, ma rispetto alla quale si registrano, assai di recente, prese di posizione di segno dichiaratamente opposto: v., ad es., Cass. 25 giugno 2019, n. 16918, in Foro it., 2019, I, p. 3147, così massimata: “in tema di locazione immobiliare ad uso non abitativo, l’inesatto adempimento da parte del locatore dell’obbligo di consegnare il bene in buono stato di manutenzione e di mantenerlo in maniera tale da servire all’uso convenuto legittima l’exceptio inadimpleti contractus da parte del conduttore, con conseguente facoltà di sospendere in proporzione il versamento del canone”.
[8] Nella prassi, peraltro, i contratti di locazione a uso commerciale prevedono frequentemente clausole che vietano espressamente di svolgere attività diverse da quelle convenute.
[9] Nello stesso senso Dolmetta, Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per «misure di contenimento» pandemico, in www.ilcaso.it, 23 aprile 2020, p. 8, secondo cui “non è da escludere a priori l’eventualità che, in certi casi, la riduzione del canone dovuto si spinga – per una o più mensilità – sino a portarlo allo zero”.
[10] La sospensione del pagamento del canone può peraltro evitarsi valorizzando gli elementi di fatto dai quali emerge comunque una qualche utilità dal bene locato, persino durante il lock down (v. infra, § 6)
[11] La posizione tradizionale della giurisprudenza, si ricordava supra (nota 7), è, infatti, nel senso dell’inopponibilità dell’eccezione di inadempimento al locatore e della conseguente illegittimità della c.d. autoriduzione del canone: cfr. Cass. 26 febbraio 2012, n. 10639, in Arch. loc. cond., 2012, p. 668, la cui massima recita così: “in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578, comma 1, c.c., per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti”.
[12] Nello stesso Salanitro, La gestione del rischio nella locazione commerciale al tempo del Coronavirus, in giustiziacivile.com, Editoriale del 21 aprile 2020, che invoca per l’applicazione della garanzia per i vizi non in via diretta, ma analogica.
[13] Tabet, La locazione conduzione, in Trattato Cicu Messineo, Milano, 1972, p. 491.
[14] V., ad es. Trib. Mantova 11 febbraio 2014, in Foro it., 2014, I, 3003, che ha disposto la riduzione del canone concordato del 40% in ragione del fatto che, in un immobile adibito a uso abitativo, l’acqua fosse risultata contaminata da arsenico, per tutta la durata dell’inconveniente.
[15] Tabet, op. cit., p. 494 s.
[16] Sotto questa luce, peraltro, anche l’argomento fondato sul rilievo del credito d’imposta pari al 60% dei canoni corrisposti per i mesi di aprile e maggio perde di peso, non solo perché è noto che la normativa tributaria non si riflette sull’interpretazione delle norme civilistiche, ma soprattutto perché quest’agevolazione intanto presuppone un debito d’imposta (evenienza per nulla ovvia) e, più in generale, ha la finalità di dare sostegno alle imprese che, a causa della chiusura delle loro attività e del pedissequo azzeramento dei ricavi, hanno subìto una crisi di liquidità.
[17] Nel caso deciso, come si è già ricordato, la domanda della società ricorrente era infatti limitata a ottenere, oltre alla sospensione della garanzia fideiussoria, una riduzione pari al 50% dei canoni pattuiti.
[18] A tanti contratti di locazione ad uso commerciale sono allegate le planimetrie e in non pochi casi anche i disegni relativi all’attività da svolgersi, di talché non è arduo evincere la tipologia di attività ristorativa da esercitare e l’impatto sulla stessa delle misure di contenimento.
[19] Specularmente, se la riduzione della clientela all’interno dei locali fosse stata compensata dalla possibilità di ospitarla negli spazi esterni limitrofi all’immobile locato (perché, ad esempio, i regolamenti locali hanno ampliato la possibilità di fruire del suolo pubblico), la riduzione di canone sarebbe comunque dovuta.
