ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il fine vita e il legislatore pensante
2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II
Considerazioni di Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci
Introduzione di Mario Serio
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano)]
Introduzione
Ancora una volta Giustizia Insieme si rende lodevole interprete della sensibilità sociale sviluppatasi attorno a temi in cui le implicazioni giuridiche esigono un coordinamento chiaro e ragionato con altri forme di conoscenza e giudizio ,anche eticamente qualificati.
L'occasione è oggi costituita dal significato da attribuire, sul terreno del diritto e delle soluzioni che esso appare in grado di prospettare, al concetto di vita in generale e, più in particolare, su quello di vita che valga la pena di essere continuata a condurre a cospetto di condizioni, situazioni, evenienze che dolorosamente mettano in dubbio, tanto dal punto di vista soggettivo, quanto da quello oggettivo, questa possibilità.
Tema da sviluppare, oltre che con il ricorso al patrimonio delle competenze strettamente tecniche, tenendo conto della crudezza delle circostanze e della necessità di governarle assumendo come linea di indirizzo il superiore valore della dignità della persona umana in ogni momento della sua esistenza, fino a quello del suo epilogo.
La molteplicità delle sollecitazioni culturali e, in declinazione aconfessionale e rigorosamente laica, in senso ampio spirituali che la ricerca proposta lascia affiorare serve certamente ad affinare la profondità delle riflessioni, caricandole del nobilitante onere di controllarne la doverosa compatibilità con la preservazione, sempre e comunque, del decoro della vicenda umana.
La Scuola comparatistica palermitana, i cui esponenti addito orgogliosamente addito quali Allievi, qui presente sia con affermati ed esperti studiosi sia con freschi contributi di giovani cultori, ha coltivato una ricca indagine sulle modulazioni dell'oggetto dello studio opportunamente suggerito dalla rivista, dirigendo la propria attenzione verso un duplice obiettivo: da un canto, sceverando la natura delle varie questioni in sé, nella loro essenza considerate; d'altro canto, convogliando verso la sponda dell'appropriato metodo comparatistico l'apparato concettuale appena fissato. E' così che il mutuo contratto con altre esperienze ordinamentali si risolve in, anche implicito, criterio di orientamento per scelte, indirizzi, proposte attuabili nel nostro ordinamento.
Alla prima parte del lavoro scientifico già pubblicata, segue oggi la parte II, qui di seguito presentata.
Alle approfondite riflessioni di Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano, si ricongiunge dunque l'altrettanto pregevole analisi, acuta ed informata, che Nicoletta Patti svolge relativamente alle conseguenze, agli insegnamenti ed alle svolte impresse dalle soluzioni giurisprudenziali multi-livello nei dolorosi casi Englaro e Cappato ,costituenti basi fondative di attesi interventi legislativi italiani che ben potrebbero trarre proficuo alimento dalla situazione registrata in altri Paesi. Nel medesimo, generale ordine argomentativo, allargato alla questione dell'efficacia da assegnare alla opzione volitiva del paziente rivolta a conseguire assistenza al proprio disegno di suicidio si pone l'ulteriore contributo della medesima Autrice che si indirizza alla ricerca di soluzioni al terribile problema, rinvenendone tracce in un certo numero di ordinamenti stranieri, europei e non.
Ed infine, con finezza di pensiero e dovizia informativa l'analisi di Giancarlo Geraci affonda nel tessuto del processo civile e degli strumenti cautelari che esso presta per quanto attiene alla possibilità di aiuto al proposito di porre termine alla propria esistenza di fronte alla carenza di fattivo sostegno da parte delle competenti autorità sanitarie: il pesante fardello gravante sulle spalle del Giudice, anche straniero, è conseguentemente esplorato. La ricerca di un ragionevole, dignitoso contemperamento tra i concorrenti beni-valori in competizione nella tragica cornice di una vita la cui prosecuzione contrasta ,sul piano della tollerabilità delle sofferenze che ne sgorgano, è adeguatamente perseguita dallo stesso giovane studioso con l'ausilio del raffronto tra le caratteristiche conformanti sul punto il diritto italiano ed il common law inglese.
Il quadro tratteggiato da questi generosi contributi ben si inscrive nell'ariosa visione che Giustizia Insieme ha voluto, nella scia di un dibattito radicato nella coscienza sociale, descrivere nel generale contesto della sublimazione dei precetti costituzionali atti riscattare la dignità umana dal giogo del dolore umiliante ed opprimente.
Anche l'ultima parte di questo lavoro collegiale, ed i singoli contributi, non avrebbe visto la luce senza la costante opera di guida e suggerimento posta in essere con la consueta maestria dalle Professoresse Timoteo e Cetchia, rispettivamente ordinarie di Diritto privato comparato nelle Università di Bologna e di Milano Statale.
Mario Serio
Nicoletta Patti
1. Il valore normativo della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
È possibile rintracciare un tratto comune tra le decisioni indicate - sia pure nella diversità delle questioni affrontate - nell’attitudine dei giudici a oltrepassare gli ostacoli ideologici e a confrontarsi con la concretezza delle questioni ad essi sottoposte. Ciononostante, le soluzioni cui sono pervenute le Corti nelle suddette pronunzie non possano che costituire un punto di partenza per il legislatore, il cui intervento oltre che auspicabile, si ritiene doveroso. Al fine di argomentare tale risposta si ritiene opportuno trattare separatamente le due decisioni che, come evidenziato, affrontano due diversi profili del caleidoscopico tema delle decisioni di fine vita. L’obiettivo sarà quello di evidenziare per ognuna i nodi irrisolti e di ricercare possibili soluzioni operando un rimando ad esperienze straniere (fermo restando che una compiuta analisi richiederebbe ben altro spazio).
Nel caso Englaro la Corte di Cassazione ha affrontato il problema che si pone nel caso in cui l’infermo non sia in grado di esprimere la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia - prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali - specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali, invece, avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza. Con un articolato percorso argomentativo, i giudici di legittimità sono giunti ad enunciare il principio di diritto per cui “ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno (…), su richiesta del tutore che lo rappresenta, il giudice può autorizzare la disattivazione dei presidi sanitari che lo mantengono artificialmente in vita, unicamente in presenza dei seguenti presupposti:
- quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno;
- e sempre che tale istanza sia espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.”[1]
Secondo quanto statuito dalla Corte, allora, il diritto all’autodeterminazione dell’infermo in ordine ai trattamenti terapeutici cui sottoporsi - che discende dagli articoli 2 e 32 della Costituzione - deve essere rispettato anche quando il degente versi in uno stato di incapacità volitiva. In tale ipotesi è necessario che la sua volontà - in effetti mai concretamente manifestata - sia ricostruita ed, infine, dichiarata dal tutore, il quale deve agire nell’esclusivo interesse del primo. Tale argomentazione si attesta su posizioni fortemente tributarie al meccanismo del substituted judgement elaborato dalle Corti statunitensi[2], il quale - facendo perno sulla personalità e sulle opinioni del soggetto incapace così come ricostruite dai soggetti preposti alla sua tutela - non ha a proprio fondamento una volontà reale ma, come il nome stesso manifesta, un surrogato di questa.[3] Proprio tale circostanza fa sorgere alcune perplessità. Il tutore, infatti, incaricato del compito di individuare la decisione che l’infermo avrebbe assunto laddove fosse stato capace, non potrà evitare, nell’opera di ricostruzione di una siffatta volontà, una sovrapposizione tra i propri desideri e convincimenti e le opinioni dell’incapace, magari rese in relazione a circostanze tanto differenti da non essere adattabili alla situazione specifica[4]. In altri termini, in assenza di chiare e dirette istruzioni anticipate, non ci sono garanzie che la decisione sostitutiva sia veramente rappresentativa della concezione morale e della valutazione soggettiva dell’infermo. Il rischio, allora, è che, nel ricostruire l’ipotetica determinazione del rappresentato, vi sia uno stravolgimento del giudizio sostitutivo il quale, partendo dalla decisione del paziente, giunge a una decisione del sostituto. Queste brevi riflessioni inducono a ritenere che il meccanismo del substituted judgment non sia realmente idoneo a tutelare l’autodeterminazione della persona che versi in uno stato di incoscienza. È, dunque, necessario un intervento del legislatore che, lungi dal trasporre in forma organica le coordinate già delineate dalla Corte di Cassazione, ricerchi un criterio alternativo maggiormente idoneo a tutelare gli interessi delle persone incapaci.
De iure condendo, un modello di riferimento potrebbe essere rintracciato nell’ordinamento giuridico francese, dove la questione è stata specificamente prevista ed è stata adottata, pur nella delicatezza della materia, una precisa scelta di campo. Nello specifico, il Code de la santé publique, all’art. L.1110-5-1, dispone che nessun trattamento sanitario debba essere iniziato o proseguito nel caso in cui questo si traduca in una irragionevole ostinazione; pertanto, quando gli stessi trattamenti appaiono privi di alcuna utilità, sproporzionati o limitati unicamente al prolungamento artificiale della vita del degente, essi possono essere interrotti conformemente alla volontà del paziente o, in caso di impossibilità di quest’ultimo ad esprimere un volere, in base ad una decisione assunta dal personale sanitario ad esito di una procédure collégiale disciplinata dal codice deontologico della professione. In particolare, se chi ha in cura il degente intende interrompere i trattamenti di sostentamento vitale - in considerazione dell’inutilità degli stessi ad apportare un concreto miglioramento della condizione clinica del degente – ha il dovere di consultare previamente un altro medico (con il quale non intrattenga alcun rapporto di natura gerarchica) e di ascoltare l’opinione di chi abbia la responsabilità legale dell’incapace. La decisione assunta al termine di tale concertazione dovrà essere motivata, riportata all’interno della cartella clinica dell’infermo e comunicata alla personne de confiance[5], se nominata o, in sua assenza, ai familiari dell’infermo. Soltanto nell’ipotesi in cui vi sia disaccordo tra questi ultimi e i medici in ordine alla scelta di proseguire, o meno, i trattamenti sanitari è necessario il ricorso all’autorità giudiziaria, la quale tuttavia ha esclusivamente il compito di verificare che la decisione del medico sia stata assunta nel rispetto della procedura prescritta dalla legge.
La conseguenza di una siffatta scelta legislativa è, dunque, nel segno dell’attribuzione di un ruolo predominante al giudizio dei professionisti sanitari. Come è evidente, in alcun modo viene attribuita rilevanza alla volontà inespressa del paziente quale criterio atto a stabilire se interrompere i trattamenti di sostentamento vitale. Piuttosto, tale decisione si fonda su una valutazione obiettiva dell’irreversibilità dello stato clinico e della conseguente inutilità delle terapie apprestate - inevitabilmente rimessa alla competenza scientifica del medico - e può essere assunta da quest'ultimo anche in contrasto con l’eventuale opinione divergente espressa dai familiari dell’infermo, i quali pur dovendo essere ascoltati nell’ambito della procédure collégiale, non hanno, tuttavia, alcun potere ostativo.
La stessa materia ha trovato una regolamentazione legislativa e giurisprudenziale anche in Inghilterra, con esiti del tutto assimilabili alla soluzione adottata in Francia. La vicenda che ha permesso di avviare una riflessione sul tema è quella che ha coinvolto il giovane Bland, ridotto ad uno stato vegetativo permanente a causa delle lesioni riportate a seguito di un grave incidente[6]. La House of Lords, chiamata a pronunciarsi sulla sospensione della somministrazione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, ha statuito che, nell’ipotesi in cui il paziente non possa esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica, l’unico elemento che legittima la prosecuzione o l’interruzione di un trattamento sanitario è la necessità di perseguire il best interest del paziente stesso, valutato secondo i parametri condivisi dalla scienza medica. Anche i giudici inglesi, dunque, hanno fatto ricorso a quella misura oggettivamente valutabile costituita dall’inutilità di proseguire un trattamento terapeutico in assenza di un beneficio ulteriore rispetto alla mera sopravvivenza incosciente. Il principio del best interest è stato espressamente recepito dal legislatore inglese che lo menziona all’interno della section 1 del Mental Capacity Act del 2005. La Supreme Court poi, recentemente chiamata a pronunciarsi nuovamente sul tema, ha stabilito che non è necessario ottenere una preventiva autorizzazione giudiziale laddove la decisione circa l’interruzione dei trattamenti di sostentamento vitale sia assunta, sulla base dei parametri oggettivi testé richiamati, da professionisti e congiunti dell’infermo di comune accordo. Soltanto in subordine – quando, cioè, non sussista tale unanimità d’intendimenti – è necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, affinché si accerti, con le garanzie del dibattimento processuale, la soluzione più idonea alle esigenze dell’infermo, tenendo conto anche della specifica personalità di quest’ultimo ricavata attraverso elementi attendibili.[7] Sebbene l’ultimo frammento di tale decisione sembra rievocare il giudizio sostitutivo fatto proprio dalla nostra Corte di Cassazione nel caso Englaro, occorre tuttavia considerare come la Corte Suprema del Regno Unito abbia espressamente dichiarato che la competenza delle Corti nell’assumere determinate decisioni sia di fatto inferiore a quella dei medici, la cui valutazione costituisce, dunque, elemento fondante della stessa decisione giudiziaria.[8]
Il criterio del best interest, nell’impossibilità di ricostruire con certezza l’effettiva volontà del paziente incosciente, appare di gran lunga preferibile rispetto alla soluzione adottata dalla Corte di Cassazione e può costituire un utile riferimento per l’auspicato intervento del legislatore italiano: “pur costituendo, senz’altro, una deroga al diritto all’autodeterminazione dell’infermo - dal momento che il compito di accertarlo è demandato al personale sanitario - esso ha almeno il pregio di non consistere in una finzione giuridica, come quella su cui si fonda la tecnica ermeneutica del substituted judgement. Quest’ultima, infatti, perseguirebbe il fine, generalmente impossibile da raggiungere, di pervenire alla stessa decisione che il paziente, se cosciente e capace, avrebbe assunto.”[9]
Il secondo profilo su cui il quesito posto induce a riflettere riguarda i confini del diritto ad ottenere assistenza medica a morire in situazioni patologiche irreversibili alla luce dell’ordinanza n. 207/2018 e, da ultimo, della sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale.[10]
Con la prima ordinanza la Consulta - investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito altrui di togliersi la vita - attraverso un complesso ragionamento la cui descrizione esula dai fini della presente indagine, era giunta alla considerazione per la quale le questioni connesse ad un tema tanto controverso quanto ricco di implicazioni etiche non potessero che essere risolte in Parlamento, luogo deputato per antonomasia alla ricerca di una sintesi tra interessi contrapposti e tutti meritevoli di tutela. La decisione, prima facie, era stata allora quella di assegnare al Parlamento stesso il compito di predisporre una regolamentazione legislativa dell’assistenza al suicidio, nella piena ed espressa consapevolezza che una mera ed incondizionata dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. avrebbe creato un vulnus di tutela al malato stesso e alla collettività tutta, ben maggiore di quello determinato dal mantenimento di una norma in parte illegittima. A distanza di quasi un anno, di fronte alla sostanziale inattività del legislatore – non essendo sopravvenuta alcuna normativa in materia – la Corte ha ritenuto opportuno pronunciarsi in merito alle questioni già diffusamente trattate nell’ordinanza n. 207 del 2018. È allora intervenuta con una nuova decisione al fine di rimuovere quegli aspetti di illegittimità costituzionale che essa aveva già riscontrato nella succitata ordinanza, non limitandosi tuttavia a emettere una sentenza meramente ablativa, ma arrivando di fatto a dettare una regolazione autosufficiente e innovativa, seppur parziale, in tema di fine vita e suicidio assistito[11].
