ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
A proposito di giudici, di coscienza e di fede
di Vincenzo Vitale
Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto, apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto (Piero Calamandrei)
Il solo ammonimento ai giudici di giudicare secondo scienza e coscienza non basta. Ci vorrebbero delle norme per stabilire quanto piccola può essere la conoscenza e quanto grande la coscienza (Karl Kraus ).
Molto mi ha interessato la lettura della bella intervista rilasciata da Gabriella Luccioli, apparsa su questa rivista alcuni giorni fa e dal titolo “Il mestiere del giudice e la religione” (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1317-il-mestiere-del-giudice-e-la-religione), dal momento che tocca aspetti particolarmente delicati e coinvolgenti anche dal punto di vista psicologico.
Senza dubbio, le risposte che ella fornisce alle intriganti domande poste da Roberto Conti, dimostrano la pluridecennale esperienza di una persona impegnata probabilmente nel più arduo dei compiti, quello di ripartire le ragioni dai torti.
Tuttavia, mi pare doveroso – quasi come omaggio a un tale impegno per tanto tempo profuso – spendere poche parole nel tentativo di operare alcune brevi chiarificazioni concettuali tanto più necessarie quanto più si prendano sul serio le affermazioni contenute nell’intervista.
1) Innanzitutto, va precisato, visto che nel corso della conversazione se ne fa quasi dei sinonimi, che una cosa è la religione e altra cosa la fede.
Mentre infatti la religione rappresenta – in modo tendenziale - l’insieme delle credenze, dei culti, dei riti e perfino delle impalcature storiche e culturali dei tre monoteismi[1] nel rapporto con la divinità, la fede indica invece in modo diretto l’apertura del se verso l’infinito di Dio, l’ascolto che alla chiamata di Dio l’uomo riesca a prestare.
Ne viene che mentre della religione e dei suoi retaggi – lo si voglia o no - sono impregnate le istituzioni, le dinamiche sociali, i costumi e perfino il lessico politico, invece la fede risponde ad una logica diversa, direttamente derivabile dalla vocazione di ciascuno.
Da un certo punto di vista, potrebbe dirsi che la religione si afferma ed opera in un contesto sociale, la fede nell’ambito tendenzialmente personale.
E tuttavia, esse sono strettamente collegate, dal momento che una religione senza fede si ridurrebbe ad una semplice prassi sociale e una fede senza espressione religiosa rimarrebbe seppellita nella coscienza individuale: entrambe ne rimarrebbero vulnerate in modo da perdere la loro stessa identità.
Chiedendo venia per l’inevitabile approssimazione delle precedenti considerazioni, va perciò affermato che, proprio in virtù delle sue caratteristiche, la fede non può che pervadere di se l’intera dimensione personale di chi la professi, senza lasciarsi rinchiudere nell’asfittico recinto di una psicologia individuale.
In altri termini, la fede contrassegna la persona in modo integrale. E la persona – si badi – non si riduce al semplice individuo, monade tendenzialmente irrelata dal contesto umano ove si trovi a vivere. La persona esprime il soggetto umano nella pluralità indeterminata delle relazioni con altri soggetti e che lo costituiscono come tale, nei modi di un reticolo di connessioni esistenziali soltanto all’interno delle quali l’io può nascere e affermarsi[2]: per usare termini filosoficamente significativi nel lessico di Heidegger, diremmo che ogni essere umano – poiché la persona è costitutivamente proiettata verso gli altri - si rende tale nel Mitdasein[3].
In questa prospettiva, se si comprende bene che – come giustamente afferma Gabriella Luccioli – non “esista un diritto del magistrato ad esternare il suo credo religioso” né quello della società a conoscerlo, non si comprende invece come la fede, di cui eventualmente il giudice sia portatore, possa essere assimilata agli “stereotipi inconsciamente alimentati, ( ai) pregiudizi, (ai) convincimenti radicati e mai posti in discussione, ( alle) esperienze di vita, (a) forme mentali, (a) dati caratteriali…”, dei quali bisognerebbe liberarsi o, almeno, assumere adeguata consapevolezza allo scopo di arginarli.
In realtà, la fede rappresenta una dimensione qualificante, in modo non rimettibile, la persona umana che la professi: essa la intride dall’interno, la orienta nella visione del mondo, ne produce la “conversione”[4], ne segna una autentica palingenesi: l’”uomo nuovo”, insomma, di cui parla S. Paolo nelle sue epistole.
Ma proprio per questo, la fede non si può dismettere, quando si fuoriesca dalle mura domestiche, come si riponesse nell’armadio la giacca da camera per indossare il soprabito.
Per questa ragione, il giudice che abbia il dono della fede non può che vedere le cose da giudicare – e per fortuna! - nell’orizzonte da essa aperto, propiziato, sostenuto.
D’altra parte, la fede non consegna al diritto alcun contenuto specifico, ma fa qualcosa di molto più significativo: gli reca in dote un supplemento di senso.
Essa non solo non fornisce contenuti, ma “introduce nel circolo ermeneutico, nel quale ragione e coscienza dei giuristi si dialettizzano, una parola nuova, che né la ragione né la coscienza, in quanto tali, sono capaci di formulare”[5].
Si tratta insomma, per la fede, di raffinare e approfondire – nel senso dell’umanesimo integrale - l’orizzonte di quella pre-comprensione[6], che rappresenta la più compiuta e feconda acquisizione della lezione ermeneutica contemporanea ed alla quale moltissimo deve anche quella strettamente giuridica nella sua quotidiana opera di interpretazione[7].
Si dà qui dunque per acquisito, per un verso, che la fede[8] – qualora se ne abbia il dono – rimane parte integrante ed ineliminabile della coscienza giudicante e che, per altro verso, essa non mortifica, ma anzi esalta, dotandola di una più raffinata sensibilità, la capacità euristica propria del giurista.
2) E siccome abbiamo testé parlato di coscienza, mette conto di soffermarsi brevemente su come, della coscienza del giudice ,si tratti nelle pagine della intervista qui commentata.
E debbo dire che se ne tratta in modo alquanto originale, dal momento che mentre si afferma da un lato che “la tutela effettiva dei diritti” potrà realizzarsi soltanto attraverso “una maturazione della coscienza collettiva e un ritorno a ragionamenti lucidamente argomentati”, da un altro lato, si ribadisce che dal momento che “il magistrato è istituzionalmente deputato ad attuare un interesse generale”, ciò, in alcuni casi, “impone la limitazione della sua libertà di coscienza”.
Insomma, un’idea di coscienza alquanto singolare – non me ne voglia Gabriella Luccioli – in forza della quale nel caso essa sia collettiva è bene che si espanda e maturi, mentre in caso sia quella del giudice, allora va limitata nell’interesse generale.
Considerazioni, queste appena indicate, che inducono una doppia perplessità.
La prima perché, nonostante tutto, la collettività organizzata sarà depositaria certo di opinioni, di sensazioni, di saperi, di ideologie, ma difficilmente di una coscienza degna di esser appellata con questo specifico nome, se non usando di una metafora; utile certamente, suggestiva forse, ma sempre e soltanto metafora che ne utilizza il termine destinato a designarla, ma per significare altro e di ben diverso dalla coscienza.
Questa, infatti, sorge e fiorisce, in senso autentico, soltanto dalla e nella persona umana, nella pienezza delle sue caratteristiche relazionali.
La seconda perplessità deriva invece dal considerare come la coscienza non tolleri in nessun caso di esser limitata, pena la sua completa dissoluzione; e che, per converso, se una dimensione interiore dell’uomo – e qui del giudice – può esser limitata, allora non si tratta certo della coscienza, ma di qualcosa d’altro: appunto di opinioni, di sensazioni, di saperi, di ideologie.
Ma non si tratta comunque della coscienza, perché questa non si muove certo come una fisarmonica, pronta a contrarsi o ad espandersi a seconda della opportunità del momento.
Quanto da me sostenuto si capisce subito considerando come l’esperienza comune – quella tanto valorizzata da Giuseppe Capograssi[9] – lo confermi senza ombra di dubbio.
Significativa in proposito la definizione che egli propone di coscienza, indicata come “la consapevolezza concreta e obiettiva dell’umanità della vita”[10].
Come dire che la coscienza è il vero organo della sensibilità che ogni uomo usi per sintonizzarsi sulla obiettiva realtà della vita propria e degli altri suoi simili e che, come tale, o c’è o non c’è, non conoscendosi sue possibili gradazioni o affievolimenti.
Che sia così ce lo suggerisce lo stesso ètimo del termine: cum-scientia, per significare una sensibilità che nasce e si afferma non in chiave monadica, bensì’ comune, irreversibilmente solidaristica e che perciò in alcun caso può essere limitata o conculcata in quanto non totalmente disponibile neppure dal suo stesso portatore[11].
Un minimo di memoria storica lo conferma, ricordando come ogni compressione della coscienza individuale finisca con il ripercuotersi inevitabilmente e in modo radicale sulle relazioni con gli altri.
Si deve al celebre saggio dedicato da Hannah Arendt[12] ad Adolf Eichmann la dimostrazione di come un semplice ottundimento della coscienza possa condurre un uomo mediocre, incolto, anche pauroso verso i superiori gerarchici, a sterminare sistematicamente decine di migliaia di esseri umani come nulla fosse, come un lavoro da svolgere burocraticamente.
Eichmann non ha nulla dell’eroe malvagio, ma dotato di una sua pur perversa grandezza, quali potrebbero essere Attila o Gensis Kahn – sanguinari sterminatori dei nemici ma capaci di passare alla storia; egli non è che un grigio funzionario nazista, la cui coscienza dimidiata è divenuta incapace di cogliere la “concreta ed obiettiva umanità della vita”[13].
Intendo insomma affermare che se la coscienza viene compressa o limitata, semplicemente scompare, si dissolve come tale: non si danno “percentuali” sopravvissute di coscienza quando questa venga compressa o limitata.
Pensare come realistiche simili “percentuali” varca la soglia dell’impossibile, perché la coscienza non è costruita da parti giustapposte, in modo che staccandone alcune, le altre possano continuare a “funzionare” come nulla fosse: ogni minima espressione della coscienza – per futile che possa apparire – la contiene tutta intera e chi indebitamente la comprima, isolandone un frammento, non fa in realtà che emarginare la coscienza nella sua totalità[14].
La coscienza si comporta qui come l’infinito ( e la coscienza è infinita per definizione[15] ) matematico: ogni parte dell’infinito è a sua volta infinita ( per esempio, la serie dei numeri naturali è infinita, ma quella dei numeri pari, di cui essa è composta, è anch’essa infinita).
Per questa ragione, ogni singolo atto compiuto nell’ambito di una presunta limitazione di coscienza è in realtà compiuto “senza coscienza”, nel buio assoluto di una coscienza ormai spenta e silenziosa.
In questa prospettiva, ipotizzare che il giudice – per esempio, nel contesto delle procedure abortive richieste da una minorenne – debba imporre alla propria coscienza, nell’interesse generale, di tacere, mi pare cosa molto pericolosa, perché significa, né più né meno, che gli si chiede di decidere “senza coscienza”, il che è francamente assurdo e contrario, contrarissimo all’interesse generale.
Non si riesce a spiegare razionalmente come sia possibile chiedere al giudice di giudicare facendo a meno della coscienza: chiedergli cioè di giudicare, ma senza giudicare, perché giudicare a prescindere dalla coscienza è palesemente impossibile, in quanto l’organo del giudizio è la coscienza e non un’altra cosa.
In realtà, in tal modo, si chiede al giudice di divenire null’altro che un funzionario, scrupoloso burocrate che “manda avanti” la pratica, ma del tutto estraneo al tasso di giustizia o di ingiustizia delle norme che presiedono al suo operato.
Il giudice diviene così altro da se. Letteralmente, si perde.
3) Il ruolo primario svolto dalla coscienza era stato peraltro assai bene inteso dal Cardinale John Henry Newman, il quale, nella sua celebre lettera al Duca di Norfolk, così scrive: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo ( il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore ), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza e poi al Papa”[16]: il che non gli impedì di essere canonizzato, ovviamente dal Papa – nella specie Papa Francesco – il 13 ottobre del 2019.
Il passo citato, molto noto e sottoposto ad innumerevoli commenti, viene qui alla nostra attenzione perché serve a sottolineare come, per il convertito ( dall’anglicanesimo) Newman, il Papa c’è perché c’è la coscienza e non viceversa.
Il primato della coscienza rispetto alla pur somma autorità del Papa, per il Cardinale, altro non significa che il primato della ragione e della sensibilità rispetto all’autorità.
Questo assunto ci mette subito davanti ad altre, impegnative affermazioni dovute alla riflessione di Gabriella Luccioli, laddove ella censura – citando Giuseppe Pera - il giudice che si sentisse vincolato da “direttive promananti da autorità ecclesiastiche…in particolare quando siano in questione i diritti fondamentali di libertà dei cittadini” o dove ravvisa la inesistenza di spazi di conciliabilità fra precetti evangelici e diritto positivo in tema di aborto, di indissolubilità del matrimonio, di divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso, di aiuto al suicidio.
Orbene, è il caso di evidenziare come - a parte il fatto che mi pare del tutto improbabile che giudici italiani abbiano mai subordinato le loro decisioni a direttive ecclesiastiche - non siano i precetti evangelici ad essere invocati da chi intenda schierarsi contro aborto, divorzio, matrimonio fra omosessuali ed eutanasia, bensì lo sia la ragione giuridica in quanto tale, vale a dire la coscienza del giurista.
In proposito, non è inutile ricordare come, per esempio in tema di aborto, il retto uso della ragione giuridica – del tutto immune da contaminazioni di carattere fideistico o ecclesiastico – sia stato alla base di posizioni contrarie alla sua legalizzazione e dovute ad esponenti di primissimo piano della cultura assolutamente laica.
Ne cito soltanto tre, ma di indiscutibile qualità.
Pier Paolo Pasolini sul punto fu categorico: “Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano…io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente”[17].
Non diversamente Norberto Bobbio: “Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale, gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati…il fatto che l’aborto sia diffuso è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale…il furto d’auto è diffuso, quasi impunito, ma questo legittima il furto?...L’individuo è uno, singolo. Nel caso dell’aborto c’è un ‘altro’ nel corpo della donna. Il suicida dispone della sua singola vita. Con l’aborto si dispone di una vita altrui…E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere[18]”.
Da un altro punto di vista, è stata Oriana Fallaci, della quale rimarrà indimenticabile il sofferto incipit di una lettera indirizzata a chi non nacque, a scrivere: “ Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla….si. C’eri. Esistevi[19]”.
Nella prospettiva della cultura giuridica cattolica, peraltro, né Sergio Cotta[20] né Augusto del Noce[21] né Francesco D’Agostino[22] – vale a dire tre fra i più noti ed eminenti intellettuali cattolici degli ultimi decenni – hanno mai adoperato argomenti di carattere religioso o di matrice ecclesiastica, per stigmatizzare la inaccettabilità giuridica della legge sulla interruzione della gravidanza, facendo invece appello ad una rigorosa quanto esigente razionalità giuridica.
E come loro molti altri.
Ciò significa che né il pensiero laico né quello cattolico – significativamente coincidenti nella critica alla legalizzazione dell’aborto – hanno avuto bisogno di altro che non fossero le argomentazioni di taglio strettamente giuridico per formalizzare la loro censura.
Ne viene che i precetti evangelici – al contrario di quanto temuto e asseverato da Gabriella Luccioli - con l’aborto, in sede giuridica, non hanno nulla da spartire: similmente potrebbe dirsi per il matrimonio fra omosessuali, per l’indissolubilità del matrimonio, per l’aiuto al suicidio[23].
Si tratta infatti di verità di ragione, per quanto di una ragione immune – questa volta è davvero il caso di dirlo! – da pregiudiziali ideologiche di genere politico o sessuale.
4) Per concludere queste osservazioni, va chiarito brevemente il ruolo che la fede possa esercitare nei confronti della ragione e in particolare nei confronti della ragione giuridica.
Come accennato sopra, la fede non fornisce alla ragione contenuti nuovi e specifici, ma la orienta nel verso di un più ampio e profondo orizzonte di senso.
Ecco perché anche i non credenti – come Pasolini, Bobbio e Fallaci – ben possono giungere a conclusioni identiche a quelle dei credenti – Cotta, Del Noce, D’Agostino – in tema di bioetica: perché usano tutti in modo corretto la ragione, confrontandosi tutti con i medesimi contenuti.
Tuttavia, la fede cerca di impedire che la ragione cada negli errori più tipici che la storia del pensiero ha abbondantemente mostrato e che possono giungere a mortificarla, fino alla derelizione di se.
So bene di non affermare qui nulla di nuovo, dal momento che tutta la tradizione del pensiero occidentale – da S.Agostino a S.Tommaso fino alla influenza eminente che la scolastica esercitò sulla cultura successiva – si è spesso preoccupata di coniugare le istanze della fede con quelle della ragione.
Mi limito ad alcune brevissime e necessariamente schematiche considerazioni.
Innanzitutto, non si creda che la fede possa essere alimentata a misura del depotenziamento della ragione, quasi che meno spazio occupi la ragione, più ne rimanga per la fede.
E’ piuttosto vero il contrario: senza una ragione capace di svolgere il proprio ruolo fino in fondo, anche la fede viene posta in pericolo, dal momento che rischia di ridursi a semplice superstizione o di dileguare nelle nebbie della mitologia.
Similmente, la ragione ha bisogno che la fede svolga anch’essa il proprio ruolo fino in fondo, altrimenti rischia di chiudersi pericolosamente nel circolo asfittico della propria autoreferenzialità.
La ragione, insomma, costruisce; la fede alimenta e fonda. La ragione logicizza; la fede mostra i limiti della logica. La ragione conclude; la fede mostra una ulteriorità rispetto ad ogni conclusione. La ragione assolutizza; la fede relativizza. La ragione tende ad escludere; la fede ad includere.
E il diritto? Come si dialettizza con la fede?
Il diritto pensa di esaurire il dicibile; la fede gli ricorda che il più rimane ancora da dire. Il diritto cerca la proporzione rigorosa; la fede gli ricorda che nessuna proporzione basta a se stessa. Il diritto afferma la simmetria; la fede gli ricorda la fecondità della dissimmetria. Il diritto pensa di poter comprendere tutto; la fede gli ricorda che proprio quando sembra di aver tutto compreso, c’è ancora tutto da comprendere: la fede sa infatti – e lo ricorda al diritto - che ogni essere umano è un mistero, e che come tale va rispettato e custodito.
Ecco perché affinando la sensibilità della propria coscienza verso la fede e l’orizzonte da questa dischiuso, il giudice non potrà mai ridursi, dimenticando le cose come in effetti sono, a semplice custode del nichilismo, dello scientismo o del formalismo, come purtroppo oggi si rischia di farlo divenire, assolutizzando il dettato del diritto e delle ideologie che spesso ne condizionano le interpretazioni.
Infatti, soltanto una sana e feconda dialettica fra ragione e fede potrà tenerlo saldamente ancorato alla realtà della giustizia ( cioè della vita ), che del diritto rappresenta il principio fondativo.
