ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il lascito di Marta Cartabia alla Corte Costituzionale
di Oreste Pollicino
“To be the faithful guardian of the Constitution in this multicultural context, requires the ability to listen to a number of subjects, speaking with different voices and to develop a mindset oriented toward the search for harmony among them through the integration of the multiple factor in play”
Queste quattro righe, contenute nell’ultima pagina del volume pubblicato qualche anno fa da Oxford University Press[1], che Marta Cartabia, nella sua veste accademica, ha firmato insieme a Vittoria Barsotti, Paolo Carozza e Andrea Simoncini, possono a mio avviso rappresentare, se non un manifesto, certamente un distillato della visione che ha caratterizzato il suo essere prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale.
Più precisamente, il passaggio prima ricordato è emblematico perché in grado di sintetizzare alcuni degli elementi distintivi della formazione accademica e culturale della prof.ssa Cartabia che non possono non riconoscersi, poi, nelle modalità con cui la Corte, durante il suo mandato presidenziale, ha, da una parte, proseguito il processo di evoluzione e, dall’altra, ha innovato strutturalmente rispetto allo status quo, anche a causa della necessità di assicurare la continuità delle sue funzione essenziali durante la stagione pandemica.
Quali questi elementi?
In primo luogo, la fiducia che Marta Cartabia ha sempre riposto tanto nella dimensione relazionale che lega la Corte ai suoi differenti interlocutori, non solo istituzionali, quanto nella capacità di adattamento della giustizia costituzionale ad un assetto giuridico, sociale ed economico in continua evoluzione, in cui il pluralismo diffuso richiede una sintesi armonica e corale di unità nella diversità.
Si tratta di una visione della giustizia costituzionale e, prima ancora del ruolo della Corte, in una società complessa e sempre più interconnessa, che non dovrebbe stupire chi conosce Marta Cartabia ed il suo essere studiosa, docente e intellettuale impegnata nel dibattito culturale italiano ed europeo.
Il principio di leale collaborazione tra le istituzioni repubblicane, l’attenzione alla tutela dei diritti fondamentali cercando sempre l’equilibrio, assai mobile, tra tensione all’universale della protezione e il rispetto del relativismo culturale e un pluralismo assiologico allergico a qualsiasi apodittica tirannia dei valori sono elementi portanti della carta di identità scientifica, intellettuale e culturale della Presidente uscente.
Come tale dimensione relazionale, che caratterizza, come si è visto, tutto il percorso culturale e scientifico di Marta Cartabia, in cui interconnessione, dialogo e coralità sono le parole chiavi, si è poi concretizzato nei tratti distintivi del suo mandato presidenziale?
Qui è necessario operare una distinzione, a proposito di detto mandato, tra il suo primissimo periodo di fisiologia pre-pandemica e il secondo in cui la Corte costituzionale ha dovuto invece operare in un contesto del tutto nuovo legato all’esplodere della stagione dell’emergenza sanitaria.
A gennaio, la decisione di aprire la Corte alla società civile, e quindi, per un verso, all’ascolto, in linea con la prassi di molte Corti supreme e costituzionali di altri paesi, ai cosiddetti amici curiae e, dall’altra, la possibilità di convocare degli esperti in caso si ritenesse necessario acquisire pareri o informazioni aggiuntive su particolari discipline, ha, a ben vedere, una doppia valenza.
In primo luogo, quella di proseguire lungo il percorso, avviato durante la presidenza di Giorgio Lattanzi, in cui vi era stata l’apertura dei portoni delle carceri ai giudici della Corte, di “umanizzazione” della Consulta.
In secondo luogo, tale umanizzazione si colora anche di profonda umiltà. I giudici costituzionali, pur rappresentando il meglio del patrimonio giuridico italiano, non sono omniscienti. Spesso le questioni in ballo hanno implicazioni scientifiche e tecnologiche assai complesse. In questi casi, il momento della scrittura è preceduto da quello dell’ascolto degli esperti.
L’avvio della stagione pandemica ha richiesto una certa dose di creatività e di adattamento per la Consulta. Capacità che non sono mancate durante la presidenza di Marta Cartabia e che, come si osserva nel volume richiamato in apertura in cui lei è co-autrice, è, a ben vedere, un segno distintivo dell’intero atteggiarsi della Corte costituzionale. Sin dalla sua prima udienza pubblica di una Corte sconosciuta ai più, il 24 aprile del 1956, in cui, a detta del primo presidente Enrico de Nicola, non vi erano neanche le sedie. Una Corte che, cosi come allora ha fatto delle difficoltà uno stimolo per affinare la sua capacità relazionale, anche a marzo scorso, con l’esplodere della pandemia e il necessario distanziamento fisico, sotto la guida della Prof.ssa Cartabia, ha dato prova di grande capacità di adattamento.
Si è deciso di proseguire da remoto i lavori di deliberazione in camera di consiglio, le letture di sentenze e, per un periodo, anche le udienze pubbliche. Lo stesso si dica per tante altre attività interne della Corte, senza dimenticare la firma digitale apportata alle sentenze, i podcast a cura dei differenti giudici costituzionali su temi assai attuali e l’applicazione mobile che consente di avere la giurisprudenza costituzionale nel proprio smarhphone.
Qui si è in presenza di una grande discontinuità rispetto allo status quo. La Corte ha saputo utilizzare, e non era scontato, visto il contesto in cui opera, lo strumento digitale (nell’ambito di un processo di digitalizzazione amplificato dalla pandemia) per garantire, come la stessa Marta Cartabia ha fatto notare, qualche giorno fa, in occasione dei suoi saluti di commiato, il pieno funzionamento della giustizia costituzionale. Molte di queste novità possono a mio avviso e devono essere interiorizzate come fisiologiche nella futura attività della Corte. La dematerializzazione dei flussi documentali è un grande obiettivo raggiunto, a prescindere da qualsiasi pandemia. E si sta lavorando alla realizzazione di un processo costituzionale interamente telematico.
“La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”.
Mi piace chiudere con queste parole con cui la Presidente Cartabia, in occasione dell’ultima relazione annuale, ha messo in chiaro, attingendo a quei principi che si è visto essere geneticamente legati alla sua formazione, come, tanto nel mare in tempesta quanto nei tempi di bonaccia, la bussola da seguire rimane unica: la nostra Carta costituzionale.
Credo che questo possa essere un grande insegnamento anche per gli studenti dell’Università Bocconi che avranno la fortuna, dal prossimo anno accademico, di partecipare al suo corso di diritto costituzionale italiano ed europeo.
[1] V. Barsotti, P. G. Carozza, M. Cartabia, A. Simoncini, Italian Constitutional Justice in Global Context , OUP, 2016.
Nuovi orizzonti per l’azione di classe?
di Elisabetta Silvestri
Sommario: 1. Introduzione – 2. La Cina è vicina (ma forse no) – 3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse – 3.1. L’adesione – 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Tra i tanti effetti collaterali della crisi economica mondiale scatenata dalla pandemia da Covid-19 vi è senza dubbio un aumento vertiginoso della litigiosità: è prevedibile, infatti, che nei mesi a venire un vero e proprio tsunami di cause nuove si abbatterà sui sistemi giudiziari, mettendone a dura prova la tenuta. Naturalmente, il problema sembra essere particolarmente preoccupante nei Paesi in cui la giustizia formale è quasi da sempre in affanno e ha navigato con grandi difficoltà le acque poco esplorate della gestione delle cause da remoto, resa indispensabile dalle regole stringenti imposte per evitare l’ulteriore diffondersi del contagio. Pur volendo astenersi da un poco costruttivo catastrofismo, sembra possibile affermare che, in futuro, la situazione italiana si presenterà molto critica: il “resettaggio” del sistema giustizia nei momenti più critici della pandemia, infatti, ne ha messo in evidenza le croniche fragilità, che rischiano di aggravarsi in futuro. Ciò nonostante, nelle stanze della politica non sembra che ci si impegni nel manifestare una vera progettualità, con l’elaborazione di possibili strategie per affrontare in maniera adeguata la prevedibile crescita della litigiosità che è ragionevole attendersi nei prossimi mesi. Sotto questo profilo, infatti, non pare che l’avere previsto una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria per le cause in cui l’inadempimento di obbligazioni contrattuali (o il ritardo nel loro adempimento) è stato determinato dalla necessità di adottare le misure di contenimento del contagio costituisca una misura risolutiva, mancando qualunque riferimento alle materie in cui la disposizione dovrebbe trovare applicazione[1]. In altre parole, chi scrive non ritiene che affidarsi alle supposte virtù salvifiche della mediazione obbligatoria possa risolvere i problemi, complessi e in parte imprevedibili, di controversie originate da situazioni che il nostro ordinamento non ha mai sperimentato prima d’ora. In che misura la mediazione potrà contribuire a ridurre la pressione che il flusso dei nuovi casi eserciterà sui tribunali è tutto da dimostrare: com’è noto (e come anche la prassi insegna), rendere la mediazione obbligatoria non significa che le parti saranno necessariamente indotte a raggiungere un accordo.
Ferma restando l’importanza dei metodi alternativi di risoluzione dei conflitti nel ridurre il volume del contenzioso, occorre rilevare che fuori dall’Italia il problema di come gestire il flusso delle nuove controversie in qualche modo connesse con la pandemia e le sue conseguenze è da mesi oggetto di approfondimenti: sotto questo aspetto, sono interessanti le osservazioni di chi, pur augurandosi un ritorno al processo “in presenza”, esorta a non disprezzare le opportunità offerte dalla tecnologia e a non sprecare il bagaglio di conoscenze acquisite nei mesi caratterizzati da udienze virtuali e collegamenti da remoto[2].
In molti ordinamenti, il problema che sembra preoccupare maggiormente gli operatori del diritto è rappresentato dalle azioni giudiziarie intraprese in forma collettiva: più precisamente, negli ordinamenti in cui è previsto l’istituto della class action (nelle sue molteplici varianti, determinate dalle diverse legislazioni nazionali) si è già registrato un aumento esponenziale nelle azioni di classe proposte in collegamento con accadimenti riconducibili al diffondersi del Covid-19 e si paventa che il numero di questo tipo di azioni continuerà a crescere nell’immediato futuro. Negli Stati Uniti, in particolare, il numero delle class actions già proposte è elevatissimo, al punto che la American Bar Association ne ha stilato un elenco dettagliato, suddiviso per materie e in continuo aggiornamento: si va dalle azioni proposte per la cancellazione di voli e la mancata restituzione di quanto pagato per l’acquisto del biglietto aereo, alle azioni relative agli aumenti di prezzo subiti da prodotti disinfettanti; dalle azioni intentate contro le università per la mancata restituzione delle tasse universitarie, il cui versamento è stato comunque richiesto, nonostante i corsi si siano svolti online nel secondo semestre dell’anno accademico appena concluso, alle azioni intentate da dipendenti di varie attività commerciali per licenziamenti intimati senza l’osservanza delle disposizioni previste in condizioni normali[3]. Insomma, scorrendo il lungo elenco delle class actions americane instaurate ai tempi del Covid-19 si è tentati di classificarle come espressione di una vera “fantasia al potere”, talmente ampio (e, per certi versi, incredibile) è lo spettro delle situazioni sottoposte al vaglio dei giudici nelle forme di un’azione di classe. Naturalmente, sembra inevitabile domandarsi se qualcosa di simile possa accadere anche da noi, ovviamente in scala più ridotta, ma comunque segnalando l’inizio di una nuova stagione per l’italica azione di classe che, fino ad ora, non ha dato buona prova di sé, rivelandosi uno strumento poco adatto alla tutela dei diritti condivisi da una pluralità di individui e pregiudicati da una stessa condotta lesiva posta in essere da un unico soggetto responsabile.
2. La Cina è vicina (ma forse no)
Qualche mese fa, si diffuse la notizia relativa alla possibilità di aderire ad un’azione di classe promossa contro il governo cinese per ottenere il risarcimento dei danni “morali e materiali subiti” a causa della diffusione del Covid-19. Secondo la onlus impegnata a promuovere l’azione, esistendo prove della responsabilità del governo cinese nel non avere impedito la diffusione del Coronavirus e, allo stesso tempo, risultando poco probabile che i governi occidentali avrebbero assunto iniziative giudiziarie contro la Cina, l’unica possibilità di tutela per i cittadini (italiani e non) era costituita da un’azione di classe, promossa dinanzi a tribunali italiani, ma anche presso non ben identificati “tribunali internazionali”[4].
Non è dato sapere quanti siano coloro che, ad oggi, hanno compilato il modulo a disposizione sul sito della onlus promotrice, modulo che valeva quale manifestazione di interesse, nella prospettiva di aderire all’azione di classe nel momento in cui sarebbe stata effettivamente proposta. Ugualmente, non si sa se le difficoltà sperimentate dai tribunali italiani abbiano ritardato o meno l’instaurazione dell’azione di classe appena menzionata o di altre iniziative analoghe promosse da associazioni di consumatori[5]. Sia come sia, e senza neppure considerare gli ostacoli che rendono problematico, se non impossibile, convenire uno Stato straniero innanzi ad un giudice italiano, sembra difficile ipotizzare che un’azione di classe di questo genere riuscirebbe a superare indenne il vaglio iniziale di ammissibilità, previsto dall’art. 140-bis c. cons. Né pare possibile che un’azione di gruppo contro il governo cinese per non avere fornito le informazioni necessarie a prevenire il dilagare della pandemia abbia sorte migliore quando entrerà in vigore la nuova disciplina dell’azione di classe, dettata dalla legge n. 31 del 12 aprile 2019. Com’è noto, l’entrata in vigore della legge di riforma, originariamente prevista per l’aprile di quest’anno, è stata prorogata al 19 novembre 2020, ufficialmente a causa dei ritardi nella predisposizione dei sistemi informativi necessari per rendere possibili le procedure informatizzate (nell’ambito del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia) previste per vari passaggi del procedimento. Non sembra potersi escludere l’eventualità di un nuovo rinvio e, in ogni caso, va tenuto a mente che l’art. 7, c. 2, l. 31/2019 prevede espressamente che le nuove disposizioni trovino applicazione soltanto “alle condotte illecite poste in essere successivamente alla data [dell’]entrata in vigore” della legge, mentre “Alle condotte illecite poste in essere precedentemente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della medesima data di entrata in vigore”.
A tacere delle complicazioni cui darà vita la coesistenza delle nuove norme con quelle previgenti, per le azioni di classe già pendenti oppure proposte con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore della legge 31/2019, va sottolineato che, se l’intento del legislatore era quello di rivitalizzare la tutela collettiva, superando i molti ostacoli procedurali che la disciplina del Codice del consumo frapponeva ad una sua più ampia utilizzazione, i risultati non sembrano esaltanti, soprattutto se si considera la lunga gestazione della riforma. Se è vero che “l’azione di classe è [...] strumentazione complessa quanto vitale, non tanto e non solo per i creditori ma a più ampio raggio, per la società moderna”[6], allora sembra inevitabile rilevare che nella nuova disciplina prevale l’elemento della complessità e non, invece, l’attenzione per la “vitalità” dell’istituto, votato probabilmente ad un destino non diverso da quello che ha reso ben poco significativo quello tuttora vigente.
3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse
Come si è appena accennato, la disciplina della nuova azione di classe, risarcitoria e inibitoria, è notevolmente complessa: considerati i numerosi contributi dottrinali che hanno già dissezionato la nuova normativa[7], in questo scritto si tratteggeranno solo alcuni aspetti della riforma, nella consapevolezza che gli approfondimenti necessari per dare conto in maniera compiuta di una disciplina ad alto tasso di tecnicismo richiederebbero sia un esame non superficiale delle disposizioni, sia una verifica delle loro applicazioni concrete: chi scrive, infatti, nutre la convinzione che la qualità delle norme non possa essere valutata in vitro, ma postuli necessariamente un attento studio di come quelle stesse norme sono interpretate e applicate nella prassi.