In particolare la Consulta, pur mantenendo intatta la vigenza dell’art. 580 c.p., lo integra di una causa di non punibilità qualora (a) il paziente sia affetto da una patologia irreversibile, (b) questa sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute assolutamente intollerabili dal malato, (c) la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale, (d) l’individuo interessato resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.[12]
Innanzitutto, quanto al primo requisito, è interessante notare come, a differenza del quadro che emerge dal panorama comparatistico, la Corte Costituzionale italiana non abbia subordinato l’accesso all’aiuto al suicidio al fatto che il paziente sia affetto da una malattia in stato terminale, ma richiede la sola “irreversibilità” di una condizione che procura al malato «sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili». La condizione di “terminalità” è richiesta, per esempio, nella legislazione dello stato di Victoria in Australia, dove la legge sul Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017) prevede, all’art. 9, co. 1, lett. d), n. 3, che il soggetto che intenda suicidarsi abbia ricevuto la diagnosi di una malattia che “is expected to cause death within weeks or months, not exceeding 6 months”[13]. Sulla stessa traiettoria, il progetto di legge presentato alla House of Lords inglese nel 2015 (l’Assisted Dying Bill), delimita l’accesso al suicidio medicalmente assistito al malato terminale che, affetto da una patologia a decorso progressivo e resistente alle cure, “is reasonably expected to die within six months”.[14] Ancora, l’art. 241.2, co. 2 del codice penale canadese prevede - tra i presupposti soggettivi, che la persona sia affetta da “grievious and irremediable medical condition” e che (lett.d)) “their natural death has become reasonably foreseeable”[15].
Ora, le previsioni normative appena riportate appaiono foriere di sperequazioni tra infermi che patiscono le stesse sofferenze. Subordinare, infatti, l’accesso al suicidio assistito ad una circostanza che si fonda su una valutazione medica, neppure certa in ordine al suo verificarsi nei tempi previsti, circoscrive in modo eccessivo la portata applicativa delle disposizioni richiamate. Il rischio è che venga riservato un trattamento diverso a coloro che, pur sopportando i medesimi patimenti, abbiano - secondo l’opinione dei professionisti sanitari - una differente prospettiva di vita in termini strettamente quantitativi. In questo senso, la sola irreversibilità della malattia, come previsto dalla Corte, appare una condizione ben più inclusiva rispetto allo stato terminale, dal momento che la stessa si riferisce ad una patologia “non guaribile” sulla base delle conoscenze e delle tecniche medico-scientifiche disponibili nel momento in cui viene valutata la richiesta di assistenza medica a morire. Da questo punto di vista, allora, la scelta operata dalla Consulta risulta condivisibile. Fa sorgere dubbi, sul piano della ragionevolezza, invece, la previsione che il paziente, affinché possa ottenere assistenza medica nel morire, debba essere tenuto in vita da trattamenti di sostentamento vitale. Tale condizione, assente nelle legislazioni di ordinamenti stranieri, comporta (quantomeno fino all’auspicabile intervento del legislatore) risposte giuridiche opposte tra chi necessita di tali interventi e chi, invece, pur malato irreversibilmente e sofferente in un modo ritenuto non più sopportabile, abbia la “sfortuna” di vedere la propria vita svincolata da qualsiasi terapia vitale. I primi, infatti, hanno il diritto di chiedere la cessazione delle cure, lasciandosi morire (ex legge n. 219 del 2017) e – adesso – anche di ottenere il suicidio medicalmente assistito; i secondi, invece, si vedrebbero precluse tali opprtunità: l’una perché non vi è alcun trattamento da interrompere, l’altra in quanto verrebbe a mancare uno dei requisiti che legittima l’accesso dell’infermo al suicidio assistito, rimanendo così “condannati a vivere” contro la loro volontà e la loro (percezione) di dignità.
Il legislatore dovrebbe allora intervenire estendendo la platea di beneficiari del suicidio medicalmente assistito, includendo anche chi, non tenuto in vita da detti trattamenti, risulti comunque affetto da patologie irreversibili - fonti di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche - e contemporaneamente capace di assumere decisioni libere e consapevoli.
Una simile soluzione si trova nella proposta di legge n. 1875 la quale, all’art 3, comma 1, prevede che possa chiedere aiuto nella morte il soggetto affetto da una malattia a prognosi infausta che gli procuri sofferenze evidenti, insostenibili e irreversibili[16]. In maniera condivisibile, il presupposto applicativo della norma viene sganciato dalla dipendenza da trattamenti di sostentamento vitale, per ancorarlo esclusivamente a condizioni di vita terribilmente deteriorate in cui versa il paziente e che giustificano un intervento diretto, in maniera compassionevole, ad abbreviarle.
Un ulteriore elemento che emerge dall’analisi comparatistica è che in alcuni ordinamenti (si vedano, ad esempio la legislazione adottata in Australia[17] e in Canada[18], nonché l’Assisted Dying Bill inglese[19]) il perimetro applicativo della depenalizzazione dell’aiuto al suicidio riserva la possibilità di attivare il relativo procedimento ai soggetti che posseggano la residenza nella stessa nazione.
Una tale limitazione, non prevista tra le condizioni dettate dalla Consulta, né inserita in alcuno dei progetti di legge attualmente pendenti dinnanzi al Parlamento italiano, ha il pregio di impedire a soggetti stranieri - cittadini di stati nei quali non è permessa l’assistenza all’infermo a porre termine alla propria vita - di recarsi in quegli ordinamenti al fine di accedere a quell’atto estremo vietato nei luoghi di provenienza, così evitando il fenomeno del c.d. “turismo della morte”.
Procedendo oltre nella disamina della pronuncia n. 242/2019, la Corte Costituzionale, dopo aver aperto al suicidio assistito nei casi che sopra esaminati, vi affianca altri elementi che ricava dalle «coordinate del sistema vigente», avendo, in particolare modo, come «punto di riferimento» la legge n. 219 del 2017[20].
Il richiamo a tale legge consente alla Corte di collegare e circoscrivere l’aiuto al suicidio alla relazione terapeutica, estendendovi la “procedura medicalizzata” già prevista dal legislatore. Tale percorso “medicalizzato” comporta una verifica dei presupposti oggettivi indicati dalla Corte (in particolare l’esistenza di una patologia irreversibile, le sofferenze fisiche o psichiche intollerabili per il degente, la presenza di trattamenti di sostegno vitale). Tale compito, «in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore», viene affidato a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. Ad esse spetta vagliare anche «le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». L’importanza dei valori in gioco porta la Consulta a richiedere, quale ulteriore requisito, «l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze», idoneo a «garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità». Sempre nell’attesa delle scelte legislative, il compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti, già investiti di funzioni consultive «che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili»[21].
L’esigenza di un presidio rafforzato di garanzia non può non essere condivisa. Residuano, ciononostante, talune perplessità: da un lato sull’effettiva capacità del sistema sanitario nazionale di sostenere l’incombenza, in modo particolare dal punto di vista organizzativo, specialmente in mancanza (come vedremo) di un obbligo nei confronti del personale medico; dall’altro in rapporto alla reale idoneità dei comitati etici ad assumere il ruolo di “organi collegiali terzi muniti delle adeguate competenze”[22] (per la loro composizione, per il possibile rischio di approcci non uniformi tra i diversi comitati territorialmente competenti; per la non meglio precisata natura del parere espresso, vincolante o no).
A tale proposito, un utile spunto per il legislatore italiano può essere tratto dalla procedura prevista nell’Assisted Dying Bill. Tale progetto di legge, oltre a richiedere (similmente a quanto stabilito dalla normativa canadese[23], australiana[24], olandese[25] e belga[26]) che ben due medici in posizione di indipendenza tra loro attestino – dopo avere esaminato separatamente il malato e la sua storia clinica – l’esistenza dei presupposti che legittimano il suicidio assistito, prevede altresì che l’istanza dell’infermo sia rivolta alla Family Division della High Court, la quale ha il compito di accertare la genuinità del volere del richiedente e il rispetto di tutte le formalità prescritte dalla legge.[27] Tale soluzione che, sulla scorta delle stesse preoccupazioni che animano la procedura delineata dalla Corte Costituzionale, prevede un doppio controllo appare idonea a eliminare ogni probabile abuso che possa dipendere sia dalla presenza di un medico eccessivamente pronto ad assecondare la richiesta eutanasica, sia pure in assenza di un rigido controllo sulla sussistenza di tutti i presupposti soggettivi; sia, ancora, dall’esistenza di una pressione indebita sul volere del malato non rilevabile da un medico come potrebbe esserlo, invece, da parte di un giudice[28]. Un’ultima riflessione. La Corte Costituzionale già nell’ordinanza n. 207 aveva suggerito al legislatore la necessità di contemplare (colmando l’attuale lacuna della legge n. 219/2017) una regolamentazione dell’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura di agevolazione al suicidio in presenza delle più volte richiamate circostanze. Nella sentenza il punto, in realtà centrale, è velocemente risolto prevedendo che, esclusa la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, nessun obbligo è previsto in capo al singolo medico, affidandosi alla sua coscienza la scelta “se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”[29]. Il rischio, tuttavia, è di rendere in questo modo del tutto aleatorio l’agognato aiuto a porre fine alle proprie sofferenze e di ridurre, di conseguenza, il suicidio assistito ad un «diritto» privo di una concreta azionabilità. Piuttosto dovrebbe prevedersi, pur sempre nel rispetto di eventuali obiezioni di coscienza del personale sanitario, la presenza all’interno della struttura sanitaria di almeno un medico pronto a dare seguito alla volontà del paziente.
In questo senso la normativa belga, a seguito della novella introdotta con legge del 15 marzo 2020, può costituire un utile punto di riferimento. Essa, infatti, prevede che se il medico consultato, esercitando la propria libertà di coscienza, rifiuta di praticare l’eutanasia, è tenuto ad informare il paziente entro 7 giorni dalla formulazione della richiesta, contestualmente rendendolo edotto delle ragioni del diniego. Egli dovrà inoltre fornire al paziente o alla persona di fiducia i recapiti di un centro o associazione specializzata nelle pratiche eutanasiche e inviare la cartella clinica ad un medico designato dal paziente stesso o dalla personne de confiance.[30] In questa traiettoria, condivisibilmente, la proposta di legge n. 1875, all’art. 6, dopo aver riconosciuto il diritto del personale sanitario a non prendere parte alle procedure del suicidio medicalmente assistito e del trattamento eutanasico, stabilisce che le strutture del Servizio sanitario nazionale sono comunque tenute a garantire il rispetto della volontà manifestata dal paziente. Qualora tale diritto non sia garantito, la struttura del Servizio sanitario nazionale, ferme restando le conseguenze penali o civili, dovrà provvedere al risarcimento del danno morale e materiale provocato[31].
Quanto discusso finora dovrebbe aver chiarito la non completa esaustività della decisione della Corte e, al contempo, la consapevolezza della stessa di non esserlo né tantomeno di poterlo essere. Non va dimenticato, infatti, come la decisione assunta con ordinanza n. 208 di rinviare la trattazione (o per meglio dire di differire la declaratoria della ravvisata illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.), sia stata mossa dalla finalità di consentire al Parlamento, in nome dell’invocato “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”[32], l’esercizio delle proprie prerogative. Già a suo tempo, indicando le linee guida dell’auspicato intervento legislativo, che hanno poi trovato concretezza nella sentenza n. 242, la Corte ha intrapreso un’apprezzabile opera di bilanciamento di interessi contrapposti (l’ autodeterminazione del singolo individuo e la protezione del bene-vita) che, in ogni caso, oggi il legislatore è chiamato a completare (seppur nell’esercizio della sua discrezionalità); è questo il significato da attribuire al monito, sia pur conciso, contenuto a chiusura della sentenza n. 242 del 2019 a che “la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente annunciati”[33].
2. Il valore della volontà del paziente incosciente e l’aiuto al suicidio
Prima di affrontare il quesito posto è necessario effettuare una breve premessa di carattere terminologico, che consenta un approccio il più possibile analitico all’oggetto di studio.
Per “eutanasia attiva” si intende quella condotta attraverso la quale il personale sanitario avvia dei processi idonei a provocare il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da una prognosi infausta ed irreversibile, al fine di abbreviarne i conseguenti patimenti e di preservare una (altrimenti difficile) dignità nella sofferenza. All’interno di tale categoria occorre poi compiere una necessaria distinzione tra l’ipotesi di eutanasia attiva diretta - che si realizza attraverso il compimento di atti con i quali si pone fine, a determinate condizioni, alla vita altrui in maniera immediata e senza arrecare sofferenze - e quella, differente, di assistenza al suicidio che si sostanzia nella procedura in base alla quale il personale del Servizio sanitario nazionale fornisce al paziente ogni supporto sanitario e amministrativo necessario per consentirgli di porre fine alla propria vita in modo dignitoso, autonomo e volontario[34]. La differenza tra le due fattispecie è netta: se nella prima ipotesi il decesso è provocato direttamente dal medico tramite la somministrazione di farmaci che inducono la morte, generalmente per via endovenosa, nel caso di suicidio medicalmente assistito l'atto finale di togliersi la vita - somministrandosi le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario - è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da soggetti terzi, i quali si occupano di assistere la persona per altri aspetti, quali il ricovero, la preparazione delle sostanze e la gestione tecnica post mortem.
Risolto tale iniziale problema definitorio, risulta evidente come nessun valore possa essere attribuito alla volontà del paziente diretta ad ottenere assistenza al suicidio per l’ipotesi futura in cui dovesse versare in uno stato di incoscienza. In tale circostanza, infatti, l’interessato non potrebbe esercitare quel dominio sull’atto finale che innesca il processo letale che è insito, per definizione, nel suicidio assistito. Vi sarebbe, dunque, un’incompatibilità logica tra lo stato di incoscienza in cui versa il degente e la modalità attraverso la quale lo stesso dovrebbe raggiungere la morte.
Bisogna allora, più correttamente, domandarsi quale sia il valore eventualmente da attribuire alla manifestazione di volontà resa anticipatamente dal paziente incosciente al fine di accedere ad un atto di eutanasia attiva diretta, praticato interamente dal personale sanitario.
A tal proposito può essere utile volgere lo sguardo alla disciplina adottata in altri ordinamenti, in modo da rilevare possibili spunti di riflessione dalle differenti soluzioni legislative adottate sul punto. In particolare analizzeremo la disciplina prevista in Belgio, Olanda, Canada e Australia (stato di Victoria)[35], al fine di confrontarla con quella individuata, per la medesima materia, nelle proposte di legge presentate al Parlamento italiano.
In Belgio, così come in Olanda, è attribuita rilevanza alla volontà del paziente incosciente soltanto se la stessa sia stata trasposta in una dichiarazione anticipata, contenente in modo chiaro ed univoco, la richiesta di eutanasia e siano rispettate alcune condizioni. In particolare il legislatore belga ha previsto che la dichiarazione anticipata debba essere firmata da un maggiorenne o da un minore emancipato. In entrambi i casi dev’essere sottoscritta da due testimoni, di cui almeno uno non deve avere un interesse materiale nel decesso del dichiarante. Questa dichiarazione, revocabile o modificabile in qualsiasi momento, può essere utilizzata dal medico solo nel caso in cui il paziente si trovi in stato d’incoscienza irreversibile secondo le conoscenze scientifiche dell’epoca.[36] Il dichiarante può designare una o due persone di sua fiducia che gli facciano da portavoce nel momento in cui non sarà in grado di esprimersi. In ogni caso la dichiarazione anticipata non è vincolante, e il medico può rifiutarsi di praticare l’eutanasia[37].