[20] Le previsioni che contemplano clausole generali producono un ineliminabile fenomeno di produzione normativa da parte del giudice (Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Pol. dir., 1988, p. 634 ss.). Ciò significa che è il legislatore, con una “tattica consapevole di delegazione” (Bartole, Principi generali del diritto (dir. cost.), Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 515), ad affidare al giudice il compito di formare la regola di condotta del caso concreto per reagire all’impossibilità di prevedere tutti i futuri stati del mondo attraverso una normazione casistica minuziosa, capillare e assolutamente puntuale: da ciò deriva, evidentemente, uno spostamento del baricentro della produzione normativa dalla sede legislativa alla sede giudiziale. Ovviamente tale strategia di delega non è neutra sotto il profilo della certezza del diritto.
[21] Per limitarsi al tema di queste note, cioè alle locazioni commerciali, la pandemia è stata un’occasione per tante imprese per rinegoziare, oltre al canone per i mesi di chiusura, anche la durata dei contratti; ovvero per prevedere ex ante regole convenzionali per disciplinare futuri lock down. La drammatica esperienza recente ha reso infatti non più imprevedibili tante delle misure di contenimento che, in misura più o meno drastica, sono state adottate nei diversi paesi del mondo. Il “non farsi trovare impreparati” a future pandemie investe, insomma, anche la scrittura dei contratti.
Il coronavirus in Austria: l’erba del vicino non sempre è più verde (breve nota ad una pronuncia del Tribunale costituzionale austriaco)
di Marco Bignami
Giustizia insieme rivolge uno speciale ringraziamento al Presidente Enrico Altieri che ha provveduto alla traduzione della corposa sentenza del Tribunale costituzionale austriaco dalla quale ha preso spunto il commento di Marco Bignami.
Sommario: 1. Il Tribunale costituzionale austriaco si pronuncia sulla normativa contro il coronavirus - 2. Chiusura di aziende e indennizzo - 3. L’obbligo di dimora - 4. L’accesso ai locali commerciali - 5. Il giudizio di proporzionalità - 5.1. Sindacato di costituzionalità sugli atti secondari - 6. Aperture al sindacato di costituzionalità sui d.P.C.m anti-coronavirus - 6.1. I d.P.c.m. quali atipiche ordinanze contingibili e urgenti.
1. Il Tribunale costituzionale austriaco si pronuncia sulla normativa contro il coronavirus
Con le decisioni riunite che qui brevemente si annotano (G 202/2020, V 411/2020, V 363/2020) il Tribunale costituzionale austriaco è intervenuto su frammenti della risposta normativa approntata contro la pandemia da coronavirus del 2020.
La pronuncia ha motivi di interesse anche per il lettore italiano, poiché conferma la marcata convergenza degli ordinamenti, anche in ragione dei vincoli loro imposti dal diritto europeo, verso analoghe tecniche di risoluzione di conflitti giuridici.
Prima ancora, a fronte delle grida d’allarme da molti lanciate nei confronti dei tratti, che si vorrebbero autoritari, assunti dalla legislazione italiana dell’emergenza (e persino dei bizzarri rigurgiti di complottismo mai domati del tutto, pur alla luce del dramma in corso), la vicenda austriaca conferma che la politica perseguita dal Governo della Repubblica non ha costituito un unicum motivato da chissà quali reconditi obiettivi, ma, piuttosto, una articolazione delle modalità di reazione al contagio suggerita dalla ragionevolezza, e come tale praticata pressoché ovunque, sia pure con distinte sfumature.
2. Chiusura di aziende e indennizzo
Il giudice costituzionale austriaco si è pronunciato sia sulla legge adottata in risposta all’epidemia, sia sul regolamento ministeriale con cui le si è dato attuazione.