Un primo dato significativo e non puramente formale è il trasferimento dell’intera disciplina dei ricorsi collettivi (per utilizzare la terminologia adottata dalle iniziative dell’Unione Europea in materia di azioni di gruppo[8]) nel codice di procedura civile, liberandola dal “ghetto” del codice del consumo in cui era relegata[9]. Le norme, infatti, sono poste in coda al Libro Quarto codice, nel nuovo Titolo VIII-bis. Si conferma in questo modo la validità dell’icastica definizione data da Virgilio Andrioli al Libro Quarto: “una specie di upim”[10], un supermercato di tutele, in cui collocare tutti i procedimenti di cui non si sa bene cosa fare.
Detto questo, però, non si può negare che il trasferimento delle azioni collettive nel codice di procedura civile ha, quanto meno, un aspetto positivo, rappresentato dal loro essere configurate come uno strumento di tutela generale, non più riservato ai soli “consumatori ed utenti”, come è previsto ora dagli artt. 140 e 140-bis c. cons. Sempre nella prospettiva di un positivo ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto, l’art. 840-bis c.p.c. – con riferimento all’azione di classe c.d. risarcitoria – parla genericamente di azione proponibile nei confronti dell’autore di una innominata “condotta lesiva”, prefigurando quindi la possibilità che l’azione sia proposta a fronte di un illecito non tipizzato, a differenza di quanto si legge nell’art. 140-bis c. cons., che contiene un preciso catalogo di situazioni tutelabili.
Attraverso la nuova azione di classe, quindi, possono essere fatti valere in giudizio i “diritti individuali omogenei” di coloro che compongono la “classe”, un’entità per così dire ideale, che diventerà concreta nel momento in cui altri soggetti aderiranno all’iniziativa del proponente. Tralasciando qualunque approfondimento sul profilo della legittimazione ad agire (riconosciuta – appunto – ad ogni componente della ipotetica classe, ma anche agli enti iscritti in un apposito elenco del Ministero della giustizia, ex art. 840-bis, cc. 2 e 3 c.p.c.), la disciplina riformata, non diversamente da quella contenuta nel codice del consumo, fa della “omogeneità” dei diritti il criterio dal quale discende la loro tutelabilità in forma collettiva. Ma quando due o più diritti possono considerarsi “omogenei”? Sul punto, la dottrina ha riversato fiumi di inchiostro e questa ricca elaborazione tornerà utile all’interprete che dovrà valutare, in concreto, in presenza di quali condizioni i diritti vantati dagli appartenenti alla classe si potranno qualificare come “omogenei”. In chi scrive, tuttavia, resta l’impressione che un concetto metagiuridico, quale quello di “omogeneità”, non renda un buon servizio alla fruibilità della tutela: in effetti, è stato giustamente sottolineato che la categoria dei “diritti individuali omogenei”, mutuata dal Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, è del tutto fittizia e rappresenta una sorta di escamotage creato al solo scopo di giustificare la protezione in forma collettiva di determinati diritti individuali appartenenti ad un numero imprecisato di soggetti[11]. Quanto questa finzione risulti utile nella pratica appare comunque dubbio e rende condivisibile l’opinione di chi sostiene che il legislatore della riforma ha perso una buona occasione per fornire “una definizione legale ben più specifica del concetto di «omogeneità»”[12].
Come si è detto, esula dai limiti di questo saggio un’analitica ricognizione della nuova disciplina. Per l’azione di classe risarcitoria è confermata la scansione in più fasi: due, la prima delle quali riservata alla verifica dell’ammissibilità dell’azione o, secondo un’altra opinione[13], tre, si si vuole considerare come autonoma la fase successiva alla pronuncia di accoglimento dell’azione, quando tale pronuncia conclude in senso favorevole alla classe la fase di trattazione della causa.
Quanto al procedimento, per le azioni di classe risarcitorie la scelta è caduta sul procedimento sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. c.p.c., ma con alcune, non trascurabili “variazioni sul tema”, come stabilito dall’art. 840-ter, c. 3 c.p.c. Inspiegabile appare la diversa soluzione prevista per l’azione inibitoria collettiva (art. 840-sexies c.p.c.), sottoposta alle “forme del procedimento camerale, regolato dagli articoli 737 e seguenti, in quanto compatibili” (art. 840-sexesdecies c.p.c.): se l’intento del legislatore era quello di inaugurare una disciplina generale dei procedimenti collettivi davvero user-friendly, non si comprendono le ragioni sottese alla previsione di procedimenti diversi, ognuno dei quali, fra l’altro, caratterizzato da deroghe più o meno marcate rispetto al modello codicistico di riferimento. La semplificazione, evidentemente, non è nelle corde del legislatore italiano.
Vi sono altre novità che meritano di essere segnalate, innanzi tutto, quelle in materia di mezzi istruttori utilizzabili, con particolare riferimento al possibile uso di dati statistici e all’ordine di esibizione di prove “rilevanti” nella disponibilità del convenuto e al relativo corredo di sanzioni (pecuniarie e non) applicabili in caso di inottemperanza all’ordine, su modello di quanto previsto con riguardo alle azioni per il risarcimento del danno derivante da violazioni della normativa antitrust dagli artt. 3 e 6, d. legisl. 19 gennaio 2017, n. 3. Interessanti sono anche le due nuove dramatis personae nominate dal giudice nella sentenza che accoglie l’azione di classe (art. 840-sexies, c. 1, lett. f) e g) c.p.c.), ossia il giudice delegato per la procedura di adesione e il rappresentante comune degli aderenti alla classe. Dell’adesione all’azione si tratterà nel paragrafo che segue: per ora, sembra sufficiente ricordare che è con l’adesione che prende effettivamente corpo la classe, fermo restando che spetta al giudice definire nella sentenza con cui l’azione è accolta “i caratteri dei diritti individuali omogenei [...], specificando gli elementi necessari per l’inclusione nella classe” e stabilendo la documentazione da prodursi per dimostrare la titolarità dei diritti stessi (art. 840-sexies, c.1, lett. c) e d) c.p.c.). Qui, le cose si fanno molto complesse, perché i ruoli svolti dal giudice delegato e dal rappresentante comune degli aderenti si intrecciano: se, da un lato, spetta al primo pronunciarsi sull’accoglimento delle domande di adesione e condannare il convenuto al pagamento delle somme spettanti ad ogni aderente con un decreto dotato di efficacia esecutiva (art. 840-octies, c. 5 c.p.c.), dall’altro lato è il secondo che deve redigere un “progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti” (art. 840-octies, c. 2 c.p.c.). In realtà, i còmpiti assegnati all’uno e all’altro si affastellano in una sola norma – appunto, l’art.840-octies c.p.c. – in cui è difficile rinvenire una sequenza logica. Altrettanto difficile è comprendere quale sia esattamente la veste del rappresentante comune degli aderenti, che viene scelto tra soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare ed acquista lo status di pubblico ufficiale: un pubblico ufficiale sui generis, posto che ogni aderente all’azione deve conferirgli poteri di rappresentanza e, specificamente, il potere “di compiere nel suo interesse tutti gli atti, di natura sia sostanziale sia processuale” relativi al diritto individuale omogeneo di cui l’aderente si afferma titolare (art. 840-septies, c. 2, lett. h) c.p.c.).
Molte sono le altre novità che meriterebbero un approfondimento: dalle norme sulle impugnazioni esperibili contro i provvedimenti che chiudono le diverse fasi del giudizio alle disposizioni in materia di spese; dalla disciplina dell’esecuzione forzata in forma collettiva promossa dal rappresentante comune degli aderenti alle peculiarità proprie delle disposizioni in tema di accordi transattivi. Come si è detto, però, una trattazione esauriente dell’intera riforma richiederebbe ben altro spazio e, soprattutto, ben altro studio della materia.
3.1. L’adesione
Tra le molte ragioni che hanno reso l’azione di classe risarcitoria disciplinata dall’art. 140-bis c. cons. uno strumento velleitario e di trascurabile utilità pratica, si annovera, in particolare, il meccanismo dell’adesione, in virtù del quale i potenziali membri della classe si affiancano al soggetto che ha proposto l’azione e, in questo modo, diventano soggetti agli effetti della decisione finale che, in caso di accoglimento dell’azione, sancirà il loro diritto al risarcimento o alle restituzioni che il convenuto, accertata la sua condotta lesiva, è tenuto a soddisfare. Come si è detto, il sistema del c.d. opt-in adottato dal nostro legislatore non è la sola causa del fallimento dell’azione di classe risarcitoria, come disciplinata dal codice del consumo. Tuttavia, si tratta certamente di un elemento che limita di molto la “appetibilità” dello strumento: l’onere di adesione per i potenziali membri della classe che intendano trarre profitto dall’azione intentata dal proponente può essere gravoso, specie se la pretesa che il soggetto vanta è di entità modesta, nonostante l’art. 140-bis , c. 3 c. cons. preveda che l’adesione non necessita dell’assistenza di un difensore. Nella sostanza, il gioco non vale la candela, soprattutto in un sistema come quello italiano, in cui i tempi della giustizia sono oltremodo lunghi e non vanno certo a vantaggio dei c.d. one-shotters, ossia individui (consumatori o non) che non hanno contatti frequenti con le istituzioni e, in particolare, con il sistema giustizia, e che, in genere, non dispongono di grandi risorse finanziarie[14]. Com’è noto, all’estremo opposto rispetto all’opt-in sta l’opt-out (caratteristico della class action secondo il modello statunitense[15]), in virtù del quale tutti i soggetti che rientrano nel perimetro della classe, alla luce dei requisiti individuati dal quadro normativo di riferimento, sono considerati membri della classe stessa e, senza che sia loro richiesto di assumere iniziative o di partecipare al procedimento, possono beneficiare della decisione, nel caso in cui l’azione sia accolta e la classe risulti vittoriosa in giudizio: questo, a meno i membri della classe non se ne dissocino espressamente, allo scopo di conservare il diritto di promuove un’azione individuale.
Anche la nuova disciplina dei ricorsi collettivi ripropone il meccanismo dell’opt-in, con nuove regole relative alle modalità di adesione (che dovrà avvenire mediante una procedura informatizzata, ex art. 840-septies c.p.c.) e al tempo dell’adesione (possibile in due momenti diversi[16]), ma con i problemi che già erano stati evidenziati con riferimento all’art. 140-bis c. cons. Uno fra i tanti è quello relativo alla qualificazione giuridica dell’adesione, problema che, a sua volta, solleva altre questioni, ad esempio quella relativa agli effetti dell’adesione e al ruolo che gli aderenti possono concretamente svolgere nel procedimento o anche quella riguardante la natura del rapporto che lega gli aderenti al loro rappresentante comune[17].
Per quanto l’opt-in sembri contribuire a rendere l’azione di gruppo uno strumento di tutela ben poco user-friendly, va comunque riconosciuto che la scelta compiuta dal legislatore italiano nel confermare il sistema dell’adesione è in linea con gli orientamenti delle istituzioni europee in tema di ricorsi collettivi. In particolare, nella Raccomandazione del 2013 con cui la Commissione ha elaborato principi comuni in materia di ricorsi collettivi sono previste espressamente una serie di regole in materia di “Costituzione della parte ricorrente secondo il principio dell’adesione (opt-in)”[18]. In altre parole, per le azioni collettive risarcitorie, secondo la Commissione la classe “dovrebbe essere costituita sulla base del consenso espresso delle persone fisiche o giuridiche che pretendono di avere subito un pregiudizio (principio dell’adesione, o opt-in)”[19]. Nel manifestare una indiscussa preferenza per il meccanismo dell’opt-in, la Commissione fa riferimento al fatto che l’adesione appare maggiormente rispettosa delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri[20]. In realtà, anche la scelta a favore dell’adesione e contraria, almeno in linea di principio, all’opt-out rientra nella strategia della Commissione volta ad “evitare che si sviluppi una cultura dell’abuso del contenzioso nelle situazioni di danno collettivo”, rischio che può essere prevenuto soltanto evitando l’importazione in Europa del “toxic cocktail” statunitense delle class actions [21], composto dai “risarcimenti «punitivi», [dal]le procedure invadenti di accesso ai mezzi probatori prima del processo (pre-trial discovery procedures) e [da]i risarcimenti eccessivi riconosciuti dalle giurie”[22]. A torto o a ragione, infatti, sembra che le istituzioni europee abbiano sviluppato una vera idiosincrasia nei confronti del modello statunitense di class action, modello che, ovviamente, non è perfetto, ma non sembra neppure tale da giustificare timori irrazionali, anche in considerazione dell’insuperabile difficoltà di ipotizzare che un suo trapianto integrale nei sistemi giuridici dell’Unione risulti possibile.
4. Conclusioni
L’esperienza decennale dell’azione di classe risarcitoria prevista dal codice del consumo si è rivelata fallimentare e, come si è cercato di illustrare nei paragrafi che precedono, anche la nuova disciplina (se e quando entrerà in vigore) presenta molti aspetti che non consentono di prevedere ottimisticamente un vero “cambio di rotta” nella fruibilità della tutela collettiva.
In un famoso saggio sulle class actions statunitensi, Arthur Miller suggeriva l’opportunità di discutere dell’istituto in maniera obiettiva, abbandonando l’approccio “emozionale” che, a seconda dei casi, fa sì che le class actions siano considerate come “Frankenstein monsters” oppure come “Shining Knights”[23]. Chissà se, in futuro, anche da noi, il dibattito sulle azioni di gruppo assumerà toni di una querelle ideologica. Per ora, e per il futuro prossimo venturo, non sembra proprio che l’azione di classe nostrana possa ragionevolmente essere considerata (rimanendo nella metafora di Miller) alla stregua di un “cavaliere senza macchia e senza paura”. Al contrario, molti elementi della sua disciplina vigente – ma anche di quella riformata – inducono tristemente a ritenere che si tratti più che altro di un novello mostro di Frankenstein, apparso nel panorama delle tutele giurisdizionali messe a disposizione dal nostro ordinamento.
[1] Cfr. art. 3, c. 1-quater, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, in l. 25 giugno 2020, n. 70. Con riferimento alla mediazione, ma anche agli altri strumenti di risoluzione delle controversie alternativi al processo, cfr. le osservazioni di F. Cuomo Ulloa, La mediazione al tempo dell’emergenza, all’indirizzo https://www.aulacivile.it/documento/it/pubblicazione/maggioli/processo.civile/approfondimento/2020/app106/scheda.approfondimento E. Dalmotto, L’arbitrato, la mediazione, la negoziazione assistita e gli altri ADR durante il Covid-19, all’indirizzo http://www.ilcaso.it/articoli/1264.pdf (29 luglio 2020); S. Cusumano, Mediazione online e firma digitale: il d.l. “Cura Italia” consente di superare il formalismo di Cass. 8473/2019?, all’indirizzo http://www.judicium.it/mediazione-line-firma-digitale-d-l-cura-italia-consente-superare-formalismo-cass-84732019/ (7 luglio 2020).
[2] Particolarmente interessante è il saggio di Richard Susskind, The future of courts, consultabile all’indirizzo https://thepractice.law.harvard.edu/article/the-future-of-courts/. L’autore, professore presso l’Università di Oxford e presidente della Society for Computers and the Law, fra l’altro, è l’ideatore di un sito, costantemente aggiornato, che illustra la risposta dei diversi ordinamenti alle sfide della pandemia nel campo dell’amministrazione della giustizia: il sito è liberamente accessibile all’indirizzo https://remotecourts.org/.
[3] Cfr. A. Merminod & N. Awj, Covid-19 class actions forecast (Summer 2020 newsletter), all’indirizzo https://www.americanbar.org/groups/tort_trial_insurance_practice/publications/committee-newsletters/covid-19_class_actions_forecast/.