Anche la legge olandese sull’eutanasia prevede che un soggetto possa rendere delle dichiarazioni anticipate destinate ad assumere rilevanza nel caso di sopravvenuta incapacità e impossibilità di esprimere al medico la propria volontà di accedere alle pratiche eutanasiche, sebbene alle stesse non sia attribuita natura vincolante. L’art 2, comma 2 prevede infatti che “se il paziente che ha sedici anni o un’età superiore non è capace di esprimere la sua volontà, ma prima di raggiungere questa condizione clinica aveva una ragionevole capacità di intendere e di volere circa i suoi interessi ed ha fatto un testamento scritto che contiene la richiesta per l’eutanasia, il medico può non tenere conto di questo requisito.”[38]
Una soluzione simile si ritrova nelle proposte di legge italiane n. 1586 e n. 1655 le quali, rispettivamente agli articoli 3 e 4 ter, stabiliscono che «ogni persona può compilare un atto scritto, con firma autenticata dall’ufficiale di anagrafe del comune di residenza o domicilio con il quale chiede l’applicazione dell’eutanasia nell’ipotesi in cui egli diventi incapace di intendere e di volere ovvero di manifestare la propria volontà, nominando contemporaneamente un fiduciario (…) perché confermi la richiesta ricorrendone le condizioni. La richiesta di applicazione dell'eutanasia deve essere chiara ed inequivoca e non può essere soggetta a condizioni. Essa deve essere accompagnata, a pena di inammissibilità, da un’autodichiarazione, con la quale il richiedente attesta di essersi adeguatamente documentato in ordine ai profili sanitari, etici e umani ad essa relativi. La conferma della richiesta da parte del fiduciario deve, altresì, essere chiara e inequivoca, nonché espressa per scritto».
Effettuando un raffronto comparatistico emerge come, in modo condivisibile, nessuna delle previsioni richiamate attribuisce natura vincolante alla volontà espressa nelle disposizioni anticipate, consentendo dunque al medico di discostarsene. Ciò che desta perplessità, invece, è che né nella disciplina olandese né in quella individuata nelle proposte di legge richiamate è richiesta la maggiore età del disponente per la redazione di una siffatta dichiarazione anticipata, con la conseguenza che, nell’ipotesi di trattamenti eutanasici da praticarsi in futuro, è sufficiente la capacità di intendere e di volere, piuttosto che quella di agire. Una simile conclusione potrebbe essere condivisibile laddove la volontà del paziente fosse diretta a definire un percorso di cura, quale estrinsecazione del potere di autodeterminazione dell’individuo in ordine alla pianificazione del trattamento terapeutico conseguente allo stato patologico in cui versa. Tale diritto di scegliere le cure cui sottoporsi, all’interno del quadro delle possibili alternative, dovrebbe ragionevolmente non essere circoscritto entro i limiti della capacità d'agire. L’ipotesi di richiesta di eutanasia, formulata in anticipo rispetto al momento in cui dovesse insorgere uno stato di incoscienza, è però del tutto diversa: in questo caso, infatti, il soggetto dispone, in modo irrimediabile, di sé stesso e della propria vita. Allora tale manifestazione di volontà, destinata ad incidere in maniera profonda e irreversibile sulla sfera giuridica e personale del dichiarante, dovrebbe presupporre, in ragione della estrema delicatezza e irrimediabilità della decisione, la piena capacità legale d’agire del soggetto e non soltanto la naturale capacità di intendere e di volere[39]. Sotto questo profilo, condivisibile risulta la scelta effettuata nell’ordinamento giuridico belga di limitare la possibilità di richiedere l’eutanasia, in previsione di una eventuale futura incapacità deliberativa, ai maggiorenni e ai minori abilitati.
Al di là del dato anagrafico, tuttavia, vi è un ulteriore elemento, più incisivo, che induce a discostarsi in modo radicale da ognuna delle soluzioni finora analizzate.
Le disposizioni anticipate possono essere redatte in un momento lontano rispetto a quello in cui si dovrebbe applicare il trattamento eutanasico, in cui il paziente può anche non essere affetto da alcuna malattia cronica, invalidante o mortale. Questa circostanza si pone in radicale antitesi con il presupposto proprio dell’eutanasia, che risiede, invece, nell’attualità di una condizione patologica che arrechi sofferenze così gravi da rendere insopportabile l’esistenza dell’infermo.[40] Alla luce di tale considerazione, si ritiene del tutto preferibile l’opzione legislativa di cui alla proposta n. 1875[41], la quale, analogamente alla legge canadese[42] e a quella australiana (stato di Victoria)[43], non contempla la possibilità di redigere dichiarazioni anticipate che abbiano ad oggetto la richiesta di pratiche eutanasiche, negando in radice l’attribuzione di qualsivoglia valore ad una manifestazione di volontà pregressa in tal senso orientata. È necessario, allora, che chi richiede l’eutanasia sia dotato di piena capacità decisionale durante l'intero processo che condurrà all’esito esiziale, al fine di assicurarsi che la decisione assunta sia volontaria, ponderata e coerente rispetto alla condizione clinica attuale.
Giancarlo Geraci
1. Alla ricerca di un bilanciamento fra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute. Potrà mai essere trovato “per legge”?
La domanda pone una preliminare difficoltà. Il riferimento a termini che hanno una portata e una pregnanza assai profonda nell’ordinamento giuridico, non solo a livello nazionale, quali la dignità, il diritto alla vita, all’autodeterminazione e la tutela della salute, sembrano porre l’interprete innanzi a una matassa assai ingarbugliata che, pertanto, necessita di essere accuratamente sbrogliata.
Con riferimento alla dignità[44], ragionando in termini generali, è stato osservato[45] come sia assai complicato tentare di inquadrare tale termine all’interno di una cornice definitoria ben determinata. Sulla scorta di un’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale[46], tuttavia, si può ragionevolmente ritenere come il concetto di dignità sia assunto quale indefettibile presupposto per l’esercizio dei diritti, ossia come quel requisito fondamentale che, all’interno di una Carta costituzionale che si ispira al principio personalista, qual è quella italiana, è riconosciuto ad ogni individuo come tale e di cui quest’ultimo non può in alcun modo essere spogliato.
Non a caso si è osservato[47] come per indicare la parola “dignità”, intesa nel senso di qualità, valore elevato dell’essere umano, nel greco antico veniva usato il termine axìoma che, successivamente, è stato tradotto con la parola “assioma” intesa, appunto, come principio primo, come enunciato presupposto di ogni procedimento argomentativo.
In tal senso, dunque, per poter coerentemente rispondere alla domanda e per cercare di entrare in un campo di indagine più specifico, è necessario coniugare la dignità con un altro fondamentale diritto, ossia quello all’autodeterminazione dell’individuo e osservare come, con specifico riferimento a tale aspetto, esistano due specifiche concezioni[48] del termine in discorso[49].
Secondo una prima accezione, che si pone in linea di continuità con quanto sinora osservato, la dignità sarebbe un concetto inerente ad ogni individuo e da cui deriva ogni altro diritto fondamentale a questi ascrivibile[50]. Tale accezione di dignità è nota come dignity as empowerment, poiché la dignità diviene proprio quello strumento di rafforzamento dell’individuo nei confronti di qualsivoglia interferenza altrui.
Altra accezione del termine, contrapposta a quella sinora brevemente analizzata, individua nella dignità sempre quell’indefettibile presupposto di ogni diritto fondamentale che, tuttavia, ed è questa la fondamentale differenza, non è propria di ciascuna persona ma del genere umano complessivamente inteso[51]. Si parla, in tale accezione, di dignity as constraint, poiché la dignità è essa stessa fonte di interdizioni e divieti inderogabili anche da parte dei relativi “titolari”.
Per poter, dunque, trovare un corretto bilanciamento tra la dignità umana e l’autodeterminazione dell’individuo, non può che accogliersi la prima concezione, previamente spiegata, di dignità. Solamente in tal senso, infatti, l’idea del diritto all’autodeterminazione della persona assume un suo significato compiuto e trova nella dignità stessa il suo presupposto indefettibile e fondamentale.
Con specifico riferimento, poi, al principio di autodeterminazione, non può non osservarsi come esso abbia subito un processo evolutivo, che lo ha portato ad una progressiva emersione. Nonostante, infatti, l’art. 32, secondo comma, Cost.[52] abbia sempre previsto il diritto di ciascuno ad autodeterminarsi in ambito sanitario in particolare garantendo il diritto di rifiutare ogni trattamento sanitario che non sia obbligatorio per legge si ritiene[53] che tale principio sia incominciato ad emergere effettivamente solo dagli anni’ 70 del secolo scorso. In tale periodo, infatti, si assiste al graduale superamento della concezione del rapporto medico/paziente di stampo “paternalistico” (in cui il sanitario aveva l’obbligo di trattare il paziente secondo i dettami della scienza medica e quest’ultimo era visto più come un oggetto delle cure che come soggetto delle stesse) ad uno di tipo “personalistico” basato, per l’appunto, sul principio di autodeterminazione del paziente stesso.
Il suddetto principio ha assunto oggi un ruolo preminente nell’ambito dei trattamenti sanitari, in quanto connesso al concetto di dignità dell’individuo quale presupposto indefettibile dello stesso essere umano e di cui egli è principale, se non addirittura esclusivo, arbitro. Ad ulteriore sostegno di quanto si sta affermando, non può non citarsi la recentissima legge n. 219 del 2017 che, facendo propri principi stabilmente affermatisi nella giurisprudenza, ha finalmente riconosciuto un ruolo primario al consenso dell’individuo, che solo se adeguatamente informato potrà consentire una libera esplicazione della sua autodeterminazione nel campo dei trattamenti sanitari[54].
Alla luce di quanto sinora esposto, dunque, non può non ritenersi che, per ritornare alla domanda iniziale, la dignità e l’autodeterminazione debbano necessariamente essere poste sullo stesso piatto della bilancia.
Il punctum pruriens rispetto al tema in discorso è certamente uno. Se, infatti, il principio di autodeterminazione, coniugato con la concezione di dignità umana di cui si è detto, certamente consente all’individuo di rifiutare i trattamenti sanitari (anche quelli c.d. salva-vita) ci si domanda se questi stessi principi possano consentire all’individuo anche di pretendere un trattamento sanitario che lo conduca al decesso: si fa, evidentemente, riferimento alle pratiche di eutanasia attiva[55] e di suicidio assistito[56].
In questi casi viene ad affacciarsi l’altro piatto della suddetta ipotetica bilancia, ossia quello del diritto alla vita, rectius della sacralità della vita. Sarebbe pleonastico sottolineare come in qualsiasi ordinamento giuridico democratico, il diritto alla vita è sempre tutelato e garantito nei confronti di ogni individuo. Ma tale tutela può giungere fino a “costringere” taluno a vivere anche qualora non lo voglia? Si può dire, in altri termini, che esista non un “diritto” alla vita ma un “dovere” alla vita? Orbene, guardando al nostro ordinamento, due notazioni sono preliminari.
La prima, quella secondo cui, come in altri ordinamenti occidentali[57], la tutela del diritto alla vita non arriva al punto di sanzionare penalmente colui che commetta, o tenti di commettere, un suicidio e, la seconda, che si pone in linea di continuità con questa, che è garantito, come visto precedentemente, il diritto “a lasciarsi morire”, rifiutando un trattamento sanitario, non obbligatorio. Tuttavia, come si diceva, il problema sorge allorché si pretenda che qualcuno attivamente interferisca nella vita di un altro, con il suo consenso, per porvi fine.
La questione deve necessariamente essere letta con l’ultimo dei concetti cui si fa riferimento nella domanda, ossia quello della tutela alla salute. Questo potrebbe essere ritenuto quale chiave di volta per addivenire ad un corretto bilanciamento dei termini della questione, solo se correttamente inteso. È chiaro che la salute di ogni individuo non è solamente quella fisica ma anche quella psichica. In tal senso, allora, la situazione in cui un soggetto che si trovi in uno stato patologico irreversibile, che gli causa sofferenze gravi ma non tali da determinarne la (prossima) morte e che maturi pertanto un’autonoma e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze, porta a una domanda. In tali casi l’ordinamento giuridico, che tutela il diritto alla salute dell’individuo stesso, deve intervenire assecondando la volontà dell’infermo ovvero, al contrario, rimanere inerte, negando al soggetto tale volontà, nel nome di un’astratta tutela della salute (solamente fisica in questo caso) e di un dovere, più che un diritto, alla vita?
È evidente come il bilanciamento tra questi concetti, come si è anticipato in apertura, sia assai complicato per il legislatore, per il fatto che essi involvono talmente varie, complesse, situazioni che diviene assai difficile prevedere e disciplinare tramite la legge, per definizione astratta e generale[58].
Allo stesso tempo, tuttavia, nell’inerzia del legislatore, si pongono inevitabilmente drammatici casi inerenti alla tematica del fine vita che devono essere risolti dal giudice che, assai spesso, proprio a causa dell’assenza di un adeguato strumentario normativo, si trova costretto a pronunce di tipo creativo[59], basate su un bilanciamento dei diritti in gioco, ovvero a rimandare la questione al giudice delle leggi[60].
Dando uno sguardo oltre i confini nazionali, come si è già osservato, sono assai pochi gli ordinamenti che sono riusciti a darsi una legislazione in tema di fine vita.
Tuttavia, vi è senz’altro un fil rouge tra gli ordinamenti che non può essere sottaciuto. Si fa riferimento, in particolare, al fatto che tanto le varie proposte di legge, sia italiane che straniere (come nel caso inglese[61]), che le leggi in tema di fine vita (come quella canadese[62]) sono state precedute da casi giurisprudenziali che hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica e che hanno in qualche modo segnato la strada che poi il legislatore ha effettivamente intrapreso.
Quanto finora osservato conduce ad una conclusione. Trovare un bilanciamento tra dignità, autodeterminazione, diritto alla vita e tutela alla salute è qualcosa di estremamente complicato, in particolare per il legislatore. Tuttavia, come si è detto, la varietà e la quotidianità delle drammatiche vicende che involvono il tema del fine vita impongono a questi di intervenire e non rimanere inerte. Per far ciò, un aiuto fondamentale può essere senz’altro rinvenuto nel patrimonio fecondo di principi di diritto enunciati nelle pronunce delle autorità giurisdizionali, non solo interne, che hanno affrontato il tema e che, per forza di cose, non si sono in alcun modo potute sottrarre ad una decisione.
Tramite un dialogo fecondo tra giudici e legislatore, allora, potrà pervenirsi ad una soddisfacente trattazione del tema in questione e, dunque, di un altrettanto soddisfacente bilanciamento dei concetti di cui alla domanda.
2. La tutela cautelare civile per garantire la domanda di aiuto al suicidio in caso di inerzia della struttura sanitaria e il ruolo del giudice. Che fare?
La domanda necessita di preliminari chiarimenti sui termini della questione.
In primo luogo è necessario intendersi sull’effettiva portata della locuzione “aiuto al suicidio” e, in particolare, sulla relativa distinzione rispetto alle pratiche rientranti nella c.d. eutanasia attiva[63]. In entrambi i casi, infatti, si tratta di pratiche che postulano un intervento attivo, acceleratore o, più spesso, determinante, la morte dell’infermo che si trova in uno stato di sofferenza intollerabile.
L’elemento discretivo tra le due tipologie di pratiche sta essenzialmente nelle modalità tramite cui viene somministrato il trattamento letale. Mentre, infatti, nel caso di eutanasia attiva è il medico che somministra al paziente il detto trattamento, nel caso di pratiche di aiuto al suicidio il medico “semplicemente” lo assiste nella detta somministrazione. Questi prescrive i farmaci necessari al suicidio su esplicita richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso, dunque, viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra i farmaci al malato.
