Decreto "antiscarcerazioni". Corte cost. n.245 del 2020: una declaratoria di infondatezza non sempre attenta alle argomentazioni dei giudici a quibus* di Franco Della Casa
La Corte costituzionale si è pronunciata negativamente sulle quaestiones sollevate da tre giudici rimettenti nei confronti dell’art. 2-bis d.l.28/2020 (convertito con l. 70/2020). Nel commento si concentra l’attenzione sulle eccezioni che assumono come parametro gli artt. 24, comma 2, 32 e 27, comma 3, Cost. Le riserve che vengono formulate riguardano soprattutto la motivazione della sentenza, che risulta non sempre adeguata rispetto alle articolate argomentazioni contenute nelle ordinanze di rimessione. Assume un valore paradigmatico quel passaggio della parte motiva in cui il giudice delle leggi esclude qualsiasi contrasto della normativa impugnata con l’art. 27, comma 3, Cost.: la risposta negativa è perentoria e non si fa carico delle molteplici sfaccettature di un problema inerente al principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nell’art. 27, comma 3, Cost., vale a dire al principio cardine dell’esecuzione penitenziaria.
Sommario: 1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia - 2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost. - 2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio - 2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto? - 3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) – 4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.).
1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia
Nella sentenza 245 del 2020 la Corte cost. ha dichiarato, in parte, infondate e, in parte, manifestamente infondate talune questioni di legittimità costituzionale inerenti ad una disposizione del c. d. decreto “antiscarcerazioni”. Ad essere sottoposto al giudizio della Corte è stato, più precisamente, l’art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70)[1]. Articolo nel quale viene stabilita un’inedita procedura di periodica verifica circa la persistente sussistenza dei presupposti che hanno indotto il tribunale o il magistrato di sorveglianza a concedere – il secondo in via provvisoria - la detenzione domiciliare regolata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. o la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva prevista dall’art. 147, comma 1, n. 2 c.p. «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19». Va precisato che il legislatore ha circoscritto tale periodica revisione, dal punto di vista temporale, ai provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza dopo il 23 febbraio 2020 e, dal punto di vista soggettivo, a due “blocchi” soltanto di condannati[2]: da un lato, quelli puniti per taluni gravi delitti specificamente indicati (artt. 270, 270-bis e 416- bis c.p. e 74, comma 1, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309)[3], nonché i condannati per delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare associazioni di stampo mafioso; dall’altro, i condannati sottoposti al regime carcerario differenziato di cui all’art.41-bis, comma 2, ord. penit.[4].
Ai fini di un migliore inquadramento, può non essere inopportuno concentrarsi preliminarmente su un profilo della disposizione in esame esorbitante o, comunque, non al centro della quaestio de legitimitate: in particolare, sulla valorizzazione del ruolo delle Procure – nel nostro caso il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, se si tratta di condannati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis, comma 2, ord. penit., oppure il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna, con riferimento ai condannati per taluno dei delitti contestualmente indicati – i cui pareri, ovviamente non vincolanti, devono essere acquisiti anteriormente alla decisione della magistratura di sorveglianza (art. 2-bis, comma 1, d.l. 28/2020).
