Ripartire dai fatti: per un diritto delle relazioni familiari che parta dall’esperienza
Una vicenda processuale emblematica, sul cui sfondo si intrecciano più traiettorie giuridiche, psicologiche e socio-politiche di Ilaria Boiano
Nell’annotare il decreto della Corte d’Appello di Roma - Sezione per i minorenni, decreto 3 gennaio 2020, n.2 - Est. Pierazzi, si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere dei minori, per poi dedicare uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si inseriscono le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli.
Sommario: 1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo - 2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli - 3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne.
1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario, lamentando profili di inadeguatezza del padre, il quale, a sua volta, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità.
Il Tribunale ordinario stabiliva l’affidamento del minore ai servizi sociali, con collocamento dello stesso presso la madre, regolava la frequentazione paterna, limitando la responsabilità genitoriale di entrambi alle questioni di ordinaria amministrazione e rimettendo al servizio sociale le decisioni più importanti inerenti il minore. Tale decisione si basava principalmente sulle valutazioni della consulente tecnica incaricata della valutazione delle competenze genitoriali: all’esito dell’indagine nessuno dei genitori è stato ritenuto «inidoneo a svolgere il compito genitoriale», ma venivano segnalate «significative difficoltà nella relazione tra i due adulti, specie da parte della [donna] che evitava o limitava al massimo l’interazione con l’[uomo], e come tali difficoltà fossero tali da potenzialmente costituire un grave pregiudizio per il futuro sereno e positivo sviluppo [del figlio]. In particolare, l’ausiliaria del giudice rilevava che «l’analisi complessiva del profilo di personalità e del funzionamento psicologico della [donna] pone in evidenza due livelli di genitorialità decisamente diversi e divaricati: da una parte ella risponde ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio: dall’altra, tende a costituire, in termini fattuali e psicologici anche se non intenzionalmente, un ostacolo allo strutturale, evolutivo bisogno [del figlio] di accedere serenamente e con continuità alla figura paterna». Con riferimento al padre, invece, la consulente tecnica rilevava «come lo stesso manifestasse la tendenza a riversare sull’altro e sull’esterno le proprie problematiche, in maniera anche rivendicativa e strumentale», senza tuttavia approfondire come questo atteggiamento interferisse nella relazione con la controparte e, soprattutto, con il figlio.
Nel tempo i rapporti tra le parti si sono fortemente deteriorati: la donna veniva aggredita nel corso di una visita paterna al figlio, l’uomo denunciava a sua volta il nonno materno per aggressione e dava avvio a una campagna giudiziaria inarrestabile, arrivando a presentare contro la donna ben diciassette denunce e atti di integrazione, per lo più a margine della sua frequentazione del figlio.
Il provvedimento del Tribunale ordinario veniva impugnato dinanzi alla Corte di appello che interinalmente disponeva che gli incontri padre-figlio si svolgessero in contesto protetto, respingendo poi nel merito l’impugnazione delle parti e, sulla base di un aggiornamento dei servizi sociali, invitava la donna ad assicurare «un intervento agevolatore» della frequentazione padre-figlio, indicava un percorso di sostegno alla genitorialità per entrambi i genitori e suggeriva l’avvio di un percorso terapeutico anche per il minore «per superare le crescenti preoccupanti difficoltà e paure ad incontrare e frequentare il genitore non convivente». Quest’ultimo, ritenendo sempre la madre responsabile di un comportamento ostativo della sua genitorialità, proponeva ricorso innanzi al Tribunale per i Minorenni ai sensi degli artt. 330, 333 e 336 c.c. per ottenere la dichiarazione di decadenza della donna dall’esercizio della responsabilità genitoriale e per ottenere l’allontanamento del bambino dalla madre e dalla sua famiglia con collocamento presso di sé, previo eventuale inserimento in una struttura residenziale educativa.