Quanto alla prima, il problema affrontato concerne una specifica doglianza di lesione del principio di uguaglianza, e dello statuto della proprietà, avanzata dalle imprese commerciali alle quali è stata imposta la cessazione temporanea delle attività.
Difatti, ciò è accaduto senza previsione di indennizzo.
Ora, anche sulla base della CEDU, il Tribunale non ha avuto difficoltà a negare il carattere sostanzialmente espropriativo della misura, con conclusioni alle quali giungerebbe verosimilmente, in analoga fattispecie, anche il giudice italiano, atteso che la temporaneità della previsione non era tale da sottrarre definitivamente, o con apprezzabile intensità, un’utilità connessa alla proprietà.
Tuttavia, il problema veniva posto con riferimento alla legge generale sulle epidemie del 1950, la quale, invece, prevede l’obbligo di indennizzo a favore delle imprese che sono obbligare a chiudere i battenti. I ricorrenti sostenevano pertanto che, anche nel caso del coronavirus, sarebbe stato necessario adottare analoga misura, e che la disciplina normativa speciale fosse stata, al contrario, predisposta in eccesso di potere legislativo proprio per conseguire l’effetto contrario.
Non ha qui grande importanza soffermarsi sulle ragioni che hanno indotto il Tribunale costituzionale a rigettare per tale parte la questione, tra le quali, non ultime, le robuste misure ad hoc di assistenza economica, attribuite all’intero sistema imprenditoriale scosso dalla crisi.
Piuttosto, può essere utile notare che anche in Austria si è ritenuto opportuno, e certamente giustificato costituzionalmente, l’impiego di una legislazione speciale modellata sul coronavirus, piuttosto che della normativa generale già disponibile per il caso di diffusione di malattie infettive.
La ragione di ciò è stata rinvenuta dallo stesso giudice austriaco nelle del tutto peculiari caratteristiche epidemiologiche assunte dal nuovo bacillo, la cui diffusione generalizzata sul territorio nazionale ha comportato l’inadeguatezza di una logica settoriale di governo della crisi, alla quale si ispirava invece la legislazione del 1950.
Quest’ultima, in altri termini, si riferisce a colpi epidemici ancora localizzati in certe aree del paese, sicché la corrisponde restrizione a selezionati, e relativamente poco numerosi, soggetti delle misure di contenimento del contagio permette di per sé l’adozione di una logica indennitaria. Un analogo approccio fallisce, viceversa, se il virus colpisce ovunque con pari intensità, e la chiusura che ne segue ha carattere generale. In tal caso, sembra suggerire il Tribunale costituzionale, viene meno la intrinseca diseguaglianza che è la ragione prima del meccanismo indennitario. Con esso, infatti, l’amministrazione riequilibra, di regola per via monetaria, un assetto ugualitario che l’interesse pubblico, o talvolta la sola cattiva sorte, ha spezzato a danno di pochi, e nell’interesse dei molti. Ma se è l’intera collettività a subire il tracollo, l’approccio indennitario non si giustifica, perché vi è invece la necessità di una risposta normativa e amministrativa di ben più ampio respiro.
Non vi è, in altri termini, la diseguaglianza, e ciò che essa sempre comporta in termini di vigilanza contro gli abusi del potere pubblico, sospettato di approfittarne per infierire sul debole; vi è, invece, una terribile uguaglianza nella tragedia, che piuttosto induce a non sopravvalutare il pericolo di arbitrio, e a concentrarsi invece sulla efficacia e sulla proporzionalità delle misure adottate in via generale dall’apparato pubblico.