Rilevato che l’imprescindibile interlocuzione con questi organismi costituisce una costante del provvedimento appena citato, essendo stata prevista – sempre limitatamente ai responsabili di gravi delitti o ai sottoposti al regime di “carcere duro” – anche prima della decisione sulla concedibilità di un permesso c.d. di necessità (art. 2, comma 1, lett. a d.l. cit.)[5], nonché prima di quella su una richiesta di detenzione domiciliare c.d. surrogatoria o in deroga (art 2 comma 1° lett. b d.l. cit), vale forse la pena di soffermarsi sul significato dell’innovazione. Onde appurare se il coinvolgimento delle Procure persegue semplicemente un obiettivo di razionalizzazione, consistente nell’assicurare al giudice una più estesa disponibilità di conoscenze funzionali alla decisione, o se riveste, prevalentemente, un significato simbolico: quello di dimostrare a chi aveva denunciato il lassismo della magistratura di sorveglianza - accusata di avere fatto scarcerare con troppa leggerezza condannati di elevata pericolosità sociale - la sollecitudine del legislatore nel predisporre un meccanismo tale da favorire radicali ripensamenti e da accentuare, paradossalmente, la solitudine del giudice al momento della decisione. Come si è detto, ci si sta riferendo a quei condannati che, alla luce della loro pericolosità sociale, secondo una parte consistente dell’opinione pubblica – troppo spesso “colonizzata” da mezzi di informazione ignari della complessità della questione penitenziaria o/e ideologicamente prevenuti – non devono rientrare nel contesto sociale se non dopo avere espiato dentro le mura l’intera pena. In base a tale impostazione, l’internamento deve continuare pure nell’ipotesi in cui gravi (o plurime) patologie riguardino una cerchia di persone, la cui permanenza in strutture carcerarie del tutto inadeguate a scongiurare la propagazione di un’infezione virale potrebbe portare ad un loro fatalis exitus.
2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost.
Anche se non pare esserci spazio per asserire che l’obbligatoria acquisizione del parere delle Procure risulti in contrasto con un qualsiasi precetto della Costituzione, la breve perlustrazione effettuata non può essere considerata fine a sé stessa, in quanto aiuta a comprendere l’atmosfera in cui si è collocato il provvedimento normativo contenente, tra l’altro, la disposizione sospettata di illegittimità dai giudici a quibus.
Ad avviso della Corte, la censura «essenziale» dei rimettenti concerne il ritenuto contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. della previsione legislativa che prescrive un procedimento a contradditorio soltanto differito, da utilizzare ai fini di un’eventuale sospensione della misura extramuraria da parte dello stesso magistrato di sorveglianza che l’aveva concessa. Quest’ultimo, infatti, qualora precedentemente abbia disposto in via provvisoria (art.47-ter, comma 1-quater, ord penit. o art. 684, comma 2, c.p.p), per motivi connessi all’emergenza Covid[6], la detenzione domiciliare in surroga o il rinvio dell’esecuzione della pena a favore di un condannato affetto da gravi patologie, è tenuto a riesaminare ripetutamente e a brevi intervalli di tempo – la prima volta, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge, in un secondo tempo con cadenza mensile[7] – il provvedimento emesso, onde verificare se medio tempore sono venuti meno i «motivi legati all’emergenza sanitaria» che erano stati alla base dell’intervento diretto a neutralizzare il rischio di un contagio potenzialmente esiziale. Per effettuare il riesame, il magistrato procede inaudita altera parte, con un decreto motivato che – se sfavorevole al condannato - è immediatamente esecutivo: successivamente gli atti vengono trasmessi al tribunale di sorveglianza, il quale, adottando un rito rispettoso della regola del contraddittorio – il procedimento di sorveglianza (artt. 666 e 678 c.p.p.) – è tenuto a pronunciare l’ordinanza decisoria che si sostituisce al provvedimento provvisorio del giudice monocratico, e che, per impedire la sua perdita di efficacia, deve essere assunta entro trenta giorni dalla ricezione del decreto di revoca e degli atti che ne hanno giustificato l’emissione[8].
Secondo due dei giudici a quibus la normativa che introduce tale modello bifasico a contraddittorio differito contrasterebbe, come si è detto, con l’art. 24 comma 2 Cost. Per pervenire alla declaratoria di non fondatezza la Corte ha potuto contare su di un itinerario argomentativo collaudato, che infatti non esita a percorrere, ricorrendo tuttavia ad una motivazione non sempre impeccabile: sia perché caratterizzata da alcune forzature, sia perché non vengono tenuti in considerazione – o, per lo meno, in adeguata considerazione – argomenti non marginali sviluppati nelle ordinanze di rimessione.