Nelle pratiche di aiuto al suicidio, allora, l’intervento del sanitario e, di conseguenza, della struttura sanitaria all’interno della quale questi opera, diviene determinante nel definire la pratica stessa.
Fatta questa breve ma doverosa premessa di carattere terminologico, appare evidente che l’eventuale inerzia della struttura sanitaria nel consentire al paziente che lo richieda, l’aiuto al suicidio, assume carattere decisivo: se manca un intervento attivo del professionista, non si può in alcun modo parlare di suicidio assistito.
A questo punto, occorre ulteriormente precisare che, ad oggi, il legislatore italiano non è ancora intervenuto nel regolare la disciplina dell’aiuto al suicidio ma, a seguito dell’intervento della Consulta in un caso che ha destato l’interesse dell’opinione pubblica[64], si è stabilito che, a determinate condizioni indicate dagli stessi giudici della Corte Costituzionale, tale pratica non è penalmente perseguibile. Ne consegue, dunque, che, attualmente, non esiste alcun obbligo nei confronti del medico e, di conseguenza, della struttura sanitaria presso la quale questi opera, di garantire al paziente che lo richieda l’aiuto al suicidio.
Si può ragionevolmente ritenere, allora, che nel caso in cui un soggetto, di fronte alla inerzia della struttura sanitaria alla quale si è rivolto per aver garantito una pratica di suicidio assistito, adisca l’autorità giudiziaria, prevedibilmente tramite lo strumento del ricorso cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c., affinché questa emani una pronuncia di condanna ad un obbligo di fare nei confronti della detta struttura, l’esito della controversia non potrà che essere negativo per il ricorrente. In mancanza, infatti, di un obbligo legislativamente previsto, l’autorità adita non disporrà degli strumenti giuridici idonei al fine di imporre coattivamente alla struttura sanitaria l’esecuzione della pratica di aiuto al suicidio.
È chiaro, quindi, che soltanto con un’apposita disciplina legislativa che regoli il suicidio assistito, imponendo alla struttura sanitaria, al ricorrere di determinate condizioni appositamente previste, di garantire tale pratica al soggetto che la richieda, si potrà immaginare un ruolo effettivo del giudice, di fronte all’ingiustificata inerzia della struttura sanitaria medesima.
In effetti, è attualmente in discussione in Parlamento un progetto di legge[65] che, sulla scorta delle “istruzioni” contenute, tanto nell’ordinanza del 2018 che nella sentenza del 2019 della Consulta nel predetto “caso Cappato”, regola la pratica del suicidio assistito.
Tale progetto di legge prevede un ruolo attivo del medico nell’accompagnare il paziente lungo tutta la procedura che, in presenza di tutti i presupposti previsti[66], porterà al suicidio assistito.
In particolare, l’art. 4 della detta proposta di legge, in materia di “Requisiti e forma della richiesta”, dispone che il paziente ricorra alla procedura di suicidio medicalmente assistito solamente allorché la relativa richiesta sia “informata, consapevole, libera ed esplicita”. Anche se la proposta di legge tace al riguardo, è facile intuire che il soggetto che debba informare adeguatamente il paziente in merito non possa che essere il medico, secondo le procedure e le modalità di cui alla fondamentale legge n. 219/2017[67] in tema di consenso informato.
Una volta maturata tale volontà “informata”, il paziente dovrà esprimerla per iscritto e indirizzarla “al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente ovvero al medico di fiducia”[68] il quale, a sua volta, redigerà un rapporto sulle condizioni cliniche del richiedente e sulle relative motivazioni che ne hanno determinato la richiesta, inoltrandolo al Comitato etico clinico territorialmente competente[69]. Tale Comitato esprimerà un parere tecnico – scientifico non vincolante e lo invierà nuovamente al medico che, in ogni caso, lungo tutta la procedura, dovrà verificare il persistere della volontà suicidaria del richiedente.
Come si è cercato di evidenziare, nella proposta di legge cui si è fatto riferimento vi è uno spazio determinante lasciato al medico, nonché alla struttura sanitaria di riferimento.
Se tale proposta verrà tradotta in legge, allora potranno effettivamente verificarsi problematiche del tipo di quelle suggerite dalla domanda cui si sta rispondendo.
Al contrario, infatti, dello status quo, con l’introduzione di una legge in materia, vi sarebbe effettivamente il sorgere di un diritto soggettivo del paziente che, al ricorrere delle relative condizioni, legittimamente potrebbe richiedere al medico di aver garantita la pratica di aiuto al suicidio e, di conseguenza, in caso di inerzia ingiustificata del medico, ovvero della struttura sanitaria, vi sarebbe uno iato nel quale può inserirsi il giudice con una pronuncia di tipo condannatoria.
Sorge, tuttavia, una domanda. Cosa succede se vi è un parere negativo del medico ovvero del Comitato etico di valutazione? In questo caso il richiedente potrebbe adire l’autorità giudiziaria affinché questa si sostituisca al medico nella valutazione dei presupposti di legge?
Si possono immaginare due possibili soluzioni della questione. Una (a dire il vero difficilmente praticabile) dovrebbe portare a ritenere la materia sottratta alla possibilità di valutazione dell’autorità giudiziaria. Questa risposta, tuttavia, si scontrerebbe evidentemente con i principi costituzionali e, in particolare, con l’art. 24 Cost. che garantisce il diritto di “tutti” ad una tutela giudiziaria[70].
Pertanto, si può ritenere che, di fronte al rifiuto ovvero all’inerzia della struttura sanitaria nel garantire al paziente l’aiuto al suicidio, questi potrebbe senz’altro ricorrere all’autorità giudiziaria ma, è altrettanto assai chiaro che nel corso del giudizio dovrà essere nominato dal giudice un consulente tecnico d’ufficio che possa valutare, alla stregua dei requisiti previsti dalla legge, la legittimità o meno della richiesta del paziente e, dunque, della sussistenza dei presupposti per procedere al suicidio assistito.
La soluzione della questione sarebbe diversa qualora si ipotizzasse un ruolo attivo del giudice, già nella valutazione dei presupposti per procedere alla pratica di suicidio assistito, così come previsto nel progetto di legge omologo in Inghilterra, l’Assisted Dying Bill[71].
Nel detto progetto di legge[72], in particolare, si prevede che l’infermo rivolga la propria istanza alla Famiy Division della High Court[73], la quale ha il compito preliminare di valutare il corretto formarsi della volontà del richiedente[74] e, inoltre, di verificare che siano state osservate tutte le formalità, previste a tutela del malato, relative alla confezione dell’istanza.
In tal modo, dunque, a differenza dell’esaminato progetto di legge italiano, si prevede un ruolo attivo dell’autorità giudiziaria, in modo da prevenire possibili controversie che potrebbero sorgere in materia.
In conclusione, dunque, attualmente non è possibile immaginare un ruolo del giudice nell’obbligare la struttura sanitaria nel praticare il suicidio assistito al soggetto richiedente, in quanto non vi è ancora un obbligo legislativo che, parallelamente, garantisca il relativo diritto dell’infermo.
De iure condito, invece, si può ritenere che solamente con l’introduzione della relativa disciplina legislativa tali spazi si potranno aprire e, con molta probabilità, si può altrettanto prevedere che il giudice si troverà dinanzi ad un ruolo assai scomodo, da un punto di vista etico, ossia quello di dover condannare la struttura sanitaria inerte a praticare il suicidio assistito nei confronti del richiedente che abbia tutti i presupposti previsti dall’introducenda legge, verificati dal consulente all’uopo nominato dal giudice stesso.
[1] Cass. Civ., sez. II, 16 ottobre 2007, n. 21748
[2] Cfr. In re Quinlan, 355 A.2d 647 (N.J.), cert. denied, 429 U.S. 922 (1976); Cruzan v. Director Missouri Department of Health, U.S. 110 S. Ct. 2841, 111 L. Ed. 2d 224 (1990); In re Conroy, 98 N.J. 321 e 486 A.2d 1209 (1985); . Per l’analisi di tali casi si rinvia a: G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, n. 7/2007, pp. 175-179;
[3] Una simile soluzione si ritrova, a livello normativo, nel § 1901b, Abs. 2, BGB, il quale prevede che, allorquando un soggetto non abbia redatto alcuna dichiarazione anticipata, la decisioni circa l’interruzione o meno dei trattamenti terapeutici debba essere assunta dando rilievo alla volontà presunta dell’infermo che il Betreuer, il fiduciario, ha il compito di ricostruire sulla base dei desideri precedentemente manifestati e delle sue convinzioni etiche o religiose.
[4] In questo senso, G. Giaimo, Quello che la legge non dice. L’interruzione delle terapie di sostegno vitale in assenza di una volontà espressa dall’infermo, in BioLaw Journal, 17/2020, pp. 128-129
[5] La personne de confiance è il soggetto chiamato a manifestare la volontà del degente in ordine ai trattamenti terapeutici, nell'ipotesi di perdita della capacita volitiva di quest’ultimo (v. art. L1111-6 Code de la santé publique).
[6] Airedale NHS Trust v. Bland, 1993, W.L.R., 2
[7] NHS Trust v. Y (by his litigation friend, the Official Solicitor), 2018, UKSC, 46
[8] Per una trattazione più ampia si rinvia a G. Giaimo, Quello che la legge non dice. L’interruzione delle terapie di sostegno vitale in assenza di una volontà espressa dall’infermo, cit.
[9] G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, 7, p. 174
[10] La questione che ha dato luogo al giudizio di legittimità costituzionale, come è noto, trae spunto dalla vicenda processuale che vede coinvolto Marco Cappato, imputato del reato di cui all’art. 580 c.p., per aver agevolato - accompagnandolo con la propria auto in Svizzera - il suicidio di dj Fabo (al secolo Fabiano Antoniani) il quale, cieco, tetraplegico e sottoposto a respirazione ed alimentazione artificiali, si era liberamente autodeterminato a contattare l’associazione elvetica che lo assistette nell’atto di iniettarsi un farmaco letale. Per un più ampio commento alle decisioni richiamate si rinvia a: M.E. Bucalo, G. Giaimo, le sollecitazioni delle corti e l’inerzia del legislatore in tema di suicidio assistito. un confronto tra Italia e Inghilterra, in BioLaw Journal, 2019; M.E. Bucalo, La “circoscritta (e puntellata) area” di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. fra self-restraint della Corte costituzionale e perdurante inerzia del legislatore, in BioLaw Journal, 2020; R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in diritto di famiglia e delle persone, 2019; O. Caramaschi, La Corte costituzionale apre al diritto all’assistenza nel morire in attesa dell’intervento del legislatore, in Osservatorio Costituzionale, 1/2020; C. Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, in Sistema Penale, 2019; C. Cupelli, il caso Cappato e i nuovi confini di liceità dell’agevolazione al suicidio. Dalla doppia pronuncia della Corte Costituzionale alla sentenza di assoluzione della Corte di Assise di Milano, in Cassazione Penale, 1/2020
[11] La Corte adotta una peculiare tecnica decisoria: si tratta, infatti, di un’atipica decisione additiva, poiché la stessa Corte ammette che la propria regolamentazione sia superabile dall’intervento del Parlamento, essendo una disciplina costituzionalmente necessaria e non vincolata. Per una più ampia trattazione si rinvia, tra gli altri, a: S. Catalano, La sentenza 242 del 2019: una pronuncia additiva molto particolare senza ‘rime obbligate’, in Osservatorio costituzionale, 2/2020; M.E. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio costituzionale, 1/2020;
[12] Punto 2.3 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019, ripreso dall’ordinanza n. 207 del 2018
[13] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017), Part 2, section 9, 1(d)(iii)
[14] cfr. Assisted Dying Bill 2016, section 2
[15] cfr. Medical Assistance in Dying Act, 2016, section 241.2
[16] Proposta di legge n. 1875 del 30 maggio 2019. Per le ragioni sopra esposte tale proposta appare preferibile rispetto ai progetti di legge n 1586 e n. 1655 che prevedono che la richiesta dell’infermo debba essere motivata da una patologia inguaribile con prognosi infausta inferiore ai 18 mesi. Per un commento più ampio sulle proposte di legge richiamate si rinvia a: G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw Journal, 15/2019, pp. 27-41
[17] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017), Part 2, section 9, 1 (b) che recita “the person must (i) be an Australian citizen or permanent resident; and (ii) be ordinarily resident in Victoria; and (iii) at the time of making a first request, have been ordinarily resident in Victoria for at least 12 months”
[18] cfr. Medical Assistance in Dying Act 2016, 241.2 (1) “A person may receive medical assistance in dying only if they meet all of the following criteria: a) they are eligible — or, but for any applicable minimum period of residence or waiting period, would be eligible — for health services funded by a government in Canada (…)”
[19] cfr. Assisted Dying Bill 2016, section 1 (2)(c) “on the day the declaration is made (…) (iii) has been ordinarily resident in England and Wales for not less than one year”
[20] punti 4 e 5 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[21] punto 5 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[22] Ibidem
[23] cfr. Medical Assistance in Dying Act 2016, 241.2 (3)(e)
[24] cfr. Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017)
[25] cfr. Legge n. 137 del 2001, art. 2
[26] cfr. Legge del 28 maggio 2002, art. 3 (2)
[27] Assisted Dying Bill 2016, section 3
[28] In questo senso, G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, cit., pp. 39-40
[29] Punto 6 della sentenza n. 242 del 2019.
[30] art. 14 della legge del 28 maggio 2002, in seguito alla novella introdotta con legge del 15 marzo 2020 così modificato: “(…) Le médecin qui refuse de donner suite à une requête d’euthanasie est tenu, dans tous les cas, de transmettre au patient ou à la personne de confiance les coordonnées d’un centre ou d’une association spécialisé en matière de droit à l’euthanasie et, à la demande du patient ou de la personne de confiance, de communiquer dans les quatre jours de cette demande le dossier médical du patient au médecin désigné par le patient ou par la personne de confiance”
[31] Proposta di legge n. 1875 del 2019, art. 6
[32] Punto 11 del considerato in diritto dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 207/2018
[33] Punto 9 del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019
[34] Cfr. G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, 7, p. 144; G. Giaimo, Il diritto di morire naturalmente nel confronto tra la giurisprudenza inglese ed italiana, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2015, p. 616
[35] Non sarà oggetto di analisi l’Assisted Dying Bill presentato alla House of Lords inglese nel 2015 dal momento che, limitandosi tale progetto di legge a regolamentare la possibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito e non anche alle pratiche di eutanasia attiva diretta, non costituisce un utile punto di riferimento per la nostra indagine.
[36] Art. 4 della legge del 28 maggio 2002, come modificato con legge del 15 marzo 2020
[37] Art. 14 della legge del 28 maggio 2002, come modificato con legge del 15 marzo 2020
[38] Art. 2, comma 2 legge n.137 del 10 aprile 2001
[39] G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, cit., p. 12
[40] Il problema prospettato trovava una parziale soluzione nella disciplina belga che prevedeva una delimitazione temporale della validità delle disposizioni anticipate, con conseguente necessità di un loro rinnovo periodico, onde consentire al soggetto che l’espressione dei suoi desideri sia quanto più vicina alla situazione reale e alla possibile condizione clinica futura. Tale inciso, contenuto nell’articolo 14 della legge è tuttavia stato eliminato a seguito delle modifiche apportate nel 2020
[41] Proposta di legge n. 1875 del 30 maggio 2019
[42] Medical Assistance in Dying Act 2016
[43] Voluntary Assisted Dying Act (n. 61/2017)
[44] Sono innumerevoli gli scritti in tema di dignità tra i quali, senza pretesa di esaustività, si possono segnalare S. Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 547 ss.; G. Piepoli, Tutela della dignità e ordinamento della società secolare europea, in Riv. crit. dir. priv., 2008, 7 ss.; B. Malvestiti, La dignità umana dopo la Carta di Nizza. Un’analisi concettuale, Napoli – Salerno, 2015; J. Waldron, Dignity, Rank & Rights, Oxford, 2012.