[4] Si fa riferimento alle informazioni pubblicate sul sito della onlus ONEurope, all’indirizzo https://www.covid19classaction.it/covid19-class-action/
[5] Cfr., ad esempio, la proposta di preadesione ad una azione di classe risarcitoria da proporsi sempre contro il governo cinese pubblicata sul sito del Codacons, all’indirizzo https://codacons.it/risarcimento-cina/.
[6] Così C. Consolo, La terza edizione della azione di classe è legge e entra nel c.p.c. Uno sguardo d’insieme ad una amplissima disciplina, in Corr. giur., 2019, p. 737.
[7] Cfr., ad esempio, I. Speziale, La nuova azione di classe: riflessioni critiche sulla riforma, in Corr. giur., 2020, p. 963 ss.; C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., in Riv. dir. proc., 2020, p. 714 ss.; G. Caruso, La nuova azione di classe: una peinture d’impression (14 luglio 2020), all’indirizzo http://www.judicium.it/?s=caruso; A. Carratta (a cura di), La Class action riformata – I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni a prima lettura, in Giur. it., 2019, p. 2297 ss.; F. Tedioli, Tra nuove regole e vecchi problemi la class action trova collocazione nel codice di procedura civile, in Studium Iuris, 2019, p. 1413 ss.; A. Giussani, La riforma dell’azione di classe, in Riv. dir. proc., 2019, p. 1572 ss.
[8] Cfr. infra, par. 3.1.
[9] Parla di “procedimento collettivo non più ghettizzato nel Codice del consumo e percorso da qualche (inelegante ma) vivida velleità di riuscire incisivo” R. Pardolesi, La classe in azione. Finalmente, in Danno resp., 2019, p. 301 ss.
[10] Cfr. V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Jovene, 1972, p. 52.
[11] Cfr. A. Gidi, Derechos Difusos, Colectivos e Individuales Homogéneos in A. Gidi-E. Ferrer Mac-Gregor (coordinadores), La tutela de los derechos difusos, colectivos e individuales homogéneos. Hacia un Código Modelo para Iberoamérica2, Editorial Porrua, 2004, p. 35, con riferimento all’art. 1, c. 2 del Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, nel quale i diritti individuali omogenei sono definiti come “el conjunto de derechos subjectivos individuales, provenientes de origen común, de que sean titulares los miembros de un grupo, categoria o clase”. Il Código Modelo è disponibile all’indirizzo https://fislem.org/codigo-modelo-de-procesos-colectivos-para-iberoamerica/
[12] Così R. Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, Pacini Editore, 2019, p. 12.
[13] Cfr. C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., cit., p. 719 s.
[14] L’espressione one-shotters è presa a prestito dal famoso saggio di Marc Galanter, Why the “Haves” Come Out Ahead: Speculations on the Limits of Legal Change, in R. Cotterrell (ed.), Law and Society, Dartmouth, 1994, pp. 165 ss. Nel saggio (pubblicato per la prima volta nel 1974), Galanter contrappone questa categoria di litiganti ai repeat players, che hanno migliori probabilità di risultare vittoriosi in giudizio, grazie alla maggiore familiarità con il sistema giudiziario e alla superiore disponibilità di risorse finanziarie, non temono il rischio di grande perdite economiche: tutto ciò li rende pronti ad affrontare i costi di un processo che, al contrario, potrebbe avere conseguenze devastanti per coloro che sono qualificabili come one-shotters.
[15] Non è possibile concentrare in una nota la vastissima letteratura in argomento: tra gli scritti più recenti e interessanti, anche per comprendere come il tema possa essere trattato da diverse angolazioni e con opinioni molto diversificate, cfr., ad esempio, B. T. Fitzpatrick, Why Class Actions Are Something Both Liberals and Conservatives Can Love, in Vanderbilt L. Rev., vol. 73, 2020, p. 1147 ss.; S. B. Burbanks & S. Farhang, Class Actions and the Counterrevolution against Federal Litigation, in U. Pennsylvania L. Rev., vol. 165, 2017, p. 1495 ss.; R. Marcus, Brending in the Breeze: American Class Actions in the Twenty-First Century, in DePaul L. Rev. , vol. 65, 2016, p. 497 ss.; L. S. Mullenix, Ending Class Actions as We Know Them: Rethinking the American Class Action, in Emory L. J., vol. 64, 2014, p. 399 ss.
[16] L’adesione è possibile non solo dopo che l’azione è stata dichiarata ammissibile (come previsto anche dall’art. 140-bis, c. 9, lett. b) c. cons.), ma pure successivamente, dopo che è stata pronunciata la sentenza che accoglie l’azione (art. 840-sexies, c. 1, lett. e) c.p.c.): in entrambi i casi, sono fissati dal giudice i termini per l’adesione, termini rispetto ai quali il legislatore ha previsto che siano compresi tra un minimo ed un massimo.
[17] In tema, cfr. diffusamente R. Fratini, L’adesione, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, cit. p. 121 ss., con ampi riferimenti bibliografici.
[18] Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, art. V (§§ 21-24), consultabile all’indirizzo https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52013DC0401&from=EN. Sulla Raccomandazione e sulla Comunicazione che la accompagnava, sia consentito il rinvio a E. Silvestri, Group Actions ‘À la Mode Européenne’: A Kinder, Gentler Class Action for Europe?, in C. B. Picker – G. I. Seidman (eds), The Dynamism of Civil Procedure – Global Trends and Developments, Springer, 2016, p. 203 ss.
[19] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, § 21.
[20] Ivi, considerando (13).
[21] La definizione della class action come “toxic cocktail”, ossia come una venefica combinazione di elementi pericolosi, compare per a prima volta (almeno in Europa) nel comunicato stampa relative alla pubblicazione, nel novembre 2008, del Green Paper on Consumer Collective Redress, presentato dalla Commissione e consultabile all’indirizzo https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2008/EN/1-2008-794-EN-F1-1.Pdf.
[22] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, considerando (15).
[23] Cfr. A. R. Miller, Of Frankenstein Monsters and Shining Knights: Myth, Reality, and the “Class Action Problem”, in Harvard La. Rev., vol. 92, 1979, p. 664 ss.
Nodo prescrizione: dove eravamo rimasti?
di Ciro Angelillis
Sommario: 1. Premessa - 2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’ - 3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema - 4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti - 5. Il processo che verrà.
1. Premessa
L’emergenza pandemica ha sopito il dibattito sulla prescrizione del reato, tema che dopo la riforma Orlando del 2017 e, soprattutto, dopo la legge c.d. spazzacorrotti n. 3 del 9 gennaio 2019, è rimasto a lungo sotto i riflettori, anche in ambienti extra accademici, per via delle ricadute degli effetti della norma sul versante socio-politico, divenendo motivo di scontro politico se non di polemiche proposte di controriforma.
Oggi il dibattito appare congelato dalla pandemia che ha calamitato l’attenzione di giuristi ed opinione pubblica su altri versanti, ma è evidente che il fuoco cova sotto la cenere e lo scenario che si prospetta rimane dagli sviluppi imprevedibili in quanto, trattandosi di una riforma ‘a scoppio ritardato’ che si applica ai reati commessi dal 1° gennaio 2020 in poi, i suoi detrattori non mancheranno in futuro di rivitalizzare la contesa.
Le valutazioni critiche della riforma si sono dispiegate su due piani distinti, ma collegati: il primo, più alto, in cui chi stigmatizza la novella rileva come essa coltivi una visione delle garanzie come un possibile ostacolo all’efficienza del sistema processuale quando invece esse costituiscono la salvaguardia del suo funzionamento; il secondo, più pragmatico, in cui si fa notare che la realtà delle nostre aule giudiziarie ci consegna la chiave per una lettura inevitabilmente scettica della riforma: il decorso della prescrizione, nel sistema ante riforma, impedisce i tempi lunghi del processo e funge, di fatto, da sponda al principio della sua ragionevole durata, sicchè la scomparsa di questa ‘valvola di sfogo’, che ha sistematicamente contenuto gli effetti del male endemico che affligge il processo penale, comporta il rischio di rendere il processo ‘immortale’, lasciando l’imputato nella situazione di incertezza che inevitabilmente si accompagna a tale condizione. Sotto altro e speculare profilo non si è mancato di evidenziare il rischio che la riforma proietti i suoi effetti nefasti sul versante della organizzazione dell’attività giudiziaria in relazione alla quale una parte della magistratura paventa un aumento esponenziale delle pendenze nelle Corti d’appello ed in Corte di cassazione.
Si pongono, pertanto, le condizioni per formulare, rispetto a tali valutazioni, qualche breve riflessione, l’inizio delle quali non può prescindere dal richiamo di un paio di punti fermi della riforma, senza alcuna pretesa di esaustività, nei limiti imposti dalla consapevolezza che il lettore conosce molto bene la materia.
2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’
Storicamente il tema della prescrizione costituisce il terreno sul quale devono trovare la loro composizione esigenze contrapposte legate alla variabile del tempo, che impongono la ricerca di un punto di equilibrio tra istanze di tutela del diritto fondamentale del cittadino a non essere sottoposto a procedimenti penali interminabili e le aspettative del Paese di esercitare utilmente la pretesa punitiva nell’ipotesi di violazione di un precetto penale. Il legislatore è intervenuto ripetutamente nel corso degli ultimi quindici anni in entrambe tali opposte direzioni, generando, però, un fenomeno di stratificazione ed instabilità normativa che ha pregiudicato la qualità della legislazione in un settore di notevole impatto nella quotidianità della giurisdizione penale.
Il sistema, rimodulato in vario senso dalla novella del 2005 (L. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli), ha registrato una vera e propria svolta, dagli effetti dirompenti, con la legge del 2017 (L. 23 giugno 2017, n. 103, c.d. riforma Orlando) e, ancor più, con la legge c.d. ‘spazzacorrotti’ che ha inteso superare il modello normativo costruito solo un anno e mezzo prima, impedendo, in pratica, di sperimentarne gli effetti concreti. Il meccanismo della riforma Orlando, che prevede la sospensione della prescrizione per tempi definiti, in pendenza dei giudizi di appello e cassazione, a partire dal termine di deposito della sentenza precedente, ha ceduto, così, il passo al blocco definitivo della prescrizione per tutti i reati, a partire dalla sentenza di primo grado. Le novelle del 2017 e 2019 non hanno modificato l’assetto della disciplina dell’istituto che rimane quello introdotto nel 2005 con la legge c.d. ‘ex Cirielli’, ancorato all’editto del singolo reato, sulla base, perciò, di valutazioni contingenti e specifiche che, rispetto al previgente sistema basato sulle fasce di gravità dei reati, prescindono da rilievi sistematici e generali, nè hanno ceduto alla tentazione di aumentare semplicisticamente i termini base previsti dall’art. 157 c.p., ma hanno egualmente modificato funditus lo scenario del processo, in quanto, la prima, ha inciso sul meccanismo di sospensione del corso della prescrizione del reato correlato alle fasi del giudizio di secondo e terzo grado, limitatamente all’ipotesi in cui sia stata pronunciata una sentenza di condanna, facendo dipendere, il tempo necessario a prescrivere il reato, dall’esito del processo e non già dalla sola gravità del reato o dalla complessità del procedimento; la seconda ha previsto un meccanismo che, ad onta della rubrica dell’articolo 159 c.p.(sospensione del corso della prescrizione) che ospita il cuore della riforma, non configura una sospensione e, per la verità, neanche un’interruzione del corso della prescrizione (che, in realtà, non riprende più a decorrere), ma prevede, semplicemente, una regola che riguarda il nuovo termine finale, in forza della quale la prescrizione non rimarrà sospesa dopo la sentenza di primo grado o dopo il decreto di condanna, ma resterà definitivamente bloccata.
Anche se, come è evidente, la legge c.d. spazzacorrotti propone una soluzione ben più radicale rispetto alla novella del 2017, è possibile sostenere che essa si inscriva nel solco tracciato dalla riforma Orlando, in quanto il sostrato culturale che emerge dalle due normative è lo stesso e risiede nella diversa valenza del decorso del tempo dopo la sentenza di primo grado rispetto alle fasi precedenti ed, in particolare, a quella delle indagini preliminari che, pur risultando il segmento maggiormente affetto dalla ‘patologia’ della prescrizione, rimane inalterato.
3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema
E’ questo un aspetto di entrambe le riforme che merita di essere ripreso.
Secondo i dati resi disponibili dal Ministero nel 2017, oltre la metà delle prescrizioni si verifica nel corso delle indagini preliminari (nel 2010 erano addirittura il 70%), e ciò aiuta a comprendere la logica di questa opzione legislativa, secondo la quale l’esercizio dell’azione penale determina il dissolvimento delle ragioni che sono a fondamento dell’istituto e rende, per questo, meno giustificata la rinuncia del potere punitivo dello Stato nella fase processuale.
Dopo la commissione del reato l’esercizio dell’azione penale costituisce una prima tappa a giustificazione del trascorrere del tempo del processo che, vieppiù dopo la sentenza di primo grado, non è più il tempo dell’oblio, che accresce le difficoltà probatorie o il rischio della persecuzione penale, è, invece, il tempo in cui la potestà punitiva dello Stato si manifesta e, dunque, il sacrificio della pretesa punitiva del reato non può giustificarsi.
Non così per la prescrizione che matura nel corso delle indagini preliminari in relazione alla quale le ragioni fondanti dell’istituto trovano cittadinanza piena.
Il dato restituito dalle statistiche che, peraltro, nel corso degli anni non ha mostrato segnali di inversione di tendenza, costituisce un punto dolente che offusca l’immagine della nostra nazione nel consesso europeo, ma, evidentemente, il legislatore ha preso atto che non esiste un sistema giudiziario in grado di trasferire nel processo l’intera domanda di intervento repressivo di un paese, per cui, se, per questa ragione, in altre nazioni il sistema giudiziario è ispirato al principio di discrezionalità dell’azione penale, nella nostra, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale comporta inevitabilmente un costo in termini di accantonamento di un certo numero di procedimenti aventi ad oggetto, per lo più, reati a prescrizione breve.
Naturalmente, un dato così elevato desta preoccupazione poiché costituisce la cifra di una denegata giustizia che riguarda settori di forte impatto sociale caratterizzati da beni giuridici sensibili come quelli dell’ambiente, della sicurezza sul lavoro ma anche della leale concorrenza tra le imprese, dei corretti rapporti commerciali ecc..
Per questa ragione, fermo restando l’impianto normativo in tema di prescrizione, il legislatore ha inteso spingere per altra via i procedimenti verso la fase processuale, lo ha fatto, per esempio, con la L. 23 giugno 2017 n. 103 che ha riformato ‘l’Avocazione obbligatoria’ delle indagini preliminari da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Appello, per mancato esercizio dell’azione penale nei termini prestabiliti.
Una riforma che ha avuto il dichiarato intento di eliminare le ‘stasi arbitrarie’ e i ‘tempi morti’[1] nella gestione dei procedimenti nella fase delle indagini preliminari da parte del Pubblico Ministero che, tardando il momento del trasferimento del fascicolo dal suo ufficio a quello del Giudice, rendeva più concreto il rischio della prescrizione. Se, infatti, la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagine tardivi aveva indotto il Pubblico Ministero a rimanere vigile con riferimento ai tempi del potere investigativo, il naufragio operativo della sanzione avocatoria, prevista sul versante dei tempi dell’esercizio dell’azione penale o della richiesta di archiviazione, aveva finito per determinare, in molti uffici di Procura, una deriva che ha indotto il legislatore ad intervenire. La riforma dell’avocazione obbligatoria non ha rimosso l’impianto preesistente, che rimane inalterato in via principale sotto il profilo della doverosa coincidenza tra la scadenza del termine per le indagini e quello per la definizione del procedimento, ancorchè non più sanzionato con l’avocazione del Procuratore Generale, ma ha concesso al Pubblico Ministero una più realistica alternativa, in via subordinata, costituita dalla creazione della sottofase o fase cuscinetto che separa plasticamente il termine delle indagini preliminari da quello delle determinazioni finali sull’alternativa giudizio/archiviazione (pari, in generale a 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, prorogabile per altri 3 e a 15 per alcune tipologie di procedimenti) che ha collocato sotto i riflettori, agganciando al suo superamento l’intervento avocativo obbligatorio del Procuratore Generale.
