ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso decreto presidenziale monocratico
Con il decreto 628 del 25 08 2020 il Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Siciliana ha dichiarato il “non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso un decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a.
Nonostante l’appellabilità delle pronunce cautelari monocratiche sia testualmente esclusa dall’art. 56, c. 2, c.p.a., che qualifica esplicitamente come “non impugnabile” il decreto motivato con il quale il presidente o il magistrato da lui delegato provvede sulla domanda di parte ricorrente di concessione di misure cautelari provvisorie, non sono mancate pronunce che hanno ritenuto ammissibile l’appello di tali decreti (Cons Stato, Sez. IV, 7 dicembre 2018 n. 5971; Sez. III, 11 dicembre 2014 n. 5650; Id., 24 giugno 2019 n. 3246; Id., 30 marzo 2020 n. 1553. In dottrina per un primo commento v. M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione del’art 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid – 19, 31 marzo 2020).
La pronuncia del giudice di secondo grado siciliano si segnala pertanto per ribadire la chiara voluntas legis, nel senso della esclusione della possibilità di appellare il decreto cautelare monocratico.
Ma non solo.
La formulazione del dispositivo non si limita alla classica dichiarazione d’inammissibilità o irricevibilità dell’appello, ma statuisce il “non luogo a provvedere”. La motivazione ne chiarisce la ragione, sottolineando che era stato chiesto “un rimedio giuridico inesistente secondo il vigente tessuto processuale” e precisando che “sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti non vi è luogo a provvedere, perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l’affare all’esame del collegio”.
Sul piano teorico, una pronuncia d’inammissibilità dell'appello, o anche, volendo sottolineare la mancanza di un presupposto o di un requisito essenziali per poter considerare esistente l’atto processuale, di sua irricevibilità, avrebbe a ben vedere creato meno problemi sotto il profilo del rispetto del principio della domanda o del divieto di non liquet, come normalmente avviene nel giudizio di primo grado allorquando si esclude che l’atto sia impugnabile.
L'atipicità del dispositivo non sembra peraltro trovare specifica giustificazione nella circostanza, parimenti messa in evidenza nella motivazione della pronuncia, che “il ricorso risulta depositato e iscritto a ruolo mediante una “forzatura” del sistema informatico, con attribuzione della classificazione errata quale “appello avverso ordinanza cautelare”, essendo inesistente la tipologia “appello avverso decreto cautelare””. Anche sotto questo profilo, una pronuncia di semplice inammissibilità avrebbe evitato di porre il problema della rilevanza e della esatta qualificazione della difformità dal modello di deposito predisposto dal sistema informatico, ipotesi per la quale non può a priori e in assoluto escludersi la possibilità di qualificazione anche in termini di mera irregolarità.
"Pensiero causale e pensare complesso". Il diritto penale di Salvatore Aleo
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Pensiero causale e pensare complesso e la crisi del diritto penale classico – 2. L’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento e l’inquadramento dei fenomeni criminali complessi – 3. Il modello causale nel sistema penale italiano e il diritto penale della complessità – 4. L’insufficienza del modello causale rispetto all’inquadramento dei fenomeni criminali concorsuali, collettivi e organizzati: l’analisi del molteplice – 5. Conclusioni.
1. Pensiero causale e pensare complesso e la crisi del diritto penale classico
La recente pubblicazione di Pensiero causale e pensare complesso[1] di Salvatore Aleo, presso la Casa editrice Pacini di Pisa, ci offre lo spunto per riflettere sul tentativo portato avanti con successo nell’ultimo ventennio da questo Autore sulla crisi del diritto penale classico e sulle soluzioni perseguibili per adeguare i modelli provenienti dall’esperienza giuridica del secolo scorso, ormai insufficienti a inquadrare i fenomeni criminali complessi, concorsuali, collettivi o organizzati che siano, che dominano il mondo contemporaneo.
Questo lavoro, infatti, giunge a completamento di una lunga riflessione sulla necessità di adattare gli strumenti della repressione penale ai problemi della complessità posti dal mondo post-moderno, che, con specifico riferimento al tema delle applicazioni causali nel sistema penale, ha prodotto alcuni mirabili risultati scientifici, tra i quali ci si limita a citare le monografie, Sistema penale e criminalità organizzata[2], pubblicata nel 1999, Causalità, complessità e funzione penale[3], pubblicata nel 2003, Dei giuristi e dintorni[4], 2014, Codificazione e decodificazione[5], 2019, con le quali il presente lavoro si pone in una sorta di percorso omogeneo. È, del resto, lo stesso Salvatore Aleo a chiarire il significato scientifico più profondo di questa sua ulteriore riflessione sulla causalità – che ha il suo antecedente diretto nel citato Causalità, complessità e funzione penale – quando afferma nella prefazione della sua opera: «Non ho cambiato idea rispetto allo scritto di diciassette anni fa e anzi ne riproduco formalmente alcuni passaggi […], ma spero di riuscire sia ad allargare l’orizzonte conoscitivo e semantico, sia ad approfondire alcuni ragionamenti […]»[6].
Lo sforzo, dichiarato e riuscito, di Salvatore Aleo, dunque, è quello di affrontare il problema dell’insufficienza del modello causale a inquadrare le dinamiche dei fenomeni criminali complessi, tipici dell’epoca post-moderna, con i quali, da anni, il nostro Autore si confronta.
2. L’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento e l’inquadramento dei fenomeni criminali complessi
Per risolvere il problema dell’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento, infatti, non si può che partire dalle impostazioni teoriche proprie delle scienze giuridiche – tanto citate, quanto poco studiate[7], soprattutto dai giuristi delle nuove generazioni –, che l’Autore scandaglia in alcuni passaggi espositivi veramente esemplari, da cui partire per elaborare un percorso di rivisitazione che, pur partendo dalle scienze criminali, si avvale di altre discipline scientifiche in funzione di supporto alla teoria e definizione della responsabilità personale nel diritto penale.
L’Autore, infatti, ritiene che soltanto un approccio di natura multifunzionale, che tenga conto delle caratteristiche di diffusione e pervasività sul territorio dei fenomeni criminali complessi o particolarmente complessi, ci può fare comprendere la loro dimensione intrinsecamente sociale, la loro capacità di inquinamento dell’apparato economico e istituzionale, le connotazioni di pericolosità proprie di tali fenomenologie; e per fare questo, muovendo dai fondamentali studi ottocenteschi della dottrina tedesca sulla causalità, sviluppa un percorso epistemologico, che passa attraverso i diversi ambiti scientifici nei quali le teorie causali sono state applicate, con un attenzione particolare alla filosofia della scienza, alla quale si dedica l’intero ottavo capitolo, intitolato “Modelli di spiegazione nella filosofia della scienza e nei diversi ambiti scientifici”.
Secondo l’Autore, infatti, soltanto prendendo coscienza della complessità e della pervasività delle fenomenologie criminali dell’epoca post-moderna è possibile comprendere come la relazione giuridica tra due o più eventi è sempre la conseguenza della concomitanza di una pluralità di fattori, i quali si pongono in rapporto tra loro in termini non facilmente riconducibili ai modelli di analisi di tipo causale, soprattutto se ci si riferisce a condotte illecite multiformi e plurisoggettive. L’insufficienza delle analisi di tipo causale pone, però, il problema della necessità di accelerare la ricerca di modelli nuovi e più aggiornati, ma soprattutto idonei a rappresentare fenomeni criminali complessi o organizzati che non sono facilmente riducibili all’interno degli schemi con i quali le teorie sulla causalità storicamente tentano di inquadrare tutte le condotte delittuose: tanto quelle semplici quanto quelle complesse, tanto quelle individuali quanto quelle plurime, tanto quelle collettive quanto quelle associative.
Senza considerare che l’approccio causale appare inadeguato anche sotto un diverso profilo, rappresentato dal fatto che il concetto di causalità riguarda la spiegazione di eventi che interferiscono con il corso degli accadimenti che può essere considerato come normale; mentre, tale approccio appare inadeguato a spiegare fenomeni sociali di particolare complessità, che possono essere determinati da una pluralità di cause concomitanti, tra loro eterogenee, ovvero da una pluralità di elementi funzionalmente rilevanti. Tali considerazioni, portate avanti con esemplare lucidità, spingono Salvatore Aleo, in un passaggio fondamentale del suo lavoro, ad affermare, che la «causalità è uno schema logico-conoscitivo espressione di una logica di tipo semplice, binaria, e formale, che presuppone la predefinizione astratta e generale delle tipologie entro cui possono essere ricondotti gli eventi considerati […]», da cui discende che è «impossibile la tipizzazione di tutte le situazioni che possono capitare nella realtà, e le nozioni giuridiche finiscono così per essere […] criteri di orientamento del giudizio, e della relativa argomentazione […]»[8].
D’altra parte, è proprio l’esigenza di una conoscenza concreta delle dinamiche che sottostanno ai fenomeni criminali complessi dell’epoca post-moderna a mettere in crisi i modelli di analisi causale, in considerazione del fatto che gli stessi, inevitabilmente, finiscono per decontestualizzare la condotta illecita dall’ambiente circostante all’agente e dalle relazioni interpersonali che influenzano le sue azioni, individuando, allo scopo di realizzare queste condizioni astratte, un normotipo criminoso nella realtà inesistente e sfalsando così il punto di osservazione necessario per la valutazione dell’illiceità dei comportamenti criminosi che si pretende di spiegare, ma che invece non si riescono a inquadrare. Il percorso attraverso il quale si sostanzia l’analisi causale, a ben vedere, punta a soddisfare l’esigenza di dimostrare, in modo semplicistico, che la condotta di un agente, in un contesto illecito, può essere ritenuta la causa di un determinato evento delittuoso soltanto se, in sua assenza, l’evento medesimo non si sarebbe verificato, prescindendo da qualsiasi valutazione sui modelli operativi concretizzati utilizzati; semplificazioni che portano a risultati fortemente distonici nel sistema penale, come nei casi dell’esposizione di moltitudini di persone all’azione di sostanze patogene[9], della causalità dell’omissione[10], su cui l’Autore si sofferma confrontandosi con alcuni capisaldi del pensiero giuridico contemporaneo[11].
Così, però, difficilmente si riescono a enucleare da un contesto illecito le condotte individuali che possono essere ritenute condizione indispensabile per la costituzione o il mantenimento in vita del milieu criminale, in considerazione del fatto che in un contesto concorsuale, collettivo o organizzato, nessuna condotta può essere, salvo casi eccezionali, ritenuta indispensabile, essendo al contrario necessario che si prendano in considerazione, in termini di funzionalità, le loro relazioni di reciproco affidamento e il programma criminoso nell’ambito del quale gli stessi devono essere necessariamente inquadrati e valutati[12].
3. Il modello causale nel sistema penale italiano e il diritto penale della complessità
Il modello causale, invero, così come prefigurato dal sistema penale italiano, non tiene in debito conto il fatto che nelle interazioni sociali e soprattutto nei comportamenti concorsuali o riferibili alle collettività, non necessariamente organizzate, il singolo agente agisce sempre in modo simultaneo ai membri del contesto di riferimento, concorrenti o associati che siano, con la conseguenza che è plausibile che lo stesso abbia a disposizione più di una causa che potrebbe dare luogo a un determinato effetto. Nella stessa direzione, appare altrettanto probabile che il suo comportamento sia influenzato dalle condotte degli altri soggetti che condividono il progetto concorsuale o operano all’interno della stessa collettività e sia orientato dalla consapevolezza e dalla volontà di contribuire con la sua condotta funzionale alla realizzazione di uno scopo più o meno condiviso[13].
Il pensiero espresso dall’Autore, in quest’opera straordinaria, appare allora chiaro: le impostazioni ermeneutiche di ispirazione causale sono inadeguate a ricostruire e a inquadrare i fenomeni criminali complessi, anche in considerazione del fatto che, in presenza di più condotte riconducibili a un unitario disegno criminale, che ad esempio può costituire un progetto concorsuale articolato o la concretizzazione di una vasta e ramificata struttura associativa, non sempre risulta agevole selezionare le cause determinanti nel processo volitivo di un singolo agente, senza stravolgere le regole del suo percorso intellettivo che non è, se non raramente, conoscibile, con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di accertamento dell’elemento soggettivo del reato.
La dimensione sociale di un fenomeno criminale concorsuale, collettivo o organizzato, infatti, influisce in modo significativo sulla valutazione delle condotte individuali dei soggetti che vi contribuiscono e lo alimentano, attraverso comportamenti non facilmente riconducibili a modelli generali e astratti, per le quali risulta indispensabile la preventiva valutazione del progetto su cui si fonda l’esistenza stessa della collettività e del grado di affidamento soggettivo preventivo, che nella dimensione – come detto concorsuale, collettiva o organizzata – ciascuno degli aderenti fa sul ruolo e sulla disponibilità soggettiva degli altri individui.
Secondo Salvatore Aleo, in questi casi, per valutare l’effettivo grado di coinvolgimento, penalmente rilevante, di ciascuna condotta illecita, a prescindere dalla sua riconducibilità a un modello normativo canonizzato dal sistema penale, ci si deve porre nelle condizioni idonee a potere valutare ognuna di tali condotte alla luce degli obiettivi illeciti perseguiti[14].
Di questo percorso sono esemplare rappresentazione le conclusioni formulate dall’Autore in tema di organizzazioni criminali, laddove afferma che è necessario comprendere che ogni singolo aderente deve potere fare preventivamente affidamento sulle prestazioni degli altri affiliati, il cui vincolo rappresenta la risultante della reciprocità delle aspettative sulle prestazioni dei consociati, valutabile in termini funzionali, nella prospettiva della realizzazione di un progetto criminoso che viene perseguito grazie alle loro prestazioni coordinate. Il singolo agente, quindi, può essere considerato il responsabile di uno delitto riconducibile alla consorteria di riferimento nella sola misura in cui la sua condotta è funzionale alla realizzazione del progetto associativo, con la conseguenza che il suo contributo alla realizzazione di una tale attività delittuosa può anche risultare di modesta entità e risultare ugualmente sanzionabile.
Si tratta, ritiene Salvatore Aleo, di una conclusione inevitabile, se si considera che un sodalizio criminale si avvale sempre di contributi soggettivi che si pongono in rapporto di collegamento funzionale diretto rispetto al programma della collettività organizzata, di modo che ciascun comportamento è comprensibile soltanto in funzione degli scopi illeciti perseguiti dall’organizzazione e appare giustificabile soltanto in relazione al perseguimento degli obiettivi programmati[15].
4. L’insufficienza del modello causale rispetto all’inquadramento dei fenomeni criminali concorsuali, collettivi e organizzati: l’analisi del molteplice
Il problema, tuttavia, è che queste condotte illecite, secondo il modello causale classico, sono di difficile inquadramento dal punto di vista della legge penale, in considerazione del fatto che nessuno tra i comportamenti che si sono presi in esame fino a questo momento possono essere ritenuti condicio sine qua non dei comportamenti criminosi connotati da complessità, concorsuale, collettivi o organizzati che siano. In queste ipotesi, infatti, nessuna di queste condotte può essere ritenuta indispensabile per il perseguimento degli obiettivi illeciti sanzionati dalla norma penale, in ragione del fatto che generalmente tali condotte non sono mai necessarie alla concretizzazione delle finalità sanzionate dalla fattispecie penale; il che ripropone il problema del sincronismo tra realtà criminale e tipicità formale, non del tutto risolto dalla scienza penalistica italiana, salvo autorevoli eccezioni[16].