[45] Osserva, in tal senso, M.C. Lipari, Figure della dignità umana, Milano, 2008, 23, che l’idea stessa di dignità “non è semplicemente affacciata sul limite esterno dei diritti fondamentali, ma è sospesa su una linea più sottile: tra l’essere positivamente qualcosa e il non-essere la propria negazione”.
[46] In merito alla quale si rimanda a N. Lipari, Personalità e dignità nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 3, 2017, 847 ss.
[47] M.C. Lipari, Figure della dignità umana, cit., 46; ma si veda anche F.M. De Sanctis, Riflessioni sull’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 9 ss.
[48] Di “proteiforme” significato di dignità umana parla, non a caso, G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, 8.
[49] L’analisi del concetto di dignità umana e del differente significato ad essa ascrivibile è sapientemente descritta da D. Beyleveld, R. Brownsword, Human dignity in bioethics and biolaw, Oxford, 2001.
[50] Si afferma, in tal senso, che “human dignity is the rock on which the superstructure of human rights is built”, D. Beyleveld, R. Brownsword, op. cit., 13.
[51] In tal senso la dignità “should be driven not by the vagaries of individual choice, but by a shared vision of human dignity that reaches beyond individuals”, D. Beyleveld, R. Brownsword, op. cit., 29.
[52] Art. 32 Cost. – “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
[53] In tal senso, C. Granelli, Autodeterminazione e scelte di fine vita, in Jus Civile, 5, 2019, 548 ss.
[54] Esplicativo di quanto detto è l’art. 1, comma 1, della citata legge n. 219 del 2017, con cui si dispone che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, per cui “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso” e, secondo il comma 6 del prefato articolo, che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.
[55] È nota la distinzione tra eutanasia attiva e passiva ove, con la prima, si fa riferimento a quelle azioni dirette ad accelerare, ovvero a provocare, il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da prognosi infausta e irreversibile mentre, con la seconda, a quel comportamento omissivo che porta alla cessazione dei trattamenti sanitari che mantengono in vita il malato e che, dunque, si collegano al relativo diritto all’autodeterminazione sanitaria. Per un approfondimento sulla distinzione in parola si rimanda a G. Giaimo, La volontà e il corpo, op. cit., 59; G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, n.7, 144 ss.
[56] La distinzione tra la pratica di suicidio assistito e quella di eutanasia attiva, risiede nelle modalità di somministrazione del trattamento. Mentre, infatti, nel caso di eutanasia attiva è il medico che somministra al paziente il farmaco, nel caso di pratiche di aiuto al suicidio il medico “semplicemente” lo assiste nella detta somministrazione. Questi prescrive i farmaci necessari al suicidio su esplicita richiesta del paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso, dunque, viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena il farmaco al malato.
[57] Mentre l’attuale codice penale italiano non ha mai conosciuto il reato di suicidio, in Inghilterra si è dovuto attendere il 1961 e, in particolare, l’emanazione del Suicide Act, affinché si addivenisse alla relativa decriminalizzazione. Secondo l’attuale Suicide Act, section 1, infatti, “The rule of law whereby it is a crime for a person to commit suicide is hereby abrogated”
[58] Non è un caso, infatti, che attualmente sono assai pochi gli ordinamenti che hanno legislativamente disciplinato le situazioni di fine-vita e, in particolare, quelle relative alle pratiche di suicidio assistito, tra cui può senz’altro farsi riferimento alla legislazione canadese e, in particolare, al Medical Assistance in Dying Act 2016. In altri ordinamenti, tra cui anche quello italiano, vi sono solamente delle proposte di legge oggetto di discussione in Parlamento. Interessante anche il progetto di legge inglese, l’Assisted Dying Bill, presentato nel 2015 alla House of Lords da Lord Falconer of Thoroton e riproposto, l’anno successivo, da Lord Hayward. Attualmente non fa parte del calendario dei lavori della House of Lords ma presenta spunti di notevole interesse da un punto di vista comparatistico per il cui più completo esame si rimanda a G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 27 ss.
[59] Cass. civ., sez. I, sentenza 16 ottobre 2007, n.21748, nel noto “caso Englaro”, relativo ad un caso di interruzione di trattamento vitale per un soggetto in stato vegetativo.
[60] Corte d’Assise Milano, sez. I, ordinanza 14 febbraio 2008, n.1, con cui è stata rimessa alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nell’ambito del “caso Cappato”.
[61] Si fa riferimento, in particolare, ai casi R (Pretty) v DPP, HKHL, [2001], 61 e R (Nicklinson) v Ministry of Justice, UKSC, [2014], 38.
[62] Leading case in materia è stato senz’altro Carter v Canada (Attorney General), SCC, 2015, 5, per il cui esame si rimanda a R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 4, 2019, 823 ss.
[63] Si è soliti distinguere tra eutanasia attiva e quella passiva ove, con la prima, si fa riferimento a quelle azioni dirette ad accelerare, ovvero a provocare, il decesso di chi soffra di una patologia caratterizzata da prognosi infausta e irreversibile mentre, con la seconda, a quel comportamento omissivo che porta alla cessazione dei trattamenti sanitari che mantengono in vita il malato e che, dunque, si collegano al relativo diritto all’autodeterminazione sanitaria. Per un approfondimento sulla distinzione in parola si rimanda a G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, 59; G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in Diritto e questioni pubbliche, 2007, n.7, 144 ss.
[64] È fin troppo noto, infatti, che la Corte Costituzionale nel c.d. “caso Cappato”, con l’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018, ha invocato l’intervento del legislatore in materia di suicidio assistito, tramite l’inconsueto strumento dell’ordinanza di rinvio all’anno successivo. Tuttavia, trascorso invano il detto termine, con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, è dovuta intervenire andando a dichiarare “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 […], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Numerosissimi i riferimenti dottrinari in materia, tra i quali si rimanda a S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico, un breve appunto per una discussione da avviare, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2, 2019, 1 ss; M.E. Bucalo, G. Giaimo, Le sollecitazioni delle Corti e l’inerzia del legislatore in tema di suicidio assistito. Un confronto tra Italia e Inghilterra, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2, 2019, 171 ss.; R. Potenzano, Brevi note comparatistiche in tema di suicidio assistito, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 2019, 1822 ss.
[65] Proposta di legge della Camera dei deputati N. 1875 del 30 maggio 2019.
[66] L’art.3 del progetto di legge in esame, rubricato “Presupposti e condizioni”, prevede che la persona che intende ricorrere alla procedura di suicidio assistito debba essere maggiore di età e capace di intendere e di volere. A ciò, si aggiunge che il richiedente deve trovarsi in una delle seguenti condizioni, ossia essere “ 1. affetta da una patologia irreversibile ed a prognosi infausta; 2. affetta da una condizione clinica irreversibile; 3. affetta da una patologia che sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili; 4. totalmente dipendente da terzi o tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.
[67] Per un più esaustivo esame della legge, si rimanda a M. Azzalini, Legge n.219/2017: la relazione medico – paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2018, 8 ss.; G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Rivista Critica di Diritto Privato, 2018, 49 ss.; M. Graziadei, Dal consenso alla consensualità nella relazione di cura, in Responsabilità Medica, 2019, 37 ss.
[68] Art. 4, progetto di legge cit.
[69] Art. 5, progetto di legge, cit.
[70] Art. 24 Cost. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.”
[71] Si tratta di una proposta di legge in materia di suicidio assistito presentata nel 2015 alla House of Lords da Lord Falconer of Thoroton e riproposta, l’anno successivo, da Lord Hayward. Attualmente non fa parte del calendario dei lavori della House of Lords ma presenta spunti di notevole interesse da un punto di vista comparatistico.
[72] Per un esame dettagliato dell’Assisted Dying Bill, si rimanda a G. Giaimo, Considerazioni sparse, in chiave comparatistica, sulle proposte di legge in materia di eutanasia e di suicidio medicalmente assistito, in BioLaw – Rivista di BioDiritto, 3, 2019, 27 ss.
[73] Assisted Dying Bill, 2016, section 1(1).
[74] Assisted Dying Bill, 2016, section 3(1)(a).
L’estinzione del processo non estingue l’azione. Rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo (nota a TAR Lazio – Sez. Terza Ter sentenza del 04.11.2020 n. 11408).
di Stefania Caggegi
Sommario: 1. Premessa - 2. “La rinuncia al ricorso” ex art. 84 c.p.a e la rinuncia all’azione amministrativa. - 3. L’effetto sulla sfera sostanziale, quale discrimen tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione. 3.1. Giurisprudenza richiamata e decisione del TAR Lazio. 4. Considerazioni conclusive. Dicotomia solo concettuale in ambito amministrativo?
1. Premessa.
La sentenza in commento affronta un tema suggestivo ed interessante, fondamentalmente inscritto nel quadro della nota e discussa dicotomia rinuncia agli atti/rinuncia all’azione.
Nella fattispecie in esame, il Collegio respinge un’eccezione di improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse, proposta dalla parte resistente per aver la ricorrente rinunciato – nel corso di un differente giudizio – all’atto di intervento ad adiuvandum (da valere anche con ricorso autonomo) ivi depositato ed avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere nel giudizio che ha generato la pronuncia in commento.
Nel respingere tale eccezione, il TAR si sofferma a verificare gli effetti della rinuncia agli atti, richiamando la disciplina codicistica applicabile, nonché la giurisprudenza più rilevante che, nel corso degli anni, ha ribadito il principio – sancito, peraltro, a chiare lettere dall’art. 310 c.p.c. - secondo il quale la rinuncia agli atti processuali non va confusa con la rinuncia all’azione.
Seppure in modo sintetico, come impone il carattere del presente scritto, saranno oggetto di analisi gli effetti sostanziali e le ricadute processuali dei due diversi tipi di rinuncia in seno al processo amministrativo, al fine di meglio valutarne i risvolti in merito alla permanenza tanto dell’interesse quanto della legittimazione ad agire, in sede di impugnativa di provvedimenti amministrativi che incidano sulla medesima pretesa sostanziale.
A tal proposito, occorre preliminarmente chiarire che la rinuncia agli atti, propria dei procedimenti giurisdizionali ad iniziativa di parte come il processo amministrativo[1], è un atto con cui il ricorrente dichiara di abbandonare la situazione giuridica processuale fatta valere nell'ambito della domanda proposta in sede di giudizio[2]; in quanto causa di estinzione del processo nel suo significato formale[3], essa è, invero, tradizionalmente distinta dalla rinuncia all’azione, definita come un “modo improprio per designare la rinunzia al diritto sostanziale sottostante”[4].
Si tratta di due istituti disciplinati dal codice di rito civile, a differenza di quello amministrativo ove il legislatore si è limitato a codificare solo l’istituto della rinuncia agli atti. Non si tratta di una lacuna, ma, evidentemente di una scelta, accompagnata dal rinvio esterno posto dall'art. 39 c.p.a. al codice di procedura civile. Ed infatti, ciò non impedisce – superando taluni dubbi espressi in dottrina[5] ed in giurisprudenza[6] – che tale distinzione sia applicabile anche al processo amministrativo[7], quanto meno dal punto di vista concettuale, nei termini di cui si dirà in sede conclusiva.
2. “La rinuncia al ricorso” ex art. 84 c.p.a e la rinuncia all’azione amministrativa.
Come accennato in premessa, nel processo civile i due distinti concetti di rinuncia all’azione e rinuncia agli atti vengono previsti agli artt. 306 ss. c.p.c.[8]; di converso, nel codice del processo amministrativo è stato trasposto e regolamentato esclusivamente l’istituto della rinuncia al ricorso, intesa come rinuncia agli atti di causa. Originariamente prevista dall’art. 30 del R.D. n. 6516/1899 e poi dall’art. 46 del R.D. n. 642/1907, è stata, infatti, normata dal legislatore del 2010 all’art. 84 del codice del processo amministrativo, a mente del quale “la parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado del giudizio”[9].
Il comma 2 del predetto art. 84 introduce, poi, un’importante novità in tema di spese processuali, rispetto alla previsione della condanna obbligatoria del rinunciante (ad eccezione dell’ipotesi in cui le parti si fossero accordate per la compensazione) sancita nella precedente disciplina del R.D. del 1907[10]: è, infatti, prevista la possibilità che il Collegio decida di compensarle “avuto riguardo ad ogni circostanza”. Tale previsione, ha di fatto eliminato uno degli ostacoli più significativi all’utilizzo dell’istituto della rinuncia, cui le parti evitavano di ricorrere, anche nelle ipotesi in cui sarebbe stato opportuno, facendo ricorso alla dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, spesso resa all’udienza di merito, in quanto atto idoneo a realizzare il medesimo obiettivo cui è preordinata la rinuncia al ricorso, ma spesso, a spese compensate[11].
Restano sostanzialmente immutate le modalità di esternazione della rinuncia[12], proposta mediante dichiarazione resa in udienza dal difensore – munito di mandato speciale – e documentata nel relativo verbale, oppure sottoscritta dalla parte o dal difensore – sempre munito di mandato speciale -, notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza e depositata in segreteria[13].
Ai sensi del comma terzo, alla rinuncia ritualmente presentata e qualora le altre parti interessate non abbiamo interposto opposizione[14], segue l’estinzione del processo.
Gli effetti, dal punto di vista sostanziale e processuale, ove si pervenga a siffatto esito estintivo, sono previsti dall’art. 310 c.p.c. - applicabile al processo amministrativo, come si anticipava, per effetto del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. – la cui lettera irrompe affermando in maniera concisa e puntuale che “l’estinzione del processo non estingue l’azione”.
Nella pronuncia in commento, pertanto, il Collegio richiama tale disposizione, in quanto certamente applicabile e ribadisce che la stessa va interpretata nel senso che la pretesa sostanziale che costituiva l’oggetto del processo estinto rimane integra ossia non pregiudicata dall’estinzione. Ciò significa che, se non è intervenuta una decadenza, l’azione per far valere quella pretesa può essere riproposta mediante altro successivo processo: il ricorrente, dunque, può rinunciare agli atti senza rinunciare alla pretesa sostanziale[15].
Dunque, nulla quaestio circa la possibilità di riproporre il ricorso in precedenza rinunciato.
Ma le possibilità del rinunciante non si esauriscono qui: egli può anche riproporre le medesime censure già svolte, dedurre tutto ciò che è deducibile a miglior difesa della sua sfera giuridica.
Difatti, come si è avuto già modo di appurare, il rinunciante (ora ricorrente) non ha compiuto alcun atto abdicativo dell’azione ovvero del titolo della domanda, sicché l’identità delle censure rispecchierebbe solo ed esclusivamente un’ipotesi di identica illegittimità dei provvedimenti lesivi.
Deve, peraltro, aggiungersi che la rinuncia può riguardare anche solo il ricorso per motivi aggiunti, senza alcun effetto sul giudizio introdotto con il ricorso principale.[16]
3. L’effetto sulla sfera sostanziale, quale discrimen tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione.
È stato precisato in giurisprudenza che, nella differenza tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, è rilevante la caratterizzazione delle ragioni che sottendono tale comportamento, nel senso che, ove manchi una esplicitazione delle ragioni sostanziali sottese al comportamento di rinuncia, questa deve ritenersi mera rinuncia agli atti, e viceversa, nel caso in cui le ragioni siano state dettagliate in ragione della pretesa sostanziale originariamente azionata[17].