Nell’ambito del giudizio così instaurato, mentre si susseguivano reciproche denunce, poi rimesse in ottica conciliativa, il bambino giungeva a rifiutare nettamente l’incontro con il padre ribadendo dinanzi al Tribunale «di non volere vedere il padre perché ne ha paura e di essere felice con la madre e con i nonni, giungendo a scoppiare più volte in pianto al reiterarsi delle richieste di riconsiderare il suo rifiuto, ribadendo di avere paura del padre e di non volere essere allontanato dalla propria casa. Tale paura veniva riportata dal minore anche agli operatori del Servizio Sociale, che hanno riferito che il bambino chiedeva di far sì che il padre non si recasse più per incontrarlo al centro sportivo, perché lo spaventava».
A seguito di ulteriore consulenza tecnica, questo rifiuto veniva attribuito, ancora una volta, «causalmente» alla madre, la quale, a dire dell’ausiliaria del giudice, avrebbe nel tempo «condizionato psicologicamente, direttamente/indirettamente e volontariamente/involontariamente, [il figlio] per cancellare la figura paterna, non garantendo una tutela alle cure e il diritto alla bi-genitorialità del minore». Come “terapia” la consulente indicava al Tribunale di allontanare il minore «in via immediata e urgente dalla madre e dal suo contesto familiare; di trasferirlo in una struttura protetta per minori per un periodo non inferiore a tre mesi, con rientro presso l’abitazione del padre; di sospendere tutti i contatti tra madre e figlio per un periodo di tre mesi; di prevedere un trattamento psicologico comprensivo di psicoterapia sul minore e il recupero del rapporto affettivo padre-figlio». Prima il Tribunale per i minorenni incaricava il servizio sociale di individuare «una struttura altamente specialistica per presa in carico e predisposizione di un percorso di psicoterapia diretto “anche” al ripristino del rapporto con il padre, di attivare con urgenza incontri in spazio neutro, senza la madre, con cadenza trisettimanale “gradatamente implementata”, anche nel periodo estivo, ai quali il minore avrebbe dovuto essere accompagnato da educatore domiciliare o altra persona individuata dal tutore». Con successivo provvedimento, ritenendo il minore «esposto al serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la propria personalità e l’identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna, rischio che il Tribunale deve scongiurare con un immediato intervento a tutela del bambino anche al fine di garantire il suo diritto alla bigenitorialità», il Tribunale per i minorenni disponeva l’immediato allontanamento del minore dalla madre ed il suo collocamento presso il padre, l’immediato avvio del minore al percorso psicoterapeutico, con incontri protetti tra la madre ed il figlio con cadenza ogni quindici giorni alla presenza di personale specializzato e previsione di interventi di sostegno e monitoraggio del Servizio Sociale. Nel caso in cui il collocamento presso il padre fosse risultato difficoltoso, il Tribunale disponeva che il minore avrebbe dovuto essere inserito in una casa famiglia per il tempo necessario al recupero del rapporto padre-figlio.
La madre procedeva quindi a impugnare entrambi i decreti dinanzi al Tribunale per i minorenni e poi riassumeva il giudizio dinanzi alla Corte di appello di Roma, sezione minorenni.
Il decreto in commento interviene nella vicenda giudiziaria fin qui ricostruita non confermando la decisione del Tribunale per i minorenni di dare seguito alle indicazioni della consulente tecnica e compie un’operazione giuridica di cui la vicenda processuale, ma anche in generale l’orientamento giurisprudenziale di merito in tema di regolamentazione dell’affidamento dei minori, risultava avere urgenza: il giudice del gravame tenta di ricentrare l’attenzione dei soggetti coinvolti, in particolare di quelli istituzionali, sul bambino, restituendo a quest’ultimo la dignità di soggetto di diritto nei confronti del quale ogni misura adottata deve rispondere a criteri di ponderazione rigorosa e rispettosa dei suoi diritti fondamentali, senza dimenticare di segnalare come le relazioni familiari e affettive siano per loro natura refrattarie a interventi coercitivi, addirittura demandati all’esecuzione con ausilio della forza pubblica, fatto che per quanto possa sembrare di facile comprensione e massima di esperienza comune, è sempre più spesso ignorato nella prassi giudiziaria.
Preliminarmente in questa breve nota si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere del minore interessato così come delineati dal provvedimento in esame.