Queste peculiarità sistematiche, d’altra parte, non devono mai impedire di ricercare la prova dell’illiceità dei singoli comportamenti delittuosi, evitando i rischi di un’inammissibile semplificazione probatoria, di cui l’Autore è pienamente consapevole, giustificata dall’esistenza di condotte – come detto concorsuali, collettive o organizzate – pericolose e dalla loro astratta riconducibilità a un progetto criminoso più o meno complesso. Un’opzione metodologica di questo tenore, infatti, finirebbe per determinare un inammissibile ricorso a criteri oggettivi in tema di valutazione della responsabilità penale del singolo agente[17].
Il problema principale, allora, è quello di prendere atto dell’insufficienza delle impostazioni causali, ai fini dell’inquadramento delle condotte illecite connotate da complessità esecutiva – come quelle concorsuali, collettive o organizzate –, in considerazione del fatto che lo stesso non sempre risulta idoneo, soprattutto nelle ipotesi più complesse, a spiegare le dinamiche dei comportamenti soggettivi, ma, cosa ancora più problematica, non riesce a fornire un modello di imputazione e di conseguente attribuzione della responsabilità coerente con le sue premesse scientifiche, dando vita a soluzioni applicative che, a prescindere dalla fedeltà semantica alle nozioni tipiche della causalità, finiscono per ricorrere a parametri eterogenei e non condizionalistici.
In questa cornice, esemplari appaiono i richiami effettuati da Salvatore Aleo alla sfera di operatività delle organizzazioni criminali, esaminata attraverso una prospettiva che, richiamando la teoria generale dell’organizzazione[18], consenta di valutare tutte le relazioni funzionali, oggettive e soggettive, esistenti all’interno del consesso criminale e il grado di reciproco condizionamento dei singoli apporti individuali. Soltanto questo modello di analisi funzionale del comportamento criminoso consente di differenziare la responsabilità dell’affiliato per i singoli reati-fine rispetto a quella per l’appartenenza al sodalizio, distinguendo ogni apporto in relazione alla struttura e al programma consortile[19].
Questa posizione ermeneutica, del resto, mi sembra non dissimile dalla giurisprudenza di legittimità consolidatasi nel corso dell’ultimo quindicennio, che, al di là degli incondizionati richiami semantici al principio di causalità, sembra avere superato una visione rigida della causalità penale per descrivere i più complessi fenomeni di criminalità organizzata, imponendo modelli di analisi della responsabilità penale più flessibili. La Corte di cassazione, dunque, sembra avere preso atto delle implicazioni negative che l’applicazione incondizionata del modello causale, in assenza di un’analisi approfondita delle peculiarità sistematiche delle figure delittuose associative, comporta per la valutazione della responsabilità penale, anche in conseguenza della particolare complessità dei fenomeni criminali attraverso i quali si concretizzano le condotte consortili[20].
Non è, pertanto, possibile imporre modelli di analisi dei fenomeni associativi – soprattutto se particolarmente complessi – senza avere compreso le dinamiche interpersonali che connotano tali realtà criminali e le interazioni funzionali esistenti tra le varie componenti del sodalizio considerato. Questa, del resto, è la ragione che induce a ritenere necessario per la comprensione dei comportamenti delittuosi consortili un modello di analisi che tenga conto delle peculiarità sistematiche di tali figure criminose, nelle quali l’illiceità di una condotta di contiguità a una consorteria può essere valutato soltanto ex post e con le garanzie proprie del processo penale[21].
5. Conclusioni
Consiglio sinceramente a quanti avranno la possibilità di farlo di leggere l’illuminante Pensiero causale e pensare complesso di Salvatore Aleo, accostandosi al suo percorso scientifico, al contempo originale e convenzionale, che aiuterà il lettore a meglio comprendere la crisi irreversibile del diritto penale classico e i possibili rimedi per fare fronte a questo inarrestabile processo, dall’interno del sistema penale e con le garanzie proprie del nostro impianto costituzionale.
[1] S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, Pacini, Pisa, 2020.
[2] S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 1999.
[3] S. Aleo, Causalità, complessità e funzione penale, Giuffrè, Milano, 2003.
[4] S. Aleo, Dei giuristi e dintorni, Giuffrè, Milano, 2014.
[5] S. Aleo, Codificazione e decodificazione, Giuffrè, Milano, 2019.
[6] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 7.
[7] Il riferimento effettuato nel testo riguarda soprattutto gli scritti fondamentali – e come detto sempre meno approfonditi dalle nuove leve di studiosi delle scienze criminali – di M. von Buri, Über kausalität und deren Verantwortung, J.M. Gebhardt’s Verlag, Leipzig, 1883; nonché di K. Engisch, Die Kausalität als Merkmal der strafrechtlichen Tatbestände, Mohr, Tübingen, 1931, ai quali l’Autore si riferisce diffusamente in diversi passaggi della sua esposizione.
[8] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 203.
[9] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., pp. 195-197.
[10] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., cit., pp. 197-199.
[11] Ci si riferisce soprattutto a M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Giuffrè, Milano, 1992; F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2001.
[12] Si tratta di posizione già espresse in S. Aleo, Causalità, complessità e funzione penale, cit., pp. 34 ss.
[13] Si tratta di posizione già espresse in S. Aleo, op. ult. cit., pp. 34 ss.
[14] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 219.
[15] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., pp. 219-222.
[16] Queste posizioni, tra l’altro, risultano espresse in S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, cit., pp. 20-22, che, con particolare, riferimento alla sfera di operatività delle organizzazioni criminali nostrane, costituisce il più lucido intervento presente in materia.
[17] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 219-220.
[18] Per la quale si rinvia, soprattutto, a L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi (1969), trad. it., Mondadori, 2010.
[19] Si rinvia, ancora, a S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, cit., pp. 20-22.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, in C.E.D. Cass., n. 231671-01
[21] Si veda Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33748, cit.
"Rückkehr unerwünscht" [1]
Il fisioterapista dell’Ajax di Cruyff, le ferrovie e la Shoah.
di David Cerri
“Vedete, come potete lasciare che 25.000 ebrei, o persone o diciamo mucche, come potete lasciare che 25.000 bestie spariscano durante il tragitto? […] Avete mai visto 25.000 persone ammucchiate? […] Avete mai visto anche solo 10.000 persone ammucchiate? Equivalgono a cinque treni merci e mettiamo che stipaste i treni merci secondo il modello della polizia ungherese, con tutta la buona volontà non riuscireste a far entrare più di 3.000 persone in un treno.”
Gli interlocutori di Eichmann non riuscivano di certo a immaginare quanti problemi dovesse affrontare un organizzatore di un’operazione di sterminio.
“È incredibilmente difficile fare un carico su un treno, che si tratti di buoi o di sacchi di farina […] e quando si tratta di caricare delle persone le cose sono molto più complicate, soprattutto se si devono fare i conti con certe difficoltà.” [2]
Quando pensiamo alla Shoah, probabilmente una delle prime immagini che si affacciano alla mente è quella dell’ingresso di Auschwitz-Birkenau, con quei binari che si arrestano alla rampa sulla quale veniva operata la prima selezione dei deportati. Essa ha un significato tecnico, oltre che fortemente emotivo: scolpisce un indispensabile strumento dello sterminio, il trasporto ferroviario. Dai paesi dell’Europa occupata, dapprima le ferrovie nazionali curavano il viaggio di quelli che sarebbero presto diventati dei semplici Stücke (“pezzi”), poi dall’ingresso in territorio tedesco o direttamente amministrato (come la Polonia) la responsabilità ricadeva sulla Reichsbahn. Ebrei (la grande maggioranza), Sinti, Rom, erano caricati sui carri bestiame che tutti conosciamo dai media, e magari abbiamo anche visto di persona in qualche installazione espositiva.
Il ruolo giocato dalle ferrovie nella distruzione degli ebrei d’Europa [3] è già stato considerato dagli storici [4], ma se oggi ne riparliamo è a causa delle perenne attualità della Shoah, ferita che non si rimargina, e grazie ad un sopravvissuto che ha fatto della memoria di quei trasporti una battaglia per l’affermazione della responsabilità storica e giuridica degli enti che vi avevano collaborato, e per il conseguente risarcimento dei danni subiti.
Mi riferisco a Salo Müller, ebreo olandese oggi 84enne [5], ragazzino di 5 anni salvatosi per caso dal rastrellamento, che, dopo che ad Amsterdam i familiari erano saliti su quei carri, diretti dapprima al campo di transito di Westerbork, e di là ad Auschwitz [6], aveva evidentemente giurato a sé stesso di non tacere. Una vita di lavoro come (celeberrimo) fisioterapista dell’Ajax di Cruyff degli anni ’70 non gli ha fatto dimenticare i 107.000 ebrei olandesi - sì, tra di loro anche Etty Hillesum ed Anna Frank, la seconda con l’ultimo treno del settembre 1944 - che grazie alle ferrovie olandesi, le Nederlandse Spoorwegen, erano giunti ad una od all’altra delle famigerate rampe dei Lager.
93 treni erano partiti dall’Olanda tra il 1942 ed il 1944; e, colmo di una tragica beffa, con passeggeri che pagavano per andare alla morte. Il colossale sforzo organizzativo che ebbe come protagonisti figure note – come Adolf Eichmann – e meno note – come Albert Ganzenmüller – aveva infatti anche notevoli costi; e quale soluzione migliore di quella di farne pagare la maggior parte alle vittime, in particolar modo tramite i prelievi dai fondi delle comunità ebraiche ? i migliori clienti della Reichsbahn, Himmler e la Gestapo, avevano concluso buoni accordi con l’ente ferroviario, grazie ad una burocrazia del tutto cieca al loro contenuto ed attenta solo a conseguire la massima efficienza. Il costo era quello del biglietto di terza classe (4 Pfennig a testa per chilometro) ma – somma generosità – i bambini fino a dieci anni per quella sola andata pagavano la metà, ed i minori di quattro addirittura nulla…[7] ma la Gestapo (agenzia promotrice) non aveva fondi in bilancio appositamente stanziati e doveva ricorrere all’autofinanziamento; così gli oneri furono trasferiti sugli enti che gestivano la confisca delle proprietà ebraiche, oppure sulle stesse comunità.
La sorveglianza dei treni era affidata alla Ordnungspolizei, composta in buona parte da quegli “uomini comuni” da cui trae il titolo il noto volume di Browning; come egli scrive, questi poliziotti, tra i quali riservisti e personale di mezza età, vedevano in faccia i deportati, li fucilavano se tentavano fuggire, descrivevano nei loro rapporti i viaggi, senza apparentemente batter ciglio [8].
Eichmann tutti lo conoscono, ma solo le ricerche degli ultimi anni [9], con la scoperta di nuovo materiale documentario, ne hanno chiarito la figura propulsiva nel processo dello sterminio, contro l’abuso che si è fatto di una espressione pur straordinariamente efficace come quella coniata dalla Arendt nel suo resoconto del processo di Gerusalemme (la “banalità del male”), che nella realtà storica mal si attaglia ad un simile protagonista, principale organizzatore delle deportazioni all’interno della Reichssicherheitshauptamt (all’Ufficio IV B4 della RSHA, Direzione generale per la Sicurezza del Reich, uno dei dipartimenti delle SS); ma forse essa è più adatta alle migliaia e migliaia di ferrovieri, di diverse nazionalità, che non potevano ignorare quale compito stessero contribuendo a svolgere, ed ancor di più a tutto il personale aziendale che si occupava di una complessa operazione come quella della deportazione di massa. Ai loro vertici, in Germania, c’era l’ingegner Ganzenmüller, nazista della prim’ora (aveva partecipato con Hitler al fallito putsch di Monaco del ’23), che nel 1942 scriveva orgogliosamente, dalla sua scrivania di direttore generale f.f. della Reichsbahn (fresca nomina suggerita da Albert Speer[10]) all’aiutante personale di Himmler, Karl Wolff, di esser riuscito a realizzare il trasporto quotidiano di ebrei da Varsavia a Treblinka e di esser in procinto di garantire simili trasporti al campo di Sobibor; così garantendosi l’elogio ed il ringraziamento di Wolff: ”E’ con gioia tutta particolare (mit besonderer Freunde) che ho letto come da due settimane, ogni giorno, un treno con 5000 componenti del popolo eletto viene fatto partire per Treblinka…” [11]: il primo treno era arrivato a quel campo il 23 luglio 1942. L’ultimo Sonderzug (trasporto speciale) fu probabilmente quello del 15 aprile 1945, da Vienna a Theresienstadt, che nonostante tutte le difficoltà del momento gli impareggiabili uffici di Eichmann riuscirono a far partire.
Anche Ganzenmüller, per la cronaca, riparò in Argentina dopo la guerra, tornando poi in Germania nel 1955 e superando pressochè indenne un processo (grazie alle condizioni di salute), fino ad una morte (spero non serena) a 91 anni a Monaco [12].
“Il problema dei trasporti è fondamentale, e come tale deve essere risolto…Qui le buone maniere non servono. Io non so che farmene delle buone maniere, e non mi importa nel modo più assoluto di ciò che i posteri diranno dei metodi che ho dovuto impiegare”. [13]
Ora, quando si affrontano simili questioni - del come sia stato possibile per diecine, centinaia di migliaia di persone, facenti parte degli apparati burocratici ed aziendali coinvolti nello sterminio, gestire quotidianamente una simile impresa al pari della produzione e vendita, per es., di bulloni – talvolta si tende ad immaginare che sia stato un periodo eccezionale, straordinario; che la guerra in corso, l’indottrinamento continuo, la minaccia di severe sanzioni per i rifiuti, siano stati strumenti sufficienti per indurre all’obbedienza generalizzata. Forse (e purtroppo) non è esattamente così, e si possono evidenziare – senza alcuna ambizione di una vera analisi storico-sociologica, ovviamente – alcune caratteristiche del sistema dello stato totalitario nazista. Ho scritto ”purtroppo” perché alcuni tipi di organizzazione sociale sono probabilmente ripetibili, mutatis mutandis, anche in altri ordinamenti ed in altre epoche.
In primo luogo, seguendo l’interpretazione di uno dei più noti studiosi della Shoah, Raul Hilberg, va notato come anche nel caso dei trasporti l’assegnazione di specifici ruoli al personale (la “parcellizzazione”, per così dire, della complessa operazione) consentisse – ovviamente in presenza di un coordinamento centrale: ho ricordato solo alcune delle posizioni apicali dell’azienda, come Ganzenmüller, e della RSHA, come Eichmann, entrambi in stretto collegamento con Himmler attraverso la catena di comando – di superare ostacoli organizzativi di prima grandezza, senza rinunciare ad un attenta considerazione del rapporto costi/ricavi: la Reichsbahn era “preparata a trasportare ebrei, o qualsiasi altro gruppo, dietro compenso” [14].
Scrive ancora Hilberg: “Fondamentalmente, gli Ebrei furono distrutti come conseguenza di una molteplicità di atti eseguiti da una falange di funzionari in uffici pubblici od imprese private, e molte di queste misure, presa una ad una, si rivelavano essere burocratiche, immerse nell’abitudine, nella routine, e nella tradizione” [15].
I funzionari e gli impiegati, vorrei notare, non avevano alcuna specifica preparazione per la trattazione degli affari razziali: erano “tecnici” il cui lavoro, tra l’altro, non era tutelato da particolari misure di segretezza, a differenza – per esempio – dei trasporti militari (ma si veda tra poco un accenno alle “modalità” delle comunicazioni).