Sia pure sul diverso piano delle libertà personali, anziché della iniziativa economica, questa constatazione potrebbe essere opposta a chi in Italia ha ragionato, e continua a ragionare, come se l’emergenza da coronavirus non avesse quel tratto di odiosa ubiquità che la rende trasversale, ma al contrario potesse offrire l’occasione per discriminazioni lesive delle libertà fondamentali: è il noto dibattito sulla pretesa necessità che le misure di confinamento presso la dimora dovessero essere oggetto di convalida giudiziaria ai sensi dell’art. 13 della Costituzione, sostenuto anche con richiami ad una giurisprudenza internazionale maturata sul terreno di piccole epidemie locali, e non certo di una pandemia globale. Ed è da notare che, come subito si vedrà, il giudice austriaco annette tali misure alla libertà di circolazione e soggiorno.
3. L’obbligo di dimora
Infatti, a cadere sotto la scure del sindacato di costituzionalità è anche il regolamento con il quale il ministro della salute aveva disposto la chiusura di tutti i luoghi pubblici, con ristrettissime eccezioni, confinando le persone nelle proprie dimore.
Su tale capo della pronuncia si tornerà in seguito: basti fin d’ora osservare, tuttavia, che il giudice costituzionale non ha affatto negato la astratta compatibilità di tale gravosa limitazione con la Costituzione, ma piuttosto, individuando il parametro pertinente appunto nella libertà di circolazione, ha reputato che essa fosse priva di base legislativa, in quanto eccedente dai limiti concessi all’esecutivo dalla legge speciale dell’emergenza.
Non ne viene, insomma, alcuna riprovazione comparatistica nei confronti dell’analoga misura disposta dalla legislazione italiana, che, anzi, come si vedrà, annoverava espressamente l’obbligo di dimora tra le restrizioni adottabili.
4. L’accesso ai locali commerciali
In terzo luogo, il Tribunale costituzionale si è confrontato con un regolamento ministeriale, basato su un conferimento legislativo del potere normativo, che aveva disposto sia la chiusura di attività commerciali, sia le deroghe, in verità piuttosto ampie, a tale provvedimento.
Tra tali deroghe, il regolamento annoverava gli esercizi di superficie non superiore a 400 mq. In altri termini, si permetteva di proseguire nell’attività a negozi di piccole e medie dimensioni, precludendola invece ai centri commerciali più sviluppati, e persino vietando a questi ultimi di ristrutturare i propri spazi interni, così da rientrare nella tolleranza dimensionale concessa dal regolamento.
Tali previsioni sono stare reputate dal giudice lesive del principio di uguaglianza.
Il Governo austriaco, in effetti, le aveva difese, sostenendo che lo scopo della distinzione consisteva nello scoraggiare l’”aumento della mobilità”, che sarebbe stato causato dalla confluenza dei consumatori verso i locali commerciali più ampi.
È tuttavia anche vero che, nel contrasto al contagio, ciò che conta non è in sé il numero di persone che converge verso uno spazio comune, quanto piuttosto il rapporto tra tali persone e le dimensioni dell’ambiente ove si trovano riunite.
L’assembramento, in altri termini, può rivelarsi altrettanto fatale in un locale di medie dimensioni, ove siano riuniti meno individui, ma in uno spazio più contenuto, che in un vasto centro commerciale, ove a più persone presenti corrisponda maggiore agio nel distribuirsi lungo l’ambiente.
A proposito di tale soluzione di merito, è da notare, per i nostri fini, che il giudice austriaco ancora una volta non ha affatto reputato incostituzionale la chiusura dei locali commerciali per evitare il diffondersi della malattia, a fronte della libertà di iniziativa economica vantata dall’impresa, ma così compressa. Questo punto, in verità, non è mai stato in discussione. Piuttosto, esso si è insinuato in una incongruenza “tecnica” del regolamento, le cui ragioni giustificatrici sono apparse per tale profilo deboli, innanzi al trattamento diseguale che esso comportava per gli operatori economici.
5. Il giudizio di proporzionalità
Da ciò possono trarsi alcuni utili spunti di riflessione sulla speculare situazione di casa nostra.