Si dedicherà poi uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si assestano ancora le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli: questo settore, infatti, risulta sempre di più piegato dal paradigma della bigenitorialità perfetta di elaborazione psico-sociale, perseguita con ogni mezzo, anche coercitivo, in quanto individuato dai “professionisti del conflitto” (mediatori familiari, terapeuti e psicologi forensi), quale baricentro della salute mentale del minore, e con lui della “salute pubblica”, minacciate l’una dall’assenza del padre come figura concreta e l’altra dal padre inteso come archetipo della norma (G. Petti-L. Stagi, Nel nome del padre. Paternità, conflitti e governo della famiglia neoliberale, Ombre Corte, 2015).
2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli
La Corte di appello, prendendo le mosse innanzitutto dalla ricostruzione fattuale della vicenda, sottolinea la concretezza della paura della donna al mantenimento di un rapporto del figlio «con una figura paterna che lei sinceramente ritiene pericolosa, che agisce con quello che sembra una sorta di freddo intento risarcitorio nei confronti della [donna]», anche se questo significa «spaventare, come è accaduto, [il figlio] inviando le forze dell’ordine presso la sua abitazione e attentare alla tranquillità della sua vita familiare con un inusitato stillicidio di denunce, nei confronti della [madre] e dei suoi familiari, che certamente ha contribuito a fare percepire dalla reclamante [l’uomo] come oggettivamente minaccioso».
Si ristabilisce così ordine tra gli elementi che l’autorità giudiziaria deve vagliare, restituendo il giusto valore conoscitivo a una ricostruzione documentata dei fatti che le parti sottopongono all’autorità giudiziaria, prima che gli stessi fatti siano “manipolati” fino quasi a sparire dietro le valutazioni psicodiagnostiche
La Corte prosegue quindi rilevando che sotto il profilo giuridico non può essere messo in discussione «il diritto della [donna] di recuperare la propria serenità attraverso la rielaborazione e la presa di distanza da una relazione che per lei è stata fonte di sofferenza e umiliazione», senza trascurare tuttavia anche il diritto del padre «di vedere rispettati i giorni e gli orari degli incontri con il figlio».
Queste due posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte devono essere bilanciate nel procedimento relativo alla disciplina dell’affidamento del minore senza mai prendere il sopravvento sul suo superiore interesse, concetto che nel provvedimento in commento non rimane più vuota formula, ma si concretizza nel «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.).
È questa la dimensione che racchiude salute fisica e psichica, ma anche l’insieme dei fattori che assicurano il pieno sviluppo e realizzazione della personalità del minore, e che «riveste un rilievo assolutamente preminente», ma in concreto nella vicenda in esame ignorato dal Tribunale per i minorenni allorché ha disposto di procedere all’allontanamento del bambino dalla casa familiare con collocamento presso il padre ovvero in casa famiglia, con drastica limitazione dei rapporti con la madre.
Il superiore interesse del minore che pur è menzionato quale principio che ispira il provvedimento impugnato, secondo l’autorità del gravame «non appare sorretto da un adeguato bilanciamento, in mancanza del quale esso rischia di risolversi in una formula precostituita, che non tiene conto delle situazioni concrete che giungono all’attenzione del giudice nel caso specifico, accogliendo soluzioni apparentemente definitive ma di fatto inapplicabili e fonti di eccessiva sofferenza per il minore».
Il Giudice d’appello sottolinea, infatti, che la decisione del Tribunale per i minorenni non superi positivamente il controllo di corrispondenza del decisum con il benessere del bambino e in particolare rileva come nell’adozione della misura abbia omesso di: a) valutare comparativamente gli effetti sul minore del provvedimento rispetto al beneficio atteso; b) assicurare gradualità della misura adottata; c) verificare la fattibilità/sostenibilità della misura che ne condiziona l’efficacia.