È verosimile che al giudice costituzionale siano venute subito in mente le decisioni con cui sono state respinte, non certo da ieri, le eccezioni inerenti al contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. del procedimento per decreto (artt.459-464 c.p.p.), caratterizzato per l’appunto da una struttura bifasica a contraddittorio posticipato[9]: fermo restando che, pur essendo palesi le analogie con quel clichè, non era possibile ignorare le peculiarità della procedura coniata dal legislatore del 2020. Per rendersene conto, basti ricordare che il primo segmento del procedimento monitorio sfocia in un decreto motivato che può infliggere esclusivamente una sanzione pecuniaria, mentre la revoca della detenzione domiciliare o del rinvio dell’esecuzione disposta dal magistrato di sorveglianza sulla base del citato art. 2-bis d.l. 28/2000 ha un’immediata incidenza sulla libertà personale del condannato, dal momento che comporta ex se il suo rientro in carcere. Non stupisce più di tanto, quindi, che nella motivazione non si accenni minimamente alla pregressa giurisprudenza che ha ripetutamente sancito la conformità a Costituzione del procedimento per decreto, anche se è lecito sostenere che in camera di consiglio, o, quanto meno, nei retropensieri dei giudici, quel consolidato filone giurisprudenziale non sia rimasto in un cono d’ombra e sia anzi servito a fornire loro un’importante indicazione circa la più agevole rotta da seguire.
Nel costruire la motivazione della declaratoria di infondatezza, incentrata sul paragone con altri procedimenti a contraddittorio soltanto differito, lo sguardo è rimasto, quindi, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario. È stato anzitutto richiamato l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., in virtù del quale, in caso di urgenza, il magistrato di sorveglianza, verificata l’assenza del pericolo di fuga in capo al condannato, può concedergli in via provvisoria, con ordinanza adottata de plano, la detenzione domiciliare[10], allorché ritenga fondata la richiesta dell’interessato la cui posizione sia riconducibile nel perimetro di una delle previsioni dei precedenti commi dell’art. 47-ter ord. penit. Il provvedimento provvisorio deve essere poi sottoposto alla valutazione del tribunale di sorveglianza, il quale, avvalendosi del procedimento di sorveglianza, potrà concedere o rigettare in via definitiva la richiesta di detenzione domiciliare. Il richiamo è evidentemente servito ai giudici della Consulta per sostenere che nell’ordinamento penitenziario sono rinvenibili altre ipotesi in cui il contraddittorio viene garantito solo a valle di una prima fase in cui esso non ha invece diritto di cittadinanza.
Per trasparenti ragioni di connessione, la Corte avrebbe potuto, in questo passaggio della motivazione, richiamare proficuamente anche il procedimento coniato dal legislatore penitenziario del 2002 per la concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis ord. penit.) [11]: procedimento bifasico, in cui ancora una volta il magistrato di sorveglianza, tenuto ad acquisire il parere del pubblico ministero, decide inaudita altera parte[12]. La successiva entrata in scena del tribunale di sorveglianza (art. 69-bis comma 4 ord. penit.), che provvede ai sensi dell’art. 678 c.p.p., è subordinata ad un reclamo dell’interessato o del pubblico ministero. Essendo stato previsto che il magistrato di sorveglianza raccolga preliminarmente soltanto il parere del pubblico ministero, il procedimento è ancora più simile a quello tratteggiato dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, e - particolare non trascurabile - è regolato da una previsione che ha superato indenne il vaglio del giudice delle leggi, il quale, con l’ordinanza 352/2003[13], ha riconosciuto tra l’altro «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito»[14].