Affinché egli non sia costretto a ripetere ( e noi con lui ) - come il Re di Ionesco – che “non c’è più niente di normale da quando l’anormale è diventato la norma”[24].
[1] Non prendo qui volutamente in esame le forme religiose non monoteistiche in quanto bisognerebbe dedicar loro – in forza della loro struttura logica e storica – un discorso a parte che qui non è possibile. Inoltre, nelle religioni politeistiche, non è possibile parlare di “fede” in senso proprio.
[2] A partire dalla nascita: si viene concepiti e si nasce attraverso una relazione biunivoca che diviene triadica.
[3] Sein und Zeit, § 9, 12.
[4] Chi si converte, del resto, non vede cose diverse da chi non lo abbia fatto: vede, infatti, le medesime cose, ma da un diverso “punto di vista”: questo il significato proprio del convertere.
[5] F.D’Agostino, Il diritto come problema teologico, in Il diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto, Torino, 1995, pag. 30: prendo qui in prestito a proposito della fede, le espressioni di cui nel testo e adoperate da D’Agostino in riferimento alla teologia del diritto.
[6] J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, tr. It., Napoli, 2010.
[7] H.G.Gadamer, Verità e metodo, tr.it., Milano, 2000.
[8] E’ il caso di precisare come la fede non vada intesa come il possesso definitivo e formalmente appreso di un dato trascendente, ma come la risposta, sempre in pericolo di essere revocata in dubbio, alla chiamata di Dio: ciò per dire che l’uomo di fede non è esente dal rovello del dubbio, come del resto l’agnostico non è esente dalla tentazione della fede. Il tema è colto e splendidamente sviluppato da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia, 2012.
[9] Analisi dell’esperienza comune, in Opere, I, Milano, 1959.
[10] Obbedienza e coscienza, in Opere, V, Milano, 1959.
[11] Si può utilmente leggere, per intendere il faticoso nascere della coscienza giuridica e il suo relazionarsi costitutivo con gli altri, il delizioso racconto di S. Zweig, Gli occhi dell’eterno fratello, Milano, 2013, al quale ho dedicato attenzione nel mio saggio Cosa cercano i giuristi nella letteratura? , in “Forum italicum. A journal of italian studies”, London, 2019, n. 53, pp. 232 ss., al quale mi permetto di rinviare.
[12] Alludo ovviamente a La banalità del male, tr. It., Milano, 2019.
[13] Si tratta senza dubbio qui di una esemplificazione estremizzata, ma è proprio estremizzandone gli effetti che meglio si può cogliere il senso dei fenomeni.
[14] Cfr. H.U.Von Balthasar, Il tutto nel frammento, tr. It., Milano, 2017.
[15] Come bene mette in luce la riflessione di H.Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. Milano, 2002.
[16] Lettera al Duca di Norfolk: coscienza e libertà, tr. It., Milano, 1999, p. 236.
[17] Scritti corsari, Milano, 1990, p. 98.
[18] Tempi del 22/05/2013.
[19] Lettera a un bambino mai nato, Milano, 2019, p. 5.
[20] Cfr. Il diritto come sistema di valori, Cinisello Balsamo, 2004.
[21] Cfr. L’epoca della secolarizzazione, Milano, 1980.
[22] Cfr. Bioetica e biopolitica. Ventuno voci fondamentali, Torino, 2011.
[23] Lo ha esaurientemente mostrato A.R.Vitale, di cui cfr. L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017.
[24] E. Ionesco, Il Re muore, Torino, 1963, p. 23.
Il caso Vos Thalassa: il “carosello” delle scriminanti in un apparente conflitto fra legge penale e principio di non-refoulement
di Pietro Maria Sabella
Sommario: 1. La prospettiva di indagine - 2. Il soccorso in mare in Zona SAR. Fatto storico e fatto tipico - 2.1. Il riconoscimento in primo grado della scriminante della legittima difesa per lesione del principio di non refoulement - 2.2. La riforma nel giudizio di secondo grado - 3. Il carosello delle scriminanti e la neutralità del principio di non respingimento nel caso Vos Thalassa. Verso il superamento di un manicheismo fra diritto penale e diritto umanitario - 4. «Esternalizzazione delle frontiere», soccorso in mare e tutela dei confini - 5. Legittima difesa degli imputati o adempimento di un dovere del Capitano? - 6. I requisiti della legittima difesa. Alcune riflessioni sull’attualità del pericolo, la volontaria causazione e necessità della reazione nel caso Vos Thalassa - 7. La «stanchezza della catastrofe». Conclusioni.
1. La prospettiva di indagine
Commentare la sentenza della Corte di Appello di Palermo, n. 1525 del 3 giugno 2020, sul caso Vos Thalassa, rappresenta per il penalista un compito arduo, che impone di procedere con adeguata cautela.
La tentazione di addentrarsi nei meandri più sensibili delle problematiche connesse alle dinamiche socio-politiche dei flussi migratori nel Mediterraneo potrebbe, infatti, indurre l’interprete ad abbandonare il punto di vista del giurista per adottare una prospettiva diversa, probabilmente sfocata e intrisa di componenti eterogenee.
È del resto indubbio che dal momento che la cornice normativa volta a (cercare di) regolare il fenomeno migratorio appare molto articolata e complessa e per questo poco efficace e lineare, ogni potenziale decisione assunta da una Corte italiana, straniera o sovranazionale sul tema possa destare perplessità e rischi di sconfinare in valutazioni poco coerenti con le scelte dell’ordinamento in materia penale. Si tratta allora di considerare i fatti oggetto di accertamento alla luce dei canoni e principi tipici di quel diritto penale che, al di là delle sue più varie declinazioni concrete, continuano a svolgere un insostituibile ruolo di strumento di garanzia per i soggetti a cui si applica.
In questo senso, dunque, potrebbe risultare sempre ostico e insoddisfacente il tentativo di permeare la materia di canoni e prospettive di giudizio ad essa estranee. Con ciò si intende dire che la giurisdizione penale non può rappresentare il forum destinatae solutionis nel quale effettuare un bilancio complessivo circa le politiche europee e internazionali in materia di controllo e regolamentazione dei flussi migratori e delle frontiere (di recente, in particolare sulla criminalizzazione del favoreggiamento irregolare dell’immigrazione clandestina, cfr. V. Mitsilegas, I fondamenti normativi dell’incriminazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Analisi delle problematiche linee di confine tra diritto europeo e diritto internazionale, in V. Militello, A. Spena, A. Mangiaracina, L. Siracusa (cur.) I traffici illeciti nel mediterraneo. Persone, stupefacenti, tabacco. Torino, 2019, pag. 166 s.). Si tratta piuttosto del luogo eletto per accertare se un dato comportamento abbia assunto o meno una rilevanza penale meritevole di sanzione in relazione all’ordinamento considerato. Solo questo “parziale” ma fondamentale apporto da parte del giudice può sollecitare una riflessione più ampia, contribuendo così con le altre scienze e tecniche alla cristallizzazione dei limiti dell’intervento in materia e alla prospettazione di rimedi e soluzioni.
Ecco perché il commento al caso Vos Thalassa che seguirà verte principalmente sull’ipotesi di riconoscimento della scriminante della legittima difesa, ex art. 52 c.p., rispetto a delle condotte di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, di cui agli artt. 336 c.p. e 337 c.p., poste in essere da due migranti contro l’equipaggio che li stava soccorrendo e sulla configurabilità del reato di favoreggiamento all’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 del d.lgs. m. 286/1998. Non ci si occuperà invece della natura e dei criteri di applicabilità del diritto al non refoulement per i soccorsi effettuati in zona SAR (c.d. «search and rescue»), in quanto il principio di non respingimento – come si vedrà - appare comunque del tutto neutrale rispetto alla condotta, ai fatti accaduti e al ruolo delle cause di giustificazione.
2. Il soccorso in mare in zona SAR. Fatto storico e fatto tipico
Occorre prendere le mosse dagli avvenimenti che riportano all’8 luglio 2018, data in cui il rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera italiana e adibito alle attività di supporto di una piattaforma petrolifere libica, comunica alle autorità italiane del Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC) di aver recuperato 67 migranti presenti a bordo di una piccola e malridotta imbarcazione in procinto di affondare. Il salvataggio avviene in zona SAR libica. Per tale ragione, l’Autorità italiana si attiva e cerca di dare avviso agli omologhi africani, competenti a gestire e coordinare gli aiuti ai natanti nella zona in cui avviene il recupero dei migranti coinvolti.
In assenza di un riscontro immediato da parte delle autorità libiche, in adempimento dei doveri di soccorso, il rimorchiatore procede verso Lampedusa, ovvero verso il c.d. place of safety più vicino secondo le Convenzioni e i Trattati in vigore.
Tuttavia, durante la traversata, da Tripoli giunge una risposta, avente ad oggetto la richiesta di trasbordo dei migranti a favore delle motovedette nordafricane, in acque internazionali, a circa 15 miglia marine dalla costa. Per tale ragione, la Vos Thalassa inverte la rotta per procedere verso sud.
Da quel momento, alcuni migranti a bordo, resosi conto dell’inversione verso la Libia, per scongiurare il ritorno verso quei lidi, assumono un comportamento minaccioso e aggressivo, accerchiando, spintonando e usando violenza – anche verbale (con minacce di morte) - nei confronti dei componenti dell’equipaggio e dello stesso Capitano. Questi, nel timore di poter essere fisicamente interessato, contatta nuovamente l’Autorità italiana, la quale invia la nave militare Diciotti, che carica i migranti per sbarcare infine in Sicilia.
All’arrivo in terraferma, due fra i migranti riconosciuti per essere stati i protagonisti della “tentata rivolta” e gli autori dei fatti di reato, vengono arrestati, come anticipato, con l’accusa di violenza e minaccia, resistenza a Pubblico Ufficiale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
2.1. Il riconoscimento in primo grado della scriminante della legittima difesa per lesione del principio di non refoulement
Quanto alla vicenda processuale relativa alla qualificazione del fatto, va innanzitutto ricordato che in primo grado, il GUP di Trapani, in rito abbreviato, (Trib. Trapani, Ufficio Gip, sent. 23 maggio 2019, dep. 3 giugno 2019) riteneva che le condotte ascritte ai due imputati, adeguatamente riscontrate in sede istruttoria, erano idonee a configurare in concorso le ipotesi di cui ai delitti di cui agli artt. 336 e 337 c.p., nonché al reato di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 268/1998 (favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare).
Tuttavia, procedeva ad assolvere gli imputati, ritenendo applicabile la scriminante della legittima difesa, sul presupposto che questi avessero agito in siffatto modo per tutelare il proprio diritto (o interesse qualificato) a non essere respinti verso la Libia, ovvero verso un Paese in cui sarebbero stati sottoposti al pericolo concreto di violenze e trattamenti inumani e degradanti. In particolare, secondo il giudice di Trapani, i due migranti avrebbero difeso il proprio diritto al non refoulement, riconosciuto dal diritto consuetudinario internazionale, oltre che dal Trattato di Amburgo del 1979, respingendo con la violenza l’attacco e la potenziale violazione ad esso prodotto dall’equipaggio italiano che, in adempimento di un dovere illegittimo, stava riconducendo i migranti sotto l’autorità marittima libica (per un primo commento alla decisione di primo grado cfr. A. Natale, Caso Vos Thalassa: il fatto, la lingua e l’ideologia del giudice, in Quest. Giust., del 23 luglio 2020; L. Masera, La legittima difesa dei migranti e l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia (caso Vos Thalassa), in www.penalecontemporaneo.it, del 24 giugno 2019).
A differenza che in altri casi simili (vedi anche caso Rackete, cfr. C. Ruggiero, Dalla criminalizzazione alla giustificazione delle attività di ricerca e soccorso in mare. Le tendenze interpretative più recenti alla luce dei Casi Vos Thalassa e Rackete, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1/2020, pag. 185-214; per il caso Open Arms F. De Vittor, Soccorso in mare e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: sequestro e dissequestro della nave Open Arms, in Diritti umani e diritto internazionale, 2/2018, pag. 443-453) dunque, il Giudice di Trapani non intravedeva i profili applicativi della causa di giustificazione dello stato di necessità, sul presupposto che l’aggressione fosse direttamente dipesa dall’equipaggio italiano dal quale i migranti hanno cercato di difendersi.
Per potere cogliere appieno il senso complessivo della vicenda, può essere utile comunque approfondire l’analisi degli elementi essenziali intorno ai quali la sentenza del giudice di prime cure si è sviluppata per giungere all’applicazione della legittima difesa. Molto dell’argomentazione adottata, infatti, si fonda sulla ricostruzione della normativa sovranazionale e internazionale in materia di soccorso in mare dei migranti, di divieto di non respingimento e di trattamento disumano e degradante. Ciò con lo scopo, non proprio celato fra le righe, di far primeggiare su ogni altro profilo l’esigenza di tutela della figura del migrante e della sua protezione da eventuali rimpatri che ne possano mettere in pericolo la vita e l’integrità personale e morale.
Tuttavia, la conseguenza è stata quella di privilegiare, nella qualificazione del «diritto posto in pericolo», una prospettiva asincrona con il diritto penale e, nella specie, con gli elementi costitutivi della legittima difesa e riprodurre una ricostruzione delle norme di diritto internazionale certamente idonea ad evidenziare la gravità del pericolo derivante da un eventuale rimpatrio dei migranti in Libia o nei Paesi di origine, in cui i diritti umani sono scarsamente tutelati.
Correttamente, comunque, in un primo momento, il Tribunale di Trapani enuncia le norme internazionali applicabili al caso di specie e, in generale, alla ricerca e al salvataggio delle persone in mare. Individua nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974 e, ancora più specificamente, nella Convenzione di Amburgo del 1979 sul salvataggio in mare nelle c.d. «zone SAR», i capisaldi normativi di riferimento, dai quali ricava l’esistenza di un obbligo di salvataggio in mare della vita umana, il quale, peraltro, richiede l’individuazione del c.d. place of safety dove far sbarcare (per un approfondimento su tale nozione quale luogo in cui possano avere effettiva tutela i diritti umani dei soggetti soccorsi in mare si veda M. Starita, Il dovere di soccorso in mare e il “diritto di obbedire al diritto” (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 1/2019, pag. 5 s.; R. Virzo, Il coordinamento di norme di diritto internazionale applicabili allo status di rifugiati e dei bambini migranti via mare, in Rivista del diritto della navigazione, 1/2016, pag. 143 s.).
Qualora i migranti, sempre in virtù delle norme di diritto internazionale, possano godere dello status di rifugiati o godere dell’asilo, il diritto allo sbarco in una terra sicura si colora anche di un ulteriore significato, che obbliga i soccorritori a trasportare questi individui in un territorio in cui possa essere garantita la protezione internazionale. Di qui il divieto di respingimento e la necessità di far approdare i migranti in Europa.
In seconda battuta, il Tribunale di Trapani non accoglie la richiesta di domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia in merito al contrasto fra la disciplina della Convenzione di Amburgo e il principio di protezione dal respingimento di cui all’art. 21 della Direttive 2011/95/UE e Direttiva 2013/32/UE, che il Pubblico Ministero aveva promosso per valutare l’applicabilità al caso di specie della causa di non punibilità di cui all’art. 393-bis c.p., in ragione del fatto che la Convenzione di Amburgo non legittima il rimpatrio in Libia dei migranti soccorsi, ma ne impone il loro ricovero in un porto sicuro. Il giudice di prime cure ragiona quindi sulla compatibilità del Memorandum di intesa fra Italia e Libia del 2017 con il diritto internazionale consuetudinario e con la Convenzione di Amburgo del 1979 (per un approfondimento sul memorandum, cfr. L. Di Majo – I. Patroni Griffi, Migrazioni e relazioni bilaterali fra Italia e Libia dal Trattato di Bengasi del 2008 al Memorandum of Understanding del 2017, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2018, pag. 203 s.). Il giudice conclude nel senso che tale accordo, con il quale il Governo italiano e quello temporaneo libico hanno stabilito le condizioni di cooperazione per contrastare l’immigrazione irregolare nella c.d. zona SAR ed in particolare il potere della marina libica di chiedere alle autorità italiane la consegna e l’affidamento dei migranti soccorsi in tale tratto di mare, risultasse in contrasto, in primo luogo, con la Convenzione di Amburgo, per violazione del divieto di non refoulement, che all’epoca della sottoscrizione del Memorandum aveva già acquisito il rango di jus cogens. Di conseguenza, afferma sempre il Tribunale, la Convenzione italo-libica sarebbe priva di validità, poiché in conflitto con l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, il quale afferma che «è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale». Inoltre, per la stessa ragione, il Memorandum sarebbe risultato altresì incompatibile con l’art. 10 Cost., in ossequio al quale l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, fra cui rientrerebbe anche il principio del divieto di non respingimento. In altri termini, le autorità italiane, riportando i migranti verso la Libia, avrebbero agito in ottemperanza ad un ordine illegittimo, adottato in violazione del diritto internazionale consuetudinario. Così facendo avrebbero leso il diritto soggettivo dei migranti/rifugiati/richiedenti asilo di potere accedere al place of safety.
Solo al termine dello sforzo ricostruttivo della cornice normativa internazionale, che in sentenza occupa quasi i due terzi dell’intera pronuncia e con la quale in pratica si dà atto di una disapplicazione di un Trattato, il Tribunale procede a verificare se nel caso di specie fosse applicabile una scriminante, in particolare la legittima difesa.
Come detto, argomenta a favore di tale soluzione, assumendo che i fatti di reato commessi siano stati realizzati proprio per contrastare una situazione di pericolo «concreto» ed «attuale» venutasi a creare a causa del comportamento dell’equipaggio italiano della Vos Thalassa che, nel tentativo di portare i migranti verso le coste libiche, in adempimento di un ordine illegittimo, poiché fondato sul Memorandum, avrebbe «attaccato» e leso il diritto al non respingimento degli stessi.
Quanto al primo profilo, il Giudice di Trapani ritiene che la condotta del comandante della nave, che aveva cercato di riportare in Libia i migranti soccorsi, nella convinzione erronea di adempiere ad un ordine legittimo dell’autorità, configurasse una «offesa ingiusta», da intendersi come contra ius (cfr. C.F. Grosso, voce Legittima Difesa, in Enc. Dir. XXVII, Milano, 1974 pag. 36). Si sarebbe trattato, quindi, di un comportamento contrario agli obblighi internazionali di salvataggio e protezione.
La decisione esclude poi che lo stato di pericolo incombente sui migranti soccorsi potesse ritenersi «volontariamente determinato». Il Tribunale di Trapani argomenta circa l’involontarietà del pericolo affermando semplicemente che i migranti erano spinti dalla necessità impellente di salvare la propria vita (vedi pag. 67 della decisione: «Nulla di volontario, quindi, ma la spinta di una necessità impellente di salvare la propria vita»). In questo senso, il viaggio in mare faceva parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi pericolosi e non vivibili.