Con riguardo alla valutazione comparativa degli effetti dell’allontanamento coattivo dalla casa familiare e l’interruzione, seppure temporanea, di ogni rapporto con la madre e la famiglia materna, la Corte di appello rileva la grave lacuna tanto nel decreto reclamato quanto nella consulenza tecnica d’ufficio di un approfondimento degli effetti sul bambino dell’allontanamento e del trauma conseguente e si propone così una modalità di attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità del minore, declinato nei fatti come esercizio di una potestà che si realizza attraverso l’annullamento ritorsivo dell’altro genitore sulla pelle del bambino, ridotto a res strumentale all’esercizio di una prerogativa unilaterale. Lo stesso diritto alla bigenitorialità, come elaborato in sede dottrinaria e giurisprudenziale, così è tradito dal momento che come si legge nel provvedimento in commento, «in quanto la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo, ma è un valore posto nell’interesse del minore, che deve essere adeguato ai tempi e al benessere del minore stesso» (da ultimo Cassazione civile sez. I, 17/09/2020, n.19323), mentre attraverso misure come quelle disposte nel provvedimento oggetto di reclamo si pratica nei fatti una sostituzione di una figura genitoriale all’altra, per lo più del padre alla madre (cfr. Comitato Cedaw, Concluding observations- Italy, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944), anche prospettando il ricorso all’ausilio della forza pubblica, così legittimando modalità di natura smaccatamente punitiva nei confronti del bambino, privato del suo mondo da un giorno all’altro.
Come si legge nel decreto in commento, «il dolore vivo della forzata separazione, con drastica limitazione anche dei contatti telefonici, rimane sullo sfondo, recessivo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse alla attuazione coattiva del sempre richiamato diritto alla bigenitorialità».
Richiamando quindi l’attenzione sulla necessità per il giudicante di avvicinarsi al caso concreto e mettersi in ascolto dei fatti per realizzare effettivamente l’interesse concreto del minore coinvolto, senza piegare la realtà alla luce di assiomi astratti con misure che assurgono a trattamenti inumani, la Corte di appello legge nella paura del minore la misura concreta della non corrispondenza tra interesse del minore e il provvedimento adottato: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
Come si può pensare di ricostruire la relazione di fiducia e affetto con il padre in questa situazione di sofferenza? Si domanda la Corte di appello, ma, ancora, si domanda chi scrive, quale diritto o libertà fondamentale di una persona si realizza attraverso misure punitive dello stesso soggetto titolare del diritto o della libertà che si intende garantire?
È nel paradosso sotteso a questi interrogativi che si rinviene l’illegittimità della decisione impugnata, che non è caso isolato, ma ricalca un orientamento acriticamente adottato dagli uffici giudiziari sul territorio e finanche recepito dalla Suprema Corte, (Cassazione civile, 19 maggio 2020, n. 9143, sez. I, con nota di G.E. Aresini, Bigenitorialità: un valore da preservare a tutti i costi? Ilfamiliarista.it, 20 luglio 2020), così come il suo disancoraggio da solidi riferimenti medico-scientifici, considerato il rigetto unanime da parte della comunità scientifica del nesso causale tra presunto atteggiamento induttivo della madre e rischio di involuzione psicopatologica del minore, argomento a fondamento della cosiddetta “alienazione genitoriale”, anche indicata con la sigla PAS, dall’inglese Parental Alienation Syndrome, di recente oggetto di attenzione da parte del Ministero della salute che, a seguito di interrogazione parlamentare della senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, ha sottolineato nella risposta del 29 maggio 2020 l’uso improprio del concetto di alienazione nei termini di sindrome nei procedimenti di separazione e affidamento e degli interventi di “riprogrammazione” dei bambini attraverso l’allontanamento (per una lettura critica si rinvia a M. Crisma, P. Romito, L’occultamento delle violenze sui minori: il caso della Sindrome da Alienazione Parentale. Rivista di Sessuologia, n. 31 vol. 4, pp. 263-270; P. Romito, Storia della Sap, la sindrome che esiste solo in Tribunale. Sanità24, 2013; G. Kim Blank, T. Ney, The deconstruction of conflict in divorce litigation: a discursive critique of parental alienation syndrome and the alienated child, in Family Court Review, vo. 44, n. 1, 2006, pp. 135-148).
La seconda ragione per la quale la Corte di appello di Roma non ha confermato il provvedimento di allontanamento e di collocamento del minore presso il padre, è strettamente conseguenziale allo scorretto bilanciamento operato tra i diversi profili di rischio per il benessere del bambino e attiene al difetto di gradualità della misura disposta: il giudice del gravame ribadisce che «per ricostruire una relazione padre-figlio basata sulla fiducia e sull’affetto non esistono scorciatoie normative e l’avvicinamento deve essere necessariamente graduale» e appare «velleitario ritenere che sia possibile ricostruire un legame parentale recidendo l’altro. E questo rimane vero anche ove si condividesse la convinzione della CTU della sostanziale artificiosità della paura [del bambino] nei confronti del padre».