Lo svolgimento pratico dei trasporti evidenziava poi un – voluto, nella logica dello sterminio – effetto collaterale: come scrive[16] Hilberg, gli ebrei erano “gestiti (booked) come persone, e trasportati come bestiame”. Per chi non avesse presenti le condizioni all’interno dei carri bestiame, sarà sufficiente rileggere la lettera da Westerbork di Etty Hillesum del 24 agosto 1943 (“Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa ne potete capire voi?”[17]), o il primo Canto (“Canto della banchina”) de L’istruttoria di Peter Weiss, con la trascrizione in versi liberi dei verbali del processo di Francoforte[18].
La “carriera morale” del deportato, per riprendere un’espressione coniata da Erving Goofman a proposito delle “istituzioni totali” (come carceri, ospedali psichiatrici, orfanotrofi [19]) iniziava con la chiusura dei portelloni del vagone, al buio, senza aria, acqua, cibo, servizi di alcun genere, per giorni e giorni, nell’indescrivibile lezzo che era parte essenziale di quello che è stato descritto da uno studioso come “excremental assault”[20].
I burocrati tedeschi che con la loro competenza contribuirono alla distruzione degli Ebrei furono tutti parte integrante dell’Erlebnis [21], gli uni si incaricarono della parte tecnica – redigere un decreto o organizzare un convoglio -, gli altri appostati con fermezza alla porta di una camera a gas. Potevano percepire l’enormità dell’operazione fin dai ranghi più bassi. In ogni stadio del processo, diedero prova di stupefacenti talenti da pionieri in assenza di direttive, di coerenza nelle attività, quando mancava un’organizzazione giuridica, di una comprensione fondamentale del compito che dovevano eseguire, nel momento in cui non venivano date comunicazioni esplicite.[22]
Altra caratteristica, comune all’esecuzione della “soluzione finale” in tutti i suoi aspetti, era l’attenzione a non usare mai termini espliciti nella pur imponente documentazione scritta necessaria alla gestione del servizio. Il modello hitleriano di comando era usato anche nella pratica quotidiana; non sembra ci sia mai stato un ordine scritto del Führer di procedere allo sterminio, ma le sue indicazioni ai principali collaboratori (e a dire il vero le sue esplicite, benchè generiche, esternazioni pubbliche, da Mein Kampf al discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939) erano ben chiare: stava a loro eseguirle, quando necessario “inventando” le strategie migliori. Così anche per ie deportazioni; rari i documenti come quelli citati (lo scambio tra Ganzenmüller e Wolff), classificati Geheim (segreti), ma inevitabili le anodine Fahrplananordnungen (tabelle di marcia), eloquenti per la ricostruzione dei fatti: riportavano il numero dei deportati, il percorso, la destinazione. Così, per esempio, dalla F. n.587 (che si vede in Shoah di Lanzmann, nell’intervista a Hilberg [23]) si ricava che il 1 ottobre del ’42, alle ore 11:24, 10.000 ebrei arrivarono a Treblinka, e che il treno (50 vagoni) ripartì vuoto.
La battaglia di Salo Müller aveva avuto un precedente nell’ammissione di colpa delle ferrovie francesi (SNCF): tra il 1941 ed il 1944 160.000 persone erano state deportate dalla Francia (76.000 delle quali per motivi razziali) [24]. Nel 2010 il presidente delle SNCF aveva ammesso che la SNCF, benchè costretta, era stata un ingranaggio della macchina di sterminio nazista; lo aveva fatto perché l’azienda era sotto pressione da alcuni stati U.S.A. perché ne fosse consentita la partecipazione ad importanti gare d’appalto: ma lo aveva fatto, creando un sistema per la presentazione di reclami e richieste di risarcimento, che nel 2014 avrebbe riconosciuto un totale di 49.000.000 di euro [25].
Nel 2018, sono state le ferrovie olandesi a capitolare di fronte alla campagna promossa da Müller, per conto dei circa 500 sopravvissuti allo sterminio, e di oltre 5.500 familiari di vittime, cui sono stati destinati poco meno di 50.000.000 di euro.
Ora è la volta della Deutsche Bahn, “erede” aziendale della Reichsbahn; gli avvocati di Müller si sono rivolti alla società e direttamente alla Cancelliera Angela Merkel, chiedendo che venga pubblicamente assunta la responsabilità morale e giuridica delle deportazioni; per ora, il governo tedesco ha dichiarato che “la Germania, ovviamente, è ritenuta responsabile dei crimini del regime nazista”, e che “Non dimenticheremo mai i crimini commessi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Fino ad oggi ci riempiono di grande sgomento e vergogna”. Deutsche Bahn negli anni ’90 aveva in effetti creato una Fondazione per la Memoria, la Responsabilità e il Futuro, avviando nel 2010 un progetto a beneficio dei sopravvissuti alle deportazioni.
Tutto lascia pensare che Salo non si accontenterà di altre promesse.
[1] “Ritorno non desiderato”: la classificazione dei treni speciali per le deportazioni.
[2] B.Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, LUISS U.P., 2017 ed.digit.
[3] Uso l’espressione di R.Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, (1985) Einaudi, 1995.
[4] Tra tutti R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, German Railroads, Jewish Souls, Berghahn Books,2020; H.Lichtenstein, Mit der Reichsbahn in den Tod : Massentransporte in den Holocaust 1941 bis 1945, Bund-Verlag, 1985; v.la sintesi di S.Gigliotti, The Train Journey. Transit Captivity and Witnessing in the Holocaust, Berghahn Books, 2010. Sulle deportazioni in generale R.Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cap.VIII, p.417 ss.
[5] Il sito web di Müller: https://www.salomuller.nl/ (solo in lingua olandese).
[6]V. il suo libro See You Tonight and Promise to Be a Good Boy! (le parole con le quali sua madre lo salutò a scuola poche ore prima di essere arrestata) , Amsterdam Publishers, 2017.
[7] S.Gigliotti, op.cit., p.40. Per i “gruppi”, peraltro (e cioè quasi sempre: oltre i 400 viaggiatori) scattava lo sconto del 50%.
[8] C.Browning, Uomini comuni, (1992), Einaudi, 1995; in particolare il cap. IV, p.28 e ss. con alcuni esempi di relazioni degli ufficiali in comando dei trasporti.
[9] B.Stangneth, op. cit.
[10] Sul punto v. lo stesso A.Speer, Memorie del Terzo Reich, (1969), Mondadori, 1995 p.266 ss., e G.Sereny, In lotta con la verità, (195) Rizzoli, 1998, p.385 ss.
[11] R.Hilberg, op. cit., p.507.
[12] Per una sintesi della vita di Ganzenmüller v. la relativa voce in Wikipedia.
[13] Così Adolf Hitler, verbale del 1942, citato da A.Speer , op. cit. p.268-269.
[14] Hilberg lo afferma in German Railroads, Jewish Souls, riprodotto in R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op.cit., p.26, e nel celebre film documentario di C.Lanzmann, Shoah (1985).
[15] R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op. cit., p.1 (ns. trad.)
[16] R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op. cit., p.26 (ns. trad.)
[17] E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, 1990, p. 132.
[18] P.Weiss, L’istruttoria, (1965), Einaudi, 1966, p.13-39. Tra il 1963 ed il 1965 si svolse a Francoforte il primo processo veramente significativo a carico di SS e funzionari di Auschwitz. E si noterà tra l’altro come alcuni dei testimoni, partecipi delle operazioni con le ferrovie all’epoca delle deportazioni, fossero attualmente (anni ’60) dirigenti delle ferrovie della Repubblica federale.
[19] E.Goffman, Asylums, (1961), Einaudi, 1968.
[20] T.Des Pres, The Survivor: An Anatomy of Life in the Death Camps. New York: Oxford U.P., 1976, p.51 ss.
[21] Erlebnis: “una realtà vissuta passo dopo passo da coloro che vi hanno preso parte”: R.Hilberg, op. cit., p.1075.
[22] R.Hilberg, op. cit., p.1075.
[23] Se ne legge nell’articolo di E.Äsbrink, The Holocaust Was an Attempt to Erase Millions of People, Time 21.04.2020 (https://time.com/5824342/holocaust-remembrance-documents/)
[24] S.Klarsfeld, Vichy-Auschwitz, La “solution finale” de la question juive en France, Fayard, 2001.
[25] Il comunicato di Guillaume Pepy del 4.11.2010 si legge in https://www.prnewswire.com/news-releases/statement-by-guillaume-pepy-chairman-of-sncf-regarding-sncfs-role-in-world-war-ii-wwii-106716278.html.
Titolo edilizio rilasciato in sanatoria e limiti temporali per l’annullamento d’ufficio (nota a Tar Lazio, Sez. II quater, 17 luglio 2020, n. 8258)
di Angelo Giuseppe Orofino
Sommario: 1. La vicenda fattuale e la soluzione accolta dal Tar. – 2. 2. La «ragionevolezza» del termine di adozione del provvedimento di ritiro prima delle riforme del 2015. – 3. Lo «sbarramento» dei diciotto mesi e la legittimità dell’annullamento. – 4. Il termine iniziale ed il termine finale. – 5. Il mancato decorso del termine per difficoltà collegate all’acquisizione del fascicolo procedimentale e le motivazioni dell’autotutela. – 6. Gli ambiti interessati dalla riforma. – 7. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda fattuale e la soluzione accolta dal Tar
Con la sentenza che si annota il Tar Lazio si è pronunciato sulla legittimità di un atto di riesame per mezzo del quale un’amministrazione comunale ha disposto l’annullamento di ufficio di un titolo edilizio, dopo che era abbondantemente trascorso il termine previsto dall’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio dello ius poenitendi, e senza che l’ente avesse offerto una esplicitazione delle ragioni di interesse pubblico, ulteriori rispetto a quelle conseguenti al ripristino della presunta legalità violata, sottese all’adozione dell’autotutela.
La vicenda, in particolare, si è articolata nel corso di un decennio, ed ha avuto inizio con il rilascio di un permesso di costruire per mezzo del quale, nel 2009, l’amministrazione comunale aveva assentito la realizzazione di tre edifici residenziali.
È, però, accaduto che, all’esito di un sopralluogo effettuato nel 2010, la polizia municipale ha disposto il sequestro preventivo di due dei tre manufatti oggetto del permesso di costruire, per via di talune difformità tra quanto assentito nel titolo edilizio e quanto effettivamente edificato.
Ne è seguito l’avvio di un procedimento penale, definito solamente nel novembre 2018 con una sentenza di estinzione del reato, per intervenuta prescrizione.
Medio tempore il Comune, avendo qualificato le difformità contestate al costruttore come parziali rispetto all’intervento assentito, e ritenendo che esse non fossero eliminabili senza pregiudizio delle parti conformi degli edifici, ha provveduto ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, alla cosiddetta «fiscalizzazione dell’abuso»; ciò ha consentito che nel 2010 l’ente rilasciasse un permesso di costruire in sanatoria.
All’esito del deposito, nel 2018, della sentenza di prescrizione dell’illecito, vi è stato un atto di impulso del privato costruttore, intenzionato a terminare la realizzazione degli edifici; a tale impulso ha fatto seguito un provvedimento con il quale il Comune ha, nel 2019, annullato in autotutela il procedente permesso di costruire in sanatoria, rilasciato nel 2010.
Giudicando sul gravame proposto dalla società destinataria del titolo edilizio, il Tar lo ha accolto, giacché ha ritenuto sussistenti due distinti profili di invalidità dell’atto di ritiro.
Un primo elemento invalidante è stato rinvenuto nel lungo lasso temporale (di circa dieci anni) intercorrente tra il provvedimento di sanatoria dell’abuso e quello di adozione del provvedimento di riesame. Ha ritenuto il Tar che non valesse a sospendere il decorso del termine la circostanza che medio tempore il carteggio relativo all’edificazione del fabbricato fosse stato acquisito dal giudice penale, per formare parte del fascicolo processuale. Si è affermato, infatti, nella sentenza che, per ovviare al problema causato dal sequestro dei documenti da parte dell’autorità giudiziaria, l’amministrazione avrebbe dovuto rendersi parte diligente attivandosi in via preventiva, con l’effettuazione di copie da mantenere presso gli uffici comunali, ovvero in via successiva, mediante la richiesta di un duplicato del fascicolo dibattimentale.
Ulteriore profilo invalidante, poi, è stato ravvisato nella circostanza che il Comune avesse adottato il provvedimento di secondo grado senza corredarlo di un apparato motivazionale che servisse a chiarire le ragioni di interesse pubblico, attuale e concreto, collegate alla rimozione del provvedimento di sanatoria, che fossero ulteriori e diverse rispetto a quelle collegate ad una presunta legalità violata e, soprattutto, prevalenti sull’affidamento medio tempore maturato in capo alla società destinataria del titolo edilizio.
2. La «ragionevolezza» del termine di adozione del provvedimento di ritiro prima delle riforme del 2015
Un primo profilo affrontato nella sentenza in esame è, dunque, quello relativo alla congruità del lasso temporale entro cui occorre adottare gli atti di riesame.
Come è noto, prima che con la l. n. 15/2005, in sede di riforma della l. n. 241/1990, si provvedesse ad una codificazione dei procedimenti di secondo grado, mancava una disciplina positiva dell’annullamento d’ufficio: la indicazione di termini per l’esercizio dei poteri di autotutela era recata solo da poche norme settoriali, ma non vi erano disposizioni di carattere generale.
Nel silenzio del legislatore, la fissazione dei tratti essenziali dell’istituto la si è dovuta al costante lavorio giurisprudenziale che, con il supporto ed il pungolo della dottrina, ha provveduto ad elaborare una serie di regole sull’autoannullamento.
Come è facilmente intuibile, i problemi di maggiore complessità si sono avuti con riferimento alla individuazione di un eventuale limite temporale entro il quale le funzioni di riesame dovessero essere esercitate e, contestualmente, con riferimento al rilievo da attribuire all’eventuale fiducia nutrita dal privato in ordine alla legittimità dei provvedimenti riesaminati.
Si trattava, all’evidenza, di questioni certamente ispirate anche da connotazioni ideologiche e dal modo di concepire il rapporto amministrativo ed il ruolo delle amministrazioni.
All’esito delle trasformazioni amministrative che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, e che sono culminate con il riconoscimento di strumenti partecipativi e conoscitivi in capo ai cittadini, vi è stata una evoluzione pure degli istituti di autotutela, la cui fisionomia ha risentito certamente della esigenza di tutelare, oltre agli interessi pubblici, anche l’affidamento nutrito da cittadini in ordine alla legittimità dei provvedimenti ad essi favorevoli.
In un momento storico in cui si coltivavano dubbi sulla circostanza che il canone di buona fede potesse illuminare le relazioni tra cittadini ed amministrazioni[1], e l’interesse pubblico era ancora concepito come un qualcosa di interno all’amministrazione, che se ne faceva interprete ed esecutrice[2], le posizioni (ed aspirazioni) dei privati apparivano recessive rispetto all’esigenza di ripristino della legalità violata dall’atto riesaminando[3].
Si è, dunque, affermato che i procedimenti di ritiro «non incontrano né limiti di diritti quesiti, che non possono sorgere da atti invalidi, né limiti di tempo»[4], e che «il potere di annullamento […] non incontra alcun limite nei diritti od interessi spettanti ad altri soggetti, perché sopra gli atti invalidi non può basarsi nessun diritto o tutela giuridica»[5].