In merito agli elementi dell’«attualità del pericolo», della «proporzione» e della «necessità dell’azione difensiva», il Tribunale di Trapani dedica pochissime riflessioni. In relazione al primo profilo, la sentenza si limita a richiamare una precedente pronuncia della Corte di Cassazione, per la quale questo requisito «implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente».
Con riferimento al criterio della proporzione, il Tribunale ritiene che i migranti coinvolti abbiano difeso in modo proporzionato i beni giuridici oggetto di aggressione, consistenti nella vita, nell’integrità fisica, nonché nell’interesse a non essere sottoposti a trattamenti disumani e alla tortura. L’esigenza di impedire il rimpatrio verso Paesi in cui i migranti sarebbero stati sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani meriterebbe dunque di essere difesa anche attraverso l’impiego di azioni violente e minacciose nei confronti dei Pubblici Ufficiali italiani.
Di contro, invece, a detta del Tribunale di Trapani, l’equipaggio italiano avrebbe agito a tutela del diritto alla propria autodeterminazione. Dal bilanciamento dei due interessi in gioco, sarebbe stato inevitabile dovere assicurare una maggiore tutela ai migranti mediante il riconoscimento della scriminante di cui all’art. 52 c.p.
Infine, circa la necessità dell’azione difensiva, il Tribunale di Trapani afferma come in assenza di una reazione, seppur violenta e minacciosa da parte degli imputati, tutti i soggetti soccorsi sarebbero stati inevitabilmente ricondotti in Libia. In quel frangente, inoltre, in mancanza di un traduttore e non potendo essere fatto agevolmente uso della lingua italiana o inglese, non sarebbe stato possibile fare ricorso a diverse modalità di difesa del proprio diritto a sbarcare in un porto sicuro.
Le condotte realizzate, dunque, risultavano interamente scriminate. Per tale ragione, il Tribunale di Trapani assolveva perché il fatto non costituisce reato.
2.2. La riforma nel giudizio di secondo grado
La Corte di Appello di Palermo ha invece riformato la decisione di primo grado e condannato i due migranti per i fatti di reato di cui agli artt. 336 e 337 c.p. e art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286/1998 (per un primo commento, cfr. L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia non possono invocare la legittima difesa: una decisione che mette in discussione il diritto al non refoulement, in www.sistemapenale.it, del 21 luglio 2020). Per ricostruire l’iter argomentativo della decisione ora in esame, occorre muovere dalle eccezioni esposte dalla Pubblica Accusa nella impugnazione della sentenza di primo grado. In particolare, la richiesta del P.M. avanzava i rilievi seguenti:
- i Trattati internazionali richiamati dal Tribunale di Trapani riconoscerebbero quale diritto soggettivo esclusivamente il diritto di asilo e non anche quello di non refoulement, che costituirebbe, viceversa, solo un principio di condotta imposto ai singoli Stati. Per tale motivo, dunque, non potrebbe ritenersi scriminato il comportamento di chi agisca con violenza o minaccia nei confronti di un soccorritore per tutelare un interesse non protetto direttamente a favore dell’individuo;
- in ogni caso, il Giudice di Trapani avrebbe errato sia nell’identificazione del c.d. «porto sicuro», che nell’individuazione dell’autorità effettivamente competente a gestire il soccorso. Trattandosi di zona SAR libica, solamente il Paese nordafricano sarebbe il responsabile dell’attività di soccorso e traduzione in luogo sicuro;
- il GUP avrebbe inoltre errato nel disapplicare in via interpretativa il Trattato di Amburgo poiché recepito in Italia con atto avente valore di legge. In questo senso, bene avrebbe fatto il Pubblico Ministero del primo grado a sollevare questione per ottenere una pronuncia interpretativa sulle direttive europee 2011/95/UE e 2013/32/UE da parte della CGUE, per chiarire i rapporti circa il diritto di asilo, proprio di ciascun individuo e il diritto al non refoulement, posto come condizione di operatività degli Stati in fase di soccorso e non come diritto individuale del migrante. Non facendo ciò, il Tribunale di Trapani avrebbe legittimato qualsiasi azione violenta o aggressiva volta ad opporsi alle attività di soccorso non in linea con le proprie aspettative;
- la scriminante della legittima difesa difetterebbe del requisito dell’«attualità del pericolo» in quanto «al momento in cui i migranti avevano posto in essere le condotte violente e minacciose, al più sarebbe stato violato il principio di non respingimento che, come detto, costituisce un obbligo per lo Stato e non anche un diritto soggettivo per i soggetti soccorsi in mare; molti dei quali, avevano deciso liberamente di affidarsi a pericolose organizzazioni criminali per realizzare un loro progetto di vita europeo» (pag. 5 sentenza).
Tuttavia, pur riconoscendo la complessità dei temi sui quali si incentra il caso, la Corte di Appello considera «mal posta» la dicotomia tra diritto del migrante e principio regolatore per lo Stato che opera il soccorso e ritiene assolutamente centrale verificare, in primo luogo, l’esistenza dei requisiti della legittima difesa nel caso di specie.
La Corte, per ragioni di “economia processuale” decide così di non soffermarsi più sulla ricostruzione dell’impianto normativo internazionale in materia di non respingimento, lasciando comunque intendere che anche da una diversa prospettazione della natura di tale principio si sarebbe in ogni caso concluso in senso negativo circa il riconoscimento della legittima difesa. Ed infatti, l’elemento centrale e decisivo per negare l’applicabilità della legittima difesa è quello della volontaria causazione da parte dei due migranti del pericolo venutosi concretamente a realizzare. Il Collegio, infatti, sostiene fermamente che il pericolo in cui sono incorsi gli imputati sia stato, in realtà, volontariamente causato o, quantomeno, preventivamente accettato dagli stessi. Se infatti è vero che «la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell’ingiustizia dell’offesa, ma per mancanza del requisito della necessità della difesa» - sostiene la Corte di Appello, richiamando la giurisprudenza di legittimità -, sarebbe arduo intravedere nel caso di specie gli elementi della «involontarietà» e della «necessità della difesa».
A detta dei Giudici di Palermo, infatti, i migranti coinvolti nel processo si sarebbero autonomamente e volontariamente messi in pericolo. Questi avrebbero agito pianificando la traversata lungo il mare Mediterraneo in condizioni di estremo pericolo e con l’aiuto di associazioni criminali organizzate. In questo contesto, l’intervento dell’unità navale italiana non sarebbe stato un fatto causalmente imprevedibile bensì «l’ultimo di una serie di atti programmati, finalizzati a raggiungere il suolo europeo, con una serie di tappe prefissate» (pag. 9 della sentenza).
Le condotte violente e minacciose, imputate ai due migranti, peraltro, non sarebbero state poste in essere per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì «come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio di non essere portata a termine a causa dell’adempimento da parte della Vos Thalassa di un ordine impartito da uno Stato sovrano che aveva la competenza sulla Zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi».
A sostegno della propria argomentazione, la Corte di Appello precisa che il richiamo alla normativa internazionale, contraltare per valutare l’ammissibilità della legittima difesa, non avrebbe avuto comunque come esito il riconoscimento della scriminante e ciò in virtù anche di un generale criterio di ragionevolezza. Sostiene infatti la Corte di Appello di Palermo che sarebbe «davvero in contrasto con i principi di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico e persino in qualche modo criminogena, una interpretazione dei principi regolatori della causa di giustificazione della legittima difesa, applicata al diritto del mare, che consentisse ai migranti di azionare sempre e comunque comportamenti obiettivamente illeciti nei confronti di equipaggi marittimi che non assecondassero la loro volontà di raggiungere le coste europee, peraltro in situazioni di pericolo intenzionalmente causate; o la cui causazione sia stata da loro volontariamente accettata».
Dunque, avrebbe errato il Tribunale di Trapani applicando la scriminante della legittima difesa a favore di chi agisca in maniera violenta in una situazione di pericolo volontariamente causata. Per di più, le condizioni di pericolo non sarebbero neanche state determinate da uno stato di necessità concreto e tangibile. Ciò impedirebbe di riconoscere sia l’esimente dello stato di necessità che della legittima difesa.
Nell’ultima parte della motivazione in diritto, la Corte di Appello interviene in modo molto critico sulle argomentazioni della sentenza di primo grado, rilevando come queste siano fondate più su un «approccio ideologico alle soluzioni della vicenda che non su una serena analisi degli istituti giuridici». In particolare, nelle battute finali, la Corte tenta quasi di ammonire il giudice di Trapani, incorso nell’errore di aver dismesso il ruolo proprio per «creare delle scorciatoie» anche pericolose e scriminare così dei comportamenti dotati di significativo disvalore penale.
In conclusione, esclusa dunque l’esistenza di alcuni dei presupposti che consentono di riconoscere la legittima difesa, la Corte procede a ripercorrere i fatti come contestati e già provati in primo grado e a dichiarare la responsabilità penale dei due imputati, in riforma della prima decisione, per i delitti di violenza o minaccia, resistenza a Pubblico Ufficiale (336 e 337 c.p.) e favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286/1998).
3. Il carosello delle scriminanti e la neutralità del principio di non respingimento nel caso Vos Thalassa. Verso il superamento di un manicheismo fra diritto penale e diritto umanitario
Alla luce di quanto fin qui riportato, in primo luogo, emerge chiaramente come le due decisioni, di primo e secondo grado, siano state formulate sulla base di un approccio ermeneutico completamente antitetico.
Se il Tribunale di Trapani ha fondato le proprie argomentazioni a favore dell’applicazione della scriminante sull’esistenza del divieto di non refoulement, quale principio immanente, ricavandolo dalla normativa internazionale in materia, la Corte di Appello di Palermo ha, invece, agito esattamente al contrario. Ovvero, pur nel rispetto della normativa internazionale, ha privilegiato l’esigenza di verificare i presupposti della scriminante, ritenendo di contro indifferente, ai fini della qualificazione del fatto, accertare che il divieto di respingimento si ponga quale diritto soggettivo assoluto o quale mero principio di condotta per lo Stato.
Tuttavia, entrambe le prospettive interpretative sono caratterizzate per dare luogo ad un atto di scelta preciso, di volontà, con cui, attraverso il carosello delle scriminanti, si è inteso offrire indirettamente un modello di approccio ai fenomeni del naufragio e soccorso dei migranti in mar Mediterraneo.
In un certo qual modo, sia il giudice di Trapani che la Corte di Appello di Palermo (ma ciò è riscontrabile anche in altri casi), si sono abbandonati al canto delle sirene, orientando la propria decisione verso un obiettivo, sia pure a costo di maturare motivazioni in diritto che prestano il fianco a varie critiche. In particolare, è stata messa da parte ogni sorta di argomentazione rispetto alla configurabilità del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 268/98, che probabilmente non avrebbe mai dovuto essere contestato ed applicato per assenza degli elementi costitutivi della fattispecie. In entrambe le sentenze, infatti, non vengono dedicate riflessioni circa l’applicabilità della fattispecie che tuttavia, nello specifico, la Corte di Appello ritiene correttamente perfezionata.
Ebbene, però, nel complesso, la decisione della Corte di Appello di Palermo appare maggiormente coerente con i principi e i canoni della materia penale rilevanti per la soluzione di questo complesso caso.
Se, per un verso, i giudici di Palermo non hanno saputo rinunciare a commentare la decisione di primo grado anche per profili non direttamente collegati alle fattispecie coinvolte, smarrendo a tratti la propria visuale dall’oggetto principale della questione, per un altro, non hanno riscontrato particolari difficoltà nel riformare una decisione molto fragile circa l’identificazione degli elementi costitutivi della legittima difesa.
La Corte di Appello di Palermo, infatti, si concentra direttamente sull’analisi dei requisiti della legittima difesa, non senza prima segnalare che l’alternativa della qualificazione del divieto di non refoulement quale diritto soggettivo o prerogativa dello Stato e non del singolo (sulla natura del diritto, fra gli altri, F. Salerno, L’obbligo internazionale di non-refoulement dei richiedenti asilo in Diritti Umani e Diritto, 2010, pag. 487 s.) sia, come ricordato, non solo «mal posta», ma anche irrilevante per la definizione del caso. In proposito, la Corte non interviene direttamente sulla natura del divieto di non respingimento e sugli effetti che tale principio produce nella risoluzione del caso di specie, ma ne dichiara la “neutralità” rispetto alla configurabilità dei requisiti della legittima difesa. E ciò non perché la Corte di Palermo si trovasse in imbarazzo o in difficoltà nel riconoscere il non refoulement come diritto soggettivo, quanto piuttosto perché non individua nella sede penale il luogo adatto al controllo circa l’effettività del diritto internazionale consuetudinario e pattizio da parte degli Stati e alla diretta disapplicazione di norme e Trattati internazionali.
Del resto, non v’è dubbio che il divieto di non respingimento assuma le vesti di un diritto dell’individuo, riconosciuto sia dal diritto internazionale, in primis, dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, sia, per quanto attiene più da vicino l’UE, dall’art. 78 del TFUE, dalla Convenzione EDU (art. 3) e dalla Carta di Nizza (art. 19).
Recentemente, la stessa Corte EDU, con le sentenze Sharifi c. Italia e Grecia del 2014, Khalifia c. Italia del 2015, nonché già nel 2012 con la sentenza Hirsi c. Italia (fra i vari commenti, S. Mirate, Gestione dei flussi migratori e principio di “non refoulement”: la Corte EDU condanna l’Italia per i respingimenti forzosi di migranti in alto mare, nota a Corte Eur. Dir. Uomo, Grande Camera, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa et al. C. Italia, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2/2013, pag. 454-465; C. Cellamare, Brevi note sulla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo nell’affare Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in Studi sull’integrazione europea, 2012, pag. 493 s.; A. Liguori, La Corte Europea dei diritti dell’Uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia del 2009: il caso Hirsi, in Riv. Dir. Int.,2/2012, pag. 415-443) aveva infatti provveduto a ricavare tale principio dall’art. 3 CEDU e a sancire il principio per il quale gli Stati firmatari devono rispettare il divieto di non refoulement non solamente durante i controlli di frontiera, ma anche in operazioni di soccorso in alto mare.
Nello specifico, la sentenza Hirsi ha affermato che tale principio vieterebbe non solamente il rimpatrio della persona nel Paese di origine in cui rischierebbe di essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti e, in generale, alla violazione dei diritti umani, ma anche il suo trasferimento in altri Paesi in cui vi sia il rischio di un successivo rimpatrio nel Paese di origine, ovvero il respingimento indiretto.
Anche l’ordinamento giuridico nazionale italiano gode di una disciplina specifica in tema di divieto di respingimento per i soggetti richiedenti asilo politico e per i rifugiati. Per l’esattezza, l’art. 19 del Testo Unico sull’Immigrazione del 1998, come modificato con la legge n. 110/2017 che ha introdotto il delitto di tortura (cfr., fra gli altri, E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, pag. 217 s.), prevede che non possa essere disposta l’espulsione o il respingimento in Stati in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, religione, sesso, lingua, cittadinanza, opinioni politiche, etc., nonché quando esistano fondati motivi di ritenere che il soggetto rischi di essere sottoposto a tortura o alla violazione dei diritti umani.
Eppure, probabilmente, la Corte di Palermo avrebbe dovuto dedicare qualche spunto di riflessione in più in merito ai profili più critici della materia, che non attengono – come visto – alla qualificazione giuridica del principio di diritto internazionale, ma alla giurisdizione e alla competenza delle autorità nazionali nei soccorsi dei migranti in alto mare e all’azionabilità del diritto al non respingimento da parte del singolo individuo. Ciò evidenzia, da un lato, come in un tribunale non si possano prospettare significative soluzioni a tutti i problemi legati ai flussi migratori, peraltro disapplicando di fatto un trattato internazionale; dall’altro, fa comprendere che nel momento in cui la materia penale acceda a questi temi e diventi, obtorto collo, strumento di prevenzione e contrasto alla realizzazione di reati, essa debba essere applicata nei termini obiettivati nel testo adottato dal Legislatore.
Ciò si traduce, per quanto specificamente attiene al caso in esame, al dovere del giudice di verificare con precisione se il comportamento posto in essere dai due migranti imputati risulti realmente scriminato, non solo in virtù dell’esistenza di un principio di diritto internazionale consuetudinario immanente, pienamente accettato e riconosciuto, ma della conformità della condotta ai requisiti specifici che escludono la pena. Anche nell’ambito del diritto umanitario e dell’immigrazione, dunque, non si può prescindere, per l’applicazione della pena, dall’effettuare un bilanciamento degli interessi in conflitto, una verifica del c.d. «mezzo adeguato» per il raggiungimento di uno scopo consentito dall’ordinamento; nel caso della legittima difesa, tutto ciò richiede il riscontro, quantomeno, del carattere dell’offesa ingiusta, dell’attualità del pericolo, della sua volontaria causazione e della proporzionalità fra difesa e offesa.
4. «Esternalizzazione delle frontiere», soccorso in mare e tutela dei confini
Calibrare l’intervento della norma penale nel settore che coinvolge i diritti umanitari non è dunque affatto agevole. Da tempo ormai la politica di gestione dei flussi migratori portata avanti dall’UE e dai singoli Paesi membri è connotata, oltre che da una gran confusione, da finalità di contrasto all’immigrazione irregolare, di mantenimento della sicurezza nazionale e di lotta ai traffici illeciti nel mediterraneo (di recente, vedi V. Militello – A. Spena – A. Mangiaracina – L. Siracusa (a cura di), I traffici illeciti nel mediterraneo. cit.) che, per certi aspetti, mal si conciliano con esigenze umanitarie e di tutela dei diritti umani.
La moltiplicazione degli interessi da tutelare ha così prodotto una parcellizzazione della produzione normativa, a tutti i livelli, ed una chiara sovrapposizione fra attività di sorveglianza e controllo delle frontiere e attività di salvataggio. Tant’è vero che le Capitanerie di Porto e la Guardia Costiera, istituzionalmente preposte al soccorso in mare, sono oggi pienamente coinvolte nelle operazioni di contrasto all’immigrazione irregolare.
La c.d. «esternalizzazione delle frontiere», ha prodotto rapidamente una evidente incertezza nell’individuazione, interpretazione e applicazione dei principi in materia di soccorso e salvataggio. Resa ancora più lampante dall’inefficacia della politica migratoria europea che ha lasciato molti spazi sia all’espansione di modelli bilaterali di accordo fra Stati ma, in alcuni casi, anche all’uso della forza (soprattutto lungo il confine greco-turco e sullo stretto di Gibilterra) con decisive conseguenze sulla violazione dei diritti umani, in mare e su terra.
Nel Mediterraneo centrale, la frontiera è diventata letteralmente un luogo liquido, che si materializza solo dove si trova il titolare del diritto o dove si manifesta la condotta rilevante per il diritto nazionale e internazionale (cfr. P. De Sena, La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell’uomo, Torino, 2002). Gli Stati europei di destinazione dei flussi migratori hanno dunque spostato le procedure di controllo dei flussi migratori al di fuori del proprio territorio, trasferendo le responsabilità derivanti in capo a soggetti terzi, organi statali o privati che siano. Le misure c.d. di «pull-back» oggetto, ad esempio, del Memorandum fra Italia e Libia del 2017, hanno dunque lo scopo di trattenere in un territorio straniero i migranti, onde lì verificare l’esistenza dei requisiti per esercitare il diritto di asilo, per ottenere lo status di rifugiato, ed essere così eventualmente accolti in Europa.