Da un lato, se ne trae conferma che, perlomeno agli occhi degli operatori giuridici austriaci, il cd. lockdown, anche per la parte riferita alla serrata del commercio, non ha costituito ragione di dubbi di costituzionalità in sé, e si è dunque anche in quel caso imposto quale misura di pubblica igiene da presupposti scientifici così saldi, da non meritare neppure una reazione giurisdizionale.
Dall’altro lato, ciò non ha significato che qualunque misura di contenimento sia di per sé proporzionata, e perciò legittima. È infatti preferibile fuggire la logica dell’aut aut, per la quale o la reazione normativa al virus ha ferito a morte democrazia e libertà, ed è tutta quanta incostituzionale (non è mancato chi ha ragionato così), o essa va digerita sempre e comunque, in nome della salus rei pubblicae.
Piuttosto, dal Tribunale costituzionale austriaco viene un esempio di come si possa accettare, senza malriposte ansie democratiche, che l’esercizio di certe libertà sia provvisoriamente sospeso a tutela della vita, e nel contempo richiamare il potere pubblico al proprio dovere di compiere scelte basate sulle evidenze scientifiche, piuttosto che sulle suggestioni o persino sull’impiego di criteri normativi elaborati ad altro scopo, e impropriamente riesumati a fronte di una nuova emergenza (significativamente, la regola del 400 mq è stata difesa dal Governo austriaco, anche perché si tratta di un limite dimensionale già presente nella legislazione di settore, ma per altri obiettivi).
Certo, non si può nascondere che il giudizio curiale sulla proporzionalità di specifiche misure è assai delicato. Un conto, infatti, è confrontarsi con un’emergenza tale, da imporre che ogni attività venga arrestata, salvo straordinarie eccezioni. Qui, non vi è che da prendere atto che la scienza conforta il decisore politico, e che quindi non si inseguono i mulini a vento, o peggio.
Quando, invece, si apre e si chiude, a seconda dei casi, dei luoghi e dei tempi, inseguendo l’indice di contagiosità e comparando salute con sviluppo economico e benessere sociale, la faccenda si fa ben più complessa, ed i giudici rischiano di trovarsi in difficoltà nel controllare idoneità, necessità, e proporzionalità in senso stretto delle misure.
5.1. Sindacato di costituzionalità sugli atti secondari
Quest’ultima osservazione conduce all’ultimo spunto di riflessione offerto dal caso austriaco.
Come si è visto, oggetto del controllo di costituzionalità è stato (anche) un regolamento ministeriale, nell’ambito del ricorso diretto che l’individuo può esperire innanzi al giudice costituzionale a fronte di atti che ne ledano immediatamente e direttamente i diritti costituzionali.
La fattispecie decisa nel caso di specie conforta ulteriormente su un tratto della risposta normativa al virus seguito anche in Italia, ma a sua volta oggetto di dubbi di costituzionalità da parte di alcuni. In Austria, dunque, così come in Italia (ma, è facilmente intuibile, nella sostanza in tutto il mondo), la crisi è stata governata dal potere esecutivo, sia pure dietro conferimento legislativo del potere di ordinanza, anziché dai Parlamenti. Non potevano essere questi ultimi, nella forma della legge, ad inseguire il virus nelle infinite e repentine direzioni verso le quali ha corso (o poteva correre) in questi mesi. La prontezza della risposta esigeva, dunque, l’impiego di forme provvedimentali più agili e immediate, senza che ciò renda giustificato il timore di alcuni circa un sovvertimento della forma di governo.
6. Aperture al sindacato di costituzionalità sui d.P.C.m anti-coronavirus
Ciò detto, la decisione che si commenta è significativa, anche perché, a fronte di una pandemia diffusa internazionalmente, è tra le poche che provengono in tale materia da un giudice costituzionale, anziché comune.
Come è noto, nel nostro paese, in particolare, la giurisprudenza, per lo più amministrativa, ha avuto modo di occuparsi di questioni a rilievo costituzionale poste dai d.P.C.m. che si sono susseguiti durante la crisi, anche se ciò è avvenuto nella stragrande maggioranza dei casi con riguardo a profili di competenza nel rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali.