Con l’evolversi delle tutele ordinamentali, però, si è iniziato a riconoscere – dapprima cautamente, per via di alcune voci non allineate rispetto agli orientamenti maggioritari[6] e quindi, col trascorrere degli anni, più risolutamente e vigorosamente[7] – che a distanza di lungo tempo dalla emanazione dell’atto potrebbe assumere rilievo prevalente la valutazione in merito alla inopportunità di incidere su posizioni soggettive oramai consolidatesi: sotto questo profilo si è sostenuta la necessità di una attualità dell’interesse pubblico alla autotutela, intesa come apprezzamento sulla persistenza dei presupposti che giustificano il riesame, giacché non sarebbe sufficiente una ipotetica valutazione dell’interesse all’eliminazione dell’atto invalido compiuta con riferimento a situazioni sussistenti all’epoca in cui lo stesso venne emanato, ma cessate al momento della sua rimozione[8].
Sicché si è affermato che – pur non essendo il potere di riesame sottoposto a prescrizione – esso debba confrontarsi con il tempo passato dall’emanazione del provvedimento viziato, così che il maggior intervallo intercorso renda più disagevole la dimostrazione dell’interesse pubblico al ritiro[9].
L’evoluzione ordinamentale ha, come noto, portato ad una maggiore protezione delle esigenze di difesa dei cittadini e dell’affidamento da essi coltivato nel rapporto con i poteri pubblici[10], sicché – anche sulla spinta offerta dalle posizioni dottrinarie, e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia[11] – una parte consistente della giurisprudenza ha attribuito sempre maggiore rilievo al decorso del tempo, quanto meno quando tale decorso avesse portato al consolidamento di posizioni in capo ai destinatari dell’atto riesaminando[12].
Ciononostante, sono persistiti orientamenti meno garantisti tesi a giustificare procedimenti di autoannullamento adottati a distanza di anni[13], soprattutto quando volti al recupero di somme indebitamente erogate[14].
Le oscillazioni sussistenti[15], hanno indotto a stigmatizzare la poca chiarezza degli approdi giurisprudenziali in materia[16], ed a sottolineare come le corti – lungi dall’aderire a posizioni ben definite – frequentemente hanno offerto soluzioni contingenti e, per così dire, di compromesso, perché ispirate dalla necessità di dare una risposta concreta alle varie vicende di volta in volta sottoposte alla loro attenzione[17].
È, dunque, apparso opportuno che, in sede di riforma della l. n. 241/1990[18], il legislatore disciplinasse i poteri di autoannullamento, con disposizione avente valenza generale[19], nella quale stabilisse le condizioni ed i limiti per l’esercizio di tale potere.
Tanto è stato fatto con l’introduzione dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990, in virtù del quale «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21 octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
La disposizione, dunque, ha confermato l’idea della delimitazione temporale dei poteri di autoannullamento.
E però, la locuzione «termine ragionevole» adoperata dalla norma recava in sé evidenti incertezze applicative connesse alla imprecisione del sintagma utilizzato[20], che lasciava aperte molte soluzioni pratiche in ordine alla valutazione in merito alla congruità del lasso temporale intercorso tra il primo provvedimento e il successivo ritiro.
In giurisprudenza si sono affacciate tesi non sempre collimanti[21].
Si è, quindi, affermato che la valutazione sulla ragionevolezza del termine di adozione del provvedimento di riesame va fatta tenendo conto dei contrapposti interessi in gioco, ma anche ponendo attenzione alla circostanza che il decorso del tempo contribuisce al consolidamento della posizione del privato, oltre che alla perdita di attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto[22].
Si è, altresì, sostenuto che, ai fini della comparazione degli interessi, assume rilievo anche il profilo dell’efficacia del provvedimento, essendo evidente come la efficacia permanente o, comunque, non ancora esauritasi dell’atto (perché, ad esempio, differita o intermittente) esalta l’interesse alla sua eliminazione (onde evitare il prodursi di ulteriori effetti), laddove l’efficacia istantanea del provvedimento (ancorché con conseguenze permanenti) richiede una più accurata valutazione della ragionevolezza del termine di esercizio del potere e, dunque, della prevalenza dell’interesse pubblico[23].
Si è, poi, detto che l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 – con il richiamo al termine ragionevole – aveva posto un parametro indeterminato ed elastico, finendo così per lasciare all’interprete il compito di individuare in concreto la adeguatezza del termine, in considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti[24] e del relativo affidamento maturato dal privato, anche in ragione del lasso di tempo trascorso[25].
Come già accennato, l’evidente vaghezza del parametro adoperato, ha portato ad applicazioni perplesse e, per molti versi, contrastanti[26].
Pertanto, nel mentre si è ritenuto illegittimo l’annullamento di una concessione edilizia in sanatoria a distanza di undici anni dal suo rilascio[27], o di una Dia dopo quattro anni dal suo perfezionamento[28], ovvero ancora, la revoca dopo sette anni di un contributo, quando oramai l’intervento finanziato era stato già realizzato[29], si è contraddittoriamente affermato che, per quanto concerne l’annullamento dei permessi di costruire, la ragionevolezza del termine deve essere altresì rapportata a quanto prescritto dall’articolo 39 del d.P.R. n. 380/2001[30] il quale, nel disciplinare il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla loro adozione il limite massimo entro cui la potestà può essere esercitata[31]. Parimenti, si è ritenuto legittimo il provvedimento con cui si è intervenuti in autotutela su di un intervento assentito sette anni prima, giacché i lunghi tempi occorsi all’amministrazione per emendare la propria azione avrebbero dovuto essere calati nella peculiarità della fattispecie concreta e nella complessità delle vicende che la hanno caratterizzata[32].
Quelli appena evidenziati sono solo alcuni dei molteplici orientamenti espressi dalla giurisprudenza amministrativa, che ovviamente non esauriscono la complessità degli indirizzi formatisi sul punto.
Ciononostante, appaiono sufficientemente paradigmatici di un approccio alla materia poco incline alla ricerca di soluzioni certe e prevedibili, ma al contrario spesso pervicacemente ancorato alle vicende contingenti, sottese al giudizio, oltre che alla maggiore o minore sensibilità del giudicante per gli interessi pubblicistici perseguiti con il provvedimento di riesame o, al contrario, per le ragioni di stabilità invocate dal privato.
3. Lo «sbarramento» dei diciotto mesi e la legittimità dell’annullamento
È apparsa, dunque, evidente la necessità di garantire soddisfazione all’esigenza di certezza nei rapporti fra amministrazione e privati, giacché non è sembrato plausibile che gli assetti di interessi fondati su di un provvedimento (quand’anche illegittimo) fossero rimessi in discussione a distanza di un lungo periodo, laddove oramai si fosse consolidato l’affidamento ingenerato dai privati sulla stabilità di tali assetti[33], irrobustito dal decorso del tempo[34].
È doveroso evidenziare che la stessa esigenza è alla base di un istituto come l’inoppugnabilità[35], il cui perfezionarsi rende incontestabile un atto amministrativo, pur quando illegittimo, senza che ciò crei scandalo o disappunto[36].
Onde soddisfare l’esigenza di porre un limite temporale alla potestà di adozione degli atti di ritiro, con l’art. 6, comma 1, lett. d), numero 1), della l. 124/2015, si è modificato l’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241/1990[37], indicando il limite di diciotto mesi come termine massimo per l’adozione del provvedimento di riesame[38].
La formula adoperata dal legislatore della riforma ha suscitato non pochi interrogativi, innanzitutto con riferimento alla perentorietà del termine indicato dall’art. 21 nonies novellato.
Ci si è, cioè, domandati se il decorso dei diciotto mesi renda sempre e comunque invalido un intervento sul precedente provvedimento illegittimo, o se tale regola subisca dei temperamenti, ulteriori rispetto a quelli esplicitati dalla stessa disposizione[39].
Una risposta positiva all’interrogativo innanzi esposto, rischierebbe di creare troppa rigidità[40], non consentendo alle amministrazioni, quando se ne ravvisi la necessità (magari correlata alla tutela di particolarissime esigenze di interesse pubblico), di correggere i propri precedenti errori. Il che potrebbe persino porre problemi di costituzionalità della norma, per violazione dei canoni di buon andamento ed imparzialità, tutte le volte in cui l’inutile decorso del tempo concesso per il riesame, non consenta di rimediare a soluzioni palesemente inadeguate[41].
D’altro canto, una risposta negativa all’interrogativo, rischierebbe di vanificare la portata innovativa dell’intervento di riforma, e gli effetti benefici (soprattutto in termini di certezza dei rapporti giuridici) che tale intervento intende conseguire.
Il problema – messo in luce da autorevole dottrina[42] – si è manifestato nella sua evidente complessità anche alle corti chiamate ad applicare l’art. 21 nonies, ed ha dato luogo ad esegesi sofferte e contrastanti.
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale la disposizione in parola ha definito in maniera puntuale la scansione temporale entro cui le pubbliche amministrazioni possono esercitare il potere di autoannullamento, sicché il precedente e vago criterio del «termine ragionevole», ha assunto una dimensione temporale ben definita, coincidente con il limite dei diciotto mesi decorrente dal momento dell’adozione dei provvedimenti ampliativi della sfera giuridico patrimoniale del privato[43]. Si è addirittura proposta una esegesi della novella volta a valorizzarne il carattere interpretativo, piuttosto che novativo, con conseguente utilizzabilità delle disposizioni con essa recate anche per scrutinare la legittimità di provvedimenti adottati prima della sua entrata in vigore[44].
Non è mancato, però, chi ha interpretato riduttivamente (o, addirittura, disapplicato) la riforma. Con una attuazione particolarmente dilatata del principio tempus regit actum si è, quindi, detto che le nuove prescrizioni si applicano solamente quando anche i provvedimenti oggetto di riesame (e non solo quelli con i quali si interviene sui primi) siano venuti in essere in data successiva all’entrata in vigore della novella[45].
Un filone intermedio e maggioritario ha invece ritenuto che, per i provvedimenti adottati prima dell’entrata in vigore della riforma apportata all’art. 21 nonies per mezzo dell’art. 6, comma 1, della l. n. 124/2015, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della novella legislativa, giacché una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di irretroattività della legge e finirebbe con il limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio dei poteri di ritiro, tutte le volte in cui i diciotto mesi per l’adozione dell’atto di secondo grado siano già decorsi (o siano prossimi al decorso) al momento in cui la riforma è entrata in vigore[46].
Infine, in talune occasioni, con una giurisprudenza poco ossequiosa dello sbarramento temporale previsto dall’art. 21 nonies, si è affermato che la complessità dell’azione svolta dall’amministrazione, in uno con la rilevanza degli interessi pubblici interessati dall’atto di riesame (nel caso di specie: pubblica incolumità e tutela paesaggistica), depongono in senso inversamente proporzionale rispetto alla brevità del termine ragionevole, dilatandone la durata in considerazione della preminenza degli interessi perseguiti[47].
Nella decisione in commento, il Tar non prende posizione tra gli orientamenti innanzi illustrati, ma si limita a stigmatizzare la irragionevolezza del lasso temporale adoperato per l’adozione dell’atto di ritiro, che – visto il periodo quasi decennale intercorso – appare certamente troppo ampio, anche quando non si ritenga di dover applicare il parametro dei diciotto mesi introdotti dalla riforma del 2015[48].
4. Il termine iniziale ed il termine finale
Ed è proprio l’ampiezza del lasso temporale (come detto, quasi decennale) all’esito del quale è intervenuto il provvedimento di autotutela, oltre che la mancanza di specifiche doglianze o eccezioni sul punto, a fare in modo che la sentenza in rassegna non prenda posizione su di un altro tema di evidente rilievo: quello relativo al limite massimo entro il quale deve essere adottato il provvedimento di secondo grado.[49]
Si tratta di questione non del tutto risolta, ancorché paia trovare (almeno in parte) una soluzione nel testo dell’art. 21 nonies, il quale dice chiaramente che i diciotto mesi vanno computati «dal momento dell’adozione dei provvedimenti» destinati ad essere rimossi in sede di riesame[50].
Si è, però, ritenuto che ai fini del decorso del termine non vada fatto riferimento al momento in cui l’atto è stato adottato, ma piuttosto a quello in cui ha acquisito efficacia[51]. Sicché, quando il ritiro abbia ad oggetto atti interni (come può essere un provvedimento di aggiudicazione provvisoria) il limite temporale non sarebbe applicabile[52].
Lo stesso limite non sarebbe invocabile, poi, quando il provvedimento riesaminando[53] sia stato ottenuto sulla base di una erronea rappresentazione dei fatti, dolosamente o colposamente prodotta dal privato[54], e sempre che l’amministrazione, per via di tale errata rappresentazione, non sia stata messa in condizione di percepire i profili di illegittimità posti alla base dell’atto di ritiro[55].
Quanto al dies ad quem, secondo un indirizzo minoritario, per il rispetto dell’art. 21 nonies è sufficiente che nel lasso temporale indicato dalla norma si dia avvio alle attività procedimentali volte a stimolare il riesame, così da evitare il formarsi di qualsivoglia affidamento in ordine alla legittimità ed alla stabilità dell’atto oggetto di ritiro[56].
A tale indirizzo ha fatto da contraltare un più corposo orientamento secondo cui dal testo letterale della norma si ricava che l’annullamento deve intervenire (e non solo essere preannunciato) entro i diciotto mesi[57], giacché una diversa esegesi della disposizione si presterebbe a prassi elusive quale sarebbe, ad esempio, quella di avviare un procedimento che si chiuda anni dopo[58].
Quest’ultima tesi appare preferibile, giacché più garantista e maggiormente aderente al testo della legge. La prima si manifesta, invece, ispirata dall’esigenza di salvaguardare gli interessi pubblici interessati dal procedimento di secondo grado, quando la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela – fornendo consapevolezza in capo ai privati delle ragioni di illegittimità dell’atto da ritirare – impedisca il formarsi di affidamenti qualificati.
5. Il mancato decorso del termine per difficoltà collegate all’acquisizione del fascicolo procedimentale e le motivazioni dell’autotutela
Nella vicenda scrutinata nella pronuncia in rassegna, consapevole della difficoltà di spiegare la propria inerzia quasi decennale, l’amministrazione comunale afferma di non aver adoperato maggiore tempestività per via della indisponibilità del carteggio relativo al titolo edilizio, medio tempore acquisito agli atti del giudizio penale.
Nelle difese svolte dall’ente appare evidente il richiamo a quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria, secondo cui non può iniziare a decorrere il termine quando l’amministrazione, incolpevolmente, non sia nelle condizioni di attivare i propri poteri di riesame. Ha, infatti, argomentato il supremo consesso che la locuzione «termine ragionevole» richiama un concetto non parametrico, ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie, sicché la nozione di ragionevolezza deve essere strettamente connessa a quella di esigibilità di un onere di diligenza in capo all’amministrazione, e dunque sarebbe del tutto congruo che il termine decorra soltanto dal momento in cui la p.a. sia venuta a conoscenza (o avrebbe dovuto esserlo) dei profili fattuali posti alla base dell’atto di ritiro[59].
Invocando l’orientamento poc’anzi riassunto, il Comune intimato sostiene che il proprio ritardo sarebbe incolpevole giacché propiziato dal sequestro del fascicolo da parte dell’autorità penale.