In questo passaggio argomentativo del decreto in commento l’autorità giudicante si sofferma a censurare qualsivoglia approccio rigido che reiteri «in una escalation provvedimentale il contenuto del precetto ineseguito» e nella consapevolezza della natura complessa che hanno le relazioni umane, comprese quelle familiari, si legge un inusuale quanto cruciale invito a «pazientemente continuare a tentare altre strade», evitando di comportarsi
“come i geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo che nell’esperienza due rette apparentemente parallele spesso si incontrano, rimproverassero alle linee di non mantenersi diritti, come unico rimedio alle disgraziate collisioni che si verificano; mentre in realtà non vi è altro rimedio che respingere l’assioma delle parallele e costruire una geometria non euclidea” (Keynes, 2013, pp 200-201, in Petti-Stagi, cit., p. 15).
Nel caso di specie, secondo la Corte, «il principio di gradualità richiede la previsione di prescrizioni puntuali e concrete che tengano conto degli impegni attuali e concreti [del bambino], impegni che devono immediatamente essere ripresi nella loro pienezza scolastica, sportiva e sociale», così rigettando la percorribilità dell’operazione di “riprogrammazione” individuale e sociale che la misura disposta si prefigge: per ristabilire la relazione con il padre, secondo la prospettiva teorica avallata dal provvedimento impugnato, si dovrebbe reagire recidendo bruscamente quella con la madre e con tutto il mondo che il bambino ha costruito grazie alla sua mediazione.
Oltre a non risultare graduale né misura rispettosa del benessere del minore, l’ordine di allontanamento del minore dalla madre con collocamento presso il padre ovvero presso struttura residenziale non è stato sottoposto, secondo la Corte di appello, a una rigorosa verifica in ordine alla sua concreta fattibilità/sostenibilità, presupposto che condiziona l’efficacia.
Sul punto la Corte di appello sottolinea infatti come la mancata esecuzione dei provvedimenti precedentemente adottati nelle sedi giudiziarie, in parte riconducibile anche a incolpevoli limiti e difficoltà organizzative dei servizi territoriali, non può rimediarsi con provvedimenti altrettanto ineseguiti, ma, ancora una volta, «con la sperimentazione di percorsi differenti».
In definitiva, si rinviene nel provvedimento in commento un’esortazione all’autorità giudiziaria di prime cure ad avere coraggio e riappropriarsi della propria funzione di giudice capace, più di altri soggetti istituzionali e professionisti “del disagio”, di porsi in prossimità ai minori e all’aspettativa di protezione che, come emerge dalla pratica processuale, gli stessi sempre e ancora ripongono nell’autorità giudiziaria.
Il passaggio argomentativo sopra richiamato smaschera, in chiusura, anche le inadeguatezze dei servizi chiamati a intervenire nei procedimenti di regolamentazione dell’affidamento con le funzioni più svariate (dal monitoraggio al supporto, dalla mediazione alla protezione), ma senza risorse concretamente sufficienti e senza professionalità adeguate. E così, ritornando al caso concreto, l’intervento che richiederebbe la presenza di educatore esperto per ventiquattro ore al giorno è di fatto ineseguibile, in quanto non può essere fornito dal servizio un intervento di tale natura per più di tre ore giornaliere, se non ricorrendo ad operatori privati pagati dal padre, «soluzione non adeguata sia per la mancanza di garanzie sulla professionalità di tali soggetti che per la mancanza di terzietà che il rapporto economico inevitabilmente ingenererebbe».
Peraltro, questo corollario dell’ordine di collocamento presso il padre, ma con ausilio di figura professionale ventiquattro ore al giorno sottende una valutazione di complessiva inadeguatezza della figura genitoriale paterna che avrebbe meritato maggiore approfondimento nella motivazione: si giunge a disporre l’allontanamento di un bambino dalla madre, comunque sempre ritenuta «rispondente ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio», con incontri protetti con cadenza quindicinale, per collocarlo presso l’altro genitore che però si ritiene necessitare di ausilio permanente per svolgere la sua funzione genitoriale.