Ci sono però delle importanti differenze tra le situazioni a cui si riferiscono sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., sia l’art. 69-bis ord. penit. e quella sottoposta in questa circostanza all’esame della Corte. Una è macroscopica: nelle prime si discute della eventuale concessione al condannato di un beneficio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi considerata nell’art. 2-bis d.l. 28/2020 inerente alla revoca, sia pure provvisoria ma con efficacia immediata, di una misura extracarceraria. Non solo: in entrambi i casi utilizzati come termine di raffronto, alla base della pronuncia del magistrato di sorveglianza si colloca un’iniziativa del condannato, posto in grado di interloquire, sia pure embrionalmente, col giudice attraverso la specificazione del petitum, nonché dei motivi sui quali è fondata la sua richiesta. Questa circostanza non è irrilevante ed è stata sottolineata dalla stessa Corte nella già citata ordinanza del 2003, nella quale, per avvalorare la sua declaratoria di manifesta infondatezza, ha affermato che il magistrato di sorveglianza viene chiamato a decidere su un’istanza «proposta dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute».
L’osservazione può essere ritenuta condivisibile: infatti, se si valorizza il dato relativo alla genesi del procedimento, sembra difficile negare che l’inconveniente dell’ignoranza da parte del condannato del contenuto della documentazione acquisita ex officio e della conseguente impossibilità di opporre calibrate controdeduzioni si attenui qualora sia lui stesso, con la sua iniziativa, a sollecitare il provvedimento giudiziale.
2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio
La Corte costituzionale non si limita però ad affermare che l’art. 2-bis d.l. 28/2020 presenta delle analogie – come si è visto, imperfette – con l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., ma invoca anche (e sopra tutto) l’art. 51-ter, comma 2, ord. penit., concernente la sospensione ex officio, sia pure provvisoria, di una misura alternativa da parte del magistrato di sorveglianza, che procedendo de plano interviene allorché il beneficiario di una di esse «pone in essere comportamenti suscettibili di determinare la revoca». Sospensione che in un secondo tempo, deve essere ratificata - entro il termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, a pena della perdita di efficacia del decreto sospensivo - dal tribunale di sorveglianza, tenuto a procedere con il rito di cui all’art. 678 c.p.p. Ad avviso del giudice costituzionale, in questo caso i connotati delle due entità sottoposte a confronto sono identici e quindi il discorso può ritenersi chiuso, anche in considerazione del fatto che l’art. 51-ter ord. penit. non è mai stato oggetto di alcun incidente di legittimità costituzionale.
Prima di esaminare più approfonditamente questa argomentazione, vale la pena di svolgere qualche osservazione sul suo ricorso ad alcune affermazioni che sembrano testimoniare un certo disagio nel ricalcare sic et simpliciter il tradizionale orientamento giurisprudenziale, propenso a ritenere che la previsione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio tra le parti è un dato sufficiente a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale. Si vuole alludere al tentativo di dimostrare che anche nella fase che ha come protagonista il magistrato di sorveglianza, sono rinvenibili garanzie idonee ad impedire una totale negazione del diritto di difesa del condannato.
In quest’ottica va letta, anzi tutto, la valorizzazione dell’art. 121 c.p.p., il quale consente all’imputato – ma la regola può essere pacificamente estesa al condannato, visto che in tale articolo si afferma la sua applicabilità «in ogni stato e grado del procedimento» - di presentare, senza alcuna limitazione, memorie al giudice. Affermazione, quest’ultima, ineccepibile, ma bisognevole di alcune precisazioni: dato che nel nostro caso il procedimento viene avviato ex officio, le eventuali memorie sono necessariamente redatte “al buio”, con scarse probabilità di essere ben calibrate rispetto agli elementi negativi risultanti dalla documentazione in possesso del giudice. Anzi, pur senza dimenticare che la procedura di verifica demandata al magistrato di sorveglianza deve avere luogo a scadenze prefissate (e, quindi, non difficili da prevedere), gli interessati – o, per lo meno, taluni di essi - potrebbero addirittura ignorare che il medesimo si sta attivando per un’eventuale revoca della misura di cui stanno usufruendo e non avvertire quindi l’esigenza di presentare memorie[15]. La fragilità del rimedio difensivo incarnato dalle memorie può essere, inoltre, desunta dal più recente orientamento della Corte di cassazione, secondo la quale l’omessa valutazione da parte del giudice di una memoria difensiva non determina alcuna nullità[16].