Il Tar dissente da tale argomentazione, ed afferma che, ove solo l’ente avesse usato maggiore accortezza, avrebbe potuto trarre una copia di riserva dell’intera documentazione o, comunque, avrebbe potuto acquisirla presso il tribunale penale, senza dover intervenire tardivamente.
L’organo decidente, poi, stigmatizza la mancanza, nell’atto di riesame, di una motivazione specifica in merito all’interesse pubblico che sorregge l’adozione del provvedimento di ritiro, non ritenendo sufficienti le vaghe argomentazioni recate dall’ente in ordine alla persistenza degli abusi asseritamente realizzati dal costruttore[60].
Così operando, il Tar aderisce alla tesi già sostenuta dall’Adunanza plenaria[61] che, nel dissentire da un filone giurisprudenziale secondo cui l’interesse all’annullamento di un titolo invalido sarebbe in re ipsa e consisterebbe nel mero vantaggio collegato al ripristino della legalità violata[62], ha invece affermato che l’amministrazione deve esplicitare «le ragioni di interesse pubblico» che, ai sensi dell’art. 21 nonies, debbono essere poste in relazione con «gli interessi dei destinatari e dei controinteressati», e debbono essere rese note nel provvedimento di autotutela, così da consentirne un più penetrante sindacato giurisdizionale o, quanto meno, il vaglio da parte dei cittadini interessati.
La necessità di un robusto apparato motivazionale appare vieppiù necessaria quando l’atto riesaminando abbia già esplicato i suoi effetti, anche in considerazione della discrezionalità che caratterizza i procedimenti di riesame[63], a fronte della quale si rende più evidente la necessità di garantire un apparato di strumenti di controllo sull’esercizio di tale discrezionalità.
E l’impianto argomentativo deve essere ancora più vigoroso quando, con il trascorrere di un lungo lasso temporale, appare vivo l’affidamento coltivato sulla legittimità del titolo riesaminato e, nel contempo, più flebile l’interesse dell’amministrazione al ritiro[64].
In tal senso, dunque, appare perfettamente in linea con le enunciazioni rese dall’Adunanza plenaria il percorso argomentativo svolto nella sentenza in rassegna, laddove si stigmatizza l’invalidità, del provvedimento di riesame adottato dal Comune intimato.
6. Gli ambiti interessati dalla riforma
Ancorché la pronuncia in commento non affronti la questione, poche parole devono essere spese in merito ad un ultimo elemento di rilievo: quello relativo agli ambiti nei quali si applica il limite sancito dall’art 21 nonies.
La disposizione sembra circoscrivere lo sbarramento temporale dei diciotto mesi unicamente ai «provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici», laddove per gli altri provvedimenti varrebbe solo la soglia correlata alla ragionevolezza del termine.
La perplessità della formula usata dal legislatore risalta in tutta la sua evidenza ove si consideri che quello posto dall’art. 21 nonies è un limite dai confini molto labili visto che, per tracciarlo, occorre definire la nozione di «provvedimento di autorizzazione», e quella di «provvedimento attributivo di vantaggi economici».
Ma soprattutto, si tratta di limite dalla ratio incerta: quest’ultima può, forse, essere individuata nella necessità di concedere una tutela più vigorosa all’affidamento dei cittadini quando vengano in rilievo atti di autorizzazione o attributivi di vantaggi economici e, al contrario, nel garantire con maggiore attenzione gli interessi pubblici sottesi al riesame per tutti gli altri provvedimenti esclusi dal novero delle autorizzazioni o di quelli attributivi di vantaggi economici.
Anche la spiegazione appena offerta appare, però, poco convincente e foriera di incertezze.
Non è un caso se una parte della giurisprudenza – facendo leva sul carattere interpretativo, piuttosto che novativo, della riforma[65] – ha ritenuto applicabile la disposizione (con il termine che essa reca) a tutti i provvedimenti ampliativi della sfera giuridico patrimoniale di un soggetto[66], ed anche a quelli con cui si sia proceduto alla ridefinizione in peius del trattamento economico di un pubblico dipendente e al recupero delle somme medio tempore corrisposte[67].
Non è, però, mancato chi ha, invece, aderito a diversa opinione, ed affermato che sfuggano al limite temporale dei diciotto mesi i procedimenti non puntualmente inquadrabili tra quelli indicati dall’art. 21 nonies[68].
Il che impone di comprendere a quali categorie faccia riferimento la norma nel momento in cui parla di autorizzazioni e di provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
Con riferimento alla prima categoria, parrebbe opportuno domandarsi se il legislatore dell’art. 21 nonies abbia inteso recepire l’elaborazione dottrinaria che ha costruito i provvedimenti autorizzativi come quelli volti a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto, ovvero abbia adoperato il termine in maniera atecnica. E però, quale che sia la risposta data al quesito innanzi posto, rimarrebbero comunque rilevanti le perplessità suscitate dal testo normativo, ove si consideri che anche l’uso in senso proprio del vocabolo «autorizzazione» non offrirebbe solide basi esegetiche, se è vero che «la formula e i sistemi classificatori su di essa fondati appaiono sempre più insidiati e svuotati dall’evoluzione dell’ordinamento e dalla difficoltà di applicarli in modo soddisfacente»[69].
Ancora più incerta, poi, è la individuazione dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
La locuzione usata dall’art. 21 nonies sembra fare riferimento alla formula adoperata dall’art. 12 della L. n. 241/1990, la cui rubrica reca, per l’appunto: «Provvedimenti attributivi di vantaggi economici». In virtù di quanto previsto dal testo della norma, sono ricompresi nella categoria disciplinata dall’art. 12 gli atti con cui si disponga «la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati».
Secondo quanto affermato da autorevole dottrina, la previsione recata dall’art. 12, non avrebbe portata generale, ma sarebbe limitata alle erogazioni senza corrispettivo[70]; altri autori hanno, al contrario, ritenuto che la disposizione trovi spazio in tutte le obbligazioni pubbliche[71]
Anche la giurisprudenza è apparsa divisa: da un lato si è affermato che l’art. 12 sarebbe applicabile ai soli provvedimenti con cui si concedano finanziamenti, agevolazioni finanziarie o contributi pubblici[72], ma non anche alle abilitazioni all’esercizio di attività aventi rilievo economico e imprenditoriale[73], ed alle procedure in cui si applichino le norme sull’evidenza pubblica[74]. Talaltra si sono, invece, fatti rientrare nella categoria, in maniera generica e onnicomprensiva, tutti gli atti da cui derivassero «vantaggi economici» latamente intesi[75], come anche le assegnazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica[76], gli affidamenti di appalti di servizi «esclusi»[77], le concessioni di servizi pubblici[78], le procedure di selezione del personale[79].
Non essendo chiare le nozioni alle quali l’art. 21 nonies fa riferimento, era prevedibile che anche l’esegesi della disposizione desse luogo ad applicazioni contrastanti e sofferte.
Per averne riprova, basti considerare che, ai fini dell’autoannullamento, sono stati ritenuti riconducibili alla categoria del «provvedimento attributivo di vantaggio economico» gli atti di un appalto per la erogazione di servizi in ambito sanitario[80] , laddove si è, al contrario, ritenuto non vi rientrassero gli atti di una gara aperta avente ad oggetto la concessione di servizi per l’affidamento di una residenza sanitaria assistenziale[81].
È forse per superare le difficoltà di cui si è detto che spesso la giurisprudenza ha stigmatizzato l’illegittimità di provvedimenti di autotutela adottati oltre il termine di diciotto mesi, senza porsi il dubbio della loro riconducibilità alle due categorie (autorizzazioni e atti attributivi di vantaggi economici) richiamate dall’art. 21 nonies.
7. Riflessioni conclusive
La pronuncia in rassegna pare muoversi con disinvoltura nel complesso quadro innanzi tracciato, ispirata dalla giusta esigenza di dare adeguata tutela all’interesse di un cittadino, indebitamente inciso da un intempestivo esercizio dello jus poenitendi dell’amministrazione che, dopo aver concesso un permesso di costruire in sanatoria, a distanza di molti anni dall’adozione dell’atto oggetto di ritiro, ha ritenuto di rimeditare l’opinione precedentemente espressa, e lo ha fatto con un provvedimento che è apparso più ispirato ad un formale rispetto della legalità asseritamente violata, che al reale perseguimento di un interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio.
Per questo, la sentenza appare molto legata alla peculiarità (e paradossalità) del caso concreto.
Ciononostante, quella annotata rimane una pronuncia certamente interessante ed utile ad offrire un contributo di chiarezza in un ambito nel quale si cerca di costruire certezze.
Il tema del decorso del tempo nella materia dell’autotutela è, del resto, strettamente collegato a quello della ricerca di punti fermi e, dunque, di stabilità.
Come già evidenziato da autorevole dottrina, le misure di liberalizzazione e di semplificazione, mediante le quali il legislatore intende stimolare lo sviluppo e la ripresa economica, rischiano di non produrre gli effetti desiderati, giacché «se le amministrazioni (o i giudici) possono negare sine die la validità e l’efficacia originaria dei titoli per difetto dei presupposti richiesti dal complesso e complicato quadro normativo di riferimento, i notai non stipulano, le banche non concedono mutui, gli investitori non possono disporre dei beni realizzati o conseguiti con l’indispensabile margine di tranquillità»[82].
È, dunque, oltremodo opportuno chiarire le modalità, i termini, ed i presupposti, entro i quali è possibile procedere in autoannullamento di precedenti atti, così da offrire alcune garanzie, necessarie anche per propiziare una (sempre più auspicabile) ripresa economica, ancor più necessaria all’esito delle ulteriori difficoltà create dalla situazione pandemica.
* * *
[1] Ricorda F. MERUSI, Introduzione, in ID., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni «trenta» all’«alternanza», Milano, 2001, 2, che «quando apparve L’affidamento del cittadino (1970) la dottrina italiana affermava che il principio di buona fede non era applicabile nel diritto amministrativo». Sulla tutela dell’affidamento v., da ultimo, M.T.P. CAPUTI JAMBRENGHI, Il principio del legittimo affidamento, in M. RENNA, F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 159, anche per indicazioni bibliografiche.
[2] V. OTTAVIANO, Poteri dell’amministrazione e principi costituzionali (1964), ora in ID., Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1992, 13; ID., Cittadino e amministrazione nella concezione liberale (1988), ora in ID., Scritti giuridici, vol. I, cit., 33; F.G. SCOCA, Attività amministrativa, in Enc. dir., VI agg., Milano, 2002, 75.
[3] F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo (1911-1914), ristampa con note di aggiornamento a cura di G. Miele, Padova, 1960, 653, il quale, chiarendo le ragioni dei poteri di autotutela attribuiti alle amministrazioni, le individuava: a) nella circostanza che gli atti e le pretese delle p.a. possono presumersi conformi a giustizia; b) nell’importanza degli interessi (pubblici) perseguiti dalle amministrazioni; c) nel fatto che «l’amministrazione è una delle tre funzioni della sovranità epperò logicamente partecipa della coercizione, che alla sovranità è inerente e che in questo senso è una tradizione storica costante» (op. loc. ult. cit.). In termini L. RAGNISCO, Revoca e annullamento di atti amministrativi, in Foro it., III, 1907, 280 e spec. 302
[4] F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, cit., 656.
[5] G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, VIII ed., vol. I, 1958, Milano, 323.
[6] A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi (1916), rist. anast. Padova, 1986, 401: «Non sembra che la facoltà di annullamento sia soggetta a decadenza; il decorso del tempo ha normalmente soltanto per effetto di assoggettarlo a maggiori formalità e garanzie». V., poi, S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, III ed., Padova, 1937, 291; ID., Annullamento (Teoria dell’) nel diritto amministrativo (1937), ora in ID, Scritti minori, vol. II, Milano, 1990, 327 e spec. 333: «Quando […] come risulta da parecchie disposizioni sopra citate, l’annullamento può aver luogo “in qualunque tempo”, non si ha di regola nessun ostacolo assoluto a che venga annullato un atto amministrativo che, nonostante la sua invalidità, si sia mantenuto lungamente in vita. Piuttosto è da valutarsi se questa sua persistenza attraverso un più o meno ampio periodo di tempo […] non abbia determinato il venir meno dell’interesse da parte della pubblica Amministrazione ad annullarlo».
[7] P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, IV ed., 1972, 452; A.M. SANDULLI, Diritto amministrativo, IX ed., Napoli, 1989, 731.
[8] In argomento v. E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II; Milano, 1958, 484; F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), ivi, vol. IV, 1959, 537.
[9] R. VILLATA, L’atto amministrativo, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, IV ed., Bologna, 2005, 767 e spec. 871.
[10] G. GALLONE, Annullamento d’ufficio e sorte del contratto, Bari, 2016, 21.
[11] V. CERULLI IRELLI, Introduzione, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 1 e spec. 37; D.U. GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 52; A. BARONE, Nomofilachia comunitaria e funzioni interne, Bari, 2008, 162; G. GRECO, Il potere amministrativo nella (più recente) giurisprudenza del giudice comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, 816 e spec. 839; M. SINISI, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2015, 333; M.A. SANDULLI, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. PORTALURI (a cura di), L’amministrazione pubblica nel prisma del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2017, 125; C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018, 188; P. OTRANTO, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi, n. 14, 2020, 235.
[12] Cons. St., sez. I, 23 ottobre 1981, n. 384; Cons. St., sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1141.
[13] Cfr. Cons. St., sez. V, 29 ottobre 1985, n. 353, dove si sostiene che in materia di esercizio dei poteri di autotutela non esistono termini perentori che limitino la p.a., essendo sufficiente che il potere stesso sia esercitato in ragionevole collegamento logico e causale con la situazione illegittima da rimuovere: di conseguenza si è reputato non illegittimo l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia per il solo fatto che l’amministrazione conoscesse ormai da alcuni anni l’abusività del fabbricato. In termini Cons. St., sez. V, 16 ottobre 1989, n. 641.
[14] Cons. St., sez. V, 31 dicembre 2003, n. 9263; Cons. St., sez. IV, 8 agosto 2003, n. 4043. In entrambi i precedenti innanzi richiamati viene detto che l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela dell’illegittimo inquadramento di un pubblico dipendente è in re ipsa, poiché la permanenza dell’atto invalido implica un danno per la p.a., datrice di lavoro, consistente nell’esborso sine titulo di denaro pubblico.
[15] R. VILLATA, L’atto amministrativo, cit., 871.
[16] Il riferimento è al pensiero di M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., vol. II, Milano, 1993, 583.
[17] Vengono in mente le parole di A. PIRAS, Invalidità (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, 599: «La giurisprudenza non si è mai occupata di questioni teoriche, non si è mai preoccupata di giustificare gli orientamenti che ha seguito o gli atteggiamenti che ha assunto: ha anzi preferito lasciarsi guidare dalle esigenze pratiche dei giudizi lungo strade diverse da quelle battute dalle ricerche dogmatiche».
[18] La riforma è stata operata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15. In particolare l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 è stato introdotto dall’articolo 14, comma 1, della l. n. 15/2005.
[19] Cfr. C. DEODATO, Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in Federalismi, n. 7, 2017, 1.
[20] Cfr. F. BASSI, Lezioni di diritto amministrativo, VIII ed., Milano, 2008, 135, il quale addebita la grossa confusione terminologica sussistente in materia di autotutela, nonché i contorni piuttosto sfumati sotto il profilo concettuale che caratterizzano l’istituto, alla sua genesi consuetudinaria ed alla mancanza, per lungo tempo, di un testo normativo che abbia provveduto a regolamentarlo compiutamente.