Nel caso che qui interessa, dunque, senza entrare per adesso nel merito della conformità del Memorandum al diritto internazionale pattizio e consuetudinario (di cui si lamenta l’illegittimità perché non è stato ratificato secondo la procedura di cui all’art. 80 della Cost.), se ne dovrebbe dedurre, prima facie, che il controllo e l’accertamento sui presupposti per potere godere dello status di rifugiato o di richiedente asilo avrebbe dovuto essere esercitato dall’Autorità libica, a ciò deputata proprio in virtù dell’accordo bilaterale.
Dunque, in virtù di tale premessa, non solo l’equipaggio italiano non sarebbe stato legittimamente incaricato di “prendere in consegna” i migranti nella zona SAR interessata, ma avrebbe dovuto necessariamente trasferirli in favore delle motovedette libiche. Solo quell’autorità, sempre in base al Trattato, avrebbe avuto il dovere di accertare se quei migranti fossero in possesso dei requisiti per non essere respinti nuovamente nei loro territori d’origine. Si manifesta, quindi, un chiaro corto-circuito. Questo meccanismo è stato, infatti, evidentemente predisposto per favorire in modo primario esigenze di controllo dei confini nazionali a discapito di una buona gestione dei flussi migratori in conformità ai principi di diritto internazionale e dei diritti umani.
5. Legittima difesa degli imputati o adempimento di un dovere del Capitano?
In base a questa sommaria conclusione, ai fini del riconoscimento della legittima difesa, sarebbe stato difficile rinvenire sia il requisito dell’ingiustizia dell’offesa, per quanto latamente intesa, e l’attualità del pericolo, che si sarebbe concretizzato solo al momento del controllo da parte delle autorità libiche.
Tuttavia, del vizio intrinseco di conformità del Memorandum fra Italia e Libia del 2017 al diritto internazionale pattizio, probabilmente – e non è detto che ciò sia stato corretto -, la Corte di Appello di Palermo decide di non occuparsene direttamente, neanche sollevando questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117, I comma, Cost., o artt. 10 e 80 Cost. E ciò non per timore di addivenire ad una decisione con cui disconoscere la natura del principio di non-refoulement, ma per la consapevolezza che se il fatto fosse stato posto in essere nel “pieno rispetto” del diritto internazionale, in ogni caso, non sarebbe stato possibile rinvenire tutti gli estremi della legittima difesa nelle condotte violente e minacciose dei due imputati riscontrate anche nel giudizio di primo grado, seppur giustificate dalla scriminante ricordata.
Se si considera però che il giudizio penale non è, come già più volte detto, il luogo in cui si possa procedere ad una disapplicazione implicita di una norma di diritto internazionale e che il Memorandum fra Italia e Libia potrebbe comunque risultare legittimo poiché adottato in virtù del procedimento di stipulazione semplificata degli accordi (per un approfondimento manualistico, cfr. N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, 2009, Torino, pag.185-193; è sufficiente ricordare due casi esemplari di stipulazione semplificata: il primo concerne l’adesione alle Nazioni Unite, sanata dopo un decennio dalla richiesta di ammissione con l. 848/1957 e il Trattato di Osimo del 1975, che affrontava la questione dei confini del nostro Paese con la Ex-Jugoslavia) difficilmente potrebbe ritenersi de plano illegittimo l’ordine impartito dal MRCC al Capitano della Vos Thalassa.
In questa situazione e in assenza di una dichiarazione di illegittimità esplicita del Trattato, va riconosciuto che il Capitano della Vos Thalassa ha adempiuto ad un dovere imposto da una norma giuridica e ad un ordine legittimo dell’Autorità, ai sensi dell’art. 51 c.p. In questo senso, dunque, la condotta sarebbe formalmente legittima e l’offesa arrecata al diritto dei migranti a non essere respinti «giusta» (cfr. Grosso C.F., voce Legittima difesa, op. cit., pag. 36).
Nel caso di specie, stante quanto premesso, i presupposti formali e sostanziali di legittimità dell’ordine sembrano riscontrabili e difficilmente potrebbe attribuirsi al Capitano della Vos Thalassa il potere di sindacare la legittimità dell’ordine (cfr. A. Santoro, L’ordine del superiore nel diritto penale, Torino, 1957, pag. 169 s.).
Né si può riconoscere a tale soggetto un potere di verifica dei presupposti di legittimità della fonte normativa in base alla quale proviene l’ordine; ciò, sia in virtù del fatto che, in linea di principio, l’accertamento di legittimità spetterebbe ai superiori e, al più, ad altri organi dello Stato, sia per mancanza degli strumenti tecnico-giuridici per apprezzare la reale conformità dell’ordine alla norma del Trattato.
Infine, anche a voler ritenere che il Capitano abbia dato esecuzione ad un ordine illegittimo, questi sarebbe esentato da responsabilità in quanto, per errore di fatto, avrebbe comunque ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo dell’autorità. Non parrebbe infine possibile ritenere che l’ordine di inversione di rotta impartito potesse presentare una «manifesta criminosità» (cfr. G. Fornasari, Le cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega per un nuovo codice penale, in Ind. Pen., 2/1994, pag. 365 s.) che, invece, non avrebbe escluso la responsabilità penale dell’agente. Del resto, almeno in una prima battuta, l’ordine rilasciato non assumeva i connotati di un fatto di reato o di un crimine contro l’umanità.
In questo contesto, a loro volta, le condotte di aggressione e di minaccia esercitate dai migranti, al più, in presenza di tutti i requisiti richiesti, avrebbero potuto essere scriminate in forza di uno stato di necessità, ex art. 54 Cost., che, come noto, però, tende a salvaguardare non un qualsiasi diritto da una offesa ingiusta come nella legittima difesa, bensì «il pericolo attuale di un danno grave alla persona». L’offesa, peraltro, non sarebbe stata esercitata contro un terzo, bensì contro il putativo aggressore.
Probabilmente, dunque, questa argomentazione avrebbe potuto agevolare sia una lucida ricostruzione delle norme e dei principi sui Trattati internazionali e conseguentemente una soluzione più strutturata circa la selezione della scriminante da impiegare.
6. I requisiti della legittima difesa. Alcune riflessioni sull’attualità del pericolo, la volontaria causazione e necessità della reazione nel caso Vos Thalassa
Tuttavia, la Corte di Appello di Palermo non prende in considerazione l’ipotesi di valutare la conformità della condotta del Capitano della Vos Thalassa al diritto, tanto da propendere comunque per la qualificazione dell’offesa come «ingiusta».
Alcune riflessioni possono ora essere spese sui requisiti della legittima difesa onde verificare la tenuta della decisione della Corte di Appello.
Non si tornerà invece sulla sentenza del Tribunale di Trapani. Questa appare decisamente troppo fragile sul punto, per il semplice fatto che le argomentazioni non sono fondate su elementi concreti e attuali, bensì su ricostruzioni generalizzate del diritto internazionale e dei presupposti della legittima difesa anche attraverso eccessivi richiami a testi e documenti privi, in sé, di un’efficacia probatoria in sede penale (vedi relazioni dell’UNHCR).
Come già anticipato, la sentenza della Corte di Appello si concentra prevalentemente sul riconoscimento della volontaria causazione del pericolo o della consapevole accettazione del rischio da parte dei migranti imputati, quale componente idonea a far venire meno i requisiti della necessità della difesa o dell’ingiustizia dell’offesa, dunque dell’esimente nel suo complesso. In particolare, riscontra tale elemento nel fatto che i migranti abbiano volontariamente accettato il rischio di intraprendere un viaggio molto difficile, governato da organizzazioni criminali, dall’esito incerto. La Corte di Appello di Palermo, quindi, non lega l’evento che fa emergere la volontarietà della causazione del pericolo con il momento del naufragio e con il soccorso in mare espletato dalle Autorità Italiane. Tuttavia, secondo un’altra lettura resa da alcuni commentatori, la Corte di Appello avrebbe inteso legare l’evento che fa emergere la volontarietà della causazione del pericolo con il momento del naufragio. Tale prospettiva ha condotto a criticare questa scelta (cfr. F. Cancellaro, Caso Vos Thalassa: una discutibile pronuncia della Corte di Appello di Palermo sui rapporti tra legittima difesa e non-refoulement, in ADiM blog, agosto 2020; L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia, op. cit., pag. 9 s.), per segnalare invece che la non volontaria causazione del pericolo sia un elemento costitutivo dello stato di necessità, che il pericolo di naufragio possa riferirsi solo alla verifica della sussistenza o meno di questa sola causa di giustificazione e che, infine, questo fatto nulla abbia a che fare con il pericolo di respingimento.
Pur rilevando la problematicità del ricorso in questo campo ad un istituto come la legittima difesa sottoposto continuamente a innovazioni per spinte di politica-criminale elettorale, appare possibile affermare che la Corte di Palermo abbia correttamente ritenuto che il requisito della volontarietà del pericolo causato possa applicarsi anche a questa scriminante. Sul punto, dottrina e giurisprudenza hanno espresso un giudizio unanime: le divergenze esistenti, infatti, non hanno ad oggetto l’ammissibilità del criterio della causazione volontaria del pericolo nella legittima difesa, bensì la possibilità di far venire meno il requisito della necessità della difesa o dell’ingiustizia dell’offesa. Se ne deduce che l’art. 52 c.p. non è applicabile al soggetto che si metta dolosamente in pericolo o che affronti una situazione di rischio prevista ed accettata (cfr. C.F. Grosso, voce Legittima difesa, op.cit., pag. 46.).
Riconoscere poi in capo all’imputato migrante, che si mette in viaggio, l’accettazione del rischio o la sua volontaria causazione è probabilmente un atto che tocca molte corde, che invade più campi e prospettive, e che rischia di giudicare ogni interprete secondo una visione manichea e dicotomica del tema migrazione, per la quale l’applicazione della sanzione penale corrisponde ad uno spirito conservatore, mentre la non punibilità esprime ragioni liberali e più umanitarie. Eppure, ciò che bisogna garantire, soprattutto nelle aule del tribunale, è che la componente emotivo-politica rimanga estranea al giudizio e non, al contrario, quella normativa.
Nel caso di specie, poi, la Corte di Appello ha inteso legare la volontaria determinazione del pericolo non al singolo “evento” del naufragio, come da alcuni ritenuto, ma al respingimento prospettato (poi comunque non realizzato grazie all’intervento finale della nave Diciotti). Il naufragio rappresenta l’accadimento tragico per antonomasia nelle vie terribili del Mediterraneo ma, nella prospettiva della Corte appare da esaminare nell’insieme, con tutti i segmenti di condotta che hanno determinato i migranti a trovarsi a bordo della Vos Thalassa in quel momento e in quelle condizioni.
Il naufragio rappresenta dunque solo una parte della condotta complessiva, nella quale gli imputati si sono trovati nella situazione di mettere essi stessi in pericolo il proprio diritto, consistente non certo ad essere accolti in Italia, ma a suffragare qui l’esistenza delle condizioni che avrebbero determinato il non respingimento nei loro Paesi di origine. Non vi è alcun elemento, peraltro, allo stato dell’arte, che possa dimostrare, a contrario, che in mancanza dell’azione violenta e minacciosa da parte degli imputati, questi, non sarebbero stati sottoposti ad un controllo circa l’esistenza delle condizioni e dei requisiti per riconoscere lo status di rifugiato o di avente il diritto di asilo e comunque rimpatriati dallo Stato italiano.
In questo senso, è infatti opportuno tenere sempre a mente che il diritto al non refoulement non combacia con il diritto a entrare in suolo italiano o in quello di un altro Paese europeo, bensì con la necessità di assicurare l’accoglienza in un porto sicuro, ovvero in un luogo in cui il respingimento verso il Paese di origine non sia consentito, al pari di forme di trattamento disumani e degradanti della persona, sempre che non vi siano comprovate ragioni di rischio per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.
Semmai, in questo contesto, la Corte di Appello di Palermo, insieme alla volontaria causazione del pericolo o alla sua consapevole previsione, avrebbe dovuto accertare in modo più specifico l’esistenza dei requisiti dell’«attualità del pericolo» e della «necessità della reazione». Infatti, presupposto fondamentale della legittima difesa è che, in assenza dell’intervento immediato dell’Autorità pubblica, l’aggressione provochi un pericolo attuale di offesa ad un bene giuridico idoneo a determinare solo quel tipo di reazione e nessun’altra.
In primo luogo, occorre dunque accertare che la minaccia di lesione e offesa al bene sia concreta, incombente, se non imminente al momento del fatto, tale per cui l’unico mezzo per mettere al riparo il bene posto in pericolo sia da rinvenire solo in uno specifico comportamento, come in questo caso, in un atto violento o minaccioso.
Eppure, a rigor di logica, l’offesa che si ritiene arrecata determinando così il pericolo di respingimento non aveva ancora assunto i caratteri dell’attualità nel momento in cui la Vos Thalassa si era diretta nuovamente verso il mare territoriale libico. In quel momento, rebus sic stantibus, il pericolo poteva solo essere eventuale, potenziale o al più futuro. Conseguentemente, per ciò che concerne la necessità della difesa e, indirettamente l’elemento della proporzione, i due soggetti imputati avrebbero potuto reagire con comportamenti meno dannosi nei confronti dell’equipaggio, nella consapevolezza di potere fra l’altro interloquire direttamente con l’autorità statuale, ora italiana, ora libica.
Del resto, il giudizio circa l’esistenza di un pericolo attuale va effettuato su basi oggettive esistenti al momento della realizzazione della condotta offensiva. Queste, infatti, devono apparire idonee, secondo la migliore scienza e esperienza, a provocare l’evento lesivo che si vuole scongiurare mediante l’azione difensiva. Argomentare sulla base di circostanze conoscibili, eventuali, o conosciute solo dall’offensore o da chi si difende, condurrebbe proprio a sottoporre la legittima difesa ad applicazioni incerte, condizionate eccessivamente dai valori che l’oggetto del giudizio pone in evidenza o, comunque, al rinvio alla legittima difesa putativa, ex art. 59, 1° comma, c.p. Tuttavia, come noto, questa può configurarsi solo se e in quanto l’erronea opinione della necessità di difendersi venga fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare nella mente dell’agente la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo che, comunque, deve trovare correlazione nelle circostanze oggettive in cui la difesa si manifesta. Tale prospettiva, oltre a non essere stata discussa dalla Corte di Palermo, non rappresenta effettivamente una strada praticabile alla luce delle circostanze in cui il fatto è avvenuto.
Così come sostenere l’attualità del pericolo (senza per questo sminuire la gravità degli accadimenti) sulla base dei soli report effettuati dagli organismi internazionali sulle violazioni dei diritti umani in Libia, significherebbe imporre un ragionamento presuntivo che indipendentemente dalla fondatezza fattuale aggirerebbero il necessario riscontro concreto per accertare l’integrazione nel fatto dei requisiti della scriminante. Pur se in relazione al diverso requisito della proporzionalità può essere utile menzionare che l’introduzione da parte del Legislatore di una presunzione per i casi di violazione di domicilio abbia scatenato dubbi e contestazioni di ogni tipo (fra i primi commenti all’ultima novella in materia legge n. 36 del 26 aprile 2019,G.L. Gatta, La nuova legittima difesa: un primo commento, in www.penalecontemporaneo.it, del 01 aprile 2019), a favore, e ritengo ragionevolmente, di una valutazione concreta e caso per caso del requisito.
Al tempo stesso, come già anticipato, sembrerebbe difficile poter intravedere gli elementi della legittima difesa putativa, la quale – si ricorda – non può valutarsi esclusivamente alla luce di criteri soggettivi, identificabili, come in questo caso, nel timore o nello stato d’animo dell’agente, ma sulla base di elementi oggettivi, chiaramente riscontrabili e che denotano l’imminente e certa lesione del bene giuridico del soggetto che si difende (cfr. G. De Vero, Le scriminanti putative, in Riv. It. Dir. E proc. Pen., 1998, pag. 773 s.). Il rischio, come è stato evidenziato negli ultimi anni, sempre alla luce delle modifiche apportate alla legittima difesa (ancora S. Aprile, Un’altra riforma della legittima difesa: molta retorica e poche novità, in Cass. Pen., 7/2019, pag. 2414-2425) è quello di arricchirla di componenti soggettive strumentalmente idonee ad orientare l’istituto verso obiettivi di politica criminale piuttosto dubbi (da ultimo per quanto riguarda l’elemento del «grave turbamento», vedi F. Bacco, Il «grave turbamento» nella legittima difesa. Una prima lettura, in Dir. Pen. Cont., 5/2019, pag. 53-74).
In conclusione, dunque, al di là della più o meno discutibile scelta di ancorare l’argomentazione a favore della responsabilità penale degli imputati sull’esistenza della volontarietà del pericolo causato, una rigorosa valutazione dei requisiti della legittima difesa, in particolare dell’attualità del pericolo e della necessità della difesa, avrebbe tendenzialmente comunque condotto allo stesso risultato.
7. La «stanchezza della catastrofe». Conclusioni
Nell’attesa dunque di constatare come si orienterà la Corte di Cassazione, è indubbio che casi come quello della Vos Thalassa, della Open Arms o della Diciotti, meritino un rapido intervento del Legislatore, nazionale ma soprattutto euro-unitario, volto a regolamentare il fenomeno della migrazione nel Mediterraneo alla luce di un chiaro ed effettivo bilanciamento degli interessi in rilievo, dei diritti umani e delle esigenze di sicurezza nazionale.
Sono proprio i drammatici accadimenti legati ai fenomeni migratori di quest'ultimo ventennio a mettere a dura prova la tenuta di alcuni fra i principi più significativi delle democrazie occidentali contemporanee e, quindi, a meritare urgentemente una rivalutazione della disciplina in materia, anche in relazione ai profili penalistici, per scongiurare l'acuirsi del fenomeno, non abituarsi alla «stanchezza della catastrofe» (Z. Bauman, I migranti risvegliano le nostre paure. La politica non può rimanere cieca, intervista a cura di A. Guerrera, in La Repubblica, 29 agosto 2015) e garantire così un equilibrio fra sicurezza pubblica ed esigenze umanitarie.
Del resto, anche la disciplina in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, qui venuta in gioco per il tramite dell’art. 12, 3° comma, dimostra come non vi sia chiarezza circa le modalità con cui affrontare la crisi umanitaria in corso, in cui, troppo spesso la persona è vista come un mezzo e non come un fine.
Tuttavia, fino a quel momento, attribuire al Giudice Penale tale compito significherebbe rendere incerti i paradigmi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, lasciando eccessivi spazi a interventi che, peraltro, rischiano di alterare in modo troppo discrezionale la scala dei valori obiettivata dall’ordinamento.