Che la Corte costituzionale indulga a forzature nel tentativo di dipingere il primo segmento della procedura tratteggiata dal legislatore del 2020 a tinte più rosee di quelle che sono nella realtà emerge, d’altronde, ancora più nitidamente da quella parte della motivazione nella quale viene contraddetta la denuncia – formulata dai giudici di sorveglianza di Sassari e di Avellino – di una “ipotutela” del diritto alla salute del condannato: ipotutela desumibile, secondo i rimettenti, dalla circostanza che, da un lato, è prescritta l’acquisizione di una pluralità di pareri e di informazioni (delle Procure, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Presidente della giunta regionale)[17], mentre, dall’altro, si glissa totalmente sull’acquisizione di una documentazione concernente lo stato di salute del condannato.
La Corte costituzionale obietta che nulla vieta al magistrato di sorveglianza di attivarsi per una acquisizione motu proprio, ma anziché limitarsi a questa sola constatazione si spinge più in là, aggiungendo che, in ogni caso, il giudice procedente può disporre, qualora lo ritenga necessario, anche una perizia sullo stato di salute del condannato, ai sensi dell’art. 185 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale: il quale stabilisce che nella «udienza» del procedimento di esecuzione possono essere assunte prove, tra cui la perizia, «senza particolari formalità». Se circa la possibilità di applicare questa disposizione nel procedimento di sorveglianza non ci possono essere dubbi[18], è invece un’affermazione molto azzardata, contraddetta dal dato normativo e dalla dottrina[19], sostenere che ad essa si possa ricorrere nella fase antecedente alla celebrazione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio delle parti. Tant’è vero che, nel commentare il suddetto art. 185, la dottrina affronta tematiche quali l’ipotetico ricorso all’esame incrociato, nonché, con riferimento alla testimonianza, l’obbligo di attenersi alla regola delle domande specifiche su singoli fatti, imposta dall’art. 499 comma 1 c.p.p.: tematiche, che presuppongono inequivocabilmente un contesto procedimentale caratterizzato dal contraddittorio.
2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto?
Le ombre che si sono evidenziate non sono certo idonee a riverberarsi sul dispositivo della sentenza 245 del 2020, ma si prestano – lo si è detto - ad essere lette come un indizio circa il disagio della Corte costituzionale nell’adeguarsi alla tesi secondo cui la semplice posticipazione di determinate garanzie di carattere processuale vale a compensare il deficit delle stesse in una precedente fase del procedimento.
Ma che dire dell’argomento principale della motivazione, cioè del sillogismo in base al quale, essendo il procedimento bifasico di cui all’art.2-bis d.l. 28/2020 strutturato in termini identici a quello disciplinato dall’art. 51-ter ord. penit., e non essendo quest’ultima disposizione mai stata sfiorata da dubbi di legittimità costituzionale, è logico concludere - relativamente a questo profilo - per l’infondatezza della quaestio de legitimitate sottoposta al suo esame?
Anche in questo caso sembra esserci spazio per alcuni rilievi critici, che possono essere in larga misura ricondotti agli argomenti sviluppati dal magistrato di sorveglianza di Spoleto nella sua ordinanza di rimessione
Anzitutto non si può non rilevare che il dettato dell’art.51-ter ord.penit. presenta talune significative diversità rispetto a quello dell’articolo sottoposto all’esame della Corte. Infatti è pur vero che prima di pronunciare il decreto motivato con cui sospende ex officio l’esecuzione della misura alternativa il magistrato di sorveglianza non entra - et pur cause[20] - in contatto col condannato, ma è altrettanto vero che non ha nessun tipo di interlocuzione neppure col pubblico ministero. Quindi la parità delle parti viene, sia pure al ribasso, garantita.