Che il discrimen sia rintracciabile negli effetti che tanto la rinuncia agli atti, quanto la rinuncia all’azione producono sulla sfera sostanziale, è acquisizione ormai pacifica della giurisprudenza, a tenore della quale gli effetti applicativi della normativa di cui all’art. 310 c.p.c. determinano l’assoluta “inidoneità della pronuncia di estinzione per rinuncia agli atti ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, potendo essa acquisire tale efficacia di giudicato sul solo aspetto del venir meno dell'interesse alla prosecuzione di quel determinato processo”[18].
Ciò in quanto, “l'efficacia abdicativa in ordine all'effetto sostanziale della decisione di merito, preclusiva del potere delle parti di chiedere al giudice una nuova decisione sulla stessa controversia, va riconosciuta soltanto ad un atto che possa essere interpretato come rinuncia anche al giudicato, in quanto estesa alla sentenza già emessa ed alle sue conseguenze”[19].
Il TAR, nella pronuncia in commento, richiama questo ulteriore aspetto, specificando che, nel caso oggetto di giudizio, la ricorrente “non risulta aver rinunciato alla pretesa sostanziale (ovvero al “bene della vita” al quale aspira), ma solo agli atti del giudizio”.
Del resto, non trascurabili, anche in ragione della rilevata natura meramente processuale della pronuncia declaratoria dell’estinzione del processo, sono gli effetti della stessa sui c.d. stabilizzatori di diritto sostanziale, ossia sulla prescrizione e sulla decadenza[20].
Ed è proprio in ragione della più marcata incidenza che determina la rinuncia all’azione sulla pretesa sostanziale sottesa che questa può essere anche tacita, mentre la rinuncia agli atti deve essere espressa, di contro la rinuncia all’azione non richiede ai fini del suo perfezionamento l’accettazione della controparte,[21] perché estinguendo l’azione stessa, ha l’efficacia di un rigetto nel merito della domanda[22].
3.1. Giurisprudenza richiamata e decisione del TAR Lazio.
Il Collegio richiama la costante e risalente giurisprudenza a tenore della quale, mentre la rinuncia all’azione incide sul diritto e quindi preclude ogni ulteriore tutela giurisdizionale, la rinuncia agli atti agisce solo sul processo, la cui estinzione lascia salvo l’esercizio dell’azione in un nuovo processo[23].
Da ultimo, il Consiglio di Stato – richiamato anche questo a fondamento della pronuncia in commento -, tornando sul tema, ha ribadito che “nel processo amministrativo, la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio atteso che, nel caso di rinuncia agli atti del giudizio, si può parlare di estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale, potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale. Viceversa, la rinuncia all'azione comporta una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della domanda; in quest'ultimo caso non vi può essere estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l'estinzione del diritto di azione, atteso che il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo”.[24]
Pertanto, dopo un ricco exursus giurisprudenziale che individua gli elementi di differenziazione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, il TAR Lazio conclude agevolmente che la rinuncia operata dalla ricorrente nel differente giudizio, vertente sulla medesima pretesa sostanziale, non risulta ostativa alla possibilità di decidere la controversia nel merito, non essendo intervenuta alcuna decadenza nella proposizione dell’azione impugnatoria ed avendo parte ricorrente espressamente ribadito l’interesse alla decisione nel merito.
4. Considerazioni conclusive. Dicotomia solo concettuale in ambito amministrativo?
In virtù di quanto evidenziato nel corso della trattazione pare, dunque, potersi desumere che l’unica circostanza impeditiva della tutela di una pretesa sostanziale, la cui attivazione processuale sia stata in precedenza rinunciata, sia rinvenibile nell’intervento di una decadenza.
Come, del resto, pare poter assurgere a conclusione “pacifica” e oramai consolidata l’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo.
Sicché, nel caso di specie, il Collegio ha potuto richiamare ed applicare tale disciplina, in ragione del fatto che la parte – prima rinunciante e poi ricorrente – fosse ancora in termini.
Qualche dubbio potrebbe sorgere forse sull’aspetto pratico dell’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione, così come prevista dal c.p.c. ed elaborata dalla dottrina processualcivilistica, al settore amministrativo.
Il processo amministrativo, infatti, presenta non trascurabili peculiarità rispetto a quello civile, che incidono sulla nettezza della distinzione di cui trattasi, prima fra tutte la circostanza che l’azione tipica, posta quale baluardo della tutela degli interessi legittimi è l’azione di annullamento, che, come è noto, può essere azionata solamente nel termine perentorio decadenziale di 60 giorni. Quindi, in molti casi, difficilmente – da un punto di vista prettamente pratico – un soggetto può instaurare un giudizio, poi rinunciarvi e successivamente riproporlo, senza incorrere nella scadenza del termine previsto per il consolidamento del provvedimento amministrativo lesivo. Ne discende che la dicotomia rinuncia agli atti/rinuncia all’azione - per quanto opportunamente richiamata a fini decisori nella pronuncia in commento e certamente calzante all’oggetto del giudizio esaminato dal Collegio - parrebbe avere, nell’ambito del giudizio amministrativo instaurato a seguito di azione di annullamento, una valenza assai limitata, maturando comunque una condizione di definitività in termini di inoppugnabilità del provvedimento in ragione della scadenza del breve termine perentorio prescritto. Ciò, a ben guardare, in una certa qual misura comporta una sorta di equiparazione quoad effectumtra i due istituti. siffatta conclusione non sembra essere inficiata dall’art. 30, comma 2 c.p.a., il quale, pur ammettendo un’autonoma azione di risarcimento danni, prevede anche in questo caso un termine decadenziale, di 120 giorni, significativamente breve[25].
[1] Espressione tratta da A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, in Trattato del processo civile, diretto da F. CARNELUTTI, Napoli 1963; si veda anche successivamente A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989.
[2] In questo senso: M.T. LIEBMANN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1968,1,203; A. SALETTI, voce Estinzione del processo, in Enc. Giur. Treccani, XII, Roma, 1994,3.
[3] F. BENVENUTI, voce Estinzione del processo (dir. Amm.), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 949.
[4] C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2013, 395.
[5] A tal proposito, N. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, Milano 2011, 302, dove si afferma che <<se tuttavia si assegna alla rinuncia anche la valenza di accettazione dell’assetto degli interessi così come riflesso nella situazione che aveva portato all’instaurazione dell’originario contenzioso, potrebbe inferirsene una sorta di effetto positivo che metterebbe i resistenti al sicuro da eventuali […] ritorni di fiamma del ricorrente rinunciatario>>; in senso analogo anche E. PICOZZA, Il processo amministrativo, Milano 2008, 364.
[6] Cfr. CGARS, 9.08.2010, n. 1081, a tenore della quale <<nel giudizio amministrativo la rinuncia è espressione del potere della parte di disporre del diritto di azione>>; in senso analogo: TAR Basilicata, sez. I, 08.06.2011 n. 351, in giustiziaamministrativa.it.
[7] In dottrina, A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, op. cit., 248, per il quale è problema di interpretazione se alla dichiarazione di rinuncia (resa in udienza o depositata) debba essere attribuito il significato di “rinuncia agli atti” o “rinuncia all’azione”, così citata da S.MORO, in Il Codice del processo amministrativo, a cura di B. SASSANI E R. VILLATA, Torino, 2012, 1159;
sempre in senso favorevole all’applicabilità della distinzione tra rinuncia agli atti e rinuncia all’azione nel processo amministrativo, si veda: V. CANAIELLO, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 629; C. MIGNONE, Il giudizio di primo grado, in Diritto Amministrativo, a cura di L. MAZZAROLLI – G. PERICU – A. ROMANO – F.A. ROVERSI MONACO – F.G. SCOCA, Bologna, 2005, 628; L. PERFETTI, Sub art. 25, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. ROMANO – R. VILLATA, Padova 2009, 841-842; A. POLICE, Estinzione del processo, in Giustizia Amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Padova, 2009, 469;
in giurisprudenza: Cons. Stato, Sez. VI, 24.02.2005 n. 675; TAR Puglia – Bari, sez. I, 13.10.2004, n. 4444;
sulla disciplina in generale si veda anche: E. CANNADA BARTOLI, Processo amministrativo, in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966.
[8] G. MANDRIOLI A. CARRATTA, Corso di diritto processuale civile, vol. II, Torino 2013, 236; A. PROTO PISANI, Diritto processuale civile, Milano 1984; A.CERINO CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario del cod. di proc. Civ., diretto da E. ALLORIO, II, I, Torino, 1980; P. CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1929; G. CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, Bologna 1904; per un approfondimento specifico sul tema dell’estinzione del processo per rinuncia agli atti: R.VACCARELLA, Rinunzia agli atti del giudizio, in Enciclopedia del diritto, vol. XL, Milano 1989, 960; E. REDENTI, Diritto processuale civile, vol.II, Milano 1997, 329; S. LA CHINA, Manuale di diritto processuale civile, vol. I, Milano 2003; F.P. LUISO, Diritto processuale civile, Milano 2011, 247.
[9] Con riferimento al potere di rinunciare agli atti del giudizio, come espressione del carattere soggettivo dell’interesse fatto valere dal ricorrente e della piena disponibilità dell’azione proposta si veda: A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2014, 231;
[10] Cfr., precedentemente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, Cons. St., Sez. V, 17.09.2010, in giustizia-amministrativa.it.
[11] In tal senso: G. VIRGA, Il regime delle opposizioni avverso i decreti ex art. 9 della L. n. 205/2000 e delle spese di giudizio nel caso di rinuncia al ricorso, in Giustamm.it, 2, 2001; più di recente, in senso analogo: R. GAROFOLI, in Codice Amministrativo Ragionato, Nel Diritto Editore - 2018;
[12] Per quanto attiene alla modalità di presentazione della rinuncia a norma dell’art. 84 c.p.a., cfr. Cons. St., Sez. VI, 9.12.2008 n. 6098, in giustizia-amministrativa.it.
[13] Il dies ad quem è stato introdotto dal legislatore del 2010 e attiene al solo atto formale di rinuncia, ma non preclude che la rinuncia avvenga con dichiarazione resa in udienza, in questo senso: R. CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 410.
[14] Nella vigenza dell’art. 46 del R.D. n. 642/1907 era pacifico che la rinuncia non richiedeva l’accettazione delle controparti, mentre l’art. 84 c. 3 c.p.a. dispone che il processo non si estingue se le parti “si oppongono”: per un’approfondita analisi dell’opposizione delle controparti alla rinuncia si rinvia a S.MORO, in Il Codice del processo amministrativo, a cura di B. SASSANI E R. VILLATA, op. cit., 1182 – 1186 nonché alle note ivi inserite;
[15] In questo senso, F. BENVENUTI, voce Parte (dir. Amm.), in Enc. Dir., XXXI, Milano 1981, 970.
[16] Cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 9.08.2010 n. 1073, cit. anche in: A. QUARANTA, V. LOPILATO, Il Processo Amministrativo. Commentario al D.Lgs. n. 104/2010, Milano, 2011, 634;
[17] Cfr. Trib. Reggio Calabria, 25.09.2002, in G. S. RICHTER E P.S. RICHTER, La giurisprudenza sul Codice di procedura civile coordinata con la dottrina, a cura di P.DI RIENZO, O. FANELLI, S. LA SPADA, E. MANDANELLI, S. PICCOLI, A. TULLIO, libro II, tomo I, Milano 2006, 934;.
[18] Corte di Cassazione Civile, Sez. I, 23.11.2015, n. 23867, in jusexplorer.it.
[19] Cass. Civ., Sez. II, 16.03.2017, n.6845, in jusexplorer.it.
[20] Per un’accurata analisi sugli effetti dell’estinzione su prescrizione e decadenza, si rinvia a: AA.VV., Commentario al codice di procedura civile, artt. 163 -322, a cura di P. CENDON, Milano 2012, 1941; per un’analisi più specifica degli effetti sulla prescrizione, arricchita da corposa giurisprudenza, si veda: La giurisprudenza sul Codice di procedura civile coordinata con la dottrina, op.cit., 991.
[21] Cass. Civ., Sez. II, 07.06.1991 n. 6450; più di recente: Cass. Civ., sez. II, 10.09.2004 n. 18255, in jusexplorer.it; in tema di accettazione, in dottrina, tra gli altri, F. VOLPE, La rinuncia al giudizio non vuole accettazione, la dichiarazione di mancanza dell’interesse si, n. 8/2008, in lexitalia.it; più in generale si veda già C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2007, 213;
[22] Cass. Civ., Sez. II 13.03.1999 n. 2268, in jusexplorer.it.
[23] Cass. Civ., Sez. Lavoro, 13.03.1999, n.2268, in jusexplorer.it.
[24] Consiglio di Stato, sez. III, 21.06.2017, n.3058 (conforme: CdS, Sez. III 22.08.2018 n.5014) in giustizia-amministrativa.it.
[25] In tal senso si veda: A. TRAVI, Nota Ad. Pl. 24 giugno 2004 n. 8, in Foro.it, IV, 2004, 949.
Vaccini, epistemologia e stili di pensiero in Ludwig Fleck
di Angelo Costanzo
1. Il laboratorio di Rudolf Weigl a Lwów, in Polonia (ora Leopoli in Ucraina), in cui lavorò Ludwig Fleck, batteriologo e microbiologo, fu un centro mondiale di ricerca sui vaccini contro il tifo e durante l’occupazione nazista dovette risolvere il problema di fornirei vaccino all'esercito tedesco: con alcuni sotterfugi occasionali produsse vaccini non ottimali e una piccola quantità di vaccino per uso privato, che, si sostiene, trovò la strada per il ghetto ebraico di Varsavia.
Come ebreo, Fleck fu arrestato nel febbraio del 1943 e in seguito lavorò nei campi di concentramento sotto il diretto controllo delle SS. Egli e i suoi colleghi escogitarono un'altra soluzione al problema di lavorare per il nemico e collaboratori inesperti e supervisori delle SS ignoranti sostennero inconsapevolmente la finzione: produssero, con un sistema clandestino, vaccino inefficace, con cui immunizzare i militari tedeschi, e vaccino efficace con cui immunizzare i prigionieri di Buchenwald attivi nella Resistenza [1].
2. Oggi Fleck è ricordato come un precursore della sociologia del pensiero con la sua dottrina, da lui definita "teoria comparata della conoscenza" o "epistemologia comparata" (Vergleichende Erkenntnistheorie), fondata su due concetti: lo "stile di pensiero" (Denkstil) e il "collettivo di pensiero" (Denkkollektiv).
La sua principale opera epistemologica è la monografia intitolata Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache. Einführung in die Lehre vom Denkstil und Denkkollektiv, 1ª ed., Basel, B. Schwabe und Co. Verlabuchhandlung, 1935, 2ª ed., Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980 (ed. it.: Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Bologna, Il Mulino, 1983). Le sue teorie rimasero quasi sconosciute finché non furono in parte riprese da Thomas Kuhn nella celebre opera The Structure of Scientific Revolution (1962).
3. Tutti gli altri saggi di carattere epistemologico di Fleck sono ora contenuti in: Stili di pensiero. La conoscenza scientifica come creazione sociale (a cura di F. Coniglione, Milano-Udine, Mimesis, 2019) .
Nell’ampio saggio introduttivo (Lontano da Vienna, lontano da Leopoli. Ludwik Fleck: l’uomo giusto nel posto e nel tempo sbagliati, pp. 7-95) Coniglione chiarisce come l’epistemologia di Fleck sia centrata sul contesto della scoperta delle teorie: lo sviluppo storico di un pensiero non si riduce allo sviluppo logico dei suoi contenuti, non esiste una generazione spontanea dei concetti perché la stessa osservazione dei fenomeni richiede dei preconcetti e l’atteggiamento del ricercatore è segnato dallo “stile di pensiero” condiviso dal gruppo scientifico al quale appartiene e che costituisce un “collettivo di pensiero”.