[21] Significativo quanto affermato da T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 14 gennaio 2016, n. 47, dove si legge: «È noto che l’espressione “entro un termine ragionevole”, contenuta nella versione originaria dell’art. 21 nonies, ha occupato non poco la dottrina e la giurisprudenza nell’opera di elaborazione, in assenza di parametri costituzionali di riferimento, di criteri uniformi di misurazione del tempo entro il quale la p.a. può esercitare lo ius poenitendi ed intervenire su posizioni giuridiche acquisite, valorizzandosi talora il tempo in sé, quando l’amministrazione ha chiari gli elementi fondamentali dai quali si deduce l’illegittimità del provvedimento, grazie all’attività istruttoria espletata in precedenza, altre volte gli effetti che medio tempore sono stati prodotti dal provvedimento. Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso quindi dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il quale sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso di detto termine».
[22] Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 816.
[23] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 19 dicembre 2019, n. 14591.
[24] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 settembre 2015, n. 11008.
[25] T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 17 marzo 2015, n. 292.
[26] Sul punto cfr. V. ANTONELLI, Commento all’art. 21 nonies, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, cit., 662, ma anche N. PAOLANTONIO, Considerazioni su esecutorietà ed esecutività del provvedimento amministrativo nella riforma della l. 241/90, in Giustamm.it, 2005.
[27] Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625; Cons. St., sez. VI, 14 novembre 2014, n. 5609.
[28] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II quater, 9 gennaio 2015, n. 241.
[29] T.A.R. Sardegna, sez. I, 3 dicembre 2015 n. 1150.
[30] Lamenta il mancato coordinamento tra l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 e l’art. 39 del T.U. edilizia M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi, n. 18, 2019, 1 e spec. 30.
[31] Così T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 27 maggio 2015, n. 2936; in termini T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 2 febbraio 2012, n. 1141; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 21 maggio 2013, n. 1338.
[32] Cons. St., sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3173.
[33] Su questi temi v. già gli studi di F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, cit., 92. Sulla necessità che le amministrazioni «riflessive» rivedano i termini delle proprie statuizioni, quando ciò sia necessario a fronteggiare situazioni di rischio v. A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, 2006, 85.
[34] Sul punto v. G. BARONE, Autotutela amministrativa e decorso del tempo, in Dir. amm., 2002, 690; A. GUALDANI, Il tempo nell’autotutela, in Federalismi, n. 12, 2017, 1.
[35] Cfr. E. CANNADA BARTOLI, Annullamento di ufficio ed inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Foro amm., 1964, II, 143 che, annotando Cons. St., sez. VI, 30 settembre 1964, n. 654, afferma: «Secondo la Sezione deve escludersi l’interesse pubblico alla rimozione di provvedimenti amministrativi “oramai intangibili per decorso dei termini”. [….] Nella decisione che si pubblica si stabilisce una corrispondenza tra inoppugnabilità del provvedimento ed inammissibilità del suddetto annullamento, spiegandola con l’esclusione dell’interesse pubblico alla rimozione dei provvedimenti inoppugnabili. Ciò significa che il termine stabilito per ricorrere al giudice amministrativo vale anche per l’esercizio da parte della p.a. del potere di annullamento di ufficio. Un simile assetto non avrebbe alcunché di inaccettabile». Argomentazioni non dissimili sono state affermate da recente giurisprudenza che, riflettendo sullo sbarramento temporale dei diciotto mesi posto dall’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 per l’annullamento d’ufficio, afferma che si tratta «di una regola speculare – nella ratio e negli effetti – a quella dell’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, ma creata, a differenza di questa, in considerazione delle esigenze di certezza e per la tutela del privato» (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637).
[36] Cfr. M.S. GIANNINI, Atto amministrativo (1959), ora in ID., Scritti, vol. IV, Milano, 2004, 559, dove si legge: «La più strana, e per certi profili, ancor misteriosa, delle articolazioni dell’imperatività è l’inoppugnabilità. Essa è una qualità che si acquista al provvedimento per effetto del decorso del termine d’impugnativa […] e ne rende inattaccabili definitivamente gli effetti sostanziali. […] Il fondamento dell’inoppugnabilità si ravvisa normalmente in una ragione pratica: il bisogno di permettere all’amministrazione di procedere speditamente, senza essere esposta troppo a lungo al rischio di impugnative del proprio provvedimento. […] Può tuttavia ritenersi che il problema del fondamento dell’inoppugnabilità è apparente: l’inoppugnabilità non è affatto un tratto necessario e ineliminabile dell’imperatività, ma è piuttosto un istituto di diritto positivo, che serve a rafforzare ancor più la posizione della amministrazione». Sull’inoppugnabilità v. P. STELLA RICHTER, L’inoppugnabilità, Giuffrè, Milano, 1970; A. MARRA, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 53.
[37] Per completezza di informazione, può essere utile ricordare che l’art. 21 nonies era stato già modificato per mezzo dell’art. 25, comma 1, lett. b quater), nn. 1 e 2, del d.l. 133/2014; le modifiche introdotte nel 2014, però, non hanno avuto ad oggetto le disposizioni che disciplinavano i profili temporali dell’annullamento di ufficio.
[38] M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi, n. 2, 2015, 1; F. FRANCARIO, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi, n. 20, 2015, 1. In argomento v. anche G. GALLONE, Annullamento d’ufficio e risoluzione del contratto pubblico, Roma, 2018, 39.
[39] È noto che l’art. 21 nonies, all’art. 2 bis prevede che il termine di diciotto mesi non si applica per «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato»
[40] D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, IV ed., Bologna, 2007, 371, ha osservato che la mancata indicazione di un periodo di tempo esattamente determinato per l’adozione del provvedimento di riesame è «un fatto inconsueto per la legislazione italiana […], ma non per questo criticabile, giacché il periodo di tempo entro il quale l’amministrazione può intervenire senza sacrificare oltre un limite di accettabilità gli interessi alla conservazione dell’atto è difficilmente determinabile in astratto, Il richiamo alla ragionevolezza […] è del resto riferimento ad un criterio che abbiamo visto essere centrale nell’esercizio delle attività discrezionali».
[41] In proposito è bene ricordare che Corte cost., 22 marzo 2000, n. 75, ha affermato che «il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale. Lo strumento dell’autotutela deve sempre essere valutato nel quadro dei princìpi di imparzialità, di efficienza e, soprattutto, di legalità dell’azione amministrativa, espressi dall’art. 97 Cost.». Sempre con la stessa pronuncia, poi, si è detto che «la previsione d’un potere-dovere di annullamento dei provvedimenti che avevano disposto gli inquadramenti illegittimi […] si configura […] quale elemento fondante dell’azione amministrativa (in quanto corollario del principio di legalità), tra i cui fini deve intendersi compreso quello di evitare il consolidarsi di situazioni costituitesi contra legem». La decisione della Consulta è corredata da un sagace commento di F.G. SCOCA, Una ipotesi di autotutela amministrativa impropria, in Giur. cost., 2000, 824.
[42] Cfr. M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, cit., 9.
[43] Così T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 agosto 2016, n. 687; in termini Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 5 maggio 2016, n. 2242; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 9 giugno 2016, n. 362; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22 luglio 2019, n. 463; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 settembre 2016, n. 4373; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 12 ottobre 2016, n. 4682.
[44] Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987.
[45] In tal senso T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 19 ottobre 2016, n. 4737, che argomenta: «La norma in esame ha sicuramente carattere innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione – che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo – non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge. Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento dell’adozione – momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore – del provvedimento autorizzativo (di primo grado)». In termini T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2 luglio 2018 n. 7272. Contra T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 14 gennaio 2016, n. 47: «Avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, il collegio ritiene di escludere che il termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa delle disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando, si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il provvedimento amministrativo non può essere annullato se non in sede giurisdizionale».
[46] Cons. St., sez. IV, 22 novembre 2019, n. 7962; Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987.
[47] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 28 settembre 2016, n. 1141.
[48] Si legge al par. 10 della motivazione in diritto della pronuncia: «Ed invero, innanzitutto, il potere de quo è stato esercitato a quasi 10 anni di distanza rispetto all’adozione delle summenzionate determinazioni di fiscalizzazione dell’abuso e, quindi, entro un termine che – a prescindere dalla querelle circa l’applicabilità retroattiva della novella di cui all’articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1) della Legge 7 agosto 2015, n. 124, che ha imposto alla p.a. il termine decadenziale di 18 mesi – non può certo dirsi, comunque, “ragionevole”, secondo quanto previsto anche dal vigente testo dall’art. 21 nonies sopra citato».
[49] C. DEODATO, L’annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, II ed., Milano, 2017, 983 e spec. 993.
[50] T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[51] V. ANTONELLI, Commento, cit., 662: «Se si approva l’orientamento che esclude l’annullabilità del provvedimento inefficace, il termine in esame non decorre dall’adozione, o meglio dalla perfezione del provvedimento, ma dall’assunzione di efficacia dello stesso». Sostiene che non possa propriamente parlarsi di autotutela in relazione agli atti non ancora efficaci G. GHETTI, Annullamento d’ufficio dell’atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., vol. I, 1987, 268.
[52] Così T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 21 ottobre 2016, n. 4824. In termini T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 luglio 2016, n. 867, che ha ritenuto di utilizzare come dies a quo da cui far decorrere i diciotto mesi, quello della approvazione degli atti di affidamento di un appalto per servizi sanitari. In argomento v. anche T.A.R. Marche, sez. I, 20 ottobre 2016, n. 574; T.A.R. Liguria, sez. I, 3 ottobre 2016, n. 970; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 12 settembre 2016, n. 4229.
[53] Con riferimento alla Scia, invece, il termine dovrebbe decorrere da quando si è consolidato il titolo, senza che l’amministrazione abbia adottato motivate determinazioni di inibizione o conformazione, secondo M. LIPARI, La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi interpretativi, in Federalismi, n. 20, 2015, 8.
[54] In tal senso v. quanto disposto dall’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241/1990: «I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445». La prevalente giurisprudenza ha ritenuto che il superamento del termine previsto dal comma 1 dell’art. 21 nonies è consentito in due distinte situazioni: a) nel caso in cui il provvedimento sia stato emanato sulla base di una falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, che abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco (in tal senso, ex multis, Cons. St., sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940). Critica su tale posizione M.A. SANDULLI, È inapplicabile il termine di 18 mesi per l’annullamento d’ufficio se la P.A. è stata indotta in errore da un comportamento doloso del privato, in Riv. giur. ed., 2018, 687. In argomento v. anche G. MANFREDI, Il tempo è tiranno: l’autotutela nella legge Madia, in Urb. app., 2016, 5, il quale ritiene che la previsione contenuta nel comma 2 bis tragga ispirazione dal § 48 della Verwaltungsverfahrensgesetz, recante «Rücknahme eines rechtswidrigen Verwaltungsaktes», il quale dispone che pone delle limitazioni al ritiro di atti amministrativi che, però, non valgono quando l’illegittimità dell’atto sia ascrivibile al privato che ha usato frode, minaccia o corruzione, ovvero quando ha fornito informazioni errate o incomplete, ovvero quando avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’illegittimità dell’atto: «Auf Vertrauen kann sich der Begünstigte nicht berufen, wenn er: 1. den Verwaltungsakt durch arglistige Täuschung, Drohung oder Bestechung erwirkt hat; 2. den Verwaltungsakt durch Angaben erwirkt hat, die in wesentlicher Beziehung unrichtig oder unvollständig waren; 3. die Rechtswidrigkeit des Verwaltungsaktes kannte oder infolge grober Fahrlässigkeit nicht kannte».
[55] Se, dunque, l’errata percezione del fatto è frutto di un travisamento della p.a., non sussistono dubbi in merito alla decorrenza del termine per l’esercizio degli atti di ritiro: T.A.R. Veneto, sez. III, 22 marzo 2018, n. 336.
[56] Così T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 13 settembre 2016, n. 2171.
[57] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 17 marzo 2016, n. 351; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 aprile 2019, n. 716. In termini
[58] Così il Cons. St., comm. spec., 30 marzo 2016, n. 839/2016.
[59] Sul punto v. Cons. St., ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, dove, però, si aggiunge: «Occorre tuttavia responsabilizzare le amministrazioni all’adozione di un contegno chiaro e lineare, tendenzialmente fondato sullo scrupoloso esame delle pratiche di sanatoria o comunque di permesso di costruire già rilasciato, e sul diniego ex ante di istanze che si rivelino infondate, nonché sull’obbligo di serbare – in caso di provvedimenti di sanatoria già rilasciati – un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui».
[60] Ricorda F. COSTANTINO, Annullamento d’ufficio, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, 869, che l’esplicitazione delle ragioni sottese all’adozione dell’atto di ritiro non può ridursi in una clausola di stile, ma deve dare conto della comparazione tra interesse alla caducazione ed interesse alla conservazione del provvedimento.
[61] Cons. St., ad. plen., n. 8/2017.
[62] Si legge in Cons. St., sez. V, 8 novembre 2012, n. 5691, che l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia non necessita di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
[63] Sosteneva che il ritiro di provvedimenti viziati fosse un potere dal carattere vincolato E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, cit., 489. Osserva invece che «la teorica dell’interesse in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo, laddove condivisa, finirebbe per rendere nei fatti vincolato l’esercizio del potere di autotutela che un consolidato orientamento giurisprudenziale (prima) e un’espressa previsione di legge (poi) hanno delineato come tipico potere discrezionale dell’amministrazione» Cons. St., ad. plen. n. 8/2017. Sulla doverosità dell’autotutela v., di recente, N. POSTERARO, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, n. 2, 2017, 2; M. ALLENA, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, in Federalismi, n. 8, 2018, 2; ID., L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018, 20.
[64] D.U. GALETTA, I procedimenti di riesame, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006, 393 e spec. 401.
[65] In tal senso Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; contra T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 12 settembre 2016, n. 4229, cit.
[66] Così T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 agosto 2016, n. 687; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 11 febbraio 2020, n. 673. In dottrina v. M. D’ALBERTI, Lezioni di diritto amministrativo, II ed., 2013, 287; C. DEODATO, Il potere amministrativo, cit., 9.
[67] In tal senso T.A.R. Umbria, sez. I, 23 febbraio 2016, n. 156, dove pure si esclude che gli atti contestati in giudizio siano riconducibili alla categoria dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
[68] Cfr. T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 19 ottobre 2016, n. 628, in materia di pianificazione urbanistica; contra Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2020, n. 4302.
[69] Così A. ORSI BATTAGLINI, Autorizzazione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., vol. II, Torino, 1987, il quale aggiunge: «Il punto di crisi più vistoso si registra proprio nel cuore del problema, rispetto cioè alla distinzione tra autorizzazione e concessione». Sul punto v. anche L. MAZZAROLI, Concessione e autorizzazione edilizia, in Dig. disc. pubbl., vol. III, Torino, 1989, 269, che si affretta a chiarire: «Perde importanza, e finisce col configurarsi come una questione più di nome che di sostanza, il riportare la concessione edilizia tra i provvedimenti di concessione o tra quelli di autorizzazione». In argomento v. F. FRACCHIA, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996.
[70] A. POLICE, Prevedibilità delle scelte e certezza dell’azione amministrativa, in Dir. amm., 1996, 697.
[71] G. DELLA CANANEA, Lo Stato debitore e il diritto europeo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 341.