Viceversa, pur innanzi ai timori per le sorti dello Stato democratico manifestati da alcune voci, la Corte costituzionale non è stata chiamata in campo, se non con riguardo ad alcuni profili concernenti gli effetti della sospensione dei processi sui termini di prescrizione, per i quali pende incidente di legittimità costituzionale.
Certo, che ciò non sia accaduto con riferimento all’impianto di base di reazione al contagio, tracciato dai decreti legge adottati a tal fine, è dovuto, secondo chi scrive, alla inevitabile acquiescenza ad una brutale realtà, tale da trasformare, alla maniera di Jellinek, il fatto in fonte del diritto, anche agli occhi di chi si poneva dubbi di costituzionalità (sul punto debbo rinviare a quanto osserverò in un articoletto di prossima uscita su Questione Giustizia).
Ma, quanto agli aspetti più dettagliati, e indubbiamente più critici, della disciplina recata dai d.P.C.m., il discorso muta. Qui, come è ovvio, ha giocato la tradizionale perimetrazione del controllo di costituzionalità agli atti aventi forza di legge, secondo un criterio formale invano contestato da Mortati.
Il Tribunale costituzionale austriaco è dunque potuto intervenire sul regolamento ministeriale, grazie al ricorso diretto contro gli atti direttamente e immediatamente lesivi di diritti costituzionali, che il nostro ordinamento non conosce.
In linea di principio, non si tratta di un ostacolo al buon funzionamento della giustizia costituzionale. In un ordinamento retto dal principio di legalità sostanziale, e peraltro irrobustito, sul piano delle libertà, da vigorose riserve di legge, si può ben ammettere che sia il giudice comune ad occuparsi di profili di costituzionalità imputabili alle sole fonti e ai soli atti secondari, perché ci si attende che essi coprano componenti minori dell’assetto normativo. Laddove, invece, il più grave vizio si annidasse nella legge, il regolamento sarebbe meramente esecutivo di quest’ultima, e la questione dovrebbe giungere alla Corte.
Tuttavia, questo modo di ragionare entra in crisi, quando ad essere scrutinate sono le ordinanze contingibili e urgenti, per le quali la saldatura contenutistica con la legge è davvero minima.
Proprio in quanto pensate per far fronte, con capacità derogatoria rispetto alle fonti primarie, a situazioni di eccezionale ed imprevedibile urgenza, tali ordinanze si fondano su di un conferimento legale di carattere formale (la potestà è istituita e descritta dalla legge nei suoi presupposti), ma si prestano a rivestire, sul piano della legalità sostanziale, un contenuto assai variegato, e per definizione non predeterminabile dal legislatore, prima che il nemico di turno (un virus, ad esempio) si sia concretamente manifestato.
In tali casi, forse, la tesi di Mortati meriterebbe una rinnovata attenzione.
In quest’ottica, sarebbe proprio l’inevitabile deficit di legalità sostanziale che affligge le ordinanze contingibili e urgenti (non già per patologia, ma a causa della struttura intrinseca che è loro propria), e che rende la legge un involucro formale di scelte assunte in altra forma, a dover trovare compensazione nel sindacato accentrato di costituzionalità, perlomeno ove l’atto sia direttamente lesivo dei diritti costituzionali delle persone. Divenendo poco spendibile, infatti, il consueto ragionamento, prima abbozzato, sul rapporto tra legge e atto secondario, quanto al vizio di costituzionalità, non sarebbe peregrino postulare che il contenuto della fonte primaria sia insufflato ex post dalle decisioni provvedimentali d’urgenza, che la legge ha potuto (solo) autorizzare formalmente, ma delle quali, proprio per tale ragione, è tenuta a rispondere come se fossero scelte legislative.