La Corte di appello di Roma procede quindi ad approfondire nel caso in esame in base ad elementi concreti il modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, le rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, indicando come strada percorribile per vagliare la possibilità, in sicurezza, di ristabilire una relazione affettiva tra padre e figlio, con gradualità e nel rispetto dei tempi del minore, la progressiva attribuzione al padre della responsabilità di impegni quotidiani che concretizzano nel caso in esame i doveri di cura e accudimento. Così, nella prospettiva del giudice del gravame, la genitorialità si vede tradotta in concreto e secondo diritto in responsabilità dell’adulto nei confronti dei minori, superando la prospettiva ancora prevalente nella quale la genitorialità viene declinata secondo logiche rivendicative che richiamano il superato istituto della potestas genitoriale.
3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne
Lo sfondo lungo il quale si è dipanata la vicenda processuale venuta all’esame della Corte di appello di Roma è il prodotto dell’intreccio di più traiettorie discorsive giuridiche, psicologiche e socio-politiche: dal principio della bigenitorialità di produzione giurisprudenziale al criterio “dell’accesso”, elaborato in sede di valutazioni psicoforensi per valutare il comportamento di un genitore nell’agevolazione della relazione del figlio con l’altro, passando per l’alienazione genitoriale e la terapia della “minaccia” per ristabilire la relazione genitoriale minata dall’alienante.
Tutte questioni divulgate attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però risulta nella pratica processuale intrisa di pregiudizi sessisti contro le donne, additate sempre come responsabili delle difficoltà relazionali tra i padri e i figli e ciò a seguito di valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi e si dilettano in giudizi prognostici di futuri danni che da comportamenti materni etichettati nei termini di “eccesso di protezione” potrebbero derivare alla salute psicofisica dei figli. Ciò, peraltro, si innesta in una cornice di analisi veicolate da noti autori contemporanei (cfr. tra i vari M. Recalcati; L. Zoja; C. Risé), che attraverso l’elaborazione di un sapere psicoanalitico divulgativo, non di rado accattivante e accessibile, individuano nella «società senza padre» (Fatherless Society), e quindi senza “norma”, il nodo della crisi della società contemporanea, un disagio sociale che va curato «con una nuova Legge, un nuovo Padre e un nuovo Ordine» (G. Petti-L. Stagi, cit., p. 9). Concausa del pericolo della società senza padri, insieme alla crisi della mascolinità come tradizionalmente costruita (sul tema si rinvia a S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, 2009; L. Gasparrini, Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, Settenove, 2016), sono le donne, contro le quali si è stratificato un repertorio di narrazioni “mother blaming”, che imputano loro, proprio in quanto madri, la responsabilità di tutti i comportamenti definibili come socialmente devianti, in un processo di colpevolizzazione che non avviene mai in forma diretta, ma occultando la critica rivolta alle donne dietro l’elogio dei valori della famiglia tradizionale e le preoccupazioni per una sana bigenitorialità che garantisca pari diritti e doveri per entrambi i genitori, promuovendo il discorso della genitorialità responsabile e cooperativa, a sostegno sia di madri sia di padri, come co-beneficiari di una genitorialità parificata.
Se da una parte, in questo registro narrativo, la famiglia è chiamata in causa perché si faccia pienamente carico del suo ruolo di agenzia di controllo primario, in base al presupposto che la sua dissoluzione e l’indebolimento della figura paterna come riferimento normativo, siano alla radice delle numerose patologie sociali che affliggono la società contemporanea, dall’altra parte con la separazione la famiglia di viene a sua volta patologica e il rimedio allora è fissarne la struttura a un quadro di normalità claustrofobica. Ogni comportamento difforme o modello organizzativo divergente da quello nucleare binario diviene sospetto e rilevante dal punto di vista nosografico. Così, scrive la sociologa Gabriella Petti, si curano le patologie sociali con la patologizzazione della famiglia attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però si traduce in una violenza istituzionale di genere rivolta alle donne in modo così sproporzionato da potersi qualificare nei termini di discriminazione diretta nei confronti delle donne (cfr. Comitato CEDAW, 2011; 2017; GREVIO, 2020) e che rende concreta esperienza la paura «di perdere i figli», minaccia che comunemente le donne si sentono rivolgere dal partner che subisce la fine della una relazione sentimentale, soprattutto quando la ragione della fine della relazione è la determinazione delle donne a non subire più violenza dal partner (cfr. COE, Explanatory Report to the Istanbul Convention, 2011).