4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti
Ma il nuovo quadro normativo appare coerente, sotto il profilo sistematico, anche per altro verso.
La peculiarità della riforma richiama alla mente la disciplina della prescrizione prevista dal d.lg n. 231 del 2001, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti dipendente dal reato commesso, nel loro interesse o vantaggio, dalle persone fisiche che per essi agiscono.
La regola generale posta dall'art. 22 del decreto stabilisce che “le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato”, salvo la presenza di atti interruttivi (individuati nella richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e nella contestazione dell'illecito amministrativo) che determina il decorrere di un nuovo periodo di prescrizione.
Anche se, stando al testo della norma, ciò che si prescrive è la sanzione, la causa estintiva attinge evidentemente anche l'illecito amministrativo stesso, in quanto il riferimento alla consumazione del reato e l'indicazione di specifici atti interruttivi che precedono il processo, rendono evidente come il fenomeno estintivo riguardi l'intera fattispecie di responsabilità da reato dell'ente e non già meramente le conseguenze sanzionatorie.
Il comma 4 dell'art. 22 prevede, nell'ipotesi in cui l’interruzione sia avvenuta mediante la contestazione dell'illecito di cui all'art. 59, che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. In sostanza, dopo la tempestiva emissione della richiesta di rinvio a giudizio (o di citazione diretta a giudizio), il tempo necessario alla celebrazione del processo non deve essere computato ai fini della prescrizione che, perciò, diventa di fatto impossibile. Il rigore della disposizione è solo parzialmente mitigato dalla previsione dell'art. 60, a norma del quale l'estinzione per prescrizione del reato impedisce all'accusa di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo ma non di portare avanti il procedimento già incardinato.
Dunque, se fino a ieri questa disciplina è stata reputata distonica rispetto al regime della prescrizione previsto per le persone fisiche agli artt. 157 ss. c.p., anche sotto il profilo dei tempi della sua maturazione, oggi, dopo la rapida successione delle riforme Orlando - Bonafede, non può non rilevarsi un tendenziale allineamento normativo tra le due tipologie di illecito, rispettivamente riconducibili alla persona fisica e all’ente, nel senso che, nel primo caso, il reato diventa imprescrittibile dopo la sentenza di primo grado, nel secondo, l’illecito amministrativo diventa imprescrittibile dopo la contestazione che chiude la fase delle indagini preliminari.
Naturalmente questo avvicinamento delle normative è limitato, come si ripete, al profilo della imprescrittibilità degli illeciti a determinate condizioni, in quanto per il resto, la scelta di fondo del legislatore del d.lg. n. 231/01 di prevedere un termine fisso di cinque anni per la prescrizione dell’illecito amministrativo, con l’effetto di svincolare la durata del tempo necessario per la sua estinzione dalla gravità del fatto che ne costituisce presupposto e di omologare i tempi di estinzione di illeciti assai diversi, contraddistingue un netto distacco rispetto all’assetto previsto dal codice penale.
Ma, quanto meno, esso lascia ragionevolmente prevedere una forte contrazione dei casi in cui il reato base compiuto dalla persona fisica, da cui discende la responsabilità dell’ente, si prescrive ed il processo penale prosegue solo ed esclusivamente per accertare la responsabilità amministrativa della persona giuridica. Si pensi alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale richiamate dall’art. 25 undicies d.lg n. 231 del 2001 che si prescrivono nel termine massimo di quattro anni più uno, termine destinato oggi a maturare inesorabilmente nel corso del processo per via dei tempi medi di quel tipo di procedimenti, spesso caratterizzati da indagini complesse.
Il sistema ante riforma trova il suo fondamento nel principio di ‘autonomia delle condanne’ di cui all’art. 8, in forza del quale il giudizio di responsabilità amministrativa non può prescindere dall'accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato, anche in assenza della condanna del responsabile e la stessa Corte di cassazione, nel recente passato, ha ritenuto infondata la questione di legittimità posta in relazione alla presunta irragionevolezza di questa disciplina della prescrizione (rispetto a quella prevista per le persone fisiche), atteso che il suo regime derogatorio è giustificato dalla diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente; tuttavia, il sentore di una carenza di sintonia tra le due normative, generato dalla necessità di veicolare l’accertamento di tale illecito all’interno dei binari del procedimento penale anche nelle ipotesi in cui il processo prosegua solo nei confronti dell’ente, oggi è destinato a scomparire.
5. Il processo che verrà
Tornando al dato empirico, che, come si diceva, più di altro, motiva la prognosi inquietante sulla durata illimitata del processo che verrà e costituisce il perno attorno al quale si avvita il ragionamento degli scettici, esso deve essere inquadrato sotto tutti gli angoli visuali, senza pregiudizi e ipocrisie, compreso quello della prevedibile incidenza della riforma in termini di spinta dell’imputato verso i riti alternativi.
Sembra evidente che proprio alcune distorsioni dell’esercizio del ‘diritto di prescrizione’ durante lo svolgimento dei processi, hanno motivato il legislatore delle due riforme. Talvolta, infatti, la prospettiva della prescrizione agisce come fattore di rallentamento dell’iter processuale in quanto la strategia difensiva è quella di tenere in vita il processo allo scopo di lucrare la prescrizione che estingue il reato. L’imputato è, allora, disincentivato alla scelta di riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione, con il risultato di ingolfare il rito dibattimentale.
Chi teme che il sistema che ci consegna la riforma sarà posto sotto pressione dai c.d. maxiprocessi e dalle inchieste caratterizzate dai grandi numeri, deve considerare che proprio questi processi sono quelli che oggi, nel sistema ante riforma, comportano il costo sociale più elevato e rendono evidente il fallimento della pretesa punitiva dello Stato.
Un po’ di tempo fa la Procura di Bari condusse un’indagine riguardante un sistema complesso di associazioni per delinquere operanti sul territorio regionale, in cui singoli gruppi associati costituiti da informatori e capi area di alcune case farmaceutiche si intersecavano con associazioni costituite da medici e farmacisti, con il comune obbiettivo di procedere alle richieste di rimborsi al Servizio Sanitario Nazionale per prescrizioni mediche false. Furono contestati agli imputati (tutti appartenenti alle categorie professionali dei medici, farmacisti e informatori scientifici) i reati di associazione per delinquere finalizzate alla corruzione, alla truffa e al falso. Nel corso delle indagini preliminari furono disposte 106 misure cautelari personali coercitive (distribuite in 5 ordinanze nell’arco di due anni) di cui 103 furono confermate dal Tribunale del riesame o dalla Corte di Cassazione, nonché misure di tipo patrimoniale in previsione della confisca di cui all’art.322 ter cpp. Dopo aver definito la posizione di 20 indagati con sentenze di patteggiamento che includevano il risarcimento dei danni, la Procura, a distanza di tre anni dalla prima iscrizione nel registro degli indagati, chiese il rinvio a giudizio di 110 imputati. Il processo di primo grado si concluse dopo quasi 5 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio con una sentenza di condanna per, praticamente, tutti i reati contestati che, però, in grado di Appello, furono, in grandissima parte, dichiarati prescritti.
Alcuni dei professionisti che avevano patteggiato la pena, risarcito il danno e (soprattutto) affrontato complicati procedimenti disciplinari dinanzi agli organi di giustizia dei rispettivi ordini professionali, non mancarono di manifestare la loro frustrazione in quanto, grazie alla prescrizione, posizioni processuali sovrapponibili alla loro o, persino, più compromesse, avevano potuto beneficiare di una sentenza di proscioglimento.
Ora, non v’è dubbio che molte delle richieste di patteggiamento furono motivate dal proposito di creare condizioni più favorevoli in cui formulare le richieste di revoca o sostituzione delle misure cautelari in corso, altre dalle condizioni economiche dell’imputato, ma non può non rilevarsi come la strategia processuale vincente, decisamente più costosa per l’imputato, si rivelò quella che aveva puntato sulla carta della prescrizione.
Non è in discussione, ed è persino ultroneo precisarlo, il diritto difensivo di utilizzare questa freccia che il legislatore consente all’imputato di avere al suo arco e che determina le strategie difensive, ma sembra corretto sottolineare che, insieme al rischio che il processo diventi ‘immortale’, il legislatore si faccia carico di quello che la prescrizione costituisca fonte di disparità di trattamento tra gli imputati.
Parallelamente all’inchiesta nei confronti delle persone fisiche, furono aperti 9 procedimenti collegati, a carico di nove società farmaceutiche, per gli illeciti di cui agli artt. 24 e 25 del D. lvo 231/01. La Procura di Bari contestava alle 9 multinazionali del farmaco (tra le più grandi al mondo) l’inadeguatezza dei modelli organizzativi, quanto meno con riferimento alle forme di controllo dei dirigenti e sottoposti, imputati nel procedimento contro le persone fisiche. I procedimenti furono tutti definiti con sentenze di patteggiamento, previa modifica e adeguamento di ciascun modello organizzativo delle nove società, e pagamento di somme di danaro per l’ammontare di circa 7 milioni e mezzo di euro versati dalle società stesse, a titolo di risarcimento del danno, nelle casse della Regione Puglia.
Anche se non è possibile ricavare certezze da un ragionamento che rimane ipotetico, vale la pena inserire nel novero degli elementi di valutazione di questa riforma il grave indizio che, nella vicenda processuale richiamata, sia stato proprio il blocco della prescrizione previsto dalla disciplina sulla responsabilità degli enti - sovrapponibile a quello oggetto di riforma, nei termini di cui si è detto- a determinare le strategie processuali delle case farmaceutiche imputate.
In attesa di preannunciate ed indispensabili riforme strutturali in grado di accelerare i tempi del processo, proprio l’incremento dei riti alternativi potrebbe contribuire ad allargare il collo di bottiglia e dare la stura ad un processo ordinario che abbia una durata ragionevole.
[1] cfr. ordine del giorno n. 53 approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 14 giugno 2017.
L’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 e l’interpretazione degli atti sottoposti al registro: The End!
di Giuseppe Melis
Sommario. – 1. Le origini del dibattito. – 2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – 3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – 4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – 5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine.
La tormentata vicenda dell’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 (e dei suoi antecedenti storici, prima l’art. 19, d.p.r. n. 634/1972 e prima ancora l’art. 8, R.D. n. 3269/1923), giunge finalmente, a quasi un secolo dall’avvio del dibattito, ad una conclusione grazie alla precisa sentenza n. 158/2020 della Consulta, la quale ha negato che la modifica normativa recata dalla L. n. 205/2017, in specie consistente nella sostituzione del termine “atti” con “atto”, nell’esclusione della possibilità di riferirsi nell’interpretazione dell’atto ad elementi extratestuali e a negozi collegati (oltreché nel richiamo all’art. 10-bis, L. n. 212/2000), possa ritenersi in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.. Si tratta, infatti, di modifiche che conformano l’imposta di registro alla sua tradizionale natura di imposta d’atto, senza che la diversa soluzione proposta dalla Cassazione possa considerarsi costituzionalmente necessitata. Grazie poi all’assist involontario – rivelatosi un boomerang – della suadente ipotesi di inammissibilità “interpretativa” prospettata dall’Avvocatura dello Stato, la Consulta preclude ulteriori fantasiose interpretazioni della modifica normativa, bollandole come interpretatio abrogans, consentendo così di ritenere attuale testo dell’art. 20 ormai assestato nel suo significato squisitamente letterale. Si ripercorrono, di seguito, i passaggi storici della vicenda, evidenziando, da un lato, come la soluzione normativa adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali, anche alla luce del coordinamento con il più generale istituto dell’abuso del diritto; e, dall’altro, come la certamente non impeccabile (ma efficace) formulazione finale sia dovuta a scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito, scelte peraltro rivelatesi, anche alla luce delle modalità con cui si è articolato l’ultimo round dinanzi alla Consulta, del tutto azzeccate.
1. Le origini del dibattito. – Con la sentenza n. 158 del 2020 la Corte costituzionale mette la parola fine ad una tra le più tormentate e risalenti querelles interpretative che mai abbiano interessato il diritto tributario italiano, avviatasi già negli anni ‘30 dello scorso secolo con riferimento all’art. 8, co. 1, della abrogata legge del registro (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269) e giunta, finalmente, all’epilogo.
La pubblicazione avvenuta nel 1937 del brillante lavoro del giovanissimo Jarach sui “Principii per l’applicazione delle tasse di registro”, aprì infatti un ampio dibattito, dai toni non raramente accesi, sul problema se l’interpretazione degli atti sottoposti all’imposta di registro dovesse avvenire secondo principi e concetti giuridici ovvero economici, proprio in considerazione di quanto affermato dall’art. 8 sull’applicazione della tassa di registro “secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti e dei trasferimenti se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
L’analisi del problema fu strettamente intrecciata con la questione del rapporto tra diritto tributario e diritto civile, quando il primo operava riferimento a concetti già elaborati dal secondo. L’utilizzo di tali termini si reputava avvenire per motivi di ordine pratico, al fine di designare non l’istituto civilistico, bensì un determinato fenomeno della vita economica. La portata dell’istituto richiamato non era quella assunta nell’ordinamento civilistico di provenienza, ma quella rappresentata dalla sua funzione economica normale.
Secondo Jarach, l’art. 8 avrebbe previsto “l’ipotesi che l’atto compiuto dalle parti non abbia ricevuto la forma giuridica normale, che è pure quella che la tariffa contempla come oggetto del tributo, e dispone, in analogia al criterio contenuto nella legislazione germanica, affermato dalla giurisprudenza svizzera e conforme ai principi fondamentali del diritto tributario, che in tale ipotesi si deve aver riguardo, nell’applicazione delle tasse proporzionali, progressive e graduali, alla portata economica degli atti compiuti e non al loro aspetto giuridico”. Due atti sostanzialmente identici, anche se con forme giuridiche civilistiche diverse, dovevano essere sottoposti per il principio di eguaglianza ad identico tributo, in quanto ciascuna imposta “ha un oggetto che costituisce l’indizio che il legislatore prende in considerazione per stabilire l’esistenza di una capacità contributiva”: per il principio di capacità contributiva “a parità di capacità contributiva deve corrispondere uguale imposta”.
Tale fu anche la posizione di Griziotti che ritenne rilevante il contenuto economico dell’atto, dal momento che il tributo del registro non era una tassa, ma un’imposta, e come tale colpiva fatti economici. Facendo leva sulla rilevanza della natura di imposta di un determinato tributo ai fini dell’indagine sul contenuto economico della fattispecie, Egli estendeva il ragionamento anche all’imposta di ricchezza mobile.
A tale costruzione A. Berliri oppose che l’idoneità di un fatto a manifestare la capacità contributiva, cioè la capacità di pagare le imposte, costituiva un giudizio riservato al legislatore e non demandato all’interprete. È il legislatore che sceglie se e quale capacità contributiva sia desumibile da un atto piuttosto che da un altro atto: conseguentemente, se il legislatore erra in un simile giudizio, il suo errore non può essere corretto dall’interprete.