Fondamentalmente: il vero e il falso non derivano dalla relazione binaria fra il giudizio e lo stato delle cose ma da una relazione ternaria in cui si inserisce l’attuale condizione delle conoscenze scientifiche e della cultura in generale, cioè lo stile di pensiero in cui si colloca il ricercatore. Si tratta di una concezione - analoga a quella espressa da Kazimierz Ajdukiewicz[2] - secondo cui finché ci si serve di un certo quadro concettuale i dati dell’esperienza costringono a accettare certi giudizi, a meno che il ricercatore scelga un altro quadro concettuale che gli consenta di formulare giudizi di segno diverso. Ma la teoria di Fleck non è limitata al dominio scientifico perché considera la rilevanza della influenza sociale su ogni aspetto della vita: esiste una molteplicità di collettivi di pensiero (con i rispettivi stili) che possono essere del tutto disgiunti oppure in sovrapposizione parziale o immersi in un collettivo più vasto (il cosiddetto “senso comune”) che rende possibile reciproche comunicazioni e la riutilizzazione di uno stile all’interno di un altro, con l’introduzione di germi di idee che possono condurre a nuove direzioni di ricerca e al mutamento delle credenze, a causa del fatto che ordinariamente ciascun individuo partecipa a più gruppi di pensiero perché è inserito e vive in molteplici contesti sociali.
Ulteriore considerazione di Fleck - che così si collega alle tesi di Michael Polanyi[3] - è che ogni ricercatore all’interno di un collettivo di pensiero possiede competenze verbalizzabili e altre (abitudini, abilità, preferenze) frutto di un indottrinamento pratico tipico della formazione specialistica nel suo campo di lavoro e non completamente verbalizzabile.
4. Signicativa dell’approccio di Fleck è la risposta alla domanda (importante in tanti ambiti, fra i quali, in particolare, quelli della diagnosi in medicina e della ricostruzione degli eventi singoli in campo giuridico): “in che modo trovare una legge in fenomeni irregolari?”. Egli considera che il calcolo delle probabilità indica che anche eventi privi di relazioni reciproche si lasciano inquadrare in determinate leggi, mentre una molteplicità di elementi rimane non razionalizzabile se la considera da un unico punto di vista (p. 115).
Ancora, Fleck si sofferma sulla attitudine, di fronte a situazioni nuove, a cercare delle similarità con qualcosa di conosciuto trascurando ciò che è nuovo, ineffabile e specifico (p. 122) e rileva che è vero che l’idea di “osservazione” contiene un elemento di arbitrarietà perché dipende in modo essenziale da quali oggetti si debbano includere nell’insieme osservato: per essere in grado di catturare una qualche definita forma in un dato campo occorre uno stato di attenzione che comporta espungere altre forme. Si impianta una disposizione a percepire forme che si accordano alla precomprensione adottata e al contempo si affievolisce la possibilità di percepire fenomeni non conformi a essa. In definitiva: non vi sono osservazioni conformi alla realtà se non quelle conformi a una data cultura; determinati contesti culturali non definiscono solamente le osservazioni in senso positivo (cioè le rendono possibili) ma anche ne rendono impossibili altre e per queste vie avviene la differenziazione del pensiero nei gruppi.
5. Secondo Fleck esistono tre fondamentali fenomeni della scienza della attività cognitiva (pp. 171-209).
Gli appartenenti allo stesso gruppo di pensiero possono intendersi fra loro perché pensano in un qualche modo simile e, dopo poche comunicazioni, avvertono una specifica solidarietà intellettuale così constatando la coappartenenza allo stesso collettivo di pensiero. Invece, coloro che non possiedono lo stesso stile di pensiero non riescono a comprendersi fra loro: dopo qualche comunicazione si manifesta un caratteristico sentimento di estraneità che segnala le loro divergenze.
La circolazione del pensiero è, in linea di principio, legata sempre alla sua trasformazione. Soltanto nel contesto delle sue connessioni all’interno di un collettivo di pensiero una frase possiede un senso determinato; al contrario, se isolata, può essere polisemica o addirittura senza senso. Se viene formulata per gli appartenenti a un altro collettivo di pensiero un’idea si trasforma in modo da creare un collettivo comune; qualcosa di intermedio, più povero per contenuti ma più vasto (si pensi alla divulgazione del pensiero scientifico). Ogni circolazione del pensiero è legata alla sua alterazione, per cui può anche avvenire che certi elementi di un pensiero siano senza autore perché nella circolazione sociale acquisiscono un nuovo contenuto che non è il prodotto di un individuo ma origina a motu sociali.
Lo sviluppo storico del pensiero non si può ricondurre allo sviluppo logico dei contenuti di pensiero né al semplice crescere dell’informazione. Per questo non è corretto cogliere con concetti odierni il contenuto di pensieri appartenenti a un‘epoca passata, nella quale allignarono proto-idee, nuclei di significato originariamente indifferenziati, dalla evoluzione dei quali (con il confronto con nuove esperienze o con diversi stili di pensiero) sono sorte le idee attuali.
Inoltre, alcuni collettivi di pensiero sono transitori, altri stabili. Anche nel corso di una vivida conversazione può crearsi un particolare stato che consente ai partecipanti di esprimere pensieri che in altri gruppi non esprimerebbero. In ogni caso, per rendere un collettivo stabile occorre delimitarlo e non si può penetrare al suo interno soltanto con la logica ma occorre un periodo di apprendistato in cui operano l’autorità e la suggestione più che le spiegazioni razionali. In effetti, la mancanza di formazione specialistica in un dato campo empirico trapela dalla eccessiva accuratezza nello sviluppo delle inferenze logiche (p. 247): in realtà la logicità della struttura non costituisce un criterio valido in senso assoluto per la scienza se si considera che un errore sistematico genera spesso costruzioni logicamente più coerenti di quelle conseguibili in sua assenza (p.250).
Né tutti i membri del collettivo di pensiero hanno lo stesso status o lo stesso atteggiamento. Gli esperti ne costituiscono la elite; altri sono i seguaci, i profani, la massa. La seconda categoria costituisce il serbatoio della prima, ma soltanto questa produce lo sviluppo del pensiero all’interno del collettivo. Proficua la seguente osservazione: gli esperti quanto più vanno in profondità nelle loro ricerche, tanto più sono lontani dalle “cose” e invece vicini ai “metodi”, quanto più profondamente entriamo nel bosco, tanto meno alberi vi troviamo e sempre più taglialegna (p. 232).
6. Risulta interessante constatare la prossimità delle posizioni di Fleck (microbiologo), Kuhn (fisico) e Polanyi (economista) nonostante la loro differente formazione e l’assenza di contatti diretti sia personali sia culturali. Allora, in che senso può dirsi, usando la terminologia di Fleck, che essi appartennero a uno stesso collettivo di pensiero, più specifico di quello dato dal generale clima dell’epoca? Nessuno dei tre è stato un filosofo professionale e, del resto, le loro teorie non si presentano propriamente come teorie della conoscenza perché riguardano fondamentalmente quella che Fleck ha denominato sociologia del pensiero.
Ne derivano due considerazioni.
La prima è che l’esistenza di un collettivo di pensiero, costituito dalla interazione fra suoi appartenenti, agevola la produzione di idee e il loro consolidarsi nei contenuti di uno stile di pensiero. Ma esiste un mondo delle idee (il 3° mondo di Popper) che possiede una sua tessitura alla quale, in qualche misura, un soggetto pensante può attingere anche se non collegato a uno specifico collettivo pensiero.
La seconda è che la vicenda personale di Fleck, rimasto poco conosciuto sino a tempi recenti, indica – come, del resto, in tanti altri casi della storia delle scienze – che anche pensatori sociologicamente marginali possono offrire contributi potenzialmente rilevanti. Allora, gli attuali mezzi di divulgazione delle idee possono consentirne una circolazione che, se captata e accortamente rilanciata, secondo una razionale organizzazione, da apposte istituzioni (non ultime quelle universitarie) può produrre un serbatoio di potenziali stili di pensiero ai quali attingere utilmente a condizione che si fruisca di una formazione personale allenata al discernimento critico.
[1] A. Allen, The Fantastic Laboratory of Dr. Weigl: How Two Brave Scientists Battled Typhus and Sabotaged the Nazis, Norton & Co., 2015. Trad. it. Di E. Ghiseri, Torino, Bollati Boringhieri, 2017).
[2] K.Ajdukiewicz, The Scientific World-Perspective and other Essays (1931-1963), Reidel, Dordrecht, 1978.
[3] In: Personal Knowledge, Chicago, 1958; The Tacit Dimension, Routledge and Kegan Paul, London, 1966
Recensione di Umberto Apice a "ALLA FINE, BALORDI". Gli uomini non illustri di Massimo Ferro.
Perché Massimo Ferro, magistrato notissimo in ambito forense e negli ambienti della dottrina giuridica, non è anche un autore celebre?
Questo suo ultimo libro (Alla fine, Balordi può essere definito un romanzo, anche se tecnicamente è una raccolta di racconti, che sono però accomunati da un’identica atmosfera ) è il suo terzo di narrativa: il primo fu Misericordiae ( 8.38 ), Novecento editore, 2013, vincitore della VII edizione del Premio letterario RIPDICO - Scrittori della Giustizia; il secondo fu Non avrai le mie parole, Novecento editore, 2014. E con esso Ferro si conferma uno scrittore vero, di quelli che nascono scrittori. Da che cosa si capisce? Basta leggere una pagina a caso ( una qualsiasi: è sicuro che presenterà le sue perle e nello stesso tempo il suo elevato tasso di complessità ). Da quella pagina balzerà fuori la caratteristica fondamentale della sua scrittura e del suo mondo morale: Ferro è tormentato prima di tutto dalla voglia di scoprire qualcosa di più sulla vita e sugli uomini, su noi stessi, lui compreso; e poi dalla voglia di implicare il lettore, di scuoterlo, di farlo partecipare e soffrire. E’ chiaro che quando un libro si presenta con queste credenziali al lettore capiterà di spazientirsi, ma non può piantarla lì ( almeno, se è un lettore serio ): non mollerà, anche quando vorrebbe che un personaggio si decidesse e facesse sapere che cosa ha deciso di fare, senza tenerci ancora col fiato sospeso. Lo stesso linguaggio è spiazzante, sincopato, spesso paratattico, ma non privo di complicate ipotassi, in una tensione stilistica tra narratore e personaggio; tensione che arriva all’estremo che in ogni situazione il lettore si trova davanti l’aggettivo più insolito o addirittura l’alternanza del punto di vista ( che ora è espresso con un io e ora con la terza persona ).
E allora torniamo all’interrogativo con cui abbiamo iniziato: può essere celebre uno scrittore che, come segno particolare, presenta questo rigore morale? E in un panorama culturale nel quale i lettori premiano gli scrittori della serialità più sciatta e più sconfortante? No: la risposta, che non può essere più ovvia, va tutta ad onore di Ferro.
I dodici personaggi del libro ( dodici quante sono le località che contraddistinguono i dodici capitoli: luoghi immaginari, che vengono a costituire un faulkneriano universo disperso ) vivono o hanno vissuto esistenze prive di grandi avvenimenti o, per loro sfortuna, si sono trovati a subire una sola tragica esperienza, che è diventata l’ossessione della loro vita. Non possono mai illudersi di aver trovato una piattaforma dove regna la tranquillità. No. Tutti sono condannati a portarsi appresso i loro demoni, le loro nevrosi, grandi o piccole. In qualche modo sono i parenti stretti di quegli “ uomini non illustri ” resi immortali dalla narrativa di Giuseppe Pontiggia: anche loro attanagliati da una trama segreta, personale o familiare, di ricordi ed angosce.
Qualche esempio sarà più illuminante di tante parole.
Oreste Bertani. Un professore sulla soglia del pensionamento e in ansia per l’attesa di un responso di biopsia ritorna in un ristorante dove era stato in gioventù e rievoca come si fece adescare da una sguattera del locale. Una ragazzina. Una vergogna che gli ha lasciato il segno.
Gemma Albinati. Un amore tra i banchi di scuola. Amore incompiuto fino a cinquant’anni dopo, quando i due ragazzi di allora si incontrano e subentra l’angoscia di svelarsi l’una all’altro: “ Ci stavamo immaginando, i capelli già bianchi e radi di lui, le pelli intrise di vita e stagioni entrambi, anch’io segnata attorno agli occhi. E più giù. Quei teli puliti e messi a festa servirono a nasconderci, impedendo alla vista di sapere chi fossimo.”
Silvia Perletti, una dirigente di azienda con trentadue anni e sei mesi di anzianità. La sua pena segreta è il ricordo di un figlio vissuto soltanto trentotto ore e otto minuti, così che lei in giro diceva “ di essere stata almeno per un po’ madre ”. Il suicidio arriverà - naturale e inaspettato, secondo la formula di Henry James - al termine di un meeting di lavoro e con un salto nel vuoto dalla stanza di albergo all’estero: “ Qui ho finito. E anche il settimo piano, da quassù, sarà abbastanza alto. [...] Indosso, ora porto le mutande arrivate in regalo da mia sorella. Appena messe. Così almeno, quando mi ritroveranno laggiù, si consoleranno per i miei pensieri alla famiglia.”
Amedeo Saviotti. Un ragazzo che dal paese di nascita si trasferisce in città per studiare e diventare ingegnere. Ci ritorna per i funerali di un compagno di scuola, che era stato manesco e intrattabile. Commentano i vecchi compagni: “ Se n’è andato così, perdendo le forze come un serbatoio vuoto. Non riusciva a spingere nemmeno la leva del trattore. Né a salirvi.” Mentre l’ingegnere, vedendo le mani giunte del morto, e il rosario arrotolato alle dita grosse, se ne sta distante, “ almeno un passo, come a temere che se si alza m’arriva una manata in faccia ”.
Agostina Montero. Storia di un padre - padrone e di violenze in famiglia rievocate dalla figlia il giorno in cui l’aguzzino muore e quando la vittima già da molti anni è lontana dal suo giogo. Fermo e deciso il suo rifiuto di ritornare al paese per partecipare ai funerali. Realismo e oggettività agghiaccianti, pur nel distacco e nell’assenza di giudizio. “ Restai coricata, chiudendo gli occhi mentre le mani, le mie, cooperavano a togliere i vestiti. Riposti sotto la schiena. “ Così non ti salgono le formiche ” mi fu bisbigliato insieme a un bacio che mi portò via ogni secchezza dalla bocca. Annuii all’ordine condiviso.” L’iniziazione all’oscena consuetudine non poteva essere espressa con maggiore laconicità: alla pari, quasi, con la manzoniana risposta della “ sventurata ”.
Dodici microromanzi. Viene da dire che il mondo di questi uomini e di queste donne è un mondo mediocre, sgualcito ( rubando la definizione a Geno Pampaloni che l’applicò ai “ non illustri ” di Pontiggia ): manie, desideri innaturali, adulteri, matrimoni sbagliati, ambizioni male apposte. E spesso questi personaggi hanno una vita parallela, sotterranea, fatta di sentimenti, ricordi e desideri, che sono segreti, e perciò si tratta di una vita clandestina. Il narratore - sembra che dica Ferro - deve preoccuparsi di una sola cosa: andare alla ricerca di quel pathos, di quel sordido, di quella violenza, che si trovano nella vita clandestina. E non importa se in questa ricerca gli capiterà di entrare in un tunnel di ambiguità. La vera letteratura si manifesta soprattutto nell’ambiguità: perlomeno, la letteratura che non vuole essere solo testimonianza (che sarebbe un ruolo riduttivo), ma ambisce a un ruolo preminente sul terreno cognitivo.