Quest’operazione culturale e politica che accomuna gran parte degli ordinamenti giuridici con una legislazione formalmente avanzata in tema di diritto di famiglia, uguaglianza di genere e prevenzione della violenza nei confronti delle donne, è riprodotta e amplificata dalla gestione legale della separazione e dell’affidamento dei figli: la magistratura, per reagire alla narrazione degli uffici giudiziari, divulgata anche grazie alla stampa, quali contesto pregiudizievolmente orientato contro i padri, descritti come deprivati dell’affetto filiale e resi poveri dagli obblighi di mantenimento, offre sempre più terreno agli esperti della mediazione familiare e alla psicologica forense che veicolano indisturbati il regime discorsivo della bigenitorialità e il suo risvolto patologico dell’alienazione genitoriale. Prendono così il sopravvento, in particolare attraverso l’istituto della consulenza tecnica d’ufficio disposta ex art. 61 c.p.c., valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi sessisti (R.E. Emery, R. K. Otto, W.T. O’Donohue, A Critical Assessment Of Child Custody Evaluations. Limited Science and a Flawed System. Psychological Science in the Public Interest, vol. 6 n. 1, pp. 1-29), e sottopongono conclusioni prognostiche di futuri danni che deriverebbero ai figli per lo più da comportamenti materni di protezione, così veicolando nei processi civili paradigmi argomentativi deterministici degni del scuola penale positivista di inizio Novecento, mentre la violenza, fisica o psicologica, non di rado direttamente assistita dai bambini e che spesso è la causa fattuale della loro resistenza a incontrare da soli il padre, viene oscurata, se non proprio occultata (Women’s Aid, Child First: Safe Child Contact Saves Lives, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944).
La giustizia viene quindi riorganizzata deformalizzando la ritualità processuale: in caso di inadeguatezza del regime di affidamento condiviso alla situazione concreta, ignorando che esperienza comune per le donne è subire dall’ex partner l’esercizio della genitorialità quale pretesto per continuare a esercitare controllo sulla loro vita, l’interpretazione della norma e i principi di diritto cedono il passo a resoconti psicologici, rapporti dei servizi sociali, indagini sulla personalità dei genitori ed esame della condizione psicologica dei minori. Nell’amministrazione del diritto, l’ausiliare del giudice si contrappone all’autorità giudiziaria come soggetto “davvero” super partes, sebbene la sua imparzialità, terzietà ed equidistanza dalle parti sia quantomeno discutibile alla luce delle molteplici relazioni professionali che si intrecciano tra gli esperti che si avvicendano continuamente nei ruoli di consulenti d’ufficio e di parte dinanzi ai medesimi uffici giudiziari. Si consideri inoltre che la postura che per lo più si predilige come garanzia di imparzialità è la distanza dai fatti così come accertati dall’autorità giudiziaria, compresa quella penale, e ciò anche dinanzi a provvedimenti definitivi, ritenendo, del tutto arbitrariamente, che sui fatti debba prevalere la loro interpretazione alla luce di un sapere che si offre come tecnico, ma che in concreto è intriso di orientamenti ideologici e visioni normalizzanti dei rapporti familiari (cfr. G. Petti, L. Stagi, cit.).
Le dinamiche della famiglia in via di scioglimento sono infatti solitamente ricostruite dall’esperto psicoforense definendo le esperienze a prescindere da come le narrano coloro che direttamente le sperimentano, arrogandosi il diritto di definire la “verità delle cose” attraverso la prospettazione di eventi in una storia lineare dalla quale sparisce l’imponderabilità dei sentimenti, compresa la paura dei bambini, ma anche le dinamiche di sopraffazione e controllo, ascrivendo generalmente la crisi familiare al determinismo ammantato di scientificità delle caratterizzazioni psicologiche delle parti con lo scopo di rendere la crisi stessa intellegibile nella cornice discorsiva più rassicurante del conflitto reciproco.