La prevalenza del contenuto giuridico su quello economico e, quindi, il diritto delle parti di scegliere la forma di un contratto anziché un altro per regolare i loro rapporti, fu sostenuta anche da A. Uckmar. È vero sì che il fisco può tassare il contratto che le parti hanno realmente posto in essere indipendentemente dall’intenzione delle parti stesse, ma ciò “non deve portare all’estrema conseguenza di dover applicare un’aliquota più elevata di quella dovuta su un determinato atto, per il solo motivo che le parti hanno raggiunto uno stesso scopo che avrebbero potuto ottenere stipulando un altro contratto soggetto ad aliquota maggiore”. Due negozi giuridici diversi, anche se producono sostanzialmente identici effetti economici, possono scontare aliquote diverse. Le tabelle del registro contemplano negozi giuridici e non atti economici e le aliquote variano a seconda del negozio giuridico, indipendentemente dagli effetti economici: basterebbe pensare ai negozi nulli, i quali scontano l’imposta di registro, sebbene non producano alcun effetto economico.
V. Uckmar ebbe infine il merito di evidenziare con forza il tema della certezza del diritto in un suo scritto in cui criticava due pronunzie della Commissione tributaria centrale, le quali avevano ritenuto che “la cessione dell’intero pacchetto azionario di una società, ponendo l’acquirente in condizione di fare proprio il patrimonio sociale, è soggetta all’imposta proporzionale di registro, anche se la società abbia assolto l’imposta di negoziazione”, entrambe basandosi sul duplice argomento secondo cui: i) la cessione metterebbe virtualmente il titolare della totalità delle azioni in condizione di far proprio il patrimonio della società ponendo la stessa in liquidazione; ii) la cessione, nella realtà economica, potrebbe avere la “funzione strumentale” di trasferire il patrimonio sociale.
Si trattava, va evidenziato, di una giurisprudenza di merito che si discostava da quella di legittimità che, al contrario, accoglieva allora la tesi secondo cui gli atti andavano tassati per gli effetti giuridici da essi prodotti, rilevando che “la Finanza non ha nessun obbligo di compiere indagini su fatti e circostanze che non risultano dall’atto, ma deve basarsi esclusivamente sull’atto così qual è, obiettivamente, nella sua impostazione giuridica”, e che “una ricerca dell’Ufficio sul fine ultimo economico giuridico che le parti hanno voluto raggiungere con l’atto, al fine di determinare la tassa in relazione a questo fine, mentre da nessuna disposizione di legge è prescritta, è contraria a quel criterio di certezza, che deve presiedere alla identificazione del contenuto giuridico degli atti, dovendosi l’imposta applicare in base alle pattuizioni emergenti da detti atti” (Cass., 19 agosto 1947).
A proposito della certezza, così scriveva V. Uckmar: “l’applicazione delle imposte non può essere rimessa alla discrezione, se non addirittura all’arbitrio, dell’Amministrazione; è canone fondamentale della scienza delle finanze, insegnatoci dallo SMITH, che l’imposta che ciascun individuo è obbligato a pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Mi sembra che tale certezza verrebbe meno qualora si rimettesse all’Ufficio del registro la potestà di sindacare se un determinato atto, che giuridicamente non produce trasferimento di beni, sia tassabile in quanto “nella realtà economica” potrebbe essere traslativo di ricchezze”. Il riferimento alla realtà economica “porrebbe nel nulla, come ha rilevato anche la Cassazione, una delle necessità fondamentali dell’imposizione, e cioè la certezza”.
2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – La modifica attuata dal legislatore con il nuovo art. 19, d.p.r. n. 634/1972, poi trasfuso nell’art. 20, n. 131/1986, consistente nell’inserimento nell’enunciato normativo dell’aggettivo “giuridici” – “l’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” – avrebbe dovuto definitivamente eliminare ogni appiglio per affermare la possibilità di ricorrere a giudizi di equiparazione basati sul risultato economico perseguito con l’operazione complessivamente posta in essere, riconducendo l’interpretazione della disposizione interessata al suo significato di consentire all’Amministrazione finanziaria un’indagine sulla natura giuridica dell’atto posto alla registrazione al fine di verificarne la sua rispondenza ad un tipo normativo piuttosto che ad un altro e così determinarne gli effetti rilevanti in termini di imposizione di registro: in altri termini, una ricerca sulla “sostanza giuridica”.
Diverse erano poi le implicazioni che se ne ritraevano.
In primo luogo, di autorizzare un’interpretazione del contratto sottoposto a registrazione differenziata e autonoma da quella civilistica, con la conseguenza che, da un lato, sarebbe stato possibile colpire il negozio al di là degli effetti voluti dalle parti e quindi con riferimento sic et simpliciter agli effetti giuridici che la legge ricollegava al mero schema negoziale adottato dalle parti medesime, anche se non voluti; e, dall’altro, che talune disposizioni in punto di interpretazione non avrebbero trovato applicazione, come ad esempio quelle in ordine al comportamento complessivo delle parti.
In secondo luogo, di escludere non solo la rilevanza degli effetti economici dell’attività negoziale posta in essere, ma anche la possibilità che gli effetti giuridici connessi alle ipotesi di collegamento negoziale potessero essere apprezzati alla luce della “causa concreta”.
In terzo luogo, che non potesse essere assegnata all’art. 20 d.p.r. n. 131/86 la stessa funzione dell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/73, trattandosi di disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già di norma antielusiva: il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non avrebbe quindi potuto essere disconosciuto anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
In sintesi, essendo interpretazione e qualificazione operazioni oggettive, poiché tale è l’interpretazione, che mira alla ricostruzione della volontà delle parti così come oggettivata nel contratto, e tale è altresì – in quanto mera individuazione degli elementi qualificanti la fattispecie – l’inquadramento nel tipo corrispondente della fattispecie stessa, l’Amministrazione deve sicuramente ricostruire la volontà delle parti, ponendosi la rilevanza della regola in esame essenzialmente sul diverso profilo dell’efficacia giuridica potenziale del negozio, la cui tassazione dovrà tenere conto non solo degli effetti voluti dalle parti, ma anche di quelli che esso è idoneo a produrre in forza della fattispecie normativa in cui si inquadra.
Infine, non poteva essere escluso che, sia pur in via eccezionale, alcuni elementi interpretativi di natura “extratestuale” (comportamento successivo delle parti, in particolare quello esecutivo) potessero valere a definire in concreto la portata di un atto altrimenti indefinibile nel suo significato oggettivo e testuale.
3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – La giurisprudenza di legittimità, a partire dai primi anni 2000, ha iniziato tuttavia a fare un uso – oggetto di critiche costanti ed unanimi della dottrina tributaria – dell’art. 20 prima quale norma “antielusiva”, poi quale norma “speciale” sull’interpretazione applicabile al solo settore dell’imposizione del registro (che darebbe rilevanza alla c.d. “causa in concreto”).
Questa seconda variante è temporalmente collocabile dopo l’avvenuta introduzione del nuovo art. 10-bis nella L. n. 212/2000, che, estendendo l’abuso del diritto/elusione fiscale a tutti i tributi, rendeva la tesi antielusiva evidentemente non più persuasiva. L’auspicio della dottrina che l’introduzione dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000, in quanto applicabile a tutti i tributi, avrebbe definitivamente risolto la questione e ricondotto l’interpretazione dell’art. 20 nel suo alveo originario, si era dimostrato vano. La giurisprudenza – con l’unica eccezione di una sentenza che ha disconosciuto la possibilità di legittimare una lettura “sostanzialistica” degli atti sottoposti al registro mediante l’art. 20 (Cass., n. 2054/2017; sul necessario rispetto dello “schema negoziale tipico”, salva esistenza di un disegno elusivo, v. anche Cass. n. 722/2019 e n. 6790/2020) – ha infatti insistito sulla propria linea “sostanzialistica”, ritenendo irrilevante l’intervento legislativo in materia antiabuso ed aggiustando, come detto, il tiro. Da ciò conseguendone: i) che l’art. 10-bis, pur applicabile a tutti i tributi, risultava di fatto privato di qualsiasi portata applicativa nel solo settore dell’imposizione del registro, assolvendo “di fatto” a tale funzione l’art. 20 anche nella nuova versione “interpretativa”, ma in assenza delle garanzie previste dall’art. 10-bis; ii) che il settore del registro fosse l’unico ad essere regolato da norme interpretative “speciali” (sia pure “ordinarie” nella prospettiva civilistica), rompendo così “l’unità” del sistema impositivo.
L’elaborazione “compiuta” di tale secondo indirizzo meramente “interpretativo” è ben compendiata da Cass., 2007/2018, secondo cui:
In questa versione, che può ritenersi quella definitiva, non si tratterebbe dunque più – come nella originaria prospettiva “antielusiva” – di una regola di interpretazione giuridica “speciale” rispetto al diritto civile, bensì della mera applicazione delle regole civilistiche sull’interpretazione dei negozi alla luce dell’operazione complessiva. Anche qui, tuttavia, conseguendone effetti “singolari”, poiché l’interpretazione della legge del registro diverrebbe a questo punto “speciale” rispetto a tutte le altre branche dell’ordinamento tributario, in cui, a contrario, non varrebbero le “ordinarie” regole interpretative civilistiche sulla rilevanza dell’intenzione delle parti e del loro comportamento complessivo. Non manca, naturalmente, la benedizione dell’art. 53 Cost., cui già in passato – si pensi alle notissime sentenze delle Sezioni Unite sull’abuso del diritto del 2008 – la Cassazione ha riconosciuto una vera e propria funzione normogenetica, vale a dire l’idoneità a disciplinare direttamente le fattispecie, incompatibile con il principio di riserva di legge.
Le assonanze con l’apparato concettuale proprio delle tesi della Scuola di Pavia sono all’evidenza fortissime, sia pure presentate, nella versione finale, quale mera applicazione delle ordinarie regole interpretative civilistiche: l’autonomia dei criteri di qualificazione tributari rispetto alle ordinarie ipotesi interpretative civilistiche, la preminenza assoluta della causa reale o della causa in concreto sull’assetto cartolare, la necessità di assicurare per tale via il rispetto del principio di eguaglianza di trattamento tra le forme giuridiche scelte dal contribuente per raggiungere un determinato risultato economico, la prevalenza della sostanza sulla forma, il rispetto del principio di capacità contributiva.
Naturalmente, negli anni ’30 il concetto di causa “in concreto” neanche era stato concepito – e si è peraltro affacciato in giurisprudenza ben dopo anche il 1972 e il 1986, risalendo la prima enunciazione giurisprudenziale agli anni ‘2000, con esiti peraltro considerati non sempre felici (V. ROPPO, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. Dir. civ., 2013, p. 963) – imponendosi all’epoca il concetto oggettivo di “causa” utilizzato dal legislatore del 1942 con la coincidenza tra causa e tipo.
Tale concetto ha come noto subito un ripensamento in dottrina – arrivato, come detto, molto più tardi in giurisprudenza e comunque mai nella forma così radicale in cui è stato applicato in materia tributaria (è sufficiente pensare alla mancanza di causa originariamente sostenuta in presenza di operazioni aventi esclusiva finalità fiscale: Cass., nn. 20398 e 22932/2005) – nella direzione di un concetto di “causa” come intento pratico-individuale, teso a far risaltare le esigenze e gli interessi di uno o più contraenti. La tipicità individuerebbe, in una operazione negoziale rientrante in un tipo legale, la disciplina applicabile per la realizzazione degli interessi perseguiti dalle parti. La causa diviene dunque l’interesse stesso, desumibile da tutto il quadro dell’operazione economica realizzata col negozio, delineando così una ragione concreta del contratto che spinge alla ricerca del significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che, sia pure tacitamente, sono entrate nel contratto.
Le conseguenze di siffatta impostazione sono molteplici.
In primis, laddove il contratto non risponda ad un tipo legale si pone un problema di controllo della causa che non è diverso rispetto a quello dei contratti nominati, non essendo la semplice coincidenza del contratto con uno schema legale sufficiente a verificare la meritevolezza dell’interesse perseguito e dovendosi pertanto in ogni caso ricercare la causa concreta del contratto.
In secondo luogo, emerge la contestazione della causa come elemento avente virtù individuative del tipo, sia che la si identifichi con la funzione del negozio, sia che la si identifichi come “sintesi degli effetti essenziali”.
In terzo luogo, si opera il recupero dei “motivi”, poiché dalla descrizione della causa come momento attraverso il quale la regolamentazione negoziale palesa nella sua interezza l’assetto di interessi in essa divisato, emerge la possibilità di attribuire rilevanza alle posizioni soggettive delle parti, insuscettibili di essere ridotte sul piano delle mere rappresentazioni psicologiche dei contraenti.
In quarto luogo, la rilevanza emerge con riferimento alle operazioni complesse risultanti da una pluralità di negozi tra loro collegati in vista della realizzazione di un risultato unitario diverso da quello prodotto da ciascuno dei singoli negozi utilizzati. In tal caso, infatti, il giudizio di liceità viene ritenuto dover essere condotto non tanto con riferimento alla meritevolezza dei singoli negozi, quanto alla meritevolezza dell’operazione complessa risultante dal collegamento, riassumendo in una valutazione unitaria tutti gli atti e i comportamenti nei quali in concreto si svolge il potere di autonomia dei privati in vista di un risultato pratico unitario, senza che tuttavia ciò implichi l’irrilevanza giuridica dei singoli passaggi dell’operazione.
Infine, la causa “in concreto” esplica i suoi effetti sul profilo dell’interpretazione e della qualificazione del contratto, dovendo il significato dell’accordo essere determinato in relazione all’interesse pratico e unitario perseguito (c.d. “interpretazione funzionale”) e il contratto essere inquadrato nell’ambito degli schemi qualificatori in base al medesimo interesse, venendo i motivi leciti rilevanti selezionati mediante l’interpretazione del contratto e in particolare mediante il criterio ermeneutico del comportamento complessivo delle parti.
Non è ovviamente nostra intenzione ascendere le vette della teoria generale della “causa”, peraltro lontana dall’essere approdata a risultati univoci in dottrina e in giurisprudenza.
Due osservazioni in tema di autonomia negoziale devono tuttavia essere fatte.
In primo luogo, la causa “concreta”, nel suo riferirsi al disegno economico complessivo, si presta a difformi valutazioni in termini di “autonomia negoziale”. Se infatti essa costituisce un superamento dell’impostazione del rapporto tra autonomia negoziale ed ordinamento statuale in termini di autorizzazione della prima da parte del secondo, e quindi di conformità delle iniziative private alle direttive politiche, economiche e sociali dell’ordinamento – apparendo il negozio lo strumento per la realizzazione di interessi non più solo privati, ma anche di finalità generali – essa comporta comunque la considerazione del negozio quale oggetto (e non più strumento) di controllo sulla compatibilità dei valori espressi dal negozio e quelli espressi dall’ordinamento.
In secondo luogo, l’autonomia negoziale ha un contenuto articolato, potendo le parti non solo pervenire alla definizione di un assetto di interessi che arricchisca o restringa la portata del tipo contrattuale, ma anche giungere alla definizione di un assetto di interessi del tutto atipico e quindi ad uno schema non previsto dal legislatore. L’autonomia contrattuale implica quindi non soltanto la libertà di contrarre, nel senso che le parti si vincolano unicamente se (e con chi) vogliono, ma anche la libertà contrattuale, di dare cioè agli accordi il contenuto che le parti preferiscono, decidendo anche in quale “tipo” contrattuale calare l’operazione che si persegue, privilegiando l’uno oppure l’altro dei tipi legali codificati, ovvero anche concludendo contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Esse potranno infine ricorrere a negozi “indiretti” – per mezzo dei quali, secondo la tesi della causa “tipica”, le parti utilizzano un determinato schema contrattuale per realizzare un scopo che corrisponde non alla sua causa, ma alla causa di un diverso contratto – leciti in linea di principio, a meno che non costituiscano il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa di legge o a realizzare motivi illeciti comuni ad entrambe le parti; oppure al collegamento negoziale, la cui operatività congiunta è necessaria per realizzare l’operazione programmata dalle parti, anch’esso pratica del tutto lecita – perseguendo i vari rapporti negoziali un interesse immediato che è strumentale rispetto all’interesse finale dell’operazione – purché non utilizzata per eludere divieti di legge.