Giustizia Insieme, in linea di continuità con precedenti interventi che hanno fotografato, a monte, le misure anti-Covid adottate in altri Paesi e, a valle, la risposta giudiziaria ai dubbi insorti circa la compatibilità delle restrizioni disposte dai decisori politici, pubblica il contributo di una studiosa spagnola che ha come focus la situazione iberica e le frizioni emerse, anche in quel Paese, fra autorità legislative e amministrative centrali, regionali e giudiziarie. L'autrice analizza i provvedimenti normativi e le prime decisioni giudiziarie che hanno, in alcun casi, ritenuto le restrizioni adottate lesive dei diritti fondamentale e delle ibertà delle persone.
Si tratta di uno spaccato particolarmente utile in chiave comparativa, se si considera che i problemi emersi in ambito nazionale a proposito delle forme e delle modalità dei controlli sulle misure adottate risulta in buona parte sovrapponibili a quelli emersi nella vicina Spagna, sollecitando ancora una volta l'attenzione dell'interprete sul tema del ruolo dei diritti fondasmentali e del loro bilanciamento con valori parimenti primari della società.
Il testo viene pubblicato in lingua originale per le evidenti assonanze con la lingua italiana ed è stato aggiornato con le misure adottate in Spagna fino al 2 Novembre 2020.
La crisi del Covid-19 in Spagna: tra la legislazione sanitaria e lo stato di allarme
di Patricia García Majado
Sommario: 1. Dallo stato di allarme iniziale alle misure restrittive dei diritti fondamentali di portata generale basata sulla legislazione sanitaria. 2. La ratifica giudiziaria delle misure sanitarie e delle discrepanze tra i tribunali. 3. Le conseguenze legali della confusione(o stato di incertezza).
LA CRISIS DEL COVID-19 EN ESPAÑA: ENTRE LA LEGISLACIÓN SANITARIA Y EL ESTADO DE ALARMA.
1.Del inicial estado de alarma a las medidas restrictivas de derechos fundamentales con alcance general en base a la legislación sanitaria.
La crisis sanitaria originada por la pandemia del Covid-19 ocasionó que, el 14 de marzo de 2020, se decretara el España el estado de alarma[1] (art.116.2 CE) previsto, entre otras cosas, para abordar “crisis sanitarias tales como epidemias” (art.4 Ley Orgánica 4/1981, de 1 de junio, de los estados de alarma, excepción y sitio, LOEAES). El decreto inicial de su declaración, con vigencia de 15 días, fue sometido a seis prórrogas autorizadas por el Congreso de los Diputados[2] hasta expirar su vigencia, el estado de alarma, el 21 de junio de 2020. Durante el mismo se dictaron muy diversas medidas restrictivas de derechos fundamentales. La más conocida e intensa de todas ellas fue el confinamiento domiciliario, impuesto al amparo del art.11 a) LOEAES que permite “limitar la circulación o permanencia de personas o vehículos en horas y lugares determinados, o condicionarlas al cumplimiento de ciertos requisitos” y articulado como una prohibición general de salida del domicilio salvo causas tasadas[3]. No obstante, la intensidad de las medidas impuestas no fue siempre la misma durante la vigencia del estado de alarma: se diseñaron fases de desescalada (0-3) que, a su vez, se aplicaron de forma diferenciada en diversas autonomías según la incidencia que la pandemia tuviera en cada una de ellas.
Después de que, durante meses, el debate político y académico hubiera girado sobre la pertinencia del estado de alarma o el de excepción o sobre la constitucionalidad de las medidas adoptadas al amparo del primero, las diversas medidas impuestas en el territorio nacional una vez finalizado aquél se han alejado de los estados de crisis del art.116 CE (derecho de excepción), residenciándose por entero en la legislación sanitaria ordinaria. Se han basado, fundamentalmente, en la Ley Orgánica 3/1986, de 14 de abril, de Medidas Especiales en Materia de Salud Pública (LOMESP) cuyo art.3 habilita a la autoridad sanitaria “a adoptar las medidas oportunas para el control de los enfermos, de las personas que estén o hayan estado en contacto con los mismos y del medio ambiente inmediato, así como las que se consideren necesarias en caso de riesgo de carácter transmisible”. En unos casos, las Comunidades Autónomas -que tienen la competencia en materia de Sanidad- han adoptado ellas mismas, unilateralmente, diversas medidas restrictivas de derechos fundamentales amparándose en la LOMESP, como por ejemplo la prohibición de reunirse más de un determinado número de personas en espacios públicos, la restricción horaria en establecimientos abiertos al público, la limitación de circulación en determinados territorios, etc.
En otros casos, y este es el escenario actual, la adopción de dichas medidas por parte de las autonomías es ejecución de una Orden Ministerial de Sanidad de actuaciones coordinadas[4] que, a propuesta del Consejo Interterritorial del Sistema Nacional de Salud[5], estableció unos estándares mínimos de incidencia del coronavirus (casos por habitante, % de positividad en pruebas diagnósticas y tasa de ocupación de las camas en las UCIs) para que aquéllas que los cumplieran adoptasen las medidas que en ella se recogían. La más conocida e intensa de todas ellas es el llamado “cierre perimetral” (limitación de salida y entrada a ciertos territorios salvo causas muy justificadas). Dicha Orden no es, así pues, directamente vinculante para los ciudadanos, sino para todas las Comunidades Autónomas que son quienes deben imponer las medidas que en ella se recogen cuando en su territorio se den determinados índices de afectación sanitaria (art. 65 Ley 16/2003, de 28 de mayo de Cohesión y Calidad del Sistema Nacional de Salud, LCCSNS y art.151.2 a) 2 Ley 40/2015, de 1 de octubre, de Régimen Jurídico del Sector Público, LRJSP).
Así las cosas, las diversas Comunidades Autónomas que han cumplido con los índices de incidencia sanitaria especificados han ido dictando sus propias órdenes estableciendo, entre otras medidas, diversos cierres perimetrales de distintos territorios dentro de las autonomías, como es el caso de Madrid, Castilla y León, Galicia, Andalucía, Extremadura, Castilla-La Mancha, Navarra, Murcia, etc. En la actualidad, quince provincias de nueve Comunidades Autónomas tienen previstos cierres perimetrales de algunas partes de sus respectivos territorios. No obstante, han sido Navarra[6] y La Rioja[7] las primeras Comunidades Autónomas en imponer el cierre perimetral a nivel autonómico.
Ahora bien, lo relevante, en todo caso, es que el supuesto fundamento normativo habilitante para imponer esas diversas medidas de contención de la pandemia es, fundamentalmente, el ya referido art.3 LOMESP. Y aquí es, precisamente, donde radica el centro de la discusión académica y, como veremos, también judicial: en si dicho artículo habilita a la Administración a acordar medidas restrictivas de derechos fundamentales de forma generalizada. Bajo mi punto de vista, no lo hace. Dicha ley autoriza la imposición de medidas individualizadas o singulares pues no en vano habla de los enfermos y de las personas que estén o hayan estado en contacto con los mismos. La medida del cierre perimetral, impuesta, por definición, de forma indiscriminada a todos los habitantes de un determinado ámbito territorial que, como tales, no tienen por qué estar enfermos ni tampoco haber mantenido contacto con éstos, no encaja demasiado bien en dicho precepto. Tampoco lo hacen, en suma, cualesquiera otras medidas restrictivas de derechos fundamentales dirigidas a una colectividad indeterminada de personas, como por ejemplo el comúnmente llamado “toque de queda” (limitación generalizada de circulación a partir de determinadas horas). El art.3 LOMESP exige una identificación singular de los afectados (contagiados o que hayan estado en contacto con éstos), no amparando aquellas medidas dirigidas a un grupo indiferenciado de personas o a una población entera. El ejemplo más claro de su correcta aplicación tal vez sea el confinamiento de las personas alojadas en un hotel en Tenerife, acordado ante la existencia de un brote de coronavirus en el mismo[8] y ratificado por el Juzgado de lo Contencioso-administrativo nº1 de Tenerife[9].
Podría entenderse, no obstante, que esas medidas de alcance general entran dentro del inciso final del precepto –“así como las [medidas] que se consideren necesarias en caso de riesgo de carácter transmisible”-. Sin embargo, resulta muy cuestionable imponer una medida restrictiva de derechos fundamentales en base a un precepto cuya indeterminación y vaguedad son posiblemente incompatibles con las exigencias constitucionales de certeza y previsibilidad que deben exigirse a un límite a los derechos fundamentales, tanto para garantizar el principio de seguridad jurídica como el propio contenido esencial del derecho en cuestión[10]. Dicho precepto es así pues merecedor de una reforma legislativa o bien del planteamiento de una cuestión de inconstitucionalidad ante el Tribunal Constitucional algo que, al menos hasta el momento, no ha sucedido. De lege data, por tanto, esos cierres perimetrales -como cualesquiera otras medidas restrictivas de derechos fundamentales de forma general o indeterminada- encuentran su hueco en el Derecho de excepción, concretamente en el estado de alarma que, entre otras cosas, permite “limitar la circulación o permanencia de personas o vehículos en horas y lugares determinados, o condicionarlas al cumplimiento de ciertos requisitos” (art.11a LOEAES).
2.La ratificación judicial de las medidas sanitarias y las discrepancias entre Tribunales.
La medidas sanitarias restrictivas de derechos fundamentales adoptadas por la Administración “cuando sus destinatarios no estén identificados individualmente” deben ser objeto de ratificación judicial por la Audiencia Nacional o los correspondientes Tribunales Superiores de Justicia de las Comunidades Autónomas (TSJ), dependiendo si son de ámbito nacional o autonómico respectivamente, en un plazo máximo de tres días y sin contradicción procesal (arts.11.1 i y 10.1 8 Ley 29/1998, de 13 de julio, reguladora de la Jurisdicción Contencioso-administrativa, LJCA). Hasta la reforma operada por la recentísima Ley 3/2020, de 18 de septiembre, de medidas procesales y organizativas para hacer frente al COVID-19 en el ámbito de la Administración de Justicia (Disposición Final 2º), que es la que añadió tales preceptos, solo se preveía que fuesen los Juzgados de lo Contencioso los que ratificasen las medidas limitativas de derechos fundamentales cuando estuviesen “plasmadas en actos administrativos singulares que afecten únicamente a uno o varios particulares concretos e identificados de manera individualizada” (art.8.6 LJCA).
Parece, por tanto, que las medidas que podía adoptar la autoridad sanitaria (fundadas en el art.3 LOMESP) y que debían ser objeto de ratificación judicial, eran exclusivamente las individualizadas. Justamente por eso tuvo que cambiarse la LJCA: para dar forzada cobertura a lo que la propia LOMESP no contemplaba. Mientras que dicha reforma se aduce actualmente como un argumento a favor de la posibilidad de adoptar medidas generales de restricción de derechos fundamentales en base a la LOMESP -pues si son objeto de ratificación se presupone su adopción- parece más bien lo contrario: una indeseable modificación encubierta de la norma sustantiva (LOMESP) para reconocer, implícitamente, que la misma ampara la imposición de medidas restrictivas indiscriminadas y generales que originariamente no contemplaba. Lógicamente, si esa fuera la pretensión, lo correcto hubiera sido -y sigue siendo, a mi juicio- modificar la propia LOMESP -que tiene, por cierto, rango de ley orgánica- para que en base a un precepto redactado de forma previsible y cierta pueda la autoridad sanitaria imponer, entre otras cosas, la medida del cierre perimetral.
Siendo éste, de todas formas, el panorama jurídico actual, lo cierto es que la gran mayoría de los TSJ han venido ratificando las medidas sanitarias impuestas en distintas autonomías -singularmente los cierres perimetrales- entendiendo que las órdenes de las respectivas consejerías (normas reglamentarias) que las imponen, encuentran su habilitación legal en el art.3 LOMESP[11]. Constatada dicha cobertura legal, la licitud de las medidas pivota sobre el principio de proporcionalidad (persecución de fin legítimo, necesidad y proporcionalidad en sentido estricto). No obstante, aunque TSJ de Madrid fue el primero en no ratificar medidas sanitarias en su Auto 128/2020, de 8 de octubre, no lo hizo por cuestiones formales. De esta manera, el pionero en desmarcarse de esta línea judicial general ha sido el TSJ de Aragón en su Auto 89/2020, de 10 de octubre.
El primero de ellos no ratificó el cierre perimetral de Madrid al entender que la Orden de Consejería de Sanidad que lo imponía carecía de cobertura legal. Y ello por cuanto dicha Orden solo invocaba el art.65 LCCSNS, que es el que recoge los supuestos en los que cabe la posibilidad de establecer actuaciones coordinadas entre el Estado y las CC. AA en materia de salud, pero no los aspectos materiales de las eventuales medidas a adoptar, que se encuentran en la LOMESP (art.3), no citada en la Orden. El TSJ de Madrid entendió que las medidas impuestas, restrictivas de derechos fundamentales, carecían entonces de cobertura legal. Sin embargo, de su razonamiento parece deducirse que, si el art.3 LOMESP hubiera sido expresamente invocado, las medidas se hubieran ratificado; con lo que el TSJ de Madrid parece entender que la legislación sanitaria ordinaria ofrece cobertura legal a la imposición de medidas restrictivas de derechos fundamentales de alcance general. En efecto, eso es lo que sucedió algunas semanas atrás, cuando ese mismo Tribunal ratificó el confinamiento por barrios impuesto por la Comunidad Autónoma de Madrid[12]. Sin embargo, el TSJ de Aragón rechazó el cierre perimetral de una de sus poblaciones (Almunia de Doña Godina) al entender, justamente, que el art.3 LOMESP no ofrece cobertura legal para imponer medidas restrictivas de derechos fundamentales de manera general e indiscriminada -en la línea que aquí se sostiene- que es, en efecto, el mismo planteamiento que han adoptado posteriormente el TSJ del País Vasco (Auto 32/2020, de 21 de octubre) para rechazar la prohibición de reunión de más de seis personas en espacios públicos y privados o el TSJ de Castilla y León para no ratificar la restricción generalizada a la movilidad nocturna (Auto 273/2020, de 25 de octubre).
Esta situación, en fin, ha provocado que medidas impuestas en base al mismo fundamento jurídico (LOMESP) hayan sido objeto de ratificación por algunos Tribunales Superiores de Justicia pero no por otros, incrementándose así la inseguridad jurídica y el desconcierto de la propia ciudadanía. Esto ha propiciado que, según se ha anunciado, la Fiscalía vaya a recurrir en casación ante el Tribunal Supremo el aludido ATSJ de Madrid 128/2020 de 8 de octubre por el que no se ratificaba el cierre perimetral de la capital, con el objetivo de que unifique doctrina a este respecto y, por tanto, que declare si el art.3 LOMESP es o no ley habilitante para la adopción de medidas generalizadas de restricción de derechos fundamentales.
3.Las consecuencias jurídicas del desconcierto.
El rechazo de la ratificación de las medidas impuestas por los TSJ en Madrid y Aragón ha dado lugar, en un primer momento, a dos reacciones jurídicas diferentes. En el primer caso, a la declaración del estado de alarma en la Comunidad de Madrid[13], previéndose como una de las medidas del mismo el ya citado cierre perimetral que es, en vista del ordenamiento jurídico vigente, lo que debía haberse acordado desde el principio. En el segundo, ha conducido a su imposición vía decreto-ley. Cuando parecía que el escenario de confusión había tocado techo, se abre así una nueva posibilidad para imponer medidas restrictivas generalizadas de derechos fundamentales que ya no pasa ni por la declaración del estado de alarma ni por su adopción mediante normas reglamentarias autonómicas: su previsión en la legislación de urgencia.
El Gobierno de Aragón dictó, en un primer momento, un decreto-ley que aspira a actuar como norma de desarrollo (más taxativa) de la propia LOMESP al amparo de la cual la autoridad sanitaria, en este caso autonómica, pueda imponer medidas generalizadas de restricción de derechos fundamentales para la contención de la pandemia, entre ellas los cierres perimetrales, en base a determinados niveles de alerta[14]. Pero es que, a su vez, la adopción efectiva de las medidas previstas en ese decreto-ley se ha hecho a través de otro decreto-ley que, fundamentalmente, acuerda la imposición del cierre perimetral de las capitales de la región aragonesa (Zaragoza, Huesca y Teruel)[15].
La previsión de estas medidas en decretos-leyes (normas con rango de ley) evita su ratificación por parte de la jurisdicción contencioso-administrativa. Aquéllos solamente serían recurribles ante el Tribunal Constitucional, bien a través de un recurso o de una cuestión de inconstitucionalidad. Parece, no obstante, que el establecimiento de los cierres perimetrales y confinamientos a través de esta fuente (arts. 34 y ss.) contraviene uno de sus límites materiales: la afectación de derechos fundamentales (art.86 CE) en este caso, la libertad ambulatoria del art.19 CE. Más que una regulación de su ejercicio, el impedimento de entrada y salida de un determinado territorio de forma indiscriminada, no previsto por la propia LOMESP, constituye una afectación frontal y directa de la libertad de circulación del art.19 CE, algo vetado a la legislación de urgencia según la jurisprudencia constitucional al respecto. Es, más bien, materia propia de Ley Orgánica.
En definitiva, a la vista del ordenamiento jurídico vigente, parece que la imposición de medidas limitativas de derechos fundamentales con alcance general solo puede hacerse vía estado de alarma y no a través de la legislación sanitaria ordinaria. Otra cosa es que, en vista de esta experiencia, que seguro aún aguarda ciertas sorpresas, eso deba ser, de lege ferenda, necesariamente así. Piénsese, por ejemplo, que no parece demasiado razonable tener que recurrir casi de forma permanente al estado de alarma para enfrentar una situación sanitaria que, a la vista de los datos, apunta a ser mantenida en el tiempo (duración de años), adquiriendo un carácter más estructural que coyuntural y, por tanto, alejándose de la lógica del Derecho de excepción. Por otro, es cierto que tampoco parecer serlo tener que recurrir a ese instrumento para, por ejemplo, confinar zonas territoriales muy reducidas.
La pandemia, además de poner de manifiesto muchísimas debilidades sociales, también ha sacado a relucir las insuficiencias del marco normativo existente para abordarla. A este respecto, parece muy conveniente, entre otras cosas, la reforma de la propia LOMESP que data de 1986, momento en el que los desafíos sanitarios seguro no eran como los actuales ni quizás tampoco los estándares de certeza y taxatividad que se exigen a una ley limitativa de derechos fundamentales. Sería, por tanto, deseable que el legislador precisara con mayor concreción y claridad las medidas que puede adoptar la Administración en un contexto de crisis sanitaria como el actual, algo que a buen seguro reduciría la inseguridad jurídica y el desconcierto actualmente reinantes. Frente a la imperiosa necesidad de actualizar al marco normativo, en el lapso de ya casi ocho meses, en el Parlamento solo ha habido hueco, sin embargo, para la pasividad y la inacción.