[72] Cons. St., sez. V, 23 marzo 2015, n. 1552.
[73] T.A.R. Toscana, sez. III, 2 luglio 2007 n. 1000.
[74] Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1553.
[75] T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 novembre 2007, n. 2689.
[76] T.A.R. Umbria, sez. I, 22 gennaio 2013, n. 40.
[77] T.A.R. Umbria, sez. I, 14 marzo 2012, n. 96.
[78] T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 8 marzo 2004, n. 2154.
[79] T.R.G.A. Trento, sez. I, 12 marzo 2014 n. 86.
[80] T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 luglio 2016, n. 867; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 21 ottobre 2016, n. 4824; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[81] Cons. St., sez. III, 26 febbraio 2016, n. 791
[82] M.A. SANDULLI, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, cit. 127.
Piani Educativi Individualizzati e problemi di giurisdizione (nota a TAR Molise, sez. I, 19 giugno 2020, n. 174)
di Flaminia Aperio Bella
Sommario: 1. Premessa - 2. Il quadro esegetico in cui si inserisce la decisione in commento - 3. La decisione del TAR Molise - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Nel marzo 2017 il Consiglio Superiore della Magistratura dedicava un corso di formazione agli aspetti ancora controversi del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, focalizzando l’analisi sulla giurisprudenza della Corte regolatrice e del Consiglio di Stato con l’obiettivo di far emergere problemi aperti e nuove prospettive nel dialogo tra le giurisdizioni. Tra le questioni maggiormente dibattute è significativamente spiccata quella dell’individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie relative al sostegno scolastico per gli alunni con disabilità.
La rilevanza e complessità della tematica, oltre a discendere dalla delicatezza, sul piano umano, della risoluzione delle controversie relative alla migliore garanzia del diritto all’istruzione del disabile[1], è ascrivibile alla plurifasicità che caratterizza l’iter procedimentale di assegnazione delle ore di sostegno, nonché alle numerose questioni giuridiche sottese alla individuazione del giudice competente a conoscerne.
Quanto al procedimento, può affermarsi, in via di estrema sintesi, che la normativa vigente (l. n. 104/1992) ruota attorno al Piano Educativo Individualizzato (PEI), documento progettuale da redigere annualmente (entro il secondo mese dell’anno scolastico) a cura della scuola, in presenza di alunni affetti da condizioni psichiche o fisiche tali da richiederne un trattamento diversificato, e contenente le indicazioni dettagliate degli interventi, obiettivi e criteri di valutazione del percorso didattico dell’alunno disabile.
L’elaborazione del Piano spetta a un organo collegiale (il Gruppo di lavoro operativo handicap – G.L.O.H.) composto dalla scuola (intesa come corpo insegnante, compreso il docente di sostegno), dalle figure socio-sanitarie coinvolte in attività riabilitative e terapeutiche dell’alunno all’esterno della scuola e dalla sua famiglia. Grazie anche alla particolare composizione dell’organo, la “proposta” formulata dal G.L.O.H. è personalizzata e ritenuta idonea a tenere conto a tutto tondo delle esigenze dell’alunno, anche in riferimento all’individuazione delle ore di sostegno di cui necessita. Spetta poi al Dirigente scolastico raccogliere le “proposte” concernenti gli alunni disabili della propria struttura e trasmetterle agli Uffici scolastici, con la relativa documentazione. Sono questi ultimi Uffici ad assegnare ai singoli istituti gli insegnanti di sostegno sulla base dei relativi organici, tenendo conto delle “proposte” e fornendo ulteriori risorse sulla base del loro concreto contenuto. Da ultimo, sulla base delle complessive risorse fornite dagli Uffici scolastici, il Dirigente scolastico attribuisce le ore di sostegno ai singoli alunni disabili. Si noti che la proposta del numero delle ore di sostegno ritenute necessarie facente capo al G.L.O.H. tiene conto sia della gravità dello stato psicofisico del soggetto (gravissima, grave, media, lieve) sia del grado di scuola frequentata (assegnando fino al numero massimo di ore settimanali di sostegno pari a 25 per la scuola dell’infanzia, 22 per la scuola primaria e 18 per la scuola secondaria).
Sul versante dei nodi interpretativi sollevati dal tema in analisi, esso intercetta non solo la controversa categoria dei “diritti indegradabili” o “incomprimibili” (i.e. quei diritti la cui cognizione sarebbe sempre da riservare, in tesi, alla giurisdizione ordinaria[2]), ma anche questioni più generali connesse all’individuazione di quel “confine di continuo trapasso” che ripartisce la giurisdizione tra g.o. e g.a.[3] e alla corretta interpretazione di alcuni principi del processo come quello di economia processuale (in tesi perseguibile tramite la concentrazione innanzi a un unico giudice di controversie connesse a una certa materia), della domanda (con particolare riferimento alla relativa capacità di incidere sull’individuazione del giudice munito di giurisdizione), nonché, ultimo ma non ultimo, il principio della pari dignità tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, ribadito dalla storica sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004[4].
2. Il quadro esegetico in cui si inserisce la decisione in commento
Il numero dei pronunciamenti delle giurisdizioni superiori sull’argomento in analisi non è che lo specchio della sua complessità.
Così, nel corso del primo decennio del 2000 si consolidava un orientamento che ascriveva alla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di pubblici servizi le controversie riguardanti il sostegno scolastico in favore dei minori portatori di handicap, per ciò che la determinazione delle ore a disposizione dell’alunno era considerata frutto di una prerogativa pubblicistica della p.A. che, nel fissarle, si poneva in posizione di supremazia rispetto agli utenti del servizio (cfr. Cass. civ., sez. un., ordd. 19 gennaio 2007, n. 1144, e 29 aprile 2009, n. 9954 nonché 19 luglio 2013, n. 17664).
A partire dalla fine del 2014 la conclusione è tuttavia stata rimeditata dalle Sezioni unite, che, a valle di una puntuale ricostruzione della normativa di riferimento, hanno preso le mosse dall’assoluta centralità del PEI quale frutto del confronto tra amministrazione e genitori dell'alunno disabile nell’individuazione dei suoi bisogni, per ricavarne l'immediato e doveroso collegamento tra le necessità prospettate dal Piano e l'assegnazione o la provvista dell'insegnante di sostegno, con conseguente assenza, in capo all'amministrazione scolastica, di alcun potere discrezionale. Ne è stata fatta discendere la spettanza al g.o. della giurisdizione sul comportamento omissivo dell’amministrazione preposta all'organizzazione del servizio scolastico che, a valle dell’emanazione del Piano medesimo, abbia l'effetto di mettere l’alunno con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri, così realizzando una discriminazione indiretta ai sensi del combinato disposto della l. n. 67 del 2006 e del d.lgs. n. 150 del 2011[5] (Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2014, n. 25011). Il PEI ha rappresentato pertanto il perno di tale nuova configurazione della situazione soggettiva protetta dei destinatari del servizio: una volta che il Piano abbia “prospettato” il numero di ore di sostegno, infatti, si consoliderebbe, nel ragionamento della Cassazione, un diritto costituzionalmente protetto dell’alunno disabile alla istruzione, alla integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini.
A nemmeno due anni di distanza da tale ultima pronuncia si colloca l’intervento con cui l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha voluto precisare che l’esegesi “riduttiva e restrittiva del perimetro della giurisdizione esclusiva amministrativa” abbracciata dalle Sezioni unite non esclude che le controversie riguardanti la declaratoria della consistenza dell’insegnamento di sostegno e afferenti alla fase che precede la formalizzazione del PEI restino affidate alla cognizione del giudice amministrativo (Cons. St., ad. plen., 12 aprile 2016, n. 7[6]).
Nel sancire la perduranza della propria competenza giurisdizionale sulle controversie antecedenti la formazione di un PEI – ambito in cui, peraltro, la giurisprudenza amministrativa si è sempre dimostrata capace di prospettare soluzioni giurisprudenziali particolarmente innovative ed efficaci per garantire la piena tutela dell’alunno disabile –, il Giudice amministrativo della nomofilachia ha colto l’occasione per stigmatizzare tanto la tesi, da ritenersi ormai definitivamente superata alla luce delle evoluzioni giurisprudenziali e normative, che collegava alla qualificazione “fondamentale” di un diritto la giurisdizione del giudice ordinario (c.d. tesi dei diritti indegradabili), quanto quella, spesso invocata da una parte della giurisprudenza civile al fine di affermare la propria giurisdizione, basata sulla distinzione fra attività vincolata e discrezionale: l’attribuzione al g.a. della giurisdizione esclusiva in determinate materia implica, infatti, una cognizione piena, e non limitata ai soli profili di esercizio discrezionale del potere[7].
A completamento del quadro, merita dare conto della sentenza n. 80/2010 con cui il Giudice delle leggi, pur non toccando lo specifico tema del riparto di giurisdizione, ha confermato la centralità del PEI e del relativo ossequio per la migliore integrazione dell’alunno disabile, dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge finanziaria 2008 nella parte in cui prevedeva, da un lato, un limite massimo nella determinazione del numero degli insegnanti di sostegno e, dall’altro, l’eliminazione della possibilità di assumerli in deroga a fronte di esigenze di sostegno ulteriori individuate a livello di Piano. Tra i parametri costituzionali ritenuti violati, la Consulta ha invocato il quadro normativo internazionale, costituzionale e ordinario, nonché la propria consolidata giurisprudenza a protezione dei disabili, riconoscendo nelle previsioni sottoposte a suo vaglio una violazione del “nucleo indefettibile di garanzie” che la stessa Corte ha posto quale limite invalicabile all’intervento normativo discrezionale del legislatore.
Con precipuo riferimento al riparto di giurisdizione, a valle dei citati pronunciamenti delle Sezioni unite e della Plenaria, lo spartiacque tra le giurisdizioni pareva dunque essere stato individuato nell’approvazione del PEI: spetta al g.a., a titolo di giurisdizione esclusiva, conoscere della mancata predisposizione del Piano o della relativa carenza rispetto alla indicazione del numero di ore, mentre spettano al g.o. le controversie collocate a valle della predisposizione di un PEI completo rimasto inattuato.
Chiarito tale aspetto, i contrasti giurisprudenziali, lungi dall’essere sopiti, si sono spostati su un secondo livello esegetico, strettamente legato al primo, ossia sull’individuazione del giudice competente a decidere delle controversie che, pur collocandosi a valle dell’approvazione del PEI (i.e. in un ambito astrattamente spettante al g.o.) non attengano alla contestazione di una condotta discriminatoria.
La giurisprudenza amministrativa ha così nuovamente prospettato un allargamento delle maglie della propria giurisdizione, distinguendo i casi di contestazione degli atti della amministrazione scolastica (Uffici scolastici e Dirigente) che non avessero dato coerente seguito alle ‘proposte’ del G.L.O.H. (astrattamente spettanti al g.a.), da quelli in cui il Dirigente scolastico avesse attribuito le ore di sostegno in conformità alla proposta del G.L.O.H., senza tuttavia una concreta assegnazione delle medesime per ragioni contingenti. Solo in tale secondo caso, ai sensi dell’orientamento ben riassunto dal Consiglio di Stato nel 2017, si imporrebbe un’indagine sulla causa petendi e sul petitum posti a base della pretesa, con la precisazione che, in mancanza della deduzione specifica della “sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno” e dell’allegazione degli elementi di fatto in cui la discriminazione si manifesta, la fattispecie tipica devoluta dall’ art. 3, comma 3 l. n. 67/2006 alla giurisdizione ordinaria non verrebbe in rilievo, con conseguente riespansione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, 3 maggio 2017, n. 2023).
3. La decisione del TAR Molise
Nel contesto così delineato si iscrive la sentenza con cui il TAR Campobasso, chiamato a pronunciarsi su una controversia ingenerata dalla mancata erogazione delle ore di sostegno scolastico approvate nel PEI, ha declinato la propria giurisdizione in favore del giudice ordinario pur in assenza della contestazione di una condotta discriminatoria.
In sintesi, la fattispecie sottoposta al Collegio atteneva a un PEI con cui il G.L.O.H. dava l’indicazione di ampliare le ore di sostegno in favore del figlio della ricorrente. Benché, sulla base di tali elementi, il Dirigente dell’Istituto scolastico avesse richiesto all’Ufficio Provinciale competente di disporre l’aumento, quest’ultimo deliberava di confermare le ore di sostegno assegnate l’anno precedente.
La ricorrente insorgeva contro il provvedimento provinciale, lamentando diversi profili di violazione di legge ed eccesso di potere, ma non il relativo carattere discriminatorio.
L’amministrazione resistente eccepiva il difetto di giurisdizione del TAR adito richiamando l’orientamento secondo cui, a valle dell’approvazione del PEI, le domande di concreta erogazione del servizio di sostegno a favore del disabile spettano alla giurisdizione ordinaria (Cass. civ., sez. un. ord. 28 febbraio 2017, n. 5060 e Cons. Stato, ad. plen. n. 7/2016, cit.).
Nell’esaminare l’eccezione, la sentenza si sofferma sul contrasto giurisprudenziale sviluppatosi sulla peculiare ipotesi sottoposta al suo vaglio.
Come accennato, secondo l’orientamento sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa, spetterebbe in linea di principio al g.a., a titolo di giurisdizione esclusiva, la cognizione sugli atti dell’amministrazione scolastica che non diano coerente seguito alle ‘proposte’ del G.L.O.H., trattandosi di controversie concernenti il pubblico servizio di istruzione ex art. 133, co. 1, lett. c c.p.a.. Diverso trattamento andrebbe invece riservato al caso in cui il Dirigente scolastico abbia attribuito le ore di sostegno in conformità alla proposta del G.L.O.H., ma tali ore non siano concretamente assegnate per cause contingenti. In tal caso, la competenza giurisdizionale spetterebbe al g.o. solo quando l'interessato lamenti espressamente che l'amministrazione scolastica abbia posto in essere "un comportamento discriminatorio a proprio danno", rappresentando gli elementi di fatto in cui la discriminazione si manifesta. Opererebbero invece le consuete regole sulla giurisdizione esclusiva del g.a. nel caso in cui le censure attengano a (i) la mancata corrispondenza tra il provvedimento finale del Dirigente scolastico e la proposta del G.L.O.H. per ragioni di contenimento della spesa; (ii) la mancata concreta fruizione delle ore di sostegno per la carenza delle risorse fornite dagli Uffici scolastici e conseguenti provvedimenti provvisori di “redistribuzione” delle ore di sostegno da parte del Dirigente. Tali ultime controversie, infatti, pur essendo relative alla fase successiva all’attuazione del PEI, atterrebbero alla “cattiva gestione del servizio pubblico scolastico di sostegno agli alunni disabili” spettanti al g.a., non già a discriminazioni rilevanti ai sensi della citata l. n. 67/2006 (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023/2017, cit.).
La sentenza in commento aderisce invece al secondo, più recente, orientamento secondo cui, una volta approvato il PEI, sussisterebbe sempre la giurisdizione del giudice ordinario, a prescindere dalla circostanza che il ricorrente abbia espressamente dedotto una condotta antidiscriminatoria (Cass. civ., sez. un., 8 ottobre 2019, n. 25101). Secondo tale impostazione, infatti, una volta che il PEI abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno dell'alunno, l'amministrazione scolastica risulterebbe (i) priva di un potere discrezionale espressivo di autonomia organizzativa e didattica e dunque incapace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura del supporto integrativo così come individuato dal Piano, (ii) gravata dal “dovere” di assicurare l'assegnazione, in favore dell'alunno, del personale docente specializzato, ciò “anche ricorrendo - se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi - all'attivazione di un posto di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni”[8], con conseguente giurisdizione del g.o..