Così stando le cose, anche a voler dare ingresso nella materia tributaria, in una prospettiva moderna ed evolutiva, alla nozione di “causa in concreto”, ne emergono con evidenza i relativi limiti: la più qualificata dottrina italiana (A. FEDELE, La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in Riv. Dir. Trib., 2020, II, p. 14 ss) ha osservato, a proposito della notissima (ri)qualificazione in una “vendita diretta” dell’abbinamento contrattuale conferimento di azienda-cessione delle partecipazione, che la vendita, “lungi dal costituire una necessaria conseguenza dell’individuazione della causa concreta dell’operazione, comporta una “equiparazione” di fattispecie che supera e forza proprio il “concreto” assetto di interessi realizzato con l’operazione (id est, la titolarità delle partecipazioni e non del bene) e tale equiparazione si giustifica solo in ragione del disconoscimento, nel singolo caso, di vantaggi fiscali indebiti secondo lo schema tipico dell’intervento antielusivo”. Per raggiungere tale risultato di “sostituzione”, non è sufficiente dunque un mero giudizio di “non meritevolezza fiscale” dell’operazione nel suo complesso, ma occorre la presenza di un espresso “divieto” di conseguire risparmi fiscali indebiti, che, consentendo di superare le forme negoziali in cui i singoli passaggi si esprimono a favore di una loro considerazione unitaria, legittimi la “ri-qualificazione” dell’operazione nel suo complesso e l’applicazione della corrispondente tassazione.
Nell’imposta di registro – ma così avviene per ogni altra imposta, non potendosi riconoscere all’art. 20 alcuna “specialità” rispetto ad altri sottosistemi impositivi e certamente non più alla luce della richiamata modifica normativa del 1972 – il “collegamento” eventualmente esistente tra i più negozi non autorizza pertanto a “riqualificare” (giuridicamente) i negozi medesimi se economicamente equivalenti, ma solo a determinarne i corretti effetti giuridici eventualmente alla luce del collegamento – ma solo se questo formi oggetto di una previsione ad hoc – ovvero del comportamento successivo delle parti – ma solo ove esso valga a definire il contenuto dell’atto precedente; nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a contestare la simulazione, potendo invece la “equivalenza degli effetti economici raggiunti” essere contrastata soltanto con un meccanismo di “inefficacia” fiscale qual era quello originariamente contemplato dall’art. 37-bis d.p.r. 600/73 e ora previsto dall’art. 10-bis, L. n. 212/2000, idoneo a ricondurre i negozi posti in essere nell’ambito di una diversa configurazione – pur sempre giuridica – conforme alla “operazione economica” complessivamente realizzata.
L’applicazione dell’art. 20 per “riqualificare” i singoli negozi nell’ambito di una operazione economica complessiva – modulando l’imposizione su effetti non riconducibili ad alcun contratto voluto e concluso dalle parti – appare dunque priva di fondamento. Ma essa è anche inutile – oltreché dannosa per via della confusione tra le categorie generali del diritto tributario e del diritto civile che essa genera – se rapportata al risultato che la Cassazione intendeva perseguire: meglio sarebbe stato fare anche qui applicazione (non condivisibile ma coerente) del principio dell’abuso del diritto sic et simpliciter, senza stravolgere i principi generali della materia. E del resto, a ben guardare, le fattispecie in cui la Suprema Corte ha fatto applicazione dell’art. 20 in funzione “antielusiva” consistevano, quasi sempre, proprio in una “speciale” ed anomala concatenazione negoziale preordinata al risparmio dell’imposta di registro (salvo valutare se tale risparmio potesse considerarsi “indebito” alla luce dei principi generali dell’imposizione di registro).
L’art. 20 d.p.r. n. 131/86 è dunque disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già norma interpretativa “speciale” del registro (con o senza funzioni antielusive): il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non potrà quindi essere disconosciuto con l’art. 20 anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – Al di là del merito della questione, è noto che l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 20 ha comunque determinato rilevanti incertezze nei traffici giuridici, accadendo tra l’altro che: cessioni del 100% delle quote di una società fossero tassate ai fini del registro come se si trattasse di una cessione dell’azienda, nonostante l’evidente diversità dei relativi effetti giuridici; cessioni di fabbricato poi demoliti per essere ricostruiti, venissero tassati quali cessioni di terreno edificabile, attribuendo rilevanza a comportamenti delle parti e finanche a provvedimenti amministrativi esterni all’atto, all’opposto di quanto concluso ai fini delle imposte sui redditi, dove la giurisprudenza ha costantemente disconosciuto la possibilità di tassare la relativa plusvalenza a titolo di cessione di terreno edificabile, senza ricorrere a “cause in concreto”; i conferimenti di azienda seguiti dalla cessione delle relative quote, venissero tassati quali cessioni di azienda, quando ai fini delle imposte dirette si tratta di operazione che viene addirittura esclusa espressamente dal legislatore da qualsiasi sindacato di ordine “sostanziale” ed antielusivo essendo le due operazioni alternative considerate come poste su un piano di parità (art. 176, co. 3, TUIR).
In una simile situazione di urgenza indifferibile, due erano le possibilità a disposizione del legislatore: abrogare tout court l’art. 20 oppure riformarlo.
Chi scrive aveva sostenuto, in un breve intervento del 2017 (Patrimonio sociale: per la cessione, tasse da rivedere, in Il Sole 24 ore, 17 settembre 2017, p. 17), l’opportunità di procedere all’abrogazione espressa dell’art. 20.
Mancando a quel punto una specifica norma di supporto, agli atti sottoposti al registro avrebbero trovato applicazione le ordinarie regole di interpretazione civilistiche, alla stregua di qualsiasi altro tributo, senza spazio per collegamenti negoziali al di fuori di quello rilevante per le norme antielusive (o per le specifiche norme del registro). Se, pertanto, anche per il diritto civile, l’atto sottoposto al registro poteva essere “qualificato” diversamente da come le parti hanno fatto, inquadrando la fattispecie in un diverso e corrispondente schema legale, allora anche ai fini del registro a tale atto avrebbe potuto essere attribuita una diversa qualificazione, applicando la tassazione per essa prevista. Si tratta di una conseguenza che non richiede una previsione normativa, essendo pacifico il potere dell’Amministrazione finanziaria prima, e del giudice poi, di qualificare correttamente un atto indipendentemente dalla sua forma o dal nomen juris, purché ciò avvenga in ossequio alle ordinarie regole civilistiche. Col senno di poi, non è tuttavia certo che questo risultato si sarebbe raggiunto, poiché i giudici avrebbero potuto sostenere l’applicabilità dell’art. 1362, co. 2, c.c., quale norma generale civilistica, anche in mancanza dell’art. 20: così facendo, tuttavia, venendo a mancare la ipotetica disposizione “speciale” del registro, la “causa concreta” si sarebbe dovuta applicare a tutti i tributi, con effetti talmente dirompenti sul sistema da imporre una desistenza generale.
Laddove poi le parti fossero ricorse ad una concatenazione anomala di atti finalizzata ad eludere l’imposta di registro e a conseguire un risparmio di imposta che potesse qualificarsi come “indebito”, ben avrebbe potuto trovare applicazione la norma antielusiva contenuta nel nuovo art. 10-bis, L. n. 212/2000, poiché applicabile a tutti i tributi.
In presenza, infine, di atti separati finalizzati a mascherare sotto la veste di più atti documentali un unico negozio (ad es., la cessione “spezzatino”), il Fisco avrebbe potuto accertare gli effettivi termini delle operazioni fiscalmente rilevanti (oltreché applicare la qualificazione ai fini Iva, poiché presupposto della relazione di alternatività Iva-registro).
Il risultato sarebbe stato di allineare l’imposta di registro a tutti gli altri settori del diritto tributario, aggiungendo un tassello fondamentale alla costruzione di un sistema tributario equo, certo ed unitario.
Il legislatore non è rimasto sordo alle esigenze del mondo produttivo, ma non se la è sentita di giungere al rimedio estremo dell’abrogazione, preferendo intervenire chirurgicamente sulla disposizione con una serie di rilevanti modifiche chiaramente finalizzate a spuntare le armi alla tesi sostanzialista.
Ciò è avvenuto mediante la sostituzione, con L. n. 205/2017, del riferimento agli “atti” con quello al singolo “atto” sottoposto al registro; escludendo la possibilità di fare riferimento sia ad elementi extratestuali che a negozi collegati; infine, ribadendo l’applicabilità dell’art. 10-bis anche all’imposizione di registro. In altri termini, si è proceduto all’eliminazione di ogni appiglio per continuare a sostenere l’interpretazione avversata.
Una soluzione, dunque, che si avvicina per effetti molto all’abrogazione, anche se con qualche perplessità, come l’eliminazione tout court della possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali che, come detto, potevano occorrere in casi eccezionali a definire il contenuto dell’atto, con conseguente esclusione dell’art. 1362, co. 2, c.c., o ancora il riferimento all’art. 10-bis, la cui portata generale non è stata mai in discussione.
Si tratta, tuttavia, di scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito. Da un lato, infatti, ha evidentemente prevalso il timore che attraverso gli elementi extratestuali dell’art. 1362, co. 2, c.c. potesse rientrare dalla finestra la rilevanza dell’operazione complessiva uscita dalla porta; dall’altro, si è voluto ricordare che esiste anche l’art. 10-bis, con tutti i suoi corollari procedimentali, poiché, in questo Paese di santi, poeti, navigatori, allenatori ed … interpreti, la chiarezza non è mai abbastanza. Basta pensare a quanto a suo tempo accaduto con il comma 12 dello stesso art. 10-bis, che dispone che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione … di specifiche disposizioni tributarie: disposizione sicuramente ovvia, ma non se si pone mente all’applicazione “catch-all” che Amministrazione finanziaria e giurisprudenza avevano fatto dell’abuso del diritto, includendovi una serie di fattispecie del tutto estranee – quali antieconomicità, transfer pricing, simulazione, evasione, interposizione reale, ecc. – al punto da indurre la più acuta (e sarcastica) dottrina italiana (Falsitta) a coniare l’espressione di “concetto onnivoro”.
Del resto, a noi pare che la soluzione adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali. Ai sensi dell’art. 10-bis le operazioni devono infatti realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, intendendosi tali “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (co. 2, lett. b): la “finalità” essenziale deve, dunque, essere quella di eludere l’imposizione ponendosi in contrasto con la ratio delle disposizioni o dei principi dell’ordinamento tributario (in questo caso, riferiti al registro). Sotto questo profilo, è stata mantenuta la logica della “frode alla legge” tributaria già alla base dell’art. 37-bis, ma meglio esplicitando la circostanza che il vantaggio fiscale deve essere “indebito”. Ebbene, come osserva un importante civilista italiano, “per valutare se un’opportuna combinazione di negozi fra loro collegati (…) integra frode alla legge, che cosa fanno i giudici se non ricostruire – attraverso la rilevazione di specifici elementi del contratto o della combinazione di contratti – la relativa causa concreta? Non c’è bisogno che lo enuncino: in un’indagine come quella imposta al giudice dall’art. 1344 c.c., l’identificazione della causa come causa concreta è per così dire in re ipsa” (V. ROPPO, op. ult. cit., p. 963).
Fatta la norma, si è tuttavia subito posto il problema della sua “retroattività”, esclusa all’unanimità dalla Cassazione ed ammessa solo “parzialmente”, con una soluzione più politica che giuridica, dall’Amministrazione finanziaria per gli atti sottoposti a registrazione prima dell’entrata in vigore della modifica ma non ancora oggetto di atti di liquidazione. Ciò che ha comunque indotto il legislatore ad intervenire nuovamente con L. n. 145/2018 affermando la natura di interpretazione autentica delle modifiche normative del 2017.
Immediata è stata la reazione della Cassazione, cui, a sommesso avviso di chi scrive, deve tuttavia muoversi un duplice “rimprovero”.
Il primo, di diritto. Di aver cioè ritenuto che la propria interpretazione dell’art. 20 fosse l’unica costituzionalmente legittima e possibile e che la tassazione del singolo atto sottoposto al registro non esprimesse capacità contributiva tout court. A tutta la dottrina tributaria è invece apparso subito evidente l’esatto contrario: sicché, in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui notoriamente gode il legislatore in materia di definizione del presupposto del tributo, è stato dato per scontato che la ricostruzione della Corte di Cassazione non integrasse una soluzione costituzionalmente necessitata, con conseguente infondatezza della questione sollevata.
Il secondo, di politica del diritto. Di non avere cioè avuto la sensibilità di comprendere che l’intervento del legislatore era a favore del “Paese Italia”, non dei contribuenti – tutti ricordiamo la ben diversa vicenda che aveva originato la stizzita ordinanza di remissione della Cassazione alla Corte di giustizia relativamente alla definizione agevolata delle controversie pendenti in Cassazione da oltre dieci anni con doppia conforme favorevole (Cass., n. 18055/2010) – nell’ottica esclusiva di restituire quella certezza all’ordinamento tributario la cui assenza scoraggia gli investimenti stranieri in Italia. Intervento, peraltro, neanche “episodico”, poiché posto in piena continuità con la più generale politica di “certezza” perseguita in quegli anni dal Ministero Padoan con interventi quali: la riforma degli interpelli, con la generalizzazione della sanzione di nullità degli atti impositivi adottati in difformità della risposta; l’interpello “rafforzato” per i nuovi investimenti, che preclude sin anche il revirement dell’Agenzia; la riforma delle sanzioni penali, che sottrae al regime sanzionatorio penale fattispecie connotate da ampi margini di indeterminatezza o dall’assenza di danni erariali (ad es., l’abuso del diritto, le valutazioni, gli errori sulla competenza); la “codificazione” e l’unificazione con l’elusione fiscale, del principio dell’abuso del diritto; l’individuazione e soluzione di serie di problematiche specifiche relative alla determinazione del reddito di impresa (perdite su crediti, prezzi di trasferimento tra imprese residenti, ecc.); da ultimo, appunto, l’art. 20 della legge sul registro.
5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine. – Se ai danni reputazionali non v’è stato rimedio – gli investitori esteri hanno ritenuto incomprensibile questa “resistenza” giurisprudenziale rispetto ad un intervento legislativo che risolveva una querelle che durava da quasi 90 anni – ad eliminare, invece, i residui dubbi giuridici ci ha pensato, con una sentenza asciutta ed esemplare, la Consulta.
Ciò è avvenuto anche grazie all’aiuto involontario dell’Avvocatura dello Stato che, probabilmente imbrigliata dal suo ruolo anche di assistenza all’Erario in sede di legittimità sulle vicende interessate, ha proposto, sotto l’ammiccante prospettazione della “inammissibilità” della questione, una a dir poco curiosa ricostruzione interpretativa secondo cui il divieto di far ricorso ad elementi extratestuali o desumibili da atti collegati contenuto nell’art. 20 avrebbe avuto il solo e limitato significato di escludere la rilevanza degli elementi “fuori contesto” od “extra-vaganti” (cioè privi di riferimenti all’atto da registrare o con effetti non incidenti su questi). In sostanza, secondo l’Avvocatura, la Cassazione ben avrebbe potuto continuare a tassare il conferimento dell’azienda seguito alla cessione della partecipazione alla stregua di una cessione dell’azienda, non essendo ciò impedito dal nuovo art. 20!