Finalmente, el avance significativo de la pandemia en todo el territorio nacional y, seguramente, la imposibilidad de imponer determinadas medidas de contención en algunas Comunidades Autónomas -como se ha visto- ante la falta de ratificación de algunos TSJ ha conducido, el día 25 de octubre, a la declaración de un nuevo estado de alarma en todo el territorio nacional[16]. En él se establecen, fundamentalmente, cuatro medidas: restricciones a la movilidad nocturna entre las 23.00 y 6.00h (art.5), a la entrada y salida de las Comunidades Autónomas (art.6), salvo excepciones en ambos supuestos, limitación de permanencia de grupos de personas en espacios públicos y privados, con carácter general, a seis personas (art.7) y limitación del aforo en los lugares de culto (art.8).
Lo relevante del decreto es, no obstante, que configura a los Presidentes autonómicos como autoridades competentes delegadas (ex art.7 LOEAES), de forma que deben ser ellas, ante la evolución de los distintos índices epidemiológicos, las que dicten las órdenes, resoluciones y disposiciones que impongan las medidas que recoge el decreto en sus arts.6-8. Así, por ejemplo, ya algunas Comunidades Autónomas como Aragón[17], Asturias[18], País Vasco[19], Castilla-La Mancha[20], Andalucía[21], Murcia[22] o la Comunidad Valenciana[23] han procedido a cerrar perimetralmente sus autonomías en base a la habilitación contenida en el decreto del estado de alarma (art.7). Madrid lo ha hecho pero solo para dos fines de semana[24], algo que plantea problemas desde la previsión que estipula que las medidas deben durar, al menos, siete días naturales (art.9). La única medida que se impone directamente a todas las autonomías es la de la restricción de la movilidad nocturna (salvo Canarias ex art.9.2), aunque se les ofrece la posibilidad de adelantar o atrasar los márgenes horarios una hora[25]. El decreto por el que se declara el estado de alarma opera así como una norma habilitante que permite a las Comunidades Autónomas adoptar distintos tipos de medidas en atención a la gravedad de la epidemia en sus correspondientes territorios, de forma que lo que cambia respecto a la situación anterior no son tanto las medidas en sí mismas sino el instrumento jurídico que las ampara.
Eso, no obstante, tiene implicaciones jurídicas relevantes. La primera es que duchas medidas ya no precisan ratificación judicial (art.2.3), como sucedía cuando las mismas se imponían al amparo de la legislación sanitaria que es, en efecto, uno de los escollos que buscaba librarse, y que -según explicita el decreto- pueden imponerse sin seguir procedimiento administrativo alguno. La segunda, es que el control judicial que exista debe ser a posteriori: del recurso contra el decreto del estado de alarma conocerá el tribunal Constitucional y de aquéllos que se interpongan frente a las órdenes, resoluciones y disposiciones de las autonomías, presumiblemente, el Tribunal Supremo al entenderse que es como si se hubieran dictado por el órgano delegante (Gobierno). En tercer lugar, que las medidas contenidas en el decreto tienen una duración inicial de 15 días (hasta el 9 de noviembre). No obstante, el Congreso -que es quién debe hacerlo (art.116.2 CE y art.6.2 LOEAES) ya se ha pronunciado a favor de la prórroga por un periodo de seis meses (hasta el 9 de mayo), algo jurídicamente posible ante la ausencia de límites expresos a aquélla pero quizá políticamente poco conveniente teniendo en cuenta la necesidad de rendición de cuentas por parte del Gobierno durante la vigencia de los estados de crisis.
[1] Real Decreto 463/2020, de 14 de marzo, por el que se declara el estado de alarma para la gestión de la situación de crisis sanitaria ocasionada por el COVID-19
[2] Véanse los Reales Decretos 476/2020, de 27 de marzo; 487/2020, de 10 de abril; 492/2020, de 24 de abril; 514/2020, de 8 de mayo; 537/2020, de 22 de mayo; y 555/2020, de 5 de junio.
[3] Su encaje en el precepto generó, no obstante, cierta polémica por entenderse que sobrepasaba sus límites. Los artículos 7,9, 10 y 11 del Real Decreto 463/2020, de 14 de marzo fue recurrido por más de 50 diputados del grupo parlamentario Vox ante el Tribunal Constitucional, al ser una norma con rango de ley. Ha sido admitido a trámite por el Tribunal el de 6 de mayo de 2020, aunque aún está pendiente de resolución.
[4] Esta es la Orden comunicada del Ministro de Sanidad, de 30 de septiembre de 2020, mediante la que se aprueba la declaración de actuaciones coordinadas en salud pública para responder ante situaciones de especial riesgo por transmisión no controlada de infecciones causadas por el Sars-CoV-2, de 30 de septiembre. Dicha Orden Ministerial no ha sido, no obstante, publicada en el Boletín Oficial del Estado.
[5] Véase la Resolución de 30 de septiembre de 2020, de la Secretaría de Estado de Sanidad, por la que se da publicidad al Acuerdo del Consejo Interterritorial del Sistema Nacional de Salud sobre la Declaración de Actuaciones Coordinadas en Salud Pública para responder ante situaciones de especial riesgo por transmisión no controlada de infecciones causadas por el SARS-Cov-2, de fecha 30 de septiembre de 2020.
[6] Orden Foral 57/2020, de 21 de octubre, de la Consejera de Salud, por la que se adoptan medidas específicas de prevención, de carácter extraordinario, para la Comunidad Foral de Navarra, como consecuencia de la evolución de la situación epidemiológica derivada del COVID-19.
[7] Resolución de 21 de octubre de 2020, de la Secretaría General Técnica de la Consejería de Salud y Portavocía del Gobierno, por la que se dispone la publicación del Acuerdo del Consejo de Gobierno de 21 de octubre de 2020, por el que se adoptan nuevas medidas sanitarias preventivas para la contención de la COVID-19 en el ámbito territorial de la Comunidad Autónoma de La Rioja.
[8] Orden 109/2020, de 27 de febrero, de la Consejera de Sanidad del Gobierno de Canarias.
[9] Auto 84/2020.
[10] Así lo ha puesto de relieve el Tribunal Constitucional desde sus primeras SSTC 11/1981, de 11 de abril (FJ 15º), 142/1993, de 22 de abril (FJ 4º) hasta las más recientes como, entre muchas otras, la STC 76/2019, de 22 de mayo (FJ 5º).
[11] Véanse, entre muchos otros, los AATSJ de Andalucía 92/2020, de 13 de octubre de 2020, 93/2020, de 2 de octubre; ATSJ de Galicia 104/2020, de 9 de octubre; los AATSJ de Castilla y León 72/2020, de 9 de octubre, 73/2020, de 15 de octubre, etc.
[12] Orden 1226/2020, de 25 de septiembre, de la Consejería de Sanidad, por la que se adoptan medidas específicas temporales y excepcionales por razón de salud pública para la contención del COVID-19 en núcleos de población correspondientes a determinadas zonas básicas de salud, como consecuencia de la evolución epidemiológica.
[13] Real Decreto 900/2020, de 9 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para responder ante situaciones de especial riesgo por transmisión no controlada de infecciones causadas por el SARS-CoV-2
[14] Decreto-ley 7/2020, de 19 de octubre, del Gobierno de Aragón, por el que se establece el régimen jurídico de alerta sanitaria para el control de la pandemia COVID-19 en Aragón.
[15] Decreto-ley 8/2020, de 21 de octubre, del Gobierno de Aragón, por el que se modifican niveles de alerta y se declara el confinamiento de determinados ámbitos territoriales en la Comunidad Autónoma de Aragón.
[16] Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-CoV-2.
[17] Decreto de 26 de octubre de 2020, del Presidente del Gobierno de Aragón, por el que se establecen medidas en el ámbito territorial de la Comunidad Autónoma de Aragón en el marco de lo establecido en el Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-CoV-2.
[18] Decreto 27/2020, de 26 de octubre, del Presidente del Principado de Asturias, por el que se adoptan medidas para contener la propagación de infecciones causadas por el SArSCoV-2 en el marco del estado de alarma.
[19] Decreto 36/2020, de 26 de octubre, del Lehendakari, por el que se determinan medidas específicas de prevención, en el ámbito de la declaración del estado de alarma, como consecuencia de la evolución de la situación epidemiológica y para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-CoV-2.
[20] Decreto 66/2020, de 29 de octubre, del Presidente de la Junta de Comunidades de Castilla-La Mancha, como autoridad delegada dispuesta por el Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por la SARS-CoV-2, por el que se determinan medidas específicas en el ámbito del estado de alarma.
[21] Decreto del Presidente 8/2020, de 29 de octubre, por el que se establecen medidas en el ámbito de la Comunidad Autónoma de Andalucía en aplicación del Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-COV-2.
[22] Decreto del Presidente 7/2020, de 29 de octubre, por el que se adoptan medidas de limitación de circulación de personas de carácter territorial, al amparo del Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-CoV-2.
[23] Decreto 15/2020, de 30 de octubre, del President de la Generalitat, por el que se adoptan medidas temporales y excepcionales en la Comunitat Valenciana, como consecuencia de la situación de crisis sanitaria ocasionada por la Covid-19 y al amparo de la declaración del estado de alarma.
[24] Decreto 30/2020, de 29 de octubre, de la Presidenta de la Comunidad de Madrid, por el que se establecen medidas de limitación de entrada y salida en la Comunidad de Madrid, adoptadas para hacer frente a la COVID-19, en aplicación del Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, del Consejo de Ministros, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-COV-2.
[25] Véase, por ejemplo, el Acuerdo 9/2020, de 25 de octubre, del Presidente de la Junta de Castilla y León, como autoridad competente delegada dispuesta por el Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por la SARS-CoV-2, por el que se determina la hora de comienzo de la limitación de la libertad de circulación de las personas en horario nocturno, que adelanta el inicio de las restricciones a las 22h; o el Decreto del Presidente 10/2020, de 25 de octubre, en aplicación del Real Decreto 926/2020, de 25 de octubre, por el que se declara el estado de alarma para contener la propagación de infecciones causadas por el SARS-CoV-2, se establece la franja horaria nocturna en la que se limita la libertad de circulación de las personas en horario nocturno por las vías o espacios de uso público en la Comunidad Autónoma de Extremadura.
"Fratelli tutti" e la sfida della fraternità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Processo all’enciclica «Fratelli tutti» - 2. Una enciclica “diversa” - 3. La rilevanza pubblica della - fraternità - 4. La guerra, le migrazioni e la proprietà - 5. Il problema della pena - 6. Una sfida al sistema in nome dell’umano.
1. Processo
all’enciclica «Fratelli tutti»
Che gli esseri umani, secondo il Vangelo, siano tutti fratelli, non è certo una novità. Questo spiega perché l’enciclica di papa Francesco «Fratelli tutti» sia apparsa a qualcuno una semplice riaffermazione di verità già note.
A mettere in discussione questa lettura è la reazione di una parte tutt’altro che irrilevante del mondo cattolico, per lo più legata alla destra politica, che in questo documento ha visto un’ulteriore prova dell’allontanamento dell’attuale pontefice dall’ortodossia.
La più lucida argomentazione di questa tesi è nell’articolo di Marcello Veneziani, su «La Verità» del 6 ottobre, intitolato «L’ideologia della fratellanza in Bergoglio». Secondo l’autore, infatti, «“Fratelli tutti” è il manifesto ideologico del bergoglismo. Non c’è più teologia ma ideologia, seppur impregnata di moralismo».
Ed ecco perché: «La fratellanza a cui allude Papa Francesco è il terzo principio della Rivoluzione Francese, dopo liberté ed égalité». Quella proposta dal Vangelo «è una fratellanza nel Padre. Bergoglio invece, compie un percorso inverso, partito da Cristo arriva alla religione dell’umanità. Bergoglio rimuove la figura del Padre, converte interamente alla storia e all’umanità la figura del Figlio e vota la Chiesa alla fratellanza universale (…). L’esperienza della vita ma anche della storia dimostra che ogni fratellanza priva di un Padre degenera in fratricidio o scema nella retorica: è stato il destino del giacobinismo come del comunismo (…). È il Padre a garantire l’unità dei fratelli prima che il reciproco riconoscimento».
Da qui la valutazione del significato dell’enciclica «L’ideologia di Bergoglio cerca un posto alla Chiesa postcristiana nella modernità laica in nome della fratellanza (…). E lui la riprende, inserendo la Chiesa dentro il mondo moderno, ateo e laicista, disceso dalla Rivoluzione francese».
2. Una enciclica “diversa”
Come si può vedere, non sono critiche banali. E in effetti, è indiscutibile che «Fratelli tutti», portando all’estremo una tendenza già presente nella «Laudato sì», segni un cambiamento importante nel concetto stesso di “enciclica”. Basta dire che, mentre tradizionalmente con questo termine si indicava una lettera del papa ai vescovi della Chiesa cattolica e, attraverso di loro, ai soli fedeli, questa di papa Francesco è rivolta a tutti gli uomini e le donne, credenti e non credenti, nella consapevolezza che, non potendo contare ormai sulla premessa della fede, il senso del messaggio è quello di un contributo alla riflessione comune. Lo spiega lo stesso Francesco, fin all’inizio dell’enciclica: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n.6).
Da qui un cambiamento profondo nella struttura stessa del documento. Mentre le encicliche normalmente partivano dalla esposizione dei dati della fede già nella «Laudato si’» il primo capitolo è dedicato ai problemi della terra. Solo nel secondo capitolo entrava in gioco il discorso relativo alla Rivelazione. La motivazione fornita dal papa in quel documento deve essere tenuta presente anche per «Fratelli tutti»: «Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (LS, n.17).
Nell’ultima enciclica addirittura il riferimento esplicito alla prospettiva religiosa e a quella più specificamente evangelica compare solo nell’ottavo capitolo, l’ultimo. E, alla luce di quanto si è detto, dovrebbe essere chiaro perché: Francesco ha voluto parlare a tutti, anche a quell’immenso numero di persone che non si riconoscono nella sua Chiesa. Perciò – «pur partendo dalle sue convinzioni cristiane» - ha scelto di usare il linguaggio dell’esperienza e della ragione, prendendo atto dei problemi drammatici che sono sotto gli occhi di credenti e non credenti e interpellando le coscienze non sui misteri divini, ma sulla dignità dell’umano.
In questo senso, paradossalmente Veneziani esprime abbastanza bene, anche se in forma negativa, l’intenzione fondamentale del papa: fare uscire la Chiesa e il suo annuncio del Vangelo dal ghetto in cui la cultura del mondo moderno li hanno da tempo relegati e puntare sui valori che questa stessa cultura ha accolto e celebrato, per evidenziare le loro radici cristiane e denunciare l’incoerenza della società attuale rispetto ad essi.
Certo, questo è in contrasto con il ricorrente appello ai pastori, da parte di esponenti della destra, di occuparsi esclusivamente della “salvezza delle anime”, restandosene ben chiusi fra le mura dei loro templi e non interferendo con le questioni sociali e politiche. Ma corrisponde alla missione evangelizzatrice della Chiesa, che non può ridursi alla dimensione devozionale e rituale.
3. La rilevanza pubblica della fraternità
Così, in questa enciclica, papa Francesco denuncia l’assenza della fraternità in una civiltà in cui, della triade di valori proclamati con la Rivoluzione francese, sono state valorizzate solo la libertà e l’uguaglianza, le quali, senza la dimensione fraterna, spesso sono degenerate (cfr. n.103).
La fraternità mette in primo piano, nella vita pubblica, l’amore. Che non è un vago sentimento, e neppure solo una virtù teologale – la carità - riservata ai credenti, bensì una «forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici» (n.183, cit. da Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207).
Non si può ridurre l’amore alla sfera dell’emotività, privatizzandolo. Ma neppure celebrarlo nei termini di una carità cristiana concepita solo come solidarietà con chi soffre, dimenticando «quegli atti della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali (…) per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza» (n.186).
Nei termini laici che Francesco ha scelto di usare, per farsi capire da tutti ed evidenziare la portata pienamente umana del suo discorso, l’amore fraterno deve esprimersi piuttosto nella politica.
Ma ciò può accadere solo se quest’ultima si emancipa dal dominio dell’economia e della finanza. Per questo, però, è importante il riferimento alla verità. Nella diversità di punti di vista che caratterizza la nostra società pluralista, «il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento» (n.206).
Proprio la ricerca della verità, in un regime democratico, richiede uno stile dialogico nell’affrontare i problemi: «La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio» (n.203). Sempre nella consapevolezza che «nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri» (n.221).
4. La guerra, le migrazioni e la proprietà
A livello internazionale, la fraternità esclude che la soluzione dei problemi sia la guerra. Nell’enciclica si fa presente che lo sviluppo terrificante dei mezzi di distruzione ne ha reso i costi umani inaccettabili, quali che siano le sue motivazioni: «Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (n.258).
E si fa una proposta: le risorse che finora sono state impiegate per combattere i fratelli vengano piuttosto impiegate per aiutarli: «E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (n.262).
Il tema delle migrazioni, come è noto, sta molto a cuore a Francesco. Su di esso la sua posizione è chiara: «L’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona» (n.129).
Non si può respingere chi chiede di essere accolto, come se si avesse un diritto esclusivo sul territorio che si abita. Citando Giovanni Paolo II (Centesimus annus, 31), Francesco sottolinea che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno» (n.120).
Questo si collega al fatto che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (ivi). La proprietà, come i padri, i dottori e i papi della Chiesa hanno sempre insegnato, ha senso solo in funzione di una migliore destinazione dei beni della terra alla piena realizzazione di tutti. E questo vale anche per i profughi e per tutti coloro che cercano una vita migliore là dove è possibile trovarla (cfr. n.124)
5. Il problema della pena
L’amore fraterno, sempre aperto alla misericordia e al perdono, deve ispirare anche il diritto penale. Ma esso non deve essere scambiato per superficiale buonismo e non esclude la pena: «Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale (…). Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere» (n.241).
Più in generale, «il perdono non implica il dimenticare» (n.250). La giustizia non è il contrario dell’amore, anzi ne garantisce la serietà. Però non bisogna confonderla con la vendetta: «La giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira» (n.252).
Perciò, la fraternità, facendoci riconoscere «l’inalienabile dignità di ogni essere umano» (n.269), esclude che si possa punire qualcuno con la pena di morte: «Oggi affermiamo con chiarezza che “la pena di morte è inammissibile” e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» (n.263).
Ma una giustizia che nasce dal rispetto per la persona del colpevole non può neppure accettare le modalità disumane che a volte caratterizzano anche le pene detentive: «Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà» (n.268).
Da qui discende anche, nell’enciclica, il netto rifiuto della pena dell’ergastolo: «L’ergastolo è una pena di morte nascosta» (ivi).
Siamo davanti a riflessioni che trovano una consonanza con l’evoluzione del diritto attuale, quali la mediazione, la giustizia riparativa, la messa alla prova, in cui è chiara l’esigenza di far entrare la dimensione della fraternità nella sfera giuridica.
6. Una sfida al sistema in nome dell’umano
Così, proponendo al mondo d’oggi la fraternità in termini umani, papa Francesco traduce il Vangelo nel linguaggio degli uomini e delle donne del nostro tempo e lo mette nuovamente in rapporto con la storia, facendolo uscire dal recinto sacro in cui spesso è di fatto confinato (e in cui molti desiderano che resti).