In fondo, non si sarebbe abissalmente distanti dalla logica dei noti precedenti costituiti dalle sentenze n. 1104 del 1988 e n. 456 del 1994 della Corte costituzionale sul rapporto tra legge e regolamenti dei servizi pubblici, con le quali si è ritenuta sindacabile la legge che avesse poggiato il proprio contenuto su quanto disposto ex ante in sede regolamentare, venendo a censurare proprio tale sostanza (in seguito, sentenze n. 224 del 2018, n. 242 del 2014, n. 34 del 2011, n. 354 del 2008).
Nel caso delle ordinanze contingibili e urgenti, il rapporto temporale tra fonte primaria e atto secondario si inverte (il contenuto dell’ordinanza non può essere noto al legislatore, quando ne permette l’adozione), ma la compenetrazione sostanziale tra la legge e il contenuto del provvedimento è la medesima, nel senso che la prima, in difetto del secondo, nulla stabilisce e nulla conforma, sicché essa vive nel solo contenuto che l’ordinanza ha tracciato in vece del legislatore.
Su un piano generale, il caso austriaco dimostra che un giudice costituzionale è particolarmente attrezzato ad esercitare il controllo di legalità nei confronti di atti lesivi delle libertà costituzionali. Sia perché è necessario avere spalle robuste per cancellare con un tratto di penna scelte delle quali l’esecutivo proclama la assoluta corrispondenza ad un superiore bene comune, che, senza di esse, sarebbe compromesso. Sia perché il sindacato sulla proporzionalità delle misure (che è poi il succo di quanto attende i nostri operatori giuridici, via via che aperture e chiusure delle attività si faranno più selettive) esige uno sguardo di insieme, un’attitudine alla verifica dei bilanciamenti, e anche la capacità di dotarsi delle migliori conoscenze tecniche, che una Corte costituzionale possiede per natura (e le recenti modifiche delle norme integrative da parte della nostra Corte rassicurano sul più ampio accesso al fatto, di cui ora essa dispone). Sia perché, in ultima analisi, se davvero vi è un attentato alle libertà costituzionali da parte dei pubblici poteri, là non può non far sentire la propria voce il custode giudiziario della Costituzione.
Tutto ciò detto, in linea di principio, sarebbe però disonesto tacere su un tratto della legislazione italiana in tema di contrasto alla pandemia, che non ha ricevuto per lo più l’attenzione che esso merita, ma che spicca proprio nel contrasto con la legislazione austriaca.
Come si apprende dalle decisioni in commento, la legge Covid-19 aveva autorizzato il ministro della salute a vietare con regolamento l’acceso in determinati luoghi, “nella misura necessaria a prevenire la diffusione della malattia”.
Il regolamento così adottato, però, aveva invece introdotto un generale divieto di accesso ai luoghi pubblici, che finiva perciò con il tradursi nell’obbligo, imposto alle persone, di permanere nella propria dimora.
Il giudice costituzionale non ha perciò avuto difficoltà a rilevare che, per tale via, il regolamento aveva di gran lunga superato l’ambito conferitogli dalla legge, introducendo, anziché un divieto specifico di accesso a certi luoghi, un obbligo di dimora lesivo della libertà di circolazione, e privo di base primaria.
Se si pensa, allora, ai decreti legge anti-coronavirus succedutisi in Italia, l’impressione è che essi abbiano avuto un contenuto ben più determinato perlomeno degli omologhi austriaci, così vaghi, invece, da condannare all’insuccesso l’iniziativa ministeriale.
È appena il caso di ricordare, infatti, che nel nostro paese l’indispensabile divieto di lasciare la dimora, se non per giustificati motivati, è stato espressamente previsto dalla legge, sicché al d.P.C.m. è toccato soltanto di attivarlo, una volta che le condizioni epidemiologiche lo imponessero.