Sul punto, la Consulta, con inconsueta (e in questo caso meritatissima) durezza, osserva che la lettera della disposizione non pone tale distinzione, e che così interpretandola, si giungerebbe ad “un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans delle disposizioni censurate”. Questa vicenda, che evoca quella dei pifferi di montagna, conferma che le precauzioni del legislatore – nella specie, di escludere espressamente la possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali e di richiamare espressamente l’art. 10-bis – non sono mai abbastanza dinanzi alla fantasia degli interpreti di turno, e che è meglio una parola in più che una in meno. I contribuenti devono tuttavia ringraziare l’Avvocatura, per aver consentito alla Consulta di sancire subito l’inconsistenza di una tesi che sarebbe altrimenti sicuramente emersa dopo la sentenza, con esiti imprevedibili.
Venendo al merito della vicenda nei (più lineari) termini prospettati dalla Cassazione, la tesi della Consulta è che la modifica normativa ha legittimamente “conformato” l’art. 20 alla natura dell’imposta di registro quale imposta sull’atto – come del resto sostenuto dalla giurisprudenza più risalente sopra richiamata (anche Cass., 28 luglio 1972, n. 2577) – e che questa rappresenta una legittima opzione legislativa, trattandosi di una (magari non moderna ma sicuramente) tipica espressione di capacità contributiva e sussistendo ampia discrezionalità in materia. Anzi, la Consulta lascia chiaramente intendere che la vicenda si sarebbe dovuta chiudere già una cinquantina di anni fa con l’introduzione dell’aggettivo “giuridici” nell’art. 19, d.p.r. n. 634/1972.
Interessante è peraltro il richiamo alle pronunce di indirizzo contrario (le già richiamante sentenze n. 2054/2017, n. 722/2019 e n. 6790/2020), per rilevare che il legislatore è intervenuto “anche in conseguenza di tale contrasto”. Precisazione, quest’ultima, che, nel porre il contrasto interpretativo quale occasio legis, anticipa quella che sarà la verosimile risposta all’inopinata nuova remissione sollevata dalla CTP di Bologna con ordinanza del 13.11.2019, che, oltre a reiterare le questioni appena dichiarate infondate, prospetta anche una violazione dei principi di retroattività, richiamando addirittura a favore dello Stato le disposizioni della CEDU rivolte per loro natura a tutelare i diritti del soggetto privato contro il potere dello Stato medesimo!
Dalla piena legittimità dell’indice di contribuzione prescelto dal legislatore, consegue, ovviamente, l’esclusione di qualsiasi violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.. Come è infatti stato evidenziato (G. FRANSONI, La “riforma” dell’art. 20 TUR supera l’esame di costituzionalità. Commento a Corte Costituzionale, sent. 21 luglio 2020, n. 158, https://fransoni.it/argomenti/la-riforma-dellart-20-tur-supera-lesame-di-costituzionalita/), l’eguaglianza va rapportata al presupposto concretamente scelto dal legislatore e non già rispetto ad altri ipotetici presupposti parimenti idonei. Pertanto, il modulo argomentativo spesso utilizzato dalla Corte a giustificazione della propria interpretazione “sostanzialistica”, secondo cui la medesima si imporrebbe per eliminare ogni discriminazione tra chi realizza il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale e chi con più atti collegati, perde completamente di significato laddove il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli è riservata, abbia scelto di conformare l’imposizione di registro come imposta sul singolo atto anziché sull’operazione economica complessiva.
Assai apprezzabile è, infine, il completamento dell’argomentazione svolto dalla Consulta con riferimento all’art. 10-bis, laddove ha rilevato che i) il ricorso alla “causa reale”, tassando un negozio diverso da quello posto in essere, si sostanzierebbe in una applicazione “antielusiva” dell’art. 20, senza tuttavia riconoscere le garanzie proprie dell’art. 10-bis; ii) le preoccupazioni dell’ottenimento di vantaggi indebiti vengano meno proprio per effetto della possibilità di applicare tale disposizione generale antielusiva. Profilo, quest’ultimo, sul quale va apprezzata l’immediata presa di posizione dall’Amministrazione finanziaria nel ritenere che la cessione indiretta d’azienda, attuata mediante il conferimento seguito della cessione della partecipazione, poiché si sostanzia in una legittima alternativa alla cessione diretta di azienda, posta su un piano di parità, non realizza alcun vantaggio indebito (Risposte Interpello n. 196 del 18 giugno 2019; n. 13 del 19 gennaio 2019; n. 138 del 13 maggio 2019).
A distanza di quasi un secolo dall’avvio delle “scaramucce”, e salvo l’ulteriore fastidio di respingere anche la velleitaria ordinanza di remissione bolognese, siamo finalmente giunti ai titoli di coda.
Le ragioni del “NO” al taglio dei parlamentari
di Armando Spataro*
*Componente del Direttivo del Comitato per il NO promosso dal
Coordinamento per la Democrazia Costituzionale
Come è noto, con le principali modifiche previste dalla legge di revisione costituzionale n. 249/2019 (se confermata con il prossimo referendum), il numero dei deputati passerebbe da 630 (dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero) a quattrocento (otto dei quali eletti nella circoscrizione Estero) e quello dei senatori da 315 (sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero) a duecento (quattro dei quali eletti nella circoscrizione Estero). Nessuna Regione o Provincia autonoma potrà avere un numero di senatori inferiori a tre, ma il Molise ne avrà due e la Valle d’Aosta uno. I senatori a vita in carica, nominati dal Presidente della Repubblica, non potranno in alcun caso essere più di cinque.
Ai sensi dell’art. 138 co. II della Costituzione, non vi sarà bisogno di alcun quorum e basterà la maggioranza dei voti validi espressi nel referendum popolare indetto dal Capo dello Stato per promulgare la suddetta legge di revisione costituzionale dal titolo “Modifiche agli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”.
Tanto premesso, vorrei subito precisare le ragioni del mio personale impegno a favore del “NO” nel prossimo referendum del 20 e 21 settembre per confermare o meno le citate modifiche costituzionali.
Il mio impegno non è in alcun modo connotato da adesione o vicinanza a partiti politici, né da scelte di contrastarne specificamente alcuno: sarebbe inutile e peraltro contrario al mio modo di intendere il rapporto tra cittadini e politica. E’ invece un impegno contro qualsiasi proposta o atto legislativo che rischi di snaturare la nostra splendida Costituzione, il cuore della democrazia.
Infatti – ed è il caso di ricordarlo – con la modifica di tre articoli, si stravolgerebbe l’intero assetto della Costituzione ed il ruolo del Parlamento.
A conferma di ciò, voglio anche ricordare che analoghe posizioni pubbliche hanno caratterizzato il mio impegno nei referendum del 2006 e del 2016, rispettivamente contro le pessime e pericolose riforme proposte e sostenute dal Governo Berlusconi (il cui leader era giunto ad auspicare, tra l’altro, un Parlamento in cui potessero intervenire in Aula solo i capigruppo dei partiti) e dal Governo Renzi (che sostanzialmente ipotizzava una maggioranza dominante sulle Camere), cioè da schieramenti politici opposti, quasi che per tutti il male dell’Italia sia un eccesso di democrazia e la mancanza di un “Parlamento che ratifichi il più rapidamente possibile decisioni già assunte altrove[1]”.
Non è un caso, del resto, che alcuni leaders protagonisti di tali “riforme” e di quella ora in discussione abbiano pronunciato o pronuncino identici slogans pubblicitari: significative, a tal proposito le due pagine (nn. 22 e 23) che il settimanale L’Espresso del 30 agosto scorso ha pubblicato con il titolo “Matteo e Gigì gemelli del Sì”: vi figurano – simmetricamente raffigurate – sei slogans che, nella sostanza e spesso nel lessico, rappresentano frasi di Renzi e Di Maio assolutamente uguali quanto alle ragioni di sostegno alle riforme del 2016 e del 2020.
E’ utile partire dalle parole che Piero Calamandrei pronunciò durante discorso nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria di Milano, il 26 gennaio 1955, in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana, organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare, in modo accessibile a tutti, i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra democrazia: “… la Costituzione – disse Calamandrei – non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.
Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico … ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: …”La politica non è una piacevole cosa”. Ma invece, proseguiva il discorso (ndr),…dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare l’ opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese….questa è una delle gioie della vita… rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo.
Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione!
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.”
Spero che questa citazione non appaia retorica a qualche lettore: in realtà vuole solo ricordare che, sostenendo il “NO” referendario, non si vuole affatto difendere questo Parlamento, ma l’Istituzione-cuore di ogni democrazia, di cui va tutelata la centralità contro i rischi di un suo indebolimento.
Va anche detto che il testo di legge che gli italiani dovranno approvare o bocciare non è in realtà una vera riforma. Massimo Cacciari ne ha spiegato le ragioni ricordando che “una riforma è un disegno organico, che riporta equilibrio nel bilanciamento dei poteri e armonizza i principi che regolano il funzionamento del gioco democratico. Qui non c’è niente di tutto questo. C’è il taglio puro e semplice di 230 deputati e 115 senatori. Un’auto-amputazione del Parlamento”.
A dire il vero, anche il Sen. Danilo Toninelli (M5S), nel corso di un confronto con lo scrivente (Brescia, 30.8.2020) ha ammesso, modificando posizioni del suo partito e smentendo le parole del Ministro Di Maio, che non di riforma si tratta ma di un intervento mirato. E nel corso dello stesso confronto ha dovuto fare marcia indietro sul tanto decantato risparmio dei costi delle attività istituzionali che pure, fino a pochi giorni prima, era stato il cavallo di battaglia del suo partito a sostegno del “SI”. L’argomento del risparmio dei costi per il bilancio dello Stato si è sgretolato dopo che l’Osservatorio dei conti pubblici lo ha quantificato nello 0,007 per cento annuo. Significativo, anche in questo caso, un salto nel passato: circola sul web un filmato del 2016 in cui, sostenendo il “NO” nel referendum allora in programma, Toninelli attaccava la riforma renziana dicendo (tra i minuti 6^ e 7^ del filmato di facile reperimento sul web) che i risparmi di cui Renzi allora parlava sarebbero stati del tutto irrisori, corrispondenti al massimo all’importo di un caffè all’anno per ogni cittadino italiano, esattamente – cioè – quello che hanno detto l’economista Cottarelli (che presiede il citato Osservatorio e che ha definito “stupida” la pseudo riforma), Romano Prodi e vari accademici esperti. E persino il prof. Onida, pur se sostenitore del “SI’ ”, ha parlato di un argomento falso ed inutile, qualificandolo “motivazione fasulla[2]”. E Luciano Canfora, dal canto suo, superando Cottarelli, ha qualificato la legge in questione “la più stupida delle riforme” chiedendo perché mai – se si fosse voluto intervenire seriamente sui costi – non si sia previsto anche un taglio degli stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali etc.[3]. Il tutto va ricordato pur senza tacere sul fatto che, comunque, i costi delle Istituzioni non si possono certo valutare secondo logiche aziendali: la regola del maggior profitto e del minor costo possibili è un ovvio criterio di valutazione delle attività aziendali, ma le Istituzioni sono un’altra cosa!
Messi da parte, quindi, la definizione di “riforma” del devastante taglio dei parlamentari ed escluso il fondamento del presunto taglio delle spese che esso determinerebbe (argomento non a caso non più utilizzato a sostegno del SI’), esaminiamo ora i residui argomenti che giustificherebbero il provvedimento legislativo in questione, caratterizzato da un evidente e inaccettabile antiparlamentarismo, cioè:
- l’allineamento del numero dei nostri parlamentari, ritenuto oggi debordante, con quello degli Stati europei caratterizzati da dimensioni e popolazioni sostanzialmente analoghe alle nostre;
- il miglior funzionamento e la maggior efficienza che contraddistinguerebbero un Parlamento con più di un terzo (complessivamente) di componenti in meno.
Il primo argomento è smentito in radice non solo da accademici esperti, da studiosi e dai “Comitati per il No”, ma innanzitutto e prima di tutto dalle relazioni degli Uffici Studi della Camera dei Deputati e del Senato, con allegati prospetti, che qualcuno – spero in buona fede – ha trascurato, dimenticato, omesso di leggere o letto da ignorante e facendo confusione.
Intanto, come ha scritto il prof. Francesco Pallante di Torino, le comparazioni numeriche andrebbero fatte tra sistemi il più possibile omogenei e, in ogni caso, tenendo conto delle peculiarità di ogni sistema. La principale peculiarità del nostro sistema è il bicameralismo paritario, da cui deriva che il Senato ha compiti ampi tanto quelli della Camera. E’ dunque normale che il Senato italiano abbia una composizione numerica più elevata rispetto all’equivalente ramo del parlamento di ordinamenti in cui non vige il bicameralismo paritario ed in cui il Senato ha compiti più circoscritti: in Germania, ad es., il ridottissimo numero dei senatori si spiega con la natura federale di quello Stato ove i membri del Senato (Bundesrat) sono, di fatto, i territori che compongono la federazione (Bund): i Lander. Ogni Land ha una delegazione di 3-6 membri (in rapporto alla popolazione), che vota compatta, con un solo membro che esprime tutti i voti a disposizione del Land. E negli Stati Uniti, con cui pure si evoca il confronto, la Costituzione delinea un sistema federale in cui gli organi della Federazione (tra cui il Congresso, composto da Camera e Senato) hanno compiti più circoscritti rispetto ai nostri organi statali: molti dei poteri che in Italia sono esercitati dallo Stato centrale, negli Stati Uniti sono esercitati dagli Stati federati, corrispondenti alle nostre Regioni. Per questo 49 Stati federati su 50 (fa eccezione il Nebraska) hanno un proprio Parlamento composto da Camera e Senato, mentre nelle nostre Regioni l’organo corrispondente (il Consiglio Regionale) è monocamerale. Sicchè: se sommiamo i parlamentari della Federazione statunitense ai parlamentari degli Stati federati (535 parlamentari federali + 7.383 parlamentari statali = 7.918), otteniamo un numero di molto superiore alla somma dei parlamentari e dei consiglieri regionali italiani (945 parlamentari nazionali + 5 senatori a vita + 884 consiglieri regionali = 1.834).
In ogni caso, tornando all’Europa e prendendo in considerazione il numero dei parlamentari di tutti i Paesi dell’Unione Europea (dati del 2018), si giunge a conclusioni analoghe: attualmente l’Italia non ha affatto un numero eccessivo di parlamentari ed anzi, classificando gli Stati dell’Unione Europea per numero di parlamentari (deputati e, ove presenti, senatori) ogni 100.000 abitanti, il nostro Paese si colloca al 23^ posto su 27 Stati, dunque tra quelli che hanno il numero di parlamentari più basso. Ma, se passasse la riforma, l’Italia scenderebbe ulteriormente nella classifica, diventando di fatto (cioè considerando la ricordata anomalia del Senato tedesco) il Paese di tutta l’Unione Europea con meno parlamentari rispetto alla dimensione della popolazione, con conseguente ed evidente vulnus al valore ed al senso della rappresentanza dei cittadini, su cui comunque si tornerà appresso.
E veniamo all’altro argomento – sostanzialmente l’ultimo – a sostegno del “SI’”, quello del miglior funzionamento e della maggior efficienza che il Parlamento acquisirebbe con il taglio dei suoi componenti .
Si tratta di un’altra sorprendente affermazione, priva di concretezza e solidità, e mi meraviglia che persone di elevato livello, come il prof. Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, possano farla propria.
Innanzitutto bisogna chiarire a cosa ci si vuol riferire con tale argomento? Al fatto che un Parlamento con oltre un terzo di componenti in meno produrrebbe più leggi? O che le produrrebbe più velocemente? O che le leggi sarebbero meglio scritte ?
Perché mai con meno parlamentari Camera e Senato funzionerebbero meglio? In realtà, il problema da affrontare non è quello della quantità dei parlamentari, ma della loro qualità! Una qualità che finisce con l’essere soffocata o sacrificata dalla concezione partito-centrica che i leader politici perseguono e che li porta a candidare e, grazie ad una legge elettorale che penalizza la libertà di scelta dell’elettore, a far eleggere spesso i più fedeli e non i migliori. Ecco che il Parlamento, che come organo centrale della democrazia dovrebbe guidare e controllare l’Esecutivo, si trasforma in un organismo notarile che certifica ed approva ciò che il Governo decide.