Prosegue il Collegio, richiamando le parole della Cassazione, che “l’omissione o le insufficienze nell'apprestamento, da parte dell'amministrazione scolastica, di quella attività doverosa si risolvono in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all'attivazione, in suo favore, di un intervento corrispondente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico: l'una e le altre sono pertanto suscettibili di concretizzare, ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell'offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati, una discriminazione indiretta, vietata dalla L. n. 67 del 2006, art. 2 per tale intendendosi anche il comportamento omissivo dell'amministrazione pubblica preposta all'organizzazione del servizio scolastico che abbia l'effetto di mettere la bambina o il bambino con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto agli altri alunni”.
La sentenza ne inferisce, sempre ripercorrendo l’insegnamento delle Sezioni unite, che la mancata deduzione esplicita nella domanda del ricorrente di un comportamento discriminatorio dell'amministrazione non può considerarsi una condizione cui subordinare la giurisdizione del g.o., facendone conseguentemente discendere la declinatoria della propria giurisdizione, ancorata non solo dall’esigenza di evitare il frazionamento delle controversie innanzi a plessi giurisdizionali diversi a seconda della prospettazione attorea, ma anche alla constatazione dell’assenza di poteri dell’amministrazione di modificare (tranne il caso di correzione di errori materiali o di sopravvenienze), il contenuto delle ore di sostegno proposte dagli organi tecnici, con conseguente assenza di margini di discrezionalità nell’attività in questione.
4. Considerazioni conclusive
La soluzione abbracciata dalla sentenza ha il merito di epurare il discorso sull’individuazione del giudice competente a conoscere dell’istruzione dell’alunno disabile dall’aspetto formalistico della prospettazione di parte.
La ricostruzione elaborata dal Consiglio di Stato nel 2017 – seguita dallo stesso TAR Molise sino alla decisione in analisi[9] – infatti, pur mirando dichiaratamente a evitare che l’individuazione del giudice competente dipendesse dalla deduzione “difensiva” dell’amministrazione scolastica diretta a configurare il proprio agire come discriminatorio al fine di sottrarsi alla giurisdizione del g.a.[10], e pur essendo guidata dall’apprezzabile intento di modulare la risposta giurisdizionale sulle esigenze concretamente prospettate dalla parte ricorrente, finiva invero con l’attribuire un rilievo eccessivo all’aspetto formale, rievocando una logica di riparto ormai superata, collocata a metà strada tra il criterio del c.d. “petitum formale” (che tiene conto del tipo di domanda di parte ai fini della discriminazione delle giurisdizioni – nella specie, repressione di una condotta discriminatoria o impugnazione di un atto/contestazione di un comportamento dell’amministrazione scolastica –) e la c.d. teoria della prospettazione (che assegna rilievo decisivo la “prospettazione” di parte in ordine alla posizione giuridica soggettiva azionata in giudizio – nella specie, deduzione specifica della sussistenza di un comportamento discriminatorio e allegazione degli elementi di fatto in cui si sostanzia o meno).
Il criterio di riparto della “causa petendi” o “petitum sostanziale”, impone invece, come noto, di indagare l’effettiva natura della posizione giuridica fatta valere in giudizio, senza che il discrimine tra le giurisdizioni possa essere rimesso alla volontà delle parti. Del resto, ammettere che la giurisdizione possa cambiare a seconda che il ricorrente deduca di aver subito o meno una discriminazione vorrebbe dire non solo riesumare un criterio respinto sin dal “concordato giurisprudenziale” degli anni ’30[11], ma anche consentire alla parte di “scegliere” la giurisdizione più appetibile, in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge.
Ciò non significa, si badi, che gli approdi raggiunti dalla giurisprudenza amministrativa nella materia de qua possano essere obliterati attraverso il ritorno a una visione riduttiva e anacronistica della sua giurisdizione esclusiva.
In tale prospettiva, il richiamo operato dalle Sezioni unite (e ripreso dal TAR) alla categoria dei “diritti fondamentali”[12] può essere accettato a condizione che si intenda epurato da ogni tralatizio riferimento alla c.d. teoria dei diritti indegradabili e dunque a condizione che il coinvolgimento di tale categoria di diritti si consideri neutrale ai fini dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione. Come rimarcato dalla Plenaria nel 2016, infatti, la pacifica natura di diritto soggettivo della posizione soggettiva azionata nelle controversie de quibus, quand’anche qualificato come “fondamentale”, non esclude la sussistenza della giurisdizione amministrativa, in quanto “il carattere fondamentale del diritto nella specie azionato non può certo essere decifrato come un’eccezione innominata al perimetro della giurisdizione esclusiva” poiché “al giudice amministrativo è stata chiaramente riconosciuta la capacità di assicurare anche ai diritti costituzionalmente protetti una tutela piena e conforme ai precetti costituzionali di riferimento” sin dalla storica sentenza della Corte costituzionale del 27 aprile 2007, n. 140[13].
Del resto, come ribadito anche di recente dai vertici della giustizia amministrativa, la concezione dei diritti “perfetti” o “non degradabili” è stata elaborata per riconoscere ulteriori possibilità di tutela per il cittadino, non certo per escludere forme di tutela preesistenti. Di conseguenza da tale concezione non si può desumere alcuna riduzione della legittimazione a ricorrere avanti al giudice amministrativo[14].
Per altro verso, occorre tenere a mente che la strada esegetica da percorrere per individuare il giudice munito di giurisdizione in materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. resta quella tracciata dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 204/2004: il collegamento con l’esercizio di un pubblico potere. Non sono pertanto ammissibili scostamenti dal percorso individuato dalla Consulta, guidati da una malintesa distinzione tra attività discrezionale e vincolata[15], mentre permane di utilità la distinzione tra potere e mero obbligo, da tempo individuata dalla giurisprudenza per guidare il riparto: ove sulla p.A. gravi il mero obbligo di verificare la sussistenza dei requisiti (come per il caso del conferimento delle ore di sostegno compiutamente individuate dal PEI, o anche per il caso dell’erogazione di contributi pubblici o aumenti di oneri economici collegati alla mera verifica delle variazioni del tasso di inflazione ecc.), la controversia rientrerà nella giurisdizione ordinaria facendosi questione dell’esatto adempimento dei meri obblighi in parola, non identificabili come espressione di potere e contrapposti a posizioni di puro diritto soggettivo[16].
[1] Come condivisibilmente affermato in giurisprudenza, del resto, “il diritto all'istruzione è parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l'inclusione della persona umana con disabilità” (Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2014, n. 25011).
[2] In giurisprudenza, tra le molte decisioni che evocano la categoria in parola, basti citare quelle in materia di diritto alla salute, tra cui Cass. civ., sez. un., 6 febbraio 2009, n. 2867, secondo cui “in materia di richiesta di rimborso delle spese sanitarie sostenute dai cittadini residenti in Italia presso centri di altissima specializzazione all’estero per prestazioni che non siano ottenibili in Italia tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico (art. 5 l. n. 595 del 1985 e relativo decreto del Ministro della sanità del 3 novembre 1989, come successivamente modificato), la giurisdizione spetta al Giudice ordinario, sia nel caso che siano addotte situazioni di eccezionale gravità ed urgenza, prospettate come ostative alla possibilità di preventiva richiesta di autorizzazione, sia nel caso che l’autorizzazione sia stata chiesta e che si assuma illegittimamente negata, giacché viene comunque in considerazione il fondamentale diritto alla salute, non suscettibile di essere affievolito dalla discrezionalità meramente tecnica dell’amministrazione in ordine all’apprezzamento dei presupposti per l’erogazione delle prestazioni”. Più di recente anche il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza 15 aprile 2013, n. 2073, confermava la sussistenza, in materia, della giurisdizione ordinaria, mentre in senso contrario si era espresso il C.G.A.R. Sicilia, sez. I, 5 gennaio 2012, n. 31, ove si affermava la giurisdizione amministrativa con la motivazione che “L’autorizzazione (preventiva) al ricovero o il rimborso (successivo) delle spese sostenute non integrano [...] (come già affermato per altro da una copiosa giurisprudenza, anche successiva – vedi Tar Valle d’Aosta n. 4/11 – alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2009) una pretesa di adempimento relativa ad una obbligazione, ma una pretesa accoglibile solo a seguito di una valutazione discrezionale dell’Amministrazione”.
[3] Così definiva il confine tra diritto e interesse che dovrebbe, in teoria, segnare lo spartiacque sicuro tra le due giurisdizioni M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 171.
[4] In dottrina si v., in generale, G. Mari, La giurisdizione amministrativa, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2013, 61 ss.; A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, in Foro it., 2009, V, cc. 369 ss.; A. Orsi Battaglini, C. Marzuoli, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione, in Dir. pubbl., 1997, 895 ss.. Più di recente A. Lamorgese, La giurisdizione contesa. Cittadini e pubblica amministrazione, Torino, 2014.
[5] Come noto, la l. 1 marzo 2006, n. 67 recante Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, nel promuovere la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali, traccia, all’art. 2, la distinzione tra le due possibili forme di violazione di tale parità – ai sensi del quale ricorre discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga; mentre ricorre discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone – mentre all’art. 3 affida al giudice ordinario la competenza giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti discriminatori, richiamando la disciplina dettata dal testo unico delle disposizioni concernenti l’immigrazione e la condizione dello straniero di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e, oggi, le nuove norme sulla tutela antidiscriminatoria previste dall’art. 28 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150.
[6] Su cui, tra i commenti, cfr. A. Tomassetti, Sostegno scolastico e riparto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, 2017; A. Giampaolino, Assegnazione dell’insegnante di sostegno alla classe frequentata dall’alunno disabile e riparto di giurisdizione, in Il nuovo diritto amministrativo, 2017.
[7] La sussistenza di poteri conferiti dalla legge alla p.A. anche quando il bene della vita coinvolto è proiezione di un diritto fondamentale, trova conferma tanto nel riconoscimento, ad opera della Corte costituzionale, della idoneità del giudice amministrativo “ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa” (sent. n. 140 del 2007); che nel codice del processo amministrativo che, all’art. 55 c.p.a., nell’escludere che la concessione o il diniego della misura cautelare possa essere subordinata a cauzione quando la domanda cautelare attenga a diritti fondamentali della persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale postula la competenza giurisdizionale del g.a. su tali posizioni giuridiche soggettive e che, inoltre, affida alla giurisdizione esclusiva del g.a. le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati (art. 133, co. 1, lett. p).
[8] Sulla perdurante possibilità di attivare posti di sostegno in deroga v. supra par 2. la sentenza C. cost. n. 80/2010.
[9] Cfr. TAR Molise nn. 42/2017; 420/2019; 421/2019; 435/2019.
[10] Nelle parole del Consiglio di Stato, infatti, si sarebbero dovute applicare le consuete regole sulla giurisdizione esclusiva quando il ricorrente impugni gli atti del procedimento o contesti un comportamento dell'Amministrazione, “lamentando puramente e semplicemente: - la mancata corrispondenza tra il provvedimento finale del dirigente scolastico e la proposta del G.L.O.H. (ovvero lamentando che sia stata data illegittimamente prevalenza a ragioni di contenimento della spesa); - la mancata concreta fruizione delle ore di sostegno, attribuite dal dirigente scolastico in conformità alla proposta del G.L.O.H., perché il medesimo dirigente, per la carenza delle risorse fornite dagli Uffici scolastici, ha affrontato provvisoriamente la situazione con misure di 'redistribuzione' delle ore di sostegno” mentre in tali casi la devoluzione della controversia al giudice civile non sarebbe potuta “dipendere dalla deduzione 'difensiva' dell'Amministrazione scolastica, la quale prospetti essa stessa che il proprio agire - l'atto del dirigente scolastico dissonante dalla proposta del G.L.O.H. ovvero la mancata assegnazione degli insegnanti di sostegno da parte degli Uffici scolastici- vada ricondotto ad una "discriminazione"” (Cons. St., n. 2023/2017, cit.).
[11] Il riferimento è al c.d. “concordato giurisprudenziale” raggiunto con le sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 14 giugno 1930, nn. 1 e 2 e la successiva pronuncia delle Sezioni unite del 15 luglio 1930, che sancirono definitivamente il superamento del criterio del petitum, affermando che il criterio base per la discriminazione della giurisdizione è “la natura intrinseca della controversia” (di diritto soggettivo o di interesse legittimo), indipendentemente dall’eventuale interferenza di provvedimenti amministrativi e indipendentemente dalla domanda di rimozione di tali provvedimenti (in argomento, ex multis, M. Nigro, cit., 178; S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 24 ss.; A. Zito, M.R. Spasiano, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, in F.G. Scoca (a cura di) Giustizia amministrativa, Torino, 2017, 71 ss.; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 115 ss.).
[12] Il riferimento va al passaggio della sentenza delle Sezioni unite n. 25101/2019, ripresa dalla decisione in analisi, secondo cui “…l’omissione o le insufficienze nell'apprestamento, da parte dell'amministrazione scolastica, di quella attività doverosa si risolvono in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all'attivazione, in suo favore, di un intervento corrispondente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico”.
[13] In argomento, oltre a A. Zito, M.R. Spasiano, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, cit., 100 ss., v. in particolare F. Dinelli, Il riparto di giurisdizione e la teoria dei diritti indegradabili, in Aa.Vv., Problematiche del riparto di giurisdizione dopo il codice del processo amministrativo, Napoli, 2013, 63 ss..
[14] In questi termini si esprimeva Cons. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, con concetti sostanzialmente ripresi nell’intervento del Pres. F. Patroni Griffi al corso di formazione richiamato in apertura [v. già Id., L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento, Relazione al convegno su “L’azione risarcitoria nei confronti delle pp.AA. e l’eterno dibattito sulle giurisdizioni” (Università Roma Tre, 11 maggio 2011), in federalismi.it, n. 24/2011]. In argomento si veda anche G. Coraggio, La tutela del diritto alla salute nella dialettica tra G.A e A.G.O., Relazione Tar Napoli 9 maggio 2019, in giustizia-amministrativa.it, 2019.
[15] In punto basta richiamare l’eloquente dato normativo processuale (i.e. il c.p.a. che, all’art. 31, co. 3 afferma che “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata” e all’art. 34 subordina la possibilità di ottenere il provvedimento preteso alle stesse condizioni dell’articolo 31 a cui espressamente rinvia) e sostanziale (i.e. alla l. n. 241/1990, che, all’art. 21-octies, co. 2, nel disciplinare l’annullamento degli atti amministrativi, fa esplicito riferimento agli atti vincolati), per inferirne la chiara scelta ordinamentale nel senso della valorizzazione del potere in sé quale criterio di riparto e quindi del riconoscimento della giurisdizione amministrativa anche in presenza di un atto vincolato (in argomento G. Coraggio, op. cit.).
[16] In punto v., ex multis, Cons Stato, ad. plen., 29 gennaio 2014, n. 6 sul riparto di giurisdizione in materia di contributi e agevolazioni pubbliche e Cass. civ., sez. un., ordd. nn. 20566 e 2317/2013 (rispettivamente sul mancato adeguamento al tasso di inflazione dei diritti aeroportuali e sui danni da omessa realizzazione di opere di smaltimento rifiuti).
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