Il pontefice non «rimuove la figura del Padre», come lo si è accusato di fare. Egli è consapevole che il fondamento ultimo del suo discorso va cercato nella trascendenza e lo dice chiaramente, nell’ultimo capitolo: «Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità» (n.272). Ma questo non vanifica gli argomenti - validi anche per chi non condivide la motivazione religiosa - che egli, nei sette capitoli precedenti, ha sviluppato, sulla base dell’esperienza e dell’intelligenza umane - in cui pure, anche se oscuramente, Dio si manifesta.
Quel che è certo è che, in questa “traduzione” laica – che non è per ciò stesso «ideologia»! - , la verità del Vangelo si pone come una sfida al sistema globale della civiltà che abbiamo costruito e che l’enciclica contesta: non solo perché questo sistema è contrario alla legge divina, ma innanzi tutto perché viola la dignità umana.
Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità*
di Corrado Caruso
Sommario: 1. Granital: in memoriam? - 2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital - 3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti - 4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»… - 5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità.
1. Granital: in memoriam?
Vi è un’osservazione ricorrente nel dibattito sulla ormai nota «precisazione» della sent. n. 269 del 2017: la pronuncia – la prima di una serie – avrebbe ormai superato la regola enunciata nella sent. 170 del 1984 (COSENTINO 2020, TEGA 2020, per restare ai contributi più recenti), inaugurando un nuovo criterio di composizione dei contrasti tra diritto europeo e diritto nazionale.
Come noto, in base all’assetto disegnato dalla sentenza Granital, a fronte di un’antinomia tra norma sovranazionale ad effetto diretto e norma interna, il giudice comune avrebbe dovuto dare prevalenza al precetto europeo, con conseguente disapplicazione (rectius: non applicazione, come poco dopo specificherà il Giudice delle leggi nella sent. 168 del 1991) del diritto interno con esso contrastante. Tale meccanismo, che è andato affinandosi nel successivo prosieguo giurisprudenziale, ha sancito una triplice riserva di controllo alla Corte costituzionale: nei casi (a) di contrasto della legge interna con una norma europea non self-executing; (b) di controversie in via principale tra Stato e Regioni (in ragione della specifica finalità del giudizio in via di azione, che risponde a una esigenza di coerenza dell’ordinamento complessivo e di certezza nelle relazioni territoriali, CARUSO 2020, pp. 129 e ss.); (c) di attivazione dei controlimiti da opporre all’ingresso del diritto comunitario.
La sentenza n. 269 del 2017 avrebbe dunque posto le basi per un complessivo ripensamento di questo meccanismo o, quanto meno, per una rilevante eccezione (COSENTINO 2020) alla regola Granital, delineando un criterio particolare di risoluzione delle antinomie normative che coinvolgono le disposizioni della CDFUE. In virtù del noto obiter, la Corte costituzionale è chiamata a comporre il contrasto tra i diritti fondamentali previsti dalla Carta di Nizza e la legislazione nazionale, per la «impronta tipicamente costituzionale [dei] principi e i diritti enunciati nella Carta», i quali «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione (…)». Per tale ragione, «le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…), anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sent n. 269 del 2017).
Non vi è dubbio che il menzionato obiter presenti carattere innovativo, tanto da disegnare un criterio generale di risoluzione dei conflitti da affiancare alle tecniche che tradizionalmente hanno accompagnato i rapporti tra ordinamento interno e diritto sovranazionale. Da simile innovazione, tuttavia, non è possibile rinvenire la causa del superamento di Granital, assecondando un approccio meramente esegetico alla giurisprudenza costituzionale. È necessario invece prendere atto del diverso contesto in cui le due pronunce si collocano per evidenziarne l’identità dei presupposti teorici, consistenti nella distinzione degli ordinamenti e nella natura derivata e tendenzialmente settoriale del sistema sovranazionale. La «precisazione» rappresenta l’effetto o (il «sintomo», secondo DANI 2020) dell’evoluzione dei rapporti tra diritto interno e ordinamento sovranazionale, situandosi in continuità con la sent. n. 170 del 1984. La Corte costituzionale recupera la matrice originaria per aggiornarne i contenuti, torna nel passato per cambiare il futuro o, quanto meno, per correggere le sorti del processo di integrazione. Granital reloaded, dunque, per parafrasare il titolo di una famosa pellicola: la «precisazione» riavvia il codice originale del sistema delle relazioni ordinamentali per evitarne l’implosione e riallacciare le fila del discorso sul federalizing process europeo (per questa metafora, riferita al metodo del diritto pubblico, CARUSO, CORTESE 2020, pp. 9 e ss., CARLONI 2020, pp. 214 e ss.).
Il sistema disegnato da Granital era piuttosto semplice o, quanto meno, sufficientemente stilizzato: l’egida dell’art. 11 Cost. consentiva, secondo la Corte, la delega di alcune competenze settoriali a un ordinamento «distint[o] ancorché coordinat[o]», volto alla creazione (prima) di una zona di libero scambio e (poi) di un mercato comune transnazionale; su tali competenze lo Stato avrebbe mantenuto la propria sovranità, trasferendo l’esercizio (sempre revocabile) di alcune funzioni e, di conseguenza, ammettendo l’ingresso degli atti comunitari secondo la forza e l’efficacia che l’ordinamento di origine attribuiva loro. Il rapporto di separazione ordinamentale era consentito (o meglio governato) dall’art. 11 Cost., principio fondamentale che, per un verso, imponeva alla legge nazionale di non interferire con la sfera occupata dall’atto comunitario e, per altro verso, richiedeva al giudice interno di non dare applicazione alla norma interna. Tale disapplicazione era pensabile per la particolare struttura formale della normativa sovranazionale, coincidente con i regolamenti comunitari, unica tipologia di atto abilitata, per esplicita dizione del trattato istitutivo (art. 189 TCEE), a produrre norme self-executing.
La Corte costituzionale accoglieva così l’approccio della Corte di Giustizia in Simmenthal[1], riproponendolo in un’ottica dualista puntellata da una serie di dati positivi (art. 11 Cost. e trattati istitutivi). In tale prospettiva, l’effetto diretto era una qualità assegnata ad un determinato tipo di fonte, così come la disapplicazione un criterio formale per sciogliere una puntuale contraddizione tra regole nei settori devoluti all’ordinamento comunitario (A. BARBERA 2017).
Simile assetto viene progressivamente alterato dalla successiva evoluzione ordinamentale, scandita da molteplici passaggi che scardinano la logica degli ordinamenti «distinti ancorché coordinati». La delega di funzioni approda a lidi inesplorati, coinvolgendo persino la moneta e le sue politiche, considerate, sin dalla fondazione dello Stato moderno, riflesso della sovranità statuale. La creativa giurisprudenza della Corte di giustizia, recepita dalla stessa Corte costituzionale, allarga il novero degli atti capaci di produrre norme ad effetto diretto: trattati, direttive, decisioni quadro e, persino, le stesse sentenze dei giudici di Lussemburgo, cui le Corti riconoscono, attraverso un processo di astrazione generalizzatrice del principio di diritto ivi enunciato, effetti che superano il disposto del singolo caso, assurgendo al rango di fonte del diritto. Le istituzioni sovranazionali (e, in particolare, la Commissione, nel suo ruolo di “motore dell’integrazione”) modificano progressivamente le tecniche redazionali degli atti formalmente sprovvisti di efficacia diretta, non più volte all’indicazione di obiettivi ma dotate di prescrizioni minute e dettagliate; lo stesso effetto diretto va incontro a una metamorfosi funzionale, sino a divenire strumento di origine pretoria che, in assenza di stabili ed intellegibili test giudiziali (GALLO 2018, pp. 177 e ss., REPETTO 2019, p. 3), assicura il primato del diritto dell’Unione (BARTOLONI 2018) a prescindere dallo struttura normativa della disposizione (come emerge plasticamente dalla interpretazione dell’art. 325 TFUE offerta dalla prima decisione della Corte di Giustizia nel caso Taricco[2], DI FEDERICO 2018, pp. 3 e ss.).
Persino la Carta di Nizza conosce una paradossale eterogenesi dei fini: pensata, nell’ambito del processo di costituzionalizzazione dei trattati, quale codificazione dell’ordine valoriale europeo a garanzia degli individui nei confronti (anche e soprattutto) delle istituzioni europee (TRUCCO 2013, pp. 36 e ss.), la sua incorporazione nel TUE l’ha resa una leva archimedea nei confronti delle competenze degli Stati membri (M. BARBERA 2014, p. 387), trovando applicazione nei confronti del diritto nazionale entrato nella sfera di influenza o nel «cono d’ombra» (CARTABIA 2001, p. 389) dell’ordinamento sovranazionale. L’interpretazione estensiva dell’art. 51 CDFUE, frutto del fecondo dialogo tra Corte di giustizia e giudici comuni, ha generato una pressione sul principio di attribuzione, arrivando al limite di quanto consentito dalla lettera dei trattati (MORRONE, CARUSO 2017, p. 402). Rinvio pregiudiziale (interpretativo) e disapplicazione hanno consentito ai giudici comuni di muoversi quali agenti decentrati della Corte di giustizia (CONTI 2019 scrive di un progressivo «innamoramento» della coppia giudice comune-CGUE), organo che ha smesso i panni del custode delle competenze dell’Unione per assumere il ruolo di istituzione federatrice dell’ordinamento sovranazionale (si pensi non solo al noto caso Åkerberg Fransson[3], ma a tutte le pronunce che, tramite il richiamo alla CDFUE o ai suoi contenuti, hanno riconosciuto effetti orizzontali alle direttive come Mangold[4], pure precedente all’entrata in vigore della Carta, Kücükdeveci[5], Bauer[6], Max Planck[7], tutte analizzate da ROSSI 2019).
2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital
L’evoluzione dell’integrazione ha portato quindi all’emersione di una duplice dinamica: a livello interno, si è assistito all’ampliamento del potere di disapplicazione del giudice comune, tendenza che ha indotto autorevole dottrina a proporre una innovativa classificazione del nostro sistema di giustizia costituzionale, non più misto (accentrato ad accesso diffuso) ma duale, contraddistinto cioè dalla simultanea convivenza del sistema accentrato accanto a un controllo diffuso di compatibilità sovranazionale rispetto al diritto self-executing (ROMBOLI 2014, p. 31).
A livello esterno, l’integrazione trough law, funzionale all’unificazione e alla regolazione unitaria del mercato perfettamente sovrapponibile alla logica del «distinti ancorché coordinati» di Granital, è stata progressivamente affiancata dalla «integrazione attraverso i diritti», che vede nei diritti fondamentali i vettori di una rinnovata supremazia del diritto sovranazionale sugli ordinamenti interni.
La sentenza n. 269 del 2017 interviene, dunque, su simili dinamiche: agisce sul potere di disapplicazione dei giudici, relegandolo «al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale», ove «la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità» sia, «per altri profili, (…) contraria al diritto dell’Unione»; incide, a livello esterno, sull’ordine delle pregiudizialità, arrestando, quanto meno indirettamente, il processo di attrazione dei diritti fondamentali nell’orbita interpretativa della Corte di giustizia. I giudici di Lussemburgo, pertanto, sono chiamati in causa dal giudice comune solo ove, all’esito del giudizio di costituzionalità, la norma interna non sia stata eliminata dall’ordinamento con effetti erga omnes. Peraltro, come dimostra la prassi successiva alla sent. n. 269 del 2017[8], alla resecazione del ruolo del giudice comune corrisponde una rinnovata dimestichezza del Giudice delle leggi nel servirsi del rinvio pregiudiziale (AMALFITANO 2020, p. 278). La Corte costituzionale tende a farsi interlocutore privilegiato della Corte di giustizia affermando una rinnovata centralità nelle questioni che definiscono l’«identità costituzionale» dell’ordinamento interno[9] senza cadere in quel «monismo costituzionale rovesciato», pure paventato in dottrina (REPETTO 2017, p. 2960). In effetti, la rentreé della Corte costituzionale contribuisce a rendere i diritti fondamentali «norm[e] di equilibrio», capaci «di segnare i limiti (…) dell’azione, normativa e giurisdizionale, delle istituzioni [sovranazionali] senza minare l’impianto costituzionale dell’ordinamento Ue», evitando altresì «indebit[e] attivazioni[i] dei controlimiti» (così, sulla clausola dell’identità nazionale, DI FEDERICO 2018, p. 334). In effetti, il più ampio coinvolgimento della Corte costituzionale nel dialogo con la Corte di giustizia (non solo attraverso rinvii interpretativi ma anche tramite pregiudiziali di validità[10]) comporta una proiezione della Costituzione nello spazio giuridico europeo, contaminato dalle pratiche interpretative e dall’inveramento istituzionale dei diritti a livello interno. Il processo di colonizzazione sovranazionale (CARTABIA 2007, pp. 57 e ss.) condotto dalla Corte di giustizia viene frenato attraverso una strategia promozionale altamente cooperativa, capace di disinnescare la logica difensiva dei controlimiti, evocabili solo a fronte di una situazione eccezionale di tensione per i valori fondamentali dell’ordine interno. Viene così scongiurato il pericolo legato a un ricorso disinvolto a tale categoria che, se elevato a sistema, sarebbe esiziale per il progetto europeo, traducendosi potenzialmente in una serie di riserve di origine pretoria apposte sulla legge di esecuzione dei trattati.
Si spiega così il riferimento, contenuto nella «precisazione», alle tradizioni costituzionali comuni, quale complesso dei fini e dei valori che contraddistinguono le diverse comunità politiche nazionali in una prospettiva evolutiva: «[i]l diritto come tradizione indica un corpo normativo, che come ogni organismo vivente cresce e si trasforma, mantenendo la propria identità, mentre le singole parti di cui è composto sono soggette a un incessante processo di trasformazione e di cambiamento, di decadenza e di rinnovamento» (CARTABIA 2017, p. 16). In questa prospettiva evolutiva gioca un ruolo fondamentale anche il diritto sovranazionale, che influenza i singoli ordinamenti nazionali nel nome di un comune acquis di valori e principi. In tal senso, è senz’altro condivisibile l’idea secondo cui «[n]essuna Corte costituzionale può (…) riservarsi il potere di interpretare la Carta unilateralmente, in armonia con le proprie tradizioni costituzionali, perché è solo nel dialogo con la Corte di Giustizia che i valori di una Costituzione possono assurgere a tradizioni costituzionali comuni» (ROSSI 2018, p. 6). É necessario però evitare uno slittamento monistico del diritto sovranazionale, assecondando il potere della Corte di giustizia nella selezione unilaterale di valori e principi meritevoli di entrare nel patrimonio costituzionale condiviso. L’identità nazionale, che l’Unione europea si impegna a rispettare ai sensi dell’art. 4.2 TUE, riconosce alle istituzioni interne, e, in particolare, alle corti di ultima istanza (obbligate, non a caso, al rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE), il compito di individuare ed esternare, nel confronto con i giudici di Lussemburgo, il codice genetico del proprio ordinamento, condizione necessaria (ma non sufficiente) a determinare le comuni tradizioni costituzionali.
La sentenza n. 269 del 2017 prova a interrompere l’usucapione (GUAZZAROTTI 2018, pp. 194 e ss.) dei diritti fondamentali da parte di un ordinamento derivato che, proprio tramite la valorizzazione di norme ad alta vocazione assiologica, tenta di legittimare sé stesso attribuendosi una competenza generale alternativa o, meglio, sostituiva di quella degli Stati membri.
Simile strategia non si pone al di fuori di Granital, ma anzi ne riafferma, aggiornandolo, il presupposto ordinamentale, e cioè l’assetto duale e asimmetrico di ordinamenti distinti collocati su posizioni diverse ancorché reciprocamente connesse: da un lato, l’ordinamento nazionale titolare del potere di decidere sulla estensione delle competenze attribuite di un sistema di indole settoriale, derivato e deterritorializzato (SCACCIA 2017, pp. 53 e ss.); dall’altro, il diritto sovranazionale che influenza e contamina l’ordinamento generale spazialmente situato, prescrivendo comportamenti e orientando, nei settori che intersecano l’ordinamento generale, scelte e preferenze di attori istituzionali e corpo sociale.
La prospettiva duale e asimmetrica è in fondo l’unica coerente con l’art. 11 Cost., che ammette limitazioni e non «cessioni» della sovranità posta dalla Costituzione (BIN 2019, p. 770). Tale disposizione «fissa condizioni precise perché si possa decidere di limitare la sovranità, imponendo «alle nostre istituzioni costituzionali di mantenere il controllo sul modo in cui funzionano (la parità) e operano (i fini) le istituzioni europee» (BIN, ibidem). Non è dunque assimilabile la dinamica dell’integrazione sovranazionale – il processo di integrazione – alla nascita di un ordinamento unitario, al prodotto di un’azione unificante –, quasi sia possibile isolare una «entità unitaria eterarchica» emersa dal federalizing process europeo (così invece MORRONE 2018, p. 4). Trarre dai rapporti inter-ordinamentali una sintesi della «produzione di norme derivanti dai fatti fondamentali» (MORRONE, ibidem) eleverebbe i mutamenti costituzionali – pure intervenuti a seguito dell’appartenenza all’Unione – a elementi fondativi di un nuovo ordinamento al di fuori della Costituzione repubblicana.
3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti
In un quadro di relazioni intrattenute da soggetti distinti ma altamente integrati, che perseguono fini diversi ma che pure inevitabilmente si intersecano, la prospettiva non è data dall’unità, e quindi dalla nascita e dal mantenimento di un soggetto politico unitario ma è, invece, quella del sistema a rete che si sviluppa attraverso conflitti di sistemi istituzionali portatori di specifiche identità. Poiché anche l’ordinamento sovranazionale si è dotato di una Carta dei diritti e, più in generale, di un lessico costituzionale, in un contesto duale e adespota che non conosce la decisione fondamentale sull’unità politica, le divergenze interpretative e i conflitti giurisdizionali diventano la regola delle relazioni tra ordinamenti (MARTINICO 2020). Simile evoluzione richiede di aggiornare gli strumenti per interpretare il processo di integrazione europea: la metafora del dialogo tra le corti o della tutela multilivello dei diritti cede il passo alla iconografia del conflitto, «categoria operativa, non materialmente neutra» (MEDICO 2020) che rimanda a una relazione mutualmente costitutiva tra ordinamenti. É in questo quadro che deve essere declinato il principio di leale collaborazione, evocato dalla «precisazione» della Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia nelle sentenze Melki e Abdeli[11] e A contro B e altri[12]: per evitare, infatti, che il principio di lealtà si traduca in un concetto vuoto che nasconde la pretesa egemonica di una giurisdizione (e di un ordinamento) sull’altra, è necessario un atteggiamento di judicial modesty, una generale consapevolezza circa l’estensione dei propri poteri, le finalità dei rispettivi ordinamenti, l’ineluttabilità delle reciproche interferenze.