Di qui traggono origine le innegabili criticità del Parlamento e le pessime prassi governative ormai invalse consistenti in abuso dei decreti legge e dell’urgenza che ne consente l’emanazione e nell’abuso dei voti di fiducia che ha portato spesso il Parlamento ad approvare testi di legge scritti o modificati (magari durante la notte precedente il voto) senza che nessuno – tranne il Governo – li conoscesse. E come tacere sulla approvazione in sede governativa di testi di legge “salvo intese”, una formula francamente sorprendente che purtroppo sembra non scandalizzare ormai nessuno.
Queste ed altre criticità dilagano, ma non è per questo concepibile un taglio dei parlamentari dal sapore punitivo: se il Parlamento non funziona, va rafforzato, non indebolito riducendone la quantità dei componenti ed ancor più estendendone la sudditanza a leaders politici che sarebbero ancor più potenti. Insomma non si deve tagliare il numero dei parlamentari perché qualcuno di loro non fa il proprio dovere: generalizzare le colpe fa sempre male ed i parlamentari non possono essere tutti definiti moralmente indegni.
Perché mai, con il maxi-taglio in questione le leggi dovrebbero essere migliori ed i deputati e senatori più qualificati? La loro drastica riduzione, per come è stata concepita fuori da un più ampio disegno di riforme, rappresenta solo la strada, come ha più volte scritto il prof. Alfiero Grandi, per l’attuazione di una visione governo-centrica e presidenzialista della nostra democrazia (quella che auspica pieni poteri per un uomo solo al comando) e per l’incremento dell’oligarchia dei partiti, peraltro penalizzando quelli minori che, con meno parlamentari da eleggere, sarebbero meno rappresentati nella Camera e nel Senato. Tutto ciò darebbe luogo ad una svilimento del potere legislativo, quello che caratterizzava anche le precedenti riforme berlusconiana e renziana, fortunatamente bocciate con i rispettivi referendum e finite su binari morti..
E’ bene passare, a questo punto, dopo il disvelamento della pubblicità ingannevole che è alla base delle affermazioni dei sostenitori del “ SI’ ”ad esaminare altre ragioni a sostegno del “NO”.
Tra tutte, come in qualche modo già si è anticipato, primeggia la necessità di difesa forte del principio della rappresentanza dei cittadini che gli eletti incarnano e devono attuare. Sono i cittadini che eleggono i parlamentari ed è questo che, in democrazia, legittima l’alta funzione degli eletti.
Si è già spiegato che, con le previste riduzioni del numero dei parlamentari, l’Italia passerebbe all’ultimo posto tra i Paesi dell’Unione Europei quanto al rapporto tra numero di eletti ed abitanti rappresentati.
Limitandosi invece ad una analisi della situazione nazionale ed utilizzando un’approfondita analisi del magistrato Domenico Gallo[4], va segnalato che attualmente il rapporto tra abitanti e parlamentari è di un seggio di Deputato ogni 96.000 abitanti e di un seggio di Senatore ogni 192.000 abitanti, Con la riforma in vigore avremmo un Deputato ogni 151.000 abitanti ed un Senatore ogni 303.000 abitanti.
Gli inconvenienti della riforma si concentrano soprattutto sul Senato dove la distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione deve fare i conti col principio che l’elezione dei senatori avviene su base regionale.
Nel testo vigente della Costituzione, nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a 7, tranne la Valle d’Aosta (1) ed il Molise (2). Con la riforma si stabilisce che nessuna Regione o Provincia autonoma può avere un numero di Senatori inferiori a tre.
La conseguenza sarà che l’Umbria e la Basilicata passano da 7 a 3 senatori, subendo una riduzione della rappresentanza del 57,1%.
Abbiamo visto che per eleggere un Senatore occorrono in media 303.000 abitanti per collegio, ma il voto non è uguale per tutti. Grazie al privilegio concesso al Trentino Alto Adige (che subisce una riduzione della rappresentanza solo del 14,3%), il voto di un calabrese o di un sardo vale la metà del voto di un abitante del Trentino-Alto Adige.
Infatti la Calabria con una popolazione di quasi due milioni di abitanti (1.959.050), elegge 6 senatori, quanti ne elegge il Trentino con una popolazione di circa un milione di abitanti (1.029.475). Per essere più precisi in Calabria occorrono 326.508 voti (in Sardegna 327.872) per eleggere un Senatore, mentre in Trentino ne bastano 171.579.
A questa situazione bisogna aggiungere gli effetti distorsivi che derivano dalla legge elettorale vigente (approvata proprio in vista della riforma costituzionale) che ha fissato in 3/8 il rapporto fra i collegi uninominali ed i seggi da eleggere nei collegi plurinominali.
Per effetto di questa legge i collegi uninominali al Senato passano da 116 a 74. Di conseguenza i nuovi collegi uninominali avranno una dimensione amplissima. Per ogni seggio la popolazione media sarà di circa 800.000 abitanti. Con delle significative differenze, in Friuli Venezia Giulia, l’unico collegio elettorale contiene una popolazione di 1.220.291 persone. In Abruzzo il collegio elettorale è formato da 1.307.309 abitanti. In Calabria, essendovi 404 Comuni, ognuno due collegi uninominali dovrà comprendere circa 200 comuni.
E’ spesso trascurata, infine, la diminuzione di un terzo netto che il taglio determinerebbe quanto al numero dei parlamentari eletti all’estero: 8 deputati, invece dei 12 attuali, e 4 senatori, invece degli attuali 6. La già limitata rappresentanza di milioni di nostri cittadini residenti all’estero, pertanto, andrebbe a peggiorare nonostante il considerevole aumento dei flussi migratori degli italiani !
I numeri nello loro incontrastabile oggettività smascherano dunque la grande menzogna del taglio dei privilegi della casta, quando, al contrario, l’oggetto di questa drastica riduzione è il diritto dei cittadini italiani ad essere rappresentati e a far giungere la loro voce in Parlamento: le Regioni (tranne la Valle d’Aosta) perderanno – rispetto ai numeri attuali – un’alta percentuale dei loro rappresentanti in Senato e nella Camera: una differenza che va dal 20% del Molise al 46,15 per cento della Basilicata, con una media del 34,52%.
Una riduzione che determinerà campagne elettorali più onerose per i candidati, sia dal punto di vista organizzativo che economico, con conseguente vantaggio dei partiti e candidati con maggiori risorse[5].
Trovo grave, peraltro, che, al fine di contestare questa elementare osservazione, si affermi che ormai non conti più il territorio nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, in ragione delle nuove modalità di comunicazione che consentono ai secondi di rimanere comunque in contatto con i primi. In realtà, a parere di chi scrive, proprio le tanto decantate nuove tecniche di contatto e discussione (social e piattaforme di ogni tipo) hanno determinato un peggioramento dell’informazione e della discussione su temi di rilevanza politica e sociale. Basti qui ricordare l’affermazione di Davide Casaleggio, presidente di Rousseau, non criticato o smentito dai leaders del suo partito, secondo cui il Parlamento prima o poi diventerà inutile, sarà il web ad esprimere la vera democrazia rappresentativa. Sono anche questi mutamenti sociali nel rapporto tra cittadini e loro rappresentanti, dunque, che richiedono il rafforzamento del Parlamento: altrimenti perché non ridurre i numeri delle due Camere a 100 deputati e 50 senatori?
“Allontanando sempre di più i rappresentanti dai cittadini e dal territorio, si accrescerà, anziché diminuire, il senso di sfiducia nei confronti del Parlamento e della democrazia costituzionale, favorendo la deriva verso una democrazia illiberale sul modello dell’Ungheria o della Polonia[6]”.
Non è neppure accettabile quanto viene affermato da molti sostenitori del “SI’” secondo cui le modifiche costituzionali in questione determineranno quanto meno l’approvazione o le modifiche di varie leggi, così valorizzando il taglio dei parlamentari.
Tra le leggi da modificare, grazie alla vittoria del SI’, vi è quella elettorale. Il P.D., anzi, che in Parlamento aveva votato tre volte contro le modifiche costituzionali cambiando sorprendentemente indirizzo – e votando a favore – la quarta volta, ha tentato di rendere presentabile il mutamento delle proprie posizioni giustificandolo con una sorta di immediato contrappeso: la promessa del Movimento 5 Stelle di un impegno, appunto, per l’approvazione di una nuova legge elettorale.
Ora, non vi è dubbio che occorra in Italia una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto pieno di espressione delle proprie preferenze con contestuale soppressione delle liste bloccate (secondo lo scrivente, sarebbe opportuna una legge con sistema proporzionale senza un’alta soglia di sbarramento), ma questa riforma determinerebbe “la ulteriore dilatazione del potere delle segreterie e soprattutto dei singoli leader nella selezione degli stessi parlamentari”[7]. In ogni caso, il mutamento della Costituzione, specie se relativo alla composizione dell’organo centrale delle democrazie, non può essere equiparato ad uno dei tanti punti di accordo politico che figurano nelle liste programmatiche dei partiti quando si “alleano” per dar vita ad una maggioranza di Governo o per superare le frequenti reciproche litigiosità.
A maggior ragione non può esserlo se si tratta di una vaga promessa di disponibilità, non a caso sin qui non mantenuta al pari di altri importanti impegni, come quello di attuare un serio e deciso mutamento di inaccettabili norme in materia di disciplina dell’immigrazione incluse nei decreti sicurezza del 2018 e del 2019 ed ispirate alla politica dei “porti chiusi” e della criminalizzazione del soccorso in mare.
Vale la pena di citare un’affermazione del presidente emerito della Consulta Giovanni M. Flick che, sostenendo il “NO” referendario, ha criticato le giustificazioni del P.D. citando, a proposito delle non mantenute promesse di scambio alla pari tra il sostegno alla riforma costituzionale e quello alla nuova legge elettorale, un detto frutto della saggezza araba: “vedere denaro per vedere cammello”. E’ come – ha poi detto sempre Flick, questa volta all’italiana – se si fosse attaccato il carro davanti ai buoi.
Insomma promesse e prospettive di riforme che restano non realizzate e che appaiono ancor meno credibili se solo si considerino gli atteggiamenti dei principali partiti che, salvo il M5S, non prendono posizione netta e chiara sul quesito referendario e, M5S incluso, si dividono al loro interno. Stupisce anche – va detto – il silenzio (tattico o strategico?) del Presidente del Consiglio del Ministri Giuseppe Conte su una questione che pure appare centrale per il suo Governo.
Sono vari altri i rischi che si determinerebbero in caso di vittoria del “SI”, tra cui quelli derivanti dal maggior potere che la coalizione di maggioranza pro tempore acquisirebbe in un Parlamento numericamente così ridotto.
A solo titolo di esempio:
- quello della tentazione delle maggioranze di turno di scegliersi il “loro” presidente della Repubblica quando invece la Costituzione vuole che chi è presidente lo sia di tutti. Senza contare che il peso relativo dei delegati regionali nel Parlamento in seduta comune sarà più forte, alterando il delicato equilibrio voluto dai Costituenti[8];
- l’identico rischio per l’elezione dei membri del CSM e dei giudici della Corte Costituzionale, in spregio delle scelte bilanciate che oggi tengono conto di tutte le culture istituzionali presenti nel Paese[9];
- il rischio di ridotta o mancata rappresentanza dei partiti minori (o di impossibilità di farne parte) in Uffici di presidenza e nelle molte giunte e commissioni parlamentari, previsti dai regolamenti di Camera e Senato[10], con connesse maggiori difficoltà nell’attività parlamentare: in particolare, le Commissioni sono il vero cuore dell’attività parlamentare sicchè si comprende “l’importanza della partecipazione dei parlamentari ai loro lavori e la scelta dei partiti di inviare in ciascuna Commissione i loro eletti maggiormente competenti in ciascuna materia: ma la riduzione del numero dei parlamentari complicherebbe il funzionamento di questo meccanismo[11]”;
- una realtà possibile, in caso di maggioranza politicamente orientata in tal senso, diventerebbero le Regioni ad autonomia differenziata, tali da snaturare l’assetto costituzionale del nostro Paese.
A fronte di questi ed altri rilievi, che possono essere approfonditi negli appelli a sostegno del NO sottoscritti da centinaia di eminenti costituzionalisti (di fronte ai quali alcuni pur autorevoli accademici di opposta opinione costituiscono una sparuta minoranza), viene fatta circolare una sorta di fosca previsione, dal carattere esclusivamente politico: se vincesse il “NO” cadrebbe il Governo in carica, con ogni immaginabile negativa conseguenza!
Orbene, questa possibilità (concreta o presunta che sia) non deve interessare gli elettori, al pari della finalità di “attacco” (con il NO o con il SI’) nei confronti di qualsiasi partito. Anzi, non è qui accettabile neppure la neutralità, che non è mai nobile in contesti così rilevanti: la difesa dei principi costituzionali, attraverso il sostegno al NO, è lontana dalle logiche di partito che tendono al comando dall’alto ed alla selezione dei fedelissimi da mandare in Parlamento, lontana dal populismo (rappresentato con la scenografia da circo dei tagli in piazza a poltrone di carta), lontana dall’antipolitica e dall’uso del termine “casta” per definire tutti i parlamentari, quasi che fossero tutti moralmente indegni.
Bisogna invece credere alla politica alta, a quella che è capace di interpretare i bisogni dei cittadini e di rappresentarli in un Parlamento a sua volta in grado di controllare e guidare l’Esecutivo senza essere mero strumento di ratifica delle sue scelte.
Vanno rifiutati, dunque, la pubblicità ingannevole e gli slogan su cui essa si fonda: la maggiore efficienza del Parlamento non si ottiene con la minore quantità, ma con la maggiore qualità dei suoi componenti. E tocca ai cittadini farsene carico, senza deleghe in bianco, ma cercando di sapere e capire.
A tal fine le riforme sono sempre possibili[12], ma soprattutto quelle della Costituzione devono essere precedute da approfondite e serie analisi della situazione generale del nostro Paese e del suo sistema democratico.
Il nostro impegno è quello di difendere il futuro (come ha detto il prof. Massimo Villone), anche diffondendo in questa occasione una corretta informazione sui contenuti e sulle possibili conseguenze del referendum del 20 e 21 settembre.
[1] Espressione efficace tratta da un testo del prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[2] Intervista a Giovanna Casadio pubblicata su La Repubblica.
[3] Intervista a Liana Milella pubblicata su La Repubblica, l’1.9.2020.
[4] “I numeri del referendum”, articolo del 4.09.2020.
[5] Da un testo del prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[6] Domenico Gallo: I numeri del referendum, 4.09.2020.
[7] Lara Trucco; Tre ragioni per il NO (Giustizia Insieme, 8 settembre 2020.
[8] Massimo Luciani, prof. di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma (Corriere della Sera, 27.8.2020.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Da un testo del Prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[12] In un suo testo a sostegno delle ragioni del “NO”, il prof. Francesco Pallante cita, ad es., rendere inemendabili da parte del Governo i decreti-legge; vietare i maxi-emendamenti governativi; circoscrivere l’utilizzabilità della questione di fiducia; aumentare le maggioranze di garanzia, vale a dire quelle necessarie per l’approvazione dei regolamenti delle Camere (attualmente basta la maggioranza assoluta), per la nomina del Presidente della Repubblica (attualmente basta la maggioranza assoluta dalla quarta votazione), per la revisione della Costituzione (attualmente basta la maggioranza assoluta per la seconda deliberazione); approvare una legge proporzionale senza alcuna soglia di sbarramento e con recupero dei resti a livello nazionale.
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