Insomma, la tanto vituperata legislazione dell’emergenza si rivela, nel rapporto con il caso austriaco, ben più idonea, anche sul piano della determinatezza, di quanto i suoi lesti critici avessero supposto.
6.1. I d.P.c.m. quali atipiche ordinanze contingibili e urgenti
E, in effetti, l’ampia copertura legislativa delle misure poi dosate con i d.P.C.m. potrebbe anche rendere di incerta applicazione, nel caso di specie, il suggerimento che si è innanzi ipotizzato in ordine all’espansione del sindacato di costituzionalità.
Infatti, sebbene ne abbiano certamente la struttura e gli effetti, i d.P.C.m. in questione possono essere assimilati alle ordinanze di necessità e di urgenza in senso stretto solo per effetto di una certa inclinazione del giurista nell’applicare alla mutevole realtà le categorie giuridiche con le quali ha più familiarità.
Come precisò la Corte costituzionale con la penna di Vezio Crisafulli (sentenza n. 4 del 1977), infatti, non si danno “ordinanze libere”, se non laddove “il contenuto dei provvedimenti stessi non è prestabilito dalla legge, ma da questa rimesso alla scelta discrezionale dell'organo agente, secondo richiesto dalle circostanze, diverse da caso a caso, che ne impongono l'emanazione”, e purché “dette circostanze non (siano), a loro volta, previste - né, di regola, sono prevedibili in astratto - da specifiche disposizioni di legge”.
È ovvio che la tipica ordinanza contingibile e urgente si pone a fronte di una minaccia dal volto ancora ignoto, mentre, nel caso contrario, il legislatore è nelle condizioni di valutare direttamente l’opportunità delle misure alle quali ricorrere, per quanto, poi, la loro applicazione debba essere graduata a seconda dell’andamento delle cose, e non possa perciò che venir rimessa all’atto secondario.
Come nel caso austriaco, ma con maggior determinatezza, il legislatore nazionale non si è affidato ai poteri contingibili già presenti nell’ordinamento, ed in particolare nel codice della protezione civile (al quale peraltro sono operati rinvii), ma ha ben più opportunamente configurato peculiari forme di reazione, nonché una specifica ripartizione dei compiti (il punto di minor tenuta del sistema, come si sa) con Regioni ed enti locali.
In tal modo, è innegabile che la copertura legislativa delle misure somministrate dai d.P.C.m. sia stata più corposa di quanto non accada solitamente con il potere di ordinanza contingibile e urgente. Ciò da un lato dovrebbe ulteriormente confortare chi, come chi scrive, non ha mai minimamente paventato rischi per la nostra democrazia, né intravisto nell’operato del Governo pulsioni autoritarie, in una con i gravosi dubbi di costituzionalità da più parti avanzati (in verità, fino ad ora almeno, con un riscontro nella pratica giudiziaria davvero modesto). Il tasso di legalità e dunque di democraticità, della risposta normativa al coronovirus è stato, insomma, più elevato di quanto si creda.
Dall’altro lato, bisognerebbe continuare a domandarsi se, nonostante tale fattore, non continui ad apparire perlomeno auspicabile un dibattito su di una maggiore apertura del sindacato di costituzionalità verso atti incidenti con immediatezza sulle libertà costituzionali, in funzione surrogatoria di fonti legislative, strutturalmente inidonee a tenere il passo con l’evoluzione di un’epidemia.
Che, insomma, in Austria sia stato il Tribunale costituzionale, con una sentenza valevole erga omnes e soprattutto inappellabile, a cancellare con prontezza un regolamento lesivo della basilare libertà di circolazione, anziché un giudice comune, nell’ambito di un processo strutturato su più gradi (e, magari, con qualche incertezza sulla giurisdizione titolata a provvedere) sembra, una volta tanto, un elemento di funzionalità del sistema, anziché (come spesso si pensa dei ricorsi di amparo e di Verfassungsbeschwerde), un intralcio che ingolfa i ruoli dei giudici costituzionali.
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