La logica dei diritti fondamentali, infatti, «non è univoca ma risente delle diverse ragioni ordinamentali in cui si colloca», subendo «una torsione in relazione al contesto in cui si inserisce» (MEDICO, ibidem). Nell’ordinamento sovranazionale, ad esempio, i diritti non sono ciò che vale in sé, non incarnano valori-fine ma valori-mezzo: la loro tutela è strumentale a garantire e ad estendere (magari surrettiziamente) le funzioni attribuite al sistema sovranazionale, in costante dialettica con gli ordinamenti nazionali. Non a caso, come insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure di austerity, di fronte alla rigida separazione tra governo della moneta e coordinamento delle politiche economiche, quando cioè le competenze sovranazionali si appannano ed emergono strumenti irriducibili agli ordinari meccanismi di produzione normativa, la Carta dei diritti si ritrae, lasciando alle Corti costituzionali (e agli ordinamenti nazionali) la tutela del contenuto essenziale delle situazioni individuali (CASOLARI 2020, CARUSO 2018, pp. 111 e ss.).
L’identità dell’oggetto di tutela della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali (VIGANÒ 2019, p. 493) non implica una automatica coincidenza dei fini delle garanzie predisposte dai rispettivi ordinamenti. Nel sistema sovranazionale, l’individuo emerge tradizionalmente come fattore di produzione (in primo luogo, con le quattro libertà fondamentali), funzionalizzato agli obiettivi mercantilistici della costruzione europea. Nonostante talune situazioni soggettive abbiano progressivamente svolto, in alcuni ambiti, una funzione promozionale (si pensi, ad esempio, ai diritti antidiscriminatori nei rapporti di lavoro o alle prerogative connesse alla cittadinanza europea, M. BARBERA 2014, p. 391) i diritti dell’individuo sono fortemente embricati con la vis espansiva del diritto UE. In un simile contesto, l’Unione europea, che agisce essenzialmente come soggetto regolatore (MAJONE 1994), riversa sugli Stati membri il compito di correggere le esternalità negative che derivano dal mercato comune, richiedendo la correzione delle politiche sociali o la parità di trattamento sul mercato del lavoro a prescindere dalle peculiarità delle singole realtà nazionali.
Nell’ordinamento interno, invece, ad essere tutelato è l’homo politicus nel senso etimologico del termine, la persona nei rapporti concreti e nelle sue diverse proiezioni sociali (il cittadino; il lavoratore; la donna lavoratrice; la madre; il figlio; lo studente, etc.). Proprio la contestualizzazione della persona nella vita comunitaria richiede l’adempimento di specifici doveri di solidarietà o la concretizzazione di interessi pubblici da positivizzare attraverso la mediazione democratica del legislatore. I diritti garantiti dalle Costituzioni nazionali non implicano, dunque, un automatico inveramento o una meccanica applicazione, perché la loro realizzazione è aperta a plurime possibilità di bilanciamento reciproco e di ponderazione con altri interessi, in coerenza con l’indeterminatezza dei fini che caratterizza la politicità dello Stato costituzionale. Per tali ragioni il sistema costituzionale interno richiede di riportare il controllo di costituzionalità al centro della garanzia dei diritti, limitando gli elementi di diffusione amplificati dal diritto europeo. È, infatti, la particolare essenza dei diritti costituzionali che contribuisce a conferire al sindacato accentrato il rango di principio organizzativo fondamentale (principio supremo, nelle parole di CARDONE 2020, pp. 34 e ss): la tutela delle situazioni soggettive non può essere ridotta al frammento di valore sprigionato dal caso concreto – magari in funzione dell’egemonia dell’ordinamento sovranazionale sul diritto interno – ma è il risultato, storicamente situato, di un processo di unificazione politica legittimato dalla Costituzione (BABRERA 2017, p. 19). In tale dinamica, un ruolo fondamentale viene svolto dalle istituzioni democraticamente legittimate, chiamate a mediare tra le plurime istanze di riconoscimento emergenti nella società. La legge rappresenta la codificazione normativa di una sistemazione di interessi (soggettivi ed oggettivi, privati ma anche pubblici), ed è sulla pretesa incostituzionalità di tale assetto – anche alla luce del diritto europeo – che è chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.
Per tali ragioni, il concetto del massimo standard di tutela desumibile dall’artt. 53 CDFUE, a tenore del quale «[n]essuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, […] e dalle costituzioni degli Stati membri» non coincide con il concetto di «massima espansione delle garanzie» enucleato dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. n. 309 del 2011, che «richiede il più ampio livello di tutela riferito (…) non già al singolo diritto, interesse o principio costituzionale singolarmente individuato, bensì all’insieme delle garanzie, derivante da una lettura sistematica, non frammentata di tutti i beni costituzionalmente rilevanti» (CARTABIA 2017, p. 14). La «massima espansione delle garanzie» rimanda perciò al ragionevole equilibrio del sistema normativo nel suo complesso (CARUSO 2018b, p. 1999), nel cui ambito trovano adeguata composizione le pretese uti singulus del cittadino e gli altri interessi che consentono l’esistenza stessa di una comunità politica edificata attorno e in vista della realizzazione dei valori costituzionali. Nell’ordinamento costituzionale i diritti sono a «somma zero», nel senso che «ogni progresso nella tutela di un diritto trova un suo contrappeso, provoca cioè la regressione della tutela di un altro diritto o di un altro interesse» (BIN 2018, p. 172). Tale assunto viene smentito nello spazio sovranazionale, ove l’esito del conflitto è tendenzialmente predeterminato e a “somma positiva”, favorevole al diritto fondamentale tutte le volte in cui sia necessario ribadire le finalità settoriali dell’ordine giuridico europeo o le sue tendenze espansive di fronte agli ordinamenti nazionali.
4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»…
Con la «precisazione», la Corte costituzionale ha abbandonato un criterio meramente formale di risoluzione delle antinomie, fondato sulla struttura normativa del precetto europeo, per accogliere un criterio sostanziale di compatibilità assiologica (RUGGERI 2017, p. 5). Non deve sorprendere, allora, il passo ulteriore compiuto dalla sentenza n. 20 del 2019, che ha ritenuto illegittimo l’obbligo di pubblicazione, gravante sul dirigente pubblico, dei dati reddituali del coniuge e dei parenti (entro il secondo grado) per violazione del principio di eguaglianza/ragionevolezza e di proporzionalità, riletti alla luce della protezione sovranazionale accordata al diritto alla privacy. In questo caso, venivano in considerazione gli articoli della CDFUE «in singolare connessione» con la normativa derivata (la direttiva 95/46/CE e il regolamento (UE) 2016/679, entrato in vigore in un momento successivo ai fatti di causa ma pure evocato dal rimettente). Tale pronuncia approfondisce le conseguenze della «precisazione» e ne affina i presupposti: l’attrazione al giudizio costituzionale non dipende dal rango formale della fonte, o dalla struttura della disposizione sovranazionale, ma dal contenuto materiale del parametro e dal tono costituzionale della questione. La normativa europea amplifica la forza gravitazionale dei principi e dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, generando una «gerarchia di contenuti» (SCACCIA 2020 sulla scorta dell’antico adagio di CRISAFULLI 1965, pp. 204 e ss.) che guida l’interprete nella risoluzione delle antinomie normative a prescindere dal tipo di atto sovranazionale in questione (per una diversa lettura della sent. n. 20 del 2019, GUASTAFERRO 2020).
La cognizione della Corte costituzionale entra in gioco, dunque, tutte le volte in cui vi sia un diritto fondamentale «a doppia tutela» (LEONE 2020), garantito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti o da altra disposizione dell’Unione europea dall’analogo contenuto. La sentenza n. 19 del 2020 ha posto un ulteriore tassello in questo mosaico, confermando il radicamento del giudizio di costituzionalità in un caso coinvolgente la libertà di impresa ex art. 16 CDFUE e, soprattutto, la libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE, annoverata, per granitica giurisprudenza della Corte di giustizia, tra le norme ad effetto diretto. Ad avviso del Giudice delle leggi, «qualora sia lo stesso giudice comune, nell’ambito di un incidente di costituzionalità, a richiamare, come norme interposte, disposizioni dell’Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni», è necessario «fornire una risposta a tale questione con gli strumenti» propri del giudizio di costituzionalità, «tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione»[13].
Le pronunce appena citate aggiornano il breviario del giudice comune nella sua opera di risoluzione delle antinomie tra normativa europea e disciplina interna. Egli, infatti, dovrà rivolgersi alla Corte costituzionale qualora il precetto interno contrasti con una norma europea (a) non direttamente efficace o (b) self-executing ma relativa a diritti fondamentali «a doppia tutela». Infine, e in estrema ipotesi (c), la questione sarà attratta alla giurisdizione costituzionale qualora la legge di esecuzione dei trattatati consenta l’ingresso di una normativa sovranazionale lesiva dei controlimiti, e cioè dei principi fondamentali che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale.
5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità
Rimangono, rispetto alla novità sub b), alcuni punti da chiarire, concernenti l’ordine delle questioni pregiudiziali (costituzionale e sovranazionale) e i margini di azione del giudice a quo nell’ipotesi di un rigetto della questione.
Quanto al primo profilo, il modello prefigurato dalla sent. n. 269 del 2017 ha assegnato la priorità al giudizio costituzionale. I contorni di simile precedenza sono stati però sfumati dapprima dal riferimento, contenuto nella sentenza n. 20 del 2019, alla «“prima parola” che [la] Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare» (corsivo aggiunto), poi dal richiamo, nelle successive decisioni, al «potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale» (sent. n. 63 del 2019, ma nello stesso senso ord. n. 117 del 2019).
Taluni indici positivi rinvenibili nell’ordinamento aiutano tuttavia a sistematizzare queste oscillazioni pretorie: l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 imposta la rimessione della questione di costituzionalità nei termini di un obbligo giuridico gravante sul giudice comune («l’autorità giurisdizionale (…) emette ordinanza (…)»); l’art. 267 TFUE prefigura, di contro, la pregiudizialità sovranazionale quale facoltà del giudice nazionale («l’organo giurisdizionale può (…) domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione»). Il rinvio pregiudiziale ha però natura ancipite, tramutandosi in obbligo nel caso in cui provenga dall’autorità giurisdizionale «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno». Sembra prefigurarsi dunque una diversa relazione di precedenza a seconda che la pregiudizialità si presenti davanti alle corti inferiori o al giudice di ultima istanza. Le prime sono tenute a dare priorità alla pregiudiziale costituzionale: nel caso ciò non avvenga, e qualora dall’inversione dell’ordine delle pregiudiziali derivino conseguenze giuridicamente rilevanti per la controversia principale, il provvedimento che chiude il giudizio potrebbe risultare affetto da un vizio in procedendo sindacabile in sede di legittimità[14].
Il giudice di ultima istanza è invece soggetto a un duplice obbligo, derivante dal combinato disposto dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 267 TFUE. In queste ipotesi, può prospettarsi un triplice scenario: rinvio alla Corte di giustizia e, solo a seguito della sua risposta, eventuale rimessione alla Corte costituzionale; simultanea prospettazione della questione di legittimità costituzionale e della pregiudiziale sovranazionale; rimessione prioritaria della questione di costituzionalità, subordinando il rinvio ai giudici di Lussemburgo all’esito della questione di costituzionalità.
Di fronte al giudice di ultima istanza, dunque, pare prospettarsi un concorso “libero” di questioni pregiudiziali, consentendo, almeno in astratto, all’autorità giurisdizionale di scegliere la via da percorrere sulla base delle policies di volta in volta seguite dal collegio. A uno sguardo più attento, tuttavia, il concorso libero di pregiudiziali è più apparente che reale: e questo non tanto per il preteso carattere vincolante dell’obiter dictum (pur problematicamente, MASSA 2019, p. 20) – al quale non potrebbe essere riconosciuta alcuna doverosità formale, stante la diversità dei circuiti in cui Corte costituzionale e giudici comuni si trovano ad operare – quanto per un generale criterio di opportunità istituzionale desumibile dalle profonde ragioni ordinamentali che assistono la «precisazione».
In primo luogo, non è auspicabile che i giudici di ultima di istanza si affidino a una pregiudizialità “contestuale”: simile soluzione ingenererebbe incertezza negli operatori e nelle stesse Corti destinatarie del rinvio, portate a pronunciarsi senza conoscere le reciproche posizioni. Verrebbe così pregiudicata la possibilità stessa del dialogo giurisdizionale e, dunque quel «quadro di costruttiva e leale cooperazione» (sent. n. 269 del 2017) che caratterizza i due sistemi – distinti ma altamente integrati – di garanzia dei diritti fondamentali. D’altronde, la precedenza alla pregiudiziale europea sarebbe in fondo contraddittoria rispetto alle premesse monistiche che la giustificano, poiché ometterebbe di considerare la particolare forza della pronuncia di incostituzionalità: solo quest’ultima, infatti, rimuove, con effetti erga omnes, la diposizione legislativa, garantendo al massimo grado sia la tutela dei diritti fondamentali sia la primazia del diritto sovranazionale (VIGANÒ 2019, p. 488). Peraltro, come sostenuto supra, la rimessione prioritaria della questione di legittimità costituzionale eviterebbe il ricorso ai controlimiti nel caso di divergenze interpretative sul contenuto dei principi fondamentali, immettendo i contenuti della tradizione costituzionale interna nel confronto con i giudici di Lussemburgo.
La priorità della questione di costituzionalità, ancorché non possa dirsi imposta dall’ordinamento, deve dunque essere assicurata in virtù di un criterio di preferenza funzionale, che conduce l’interprete ad optare per la soluzione che, in coerenza con i presupposti ordinamentali della sent. n. 269 del 2017, consenta di massimizzare gli effetti del principio di diritto ivi enunciato.
Sono poi tutti da esplorare i margini che residuano al giudice comune nel caso in cui la Corte costituzionale rigetti la questione di costituzionalità, non rilevando alcun contrasto con l’ordinamento sovranazionale. È un’ipotesi che fino ad adesso non si è mai avuta perché, ad oggi, la Corte costituzionale ha optato ora per l’illegittimità della norma (sentt. n. 20 e 63 del 2019), ora per una resecazione interpretativa della disposizione censurata, sterilizzandone il contrasto con il diritto UE (sent. n. 19 del 2020).
Non può escludersi, tuttavia, l’eventualità di un rigetto possa concretizzarsi nel prossimo futuro. La sentenza n. 269 del 2017 ha riconosciuto il potere al giudice comune di «disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». Il riferimento agli ulteriori profili di contrasto che legittimerebbero, secondo la «precisazione», la paralisi di efficacia della norma interna è stato rinnegato dalle pronunce successive, ove la disapplicazione ha assunto i crismi della doverosità: è stato infatti ribadito il «dovere (…) di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta» (ord. n. 117 del 2019). Tale rimeditazione riallinea l’orientamento della Corte costituzionale alle note pronunce della Corte di Giustizia Melki e Abdeli e A contro B e altri, le quali, pure ammettendo la precedenza della questione di costituzionalità (salvo il necessario coinvolgimento dei Giudici di Lussemburgo, anche al termine del procedimento incidentale), hanno sempre ribadito l’esigenza di consentire la disapplicazione, al termine del giudizio di costituzionalità, della norma interna contrastante con il diritto dell’Unione.
Nonostante la riaffermazione del principio, è però difficile immaginare che il giudice comune possa, magari contando sulla sponda della Corte di giustizia, disapplicare la norma interna per gli identici profili esaminati dalla Corte costituzionale, allontanandosi dal principio di diritto ivi enunciato (e, forse, ponendosi in conflitto con il giudicato costituzionale). Il giudice comune dovrebbe concepire la disapplicazione quale extrema ratio, ricorrendovi (laddove non abbia già provveduto in questo senso il Giudice delle leggi) solo a seguito del coinvolgimento della Corte di giustizia e, tentando, per quanto possibile, di evidenziare profili di contrasto diversi o quanto meno non limitati alla presunta incompatibilità con la Carta dei diritti. In fondo, come affermato dagli stessi Giudici di Lussemburgo in Melki e A e B, se il valore da tutelare attraverso la verifica di compatibilità sovranazionale è la primazia del diritto dell’Unione, gli strumenti ermeneutici per raggiungere tale obiettivo sono molteplici, e non necessariamente risiedono nelle virtualità espansive dei diritti riconosciuti nella Carta di Nizza.
*Il presente scritto è in corso di pubblicazione in C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
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[1] Corte giust., C-106/77, Simmenthal, 9 marzo 1978.
[2] Corte giust., C-105/14, Taricco, 8 settembre 2015.
[3] Corte giust., C-144/04, Mangold, 22 novembre 2005.
[4] Corte giust., C-617/10, Hans Åkerberg Fransson, 7 maggio 2013.
[5] Corte giust., C-555/07, Kücükdeveci, 19 gennaio 2010.
[6] Corte giust., C-569/16, Bauer, 6 novembre 2018.
[7] Corte giust., C-684/16, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV, 6 novembre 2018.
[8] Così espressamente, l’ord. n. 117 del 2019. Per un recente caso di rinvio pregiudiziale interpretativo, cfr. anche ord. n. 182 del 2020.
[9] Così l’ord. n. n. 117 del 2019, ove gli artt. 47-48 CDFUE, evocati a mo’ di parametro, coincidono con il diritto al silenzio «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana».
[10] Emblematica l’ord. n. 117 del 2019, ove per la prima volta nella sua storia, la Corte costituzionale rimette alla Corte di giustizia questione di validità delle norme sovranazionali che sanzionano il diritto al silenzio nei procedimenti CONSOB che portano a sanzioni sostanzialmente punitive.
[11] Corte giust., C-188 e 189/10, Melki e Abdeli, 22 giugno 2010.
[12] Corte giust., C-112/13, A c. B e altri, 11 settembre 2014.
[13] PADULA 2020, pp. 605 e ss. ascrive a questo filone anche la sentenza n. 44 del 2020, che ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una legge veneta che prevedeva, come condizione di accesso all’edilizia residenziale pubblica, la residenza ultraquinquennale sul territorio regionale. Nonostante il rimettente avesse evocato anche la violazione dell’art. 11, par. 1, lett. f) della direttiva 2003/109/CE (che riconosce il diritto del soggiornante di lungo periodo alla parità di trattamento nelle procedure di assegnazione degli alloggi), la Corte costituzionale ha ritenuto assorbita la censura relativa al parametro sovranazionale. In assenza di una esplicita presa di posizione del Giudice delle leggi sul punto, pare però difficile inserire la pronuncia nel solco tracciato dalle sent. n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019.
[14] Non sono perciò condivisibili le scelte compiute dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Napoli, che si sono rivolte prioritariamente alla Corte di giustizia in relazione alla disciplina, recata dal Jobs act, dei licenziamenti collettivi illegittimi (la Corte partenopea ha addirittura sollevato contestualmente promosso questione di legittimità costituzionale e rinvio pregiudiziale). Peraltro, la Corte di giustizia (C-32/20) si è detta manifestamente incompetente a conoscere della questione sottopostale, ritenendo che i diritti CDFUE richiamati nel caso di specie si ponessero al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non avendo alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale. In tal senso, l’evocazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, non è stata ritenuta sufficiente a fondare una competenza dell’Unione europea in materia.
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