“Il diritto alla speranza davanti alle Corti” di Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto, una lettura in attesa della Corte Costituzionale su ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
Recensione di Fabio Gianfilippi
La speranza è costruzione. Building bridges, l’installazione monumentale di Lorenzo Quinn per la Biennale Venezia del 2019, campeggia sulla copertina di Il diritto della speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, volume con una prefazione del prof. Francesco Palazzo e gli interventi di cinque giuristi da tempo impegnati, da punti di vista diversi (docenti universitari, giudici di legittimità e di merito), nella riflessione critica sullo spazio dell’ergastolo nel nostro sistema costituzionale e convenzionale, in particolare nella sua forma c.d. ostativa, prevista per i condannati in relazione ai delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit.
Sei paia di braccia si intrecciano, enormi, a lanciare ponti impercorribili sulle acque dell’Arsenale. Ognuna simboleggia un sentimento universale che, appunto, costruisce. Tra questi, ovviamente, la speranza. E’ un tempo, il nostro, in cui le mani non possono stringersi, a causa del virus. Un tempo in cui si fa fatica persino a concepire il venirsi incontro. Costruire ponti tra persone, idee e punti di vista diversi richiede allora il genio dell’artista e un sovrappiù di lungimiranza.
L’immagine scelta, che non è qui mero orpello, ci conduce alla lettura di un testo che, séguito degli studi già pubblicati nell’anno 2019 da Dolcini, Fassone, Galliani, Pinto de Albuquerque e Pugiotto, con il titolo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, continua ad approfondire lo stato dell’arte in materia di ergastolo ostativo, estendendo la sua indagine al regime differenziato in peius di cui all’art. 41- bis ord. penit., per più ragioni strettamente connessi. Non tanto, e non solo, perché gli ergastolani ostativi siano sottoposti a quel regime, poiché anzi ve ne sono non pochi che, anche da molto tempo, non sono più considerati, o non lo sono mai stati, portatori di una pericolosità sociale tanto qualificata da richiedere l’imposizione di quel regime eccezionale di sospensione di molte regole trattamentali. Piuttosto perché una pena perpetua non aperta, in difetto di collaborazione con la giustizia, ai permessi premio o alla liberazione condizionale e un regime differenziato in cui si prevedano limitazioni meramente afflittive e non funzionali agli scopi del 41-bis, pongono interrogativi urgenti in materia di diritti fondamentali, che hanno già condotto a pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale che si sono rapidamente succedute negli ultimi anni. Un materiale che si è già rivelato fertile di conseguenze in sede giurisprudenziale, di merito e legittimità, con il quale è dunque essenziale confrontarsi.
Le riflessioni sullo stato dell’arte. Il testo che si commenta è dunque, attraverso i diversi contributi che lo compongono, innanzitutto livre de chevet sul senso costituzionale delle pene, anche come antidoto a vecchie tentazioni carcerocentriche e al sempre nuovo populismo penale, incapace di leggere nell’individualizzazione del trattamento e nella discrezionalità rimessa alla magistratura di sorveglianza la formula in grado di inverare l’art. 27 della Costituzione e di garantire perciò anche la sicurezza della collettività (vd. la riflessione di Dolcini, Pena e Costituzione).
E si fa poi vero e proprio bedeker indispensabile per leggere criticamente le pronunce più recenti ed incisive sul tema emesse innanzitutto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Si affronta dunque la sentenza Provenzano c. Italia che, se ribadisce ancora una volta la compatibilità del regime del 41-bis con i principi fondamentali della Convenzione, richiede allo Stato una immancabile valutazione specifica ed attualizzata della necessità dell’imposizione del regime anche nei confronti di un soggetto gravemente malato, la cui capacità di mettersi in relazione con i sodali all’esterno, e dunque la sua pericolosità concreta, deve essere puntualmente vagliata, e non può essere oggetto di proroghe automatiche (vd. i contributi di Magi, L’incidenza delle condizioni di salute ai fini della ingiustiza del trattamento carcerario differenziato e Galliani, Una sentenza scontata. Il caso Provenzano e l’individualizzazione del regime detentivo differenziato). E si approfondisce la sentenza Viola n. 2 c. Italia, che affronta, come noto, il tema della non compatibilità con i principi convenzionali, ed in particolare con l’art. 3 CEDU, dell’ergastolo ostativo, in quanto costituente una pena che, poggiando sulla presunzione di pericolosità sociale costituita dall’assenza di collaborazione con la giustizia, sottrae al condannato un riesame nel merito del proprio percorso di ravvedimento, con ciò confliggendo con la tutela della dignità umana (vd. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana; Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena; Galliani e Pugiotto, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (a proposito della sentenza Viola c. Italia n. 2).
Le riflessioni si volgono poi verso la sentenza Corte Cost. 23 ottobre 2019 n. 253, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti (vd. i contributi di Galliani e Magi, Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici e Pugiotto, La sent. 253/2019 della Corte Costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria) cui si aggiunge il significativo approfondimento anche sulla sentenza Corte Cost. 5 novembre 2019 n. 263, che interviene con un “secondo colpo di piccone” sul regime delle ostatività, considerandolo, almeno per il settore minorile, incompatibile del tutto, e non soltanto come presunzione assoluta invece che relativa, con la funzione costituzionale assegnata in quel contesto alla pena (vd. Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte Costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sent. nn. 253 e 263 del 2019).
La documentazione. La seconda parte del testo contiene una importante selezione di decisioni della Corte Costituzionale intervenute a rimuovere singole limitazioni, ritenute non funzionali agli scopi del 41-bis, che vi erano state introdotte, nel testo del co. 2-quater, con la l. 94/2009. Le formule utilizzate dalla Consulta, richiamando propri precedenti, sono eloquenti: “anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”.
Sono inoltre offerti ai lettori la Relazione della Commissione parlamentare antimafia sul 4-bis alla luce della sent. Corte Cost. 253/2019, che contiene anche proposte di riforma del testo (non esenti da critiche, almeno nella misura in cui non tengono in adeguato conto il riparto naturale di competenza nella materia di sorveglianza, e la sua ratio di prossimità alla persona condannata, per consentire al giudice di conoscerne approfonditamente il percorso trattamentale), nonché di ulteriori recenti contributi della giurisprudenza di legittimità e di merito sui regimi ostativi.
Una posizione centrale è di fatto attribuita all’ordinanza della Corte di cassazione 3 giugno 2020 n. 18518 con la quale la S.C. ha proposto questione di legittimità costituzionale degli art. 4-bis e 2 dl 152/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
La pronuncia della Corte Costituzionale è attesa per il prossimo 24 marzo e gli Autori pubblicano in questo contesto, dopo le ampie riflessioni contenute nella prima parte del testo sulla sent. 253/2019, di cui la questione pendente è considerata un seguito naturale, anche i cinque Amici Curiae che, significativamente, Antigone, Macrocrimes, Nessuno tocchi Caino, L’Altro Diritto e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, hanno voluto presentare alla Consulta in quel procedimento.
In un certo senso tutto il percorso di approfondimento critico, che costituisce lo speciale valore dell’opera in commento, conduce verso questo ulteriore significativo passaggio di un cammino che, mediante successive approssimazioni, evoca la speranza del superamento dell’ergastolo ostativo e se ne fa portatrice, pur nella consapevolezza dei rischi involutivi del sistema, non taciuti nella sua Prefazione da Francesco Palazzo.
Leggendo l’ordinanza di rimessione. La lettura dell’ordinanza di rimessione della S.C. n. 18518 restituisce d’altra parte il senso di una naturale evoluzione delle argomentazioni utilizzate dalla Corte nella sent. 253/2019. Si nutre dei riferimenti leggibili nella giurisprudenza costituzionale circa la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio, in quell’occasione liberato dalla preclusione assoluta connessa alla mancanza di collaborazione con la giustizia, e restituito alla prudente ed informata discrezionalità del magistrato di sorveglianza, e di fatto chiede che quell’esperimento non resti un esercizio vano di libertà temporanea, ma costituisca il mattone utile a rendere percorribile una strada di ben più ampia prospettiva, che conduca appunto alla trasformazione della pena perpetua in una misura come la liberazione condizionale, che riconduce il condannato pienamente nella società. Una strada, sia pure difficile e tutta in salita, che non somigli a certe ciclabili nelle nostre città che, per l’errore del pianificatore, finiscono contro un muro.
Il permesso premio, con gli occhi di un magistrato di sorveglianza, ha in effetti una evidente funzione di stimolo all'approfondimento dei risultati raggiunti ed apre naturalmente alla possibilità che il fruirne nel tempo e con regolarità, in assenza di eventuali involuzioni comportamentali, faccia emergere un sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato e produca uno sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati, influenzi condotte di aperta dissociazione o persino condotte collaborative. Perché ciò possa effettivamente avvenire, però, deve essere preservata una prospettiva al fondo della strada, rappresentata dalla speranza di accedere ad una misura alternativa, come nel caso di specie la liberazione condizionale. Ciò consente di riempire di nuova efficacia i benefici premiali concessi e di un senso più profondo l’esercizio di responsabilità che è richiesto a chi ne beneficia nel far rientro regolarmente in carcere e nel rispetto pieno delle prescrizioni.
Se il percorso è aperto a questa conclusione si evita che il condannato si adagi nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte e si stimolano gli operatori penitenziari, affinché investano pienamente tempo e risorse sulla osservazione scientifica della personalità anche del condannato alla pena dell’ergastolo, non svuotando il senso del tempo trascorso in detenzione, che indefettibilmente deve tendere alla rieducazione (e nel caso sottoposto alla Corte Cost. si parla di una pena perpetua iniziata circa venti anni fa).
L’ordinanza della cassazione appare in tal senso anche in sintonia con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, maturato a partire dal caso Vinter e a. c. Regno Unito, secondo la quale sussiste l'obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un riesame certo della perpetuità della sua pena, conoscendone dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che sia prevista dunque una periodica verifica dei progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, al fine di valutare la permanenza dei motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione, e dettagliato, rispetto ad una posizione in tutto speculare a quella oggi rimessa al vaglio della Consulta, nella sentenza Viola n. 2 c. Italia.
Quest’ultima pronuncia, così approfondita nelle già citate riflessioni della prima parte del Diritto alla speranza davanti alle Corti, è d’altra parte a sua volta particolarmente informata alla nostra giurisprudenza costituzionale, in un virtuoso mescolarsi di temi concordanti, e mostra la peculiare attenzione dei giudici di Strasburgo alla drammaticità del fenomeno mafioso nel nostro paese, a differenza di quanto superficialmente affermato a caldo, dopo la notizia della sentenza. Ed è proprio riguardo alla mafia che la Corte Edu afferma che: “la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti”. (par. 130).
Il condannato all’ergastolo ostativo, nelle parole della Corte Edu, finisce invece per trovarvisi, poiché è posto “nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo di ordine penologico che giustifichi il suo mantenimento in detenzione (…), mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna (…) la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena.”(cfr. par. 128 e 129).
La questione torna dunque oggi ad interpellare il giudice delle leggi, chiedendogli di proseguire nell’intrapreso percorso di relativizzazione delle preclusioni contenute nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., soltanto in questo modo coerenti al disegno costituzionale per il quale la funzione di risocializzazione della pena non può mai essere pretermessa, neppure a fronte del più terribile dei reati, con una conseguente piena restituzione alla magistratura di sorveglianza del compito di valutazione nel merito delle posizioni dei condannati che le sono affidati.
Nel caso della liberazione condizionale, oggi in questione, ciò significherebbe consentirle di esaminare l’eventuale sussistenza del ravvedimento richiesto dalla norma, e declinato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso ben colto dalla CEDU, mediante la ricerca nel condannato di “comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi e aderisca a nuovi modelli di vita socialmente accettati” (cfr. cass. 45042/2014) o ancora “comportamenti positivi dai cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato.” (cass. n. 486/2015 e 11331/2019). Senza dubbio molto più della buona condotta richiesta per l’ottenimento di un permesso premio, ma insieme anche altro rispetto alla collaborazione con la giustizia (diversa quest’ultima anche concettualmente, per come comprensibile dalla disciplina speciale di concessione dei benefici nei confronti dei collaboratori di giustizia, che richiede il ravvedimento come requisito ulteriore: cfr. cass. 19854/2020).
Si tratterebbe di proseguire in un percorso, si diceva, che è certamente informato e nutrito dalle decisioni della CEDU, ma che affonda le sue radici nella consolidata giurisprudenza costituzionale, che ci restituisce una lettura dell’esecuzione penale come un tempo destinato inevitabilmente ad accogliere i cambiamenti, positivi e negativi, della persona, che deve essere in grado di conoscere dal momento in cui commette il reato (cfr.sent. Corte Cost. 32/2020) quando e come potrà vedersi rivalutato ed apprezzato per ciò che, dopo il reato, anche il più terribile (cfr. sent. Corte Cost. 149/2018) è oggi. Al fondo di una pena che porti pure il nome dell’ergastolo, dovrebbe dunque sempre residuare l’alternativa tra la perpetuità, che inevitabilmente attenderebbe chi non volesse mettere seriamente in discussione il proprio stile di vita e pensiero antisociale, e la speranza di poter incontrare un giorno pienamente la società.
E’ ancora una volta la sentenza Viola a ricordarci come, in assenza di un momento di rivalutazione come quello che nel nostro ordinamento sarebbe offerto dalla liberazione condizionale, appaiano insufficienti allo scopo gli strumenti della grazia presidenziale, per altro mai comminata ad un condannato alla pena dell’ergastolo “ostativo”, ed anche il rimedio della sospensione della pena per motivi di salute, che risponde a finalità umanitarie e che comunque è sempre sottoposto a una rivalutazione in tempi brevi e, a seguito del recente dl 28/2020 convertito in l. 70/2020, all’immediato ripristino della carcerazione, ove si riscontri un qualche miglioramento delle condizioni che lo hanno determinato.
L’intervento della Corte potrebbe dunque restituire compiutamente le disposizioni normative contenute nell’art. 4-bis ord. penit. ad una funzione di stimolo al discernimento del giudice e di necessario approfondimento istruttorio sotto il profilo della pericolosità sociale attuale dell’interessato, come originariamente nel 1991. Non più uno stigma indelebile, salvo che con la gomma abrasiva della collaborazione con la giustizia, ma un meccanismo, per quanto presidiato da regole probatorie che gli Autori del libro non mancano di sottoporre a critica, per come elaborate dalla stessa Corte Costituzionale con la sent. 253/2019, e verosimilmente da riproporsi qui, che consenta al giudice di interrogarsi sulle molteplici, e spesso drammatiche, ragioni per le quali la collaborazione non sia apparsa all’interessato una soluzione praticabile (posto comunque che neque captivus tenetur alios detegere, verrebbe da dire con la Consulta), e non lo privi della speranza, senza la quale la pena perde l’abbrivo che è indispensabile perché si possa intraprendere un credibile percorso di responsabilizzazione.
Le mani che si incrociano sulle acque della laguna veneta aprono alla lettura di un testo che è tutto percorso dal filo rosso di questa speranza, il cui diritto è evocato in modo esplicito nella stessa ordinanza n. 18518 di rimessione alla Corte Costituzionale. Braccia e mani che richiamano un fare e un costruire, un dinamismo che deve essere il proprium della pena, che si dipana nel tempo e cui, nell’orizzonte costituzionale e convenzionale, non può bastare inibire ed incapacitare, essendo chiamata a tentare (e verrebbe da dire incessantemente) di rifondare e, a un certo punto, svolto il suo compito, a lasciare il passo ad un rientro proficuo della persona nella società.
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