Ciò avviene nel contesto di elaborati che a un’attenta lettura rivelano la diffusione di un copione standard nel quale si alternano personaggi predefiniti dai tratti personologici più comuni con reminiscenze di profili nosologici ormai superati: le donne, per esempio, sono ancora stigmatizzate con valutazioni di isteria o istrionismo che dovrebbero essere, al più, oggetto di approfondimento sociologico in una prospettiva storica, in quanto schemi superati e contestati per la loro infondatezza scientifica e il portato stigmatizzante contro le donne, non di certo riferimenti di una psicologia contemporanea (cfr. S. Ferraro, La semimbecille e altre storie. Biografie di follia e miseria: per una topografia dell’inadeguato, Meltemi, 2017).
I conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale, costrutto veicolato attraverso le consulenze tecniche d’ufficio e recepito dalla prosa giudiziaria per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico che richiede intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, tutte figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, non di rado ponendo a carico delle parti spese irragionevoli che non tengono conto delle disparità economiche tra i genitori, così minando gravemente il principio di uguaglianza dinanzi alla legge.
Le prescrizioni che intervengono nel corso delle consulenze tecniche, spesso in assenza di ratifica da parte dell’autorità giudiziaria, non disinnescano le contrapposizioni tra le parti, ma ne aumentano l’intensità, mentre i bambini sono iperresponsabilizzati quale baricentro dell’equilibro tra i genitori attraverso la formula plastica del superiore interesse, e il loro rifiuto nei confronti di uno dei genitori, di solito il padre, viene patologizzato nei termini di alienazione parentale.
La paura manifestata dalle donne nei confronti degli ex partner, pur motivata da condotte pregresse che hanno giustificato l’adozione di misure di protezione, è per lo più stigmatizzata nei termini di “incapacità” delle donne di spostare l’attenzione dalla propria esperienza della relazione con l’ex partner a quella tra i figli/le figlie e l’ex partner nella sua qualità di padre, ciò ignorando che nella regolamentazione dell’affidamento la stessa legge impone di tener conto dei comportamenti pregiudizievoli, compresi quelli di violenza domestica (cfr. articolo 31 Convenzione di Istanbul) e, in generale, della qualità della relazione tra i genitori e dei genitori con i figli prima e dopo la crisi familiare (Cassazione civile sez. I, 20/11/2019, n.30191).
La “terapia” che si propone è la ridistribuzione dei ruoli familiari attraverso “misure di cura” che però nei fatti si confondono con “misure di punizione” del genitore ritenuto “alienante”: la prescrizione che di solito si rinviene negli elaborati di valutazione psicoforense, proprio come nel caso oggetto di controllo da parte della Corte di appello di Roma, è l’allontanamento coatto del minore dalla casa materna e il successivo reinserimento in quella paterna, dopo un passaggio di una comunità residenziale recidendo i contatti con la madre in una conseguenzialità logica, oltre che scientifica, tra causa ed effetti, problema e rimedio, completamente sospesa, senza trascurare che sono costantemente travalicati anche i limiti giuridici dell’istituto della consulenza tecnica, che da contesto di valutazione si trasforma in spazio di intervento terapeutico di dubbia correttezza deontologica, oltre che giuridica.
Con il provvedimento in commento, la Corte di appello di Roma prende le distanze da un governo delle relazioni familiari demandato alle discipline psicoforensi e sottolinea la necessità di rivolgersi alle vicende familiari e in particolare alle relazioni genitori-figli con uno sguardo nuovo e consapevole: l’indubbia complessità della decisione in casi riguardanti le relazioni familiari non può comportare la delega in bianco della decisione al consulente tecnico, ma bisogna ristabilire la preminenza del diritto quale parametro di riferimento del diritto delle relazioni familiari, con la consapevolezza che le relazioni umane non possono essere né misurate e spartite geometricamente né imposte come prescrizione o terapia, ma si costruiscono nella dimensione di esperienza di ciascuno/a e ponendosi in ascolto autentico della parola dei bambini e delle bambine.