Inoltre, nel caso dell’art. 2-bis d.l. 28/2020, il magistrato di sorveglianza, se è orientato nel senso di ritenere non più sussistenti i motivi di concessione della misura riconducibili all’emergenza sanitaria, verso la revoca provvisoria della misura extramuraria, non ha di fronte a sé un’alternativa, essendo obbligato a disporre – in esito a quel procedimento larvale di cui si è detto – la revoca della medesima con un provvedimento che ha come effetto quello di fare rientrare subito in carcere il condannato. Invece nell’ipotesi prevista dall’ art.51-ter ord. penit. l’alternativa esiste, essendo consentito al giudice monocratico di trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza dopo avere sospeso l’esecuzione della misura extramuraria in corso oppure di farlo, prescindendo da tale sospensione. Il particolare non è di secondaria importanza specie se, con riferimento all’art.2-bis d.l. 28/2020, ci si concentra sull’ipotesi di una mancata ratifica del provvedimento provvisorio da parte del tribunale di sorveglianza. In tal caso il condannato si trova sottoposto ad una specie di doccia scozzese – traduzione e permanenza in carcere/successivo rientro nell’area esterna – che non può non avere negative ripercussioni sulla continuità-omogeneità del suo trattamento sanitario e, quindi, sulla sua salute. Al contrario, sulla base di una presunzione non azzardata, l’attentato ad un bene di tale importanza, cioè la salute, non concerne, nella normalità delle ipotesi, il condannato sottoposto ex art. 51-ter ord. penit. all’eventuale sospensione cautelativa. Eppure, nei suoi confronti, il legislatore detta una disciplina meno rigida.
Muovendo da questa premessa, viene da chiedersi se la Corte costituzionale non avrebbe potuto, quanto meno, rilevare l’irragionevolezza di una simile differenziazione e dichiarare l’incostituzionalità della disposizione devoluta al suo esame nella parte in cui non offre al magistrato di sorveglianza – privo di quel sapere non frammentato che solo il contraddittorio è in grado di fornire – la possibilità di optare per una subordinata meno draconiana rispetto all’immediata riconduzione in carcere del condannato.
Continuando a ragionare su eventuali violazioni dell’art. 3 Cost. ad opera della normativa del 2020, suscita invece talune perplessità l’opinione di uno dei rimettenti, propenso a ravvisare la violazione del principio di uguaglianza per effetto della regola che consente la devoluzione immediata del giudizio di revoca al tribunale di sorveglianza – anziché all’omonimo magistrato – nell’ipotesi in cui sia stato il primo ad emettere l’ordinanza concedente la misura extramuraria: tra i molti esempi possibili, ci si può rifare al caso in cui la richiesta del condannato, rigettata del giudice monocratico, venga successivamente accolta dal tribunale di sorveglianza. È pur vero che la competenza, in prima battuta, dell’uno o dell’altro giudice finisce per essere del tutto casuale, però non è semplice dimostrare che il diritto di difesa sia vulnerato in misura costituzionalmente rilevante a seconda che il giudice collegiale decida per primo oppure si pronunci solo dopo la pronuncia provvisoria del magistrato monocratico.
3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.)
La seconda eccezione affrontata nella sentenza 245/2020 è quella riguardante la lamentata violazione del diritto alla salute del condannato (art. 32 Cost.). I principali argomenti dei giudici a quibus sono i seguenti: anzitutto, la normativa impugnata pone in primo piano, non già le esigenze della salute del condannato, ma quella della sicurezza collettiva, come è desumibile dalla prescritta reiterazione nel tempo delle frequenti verifiche da parte del magistrato sorveglianza, che testimoniano un favor - anzi un’implicita sollecitazione - del legislatore verso una pronuncia di revoca della misura extracarceraria. Si colloca in questo contesto, a mo’ di conferma, la già ricordata denuncia delle scarse garanzie offerte al condannato nel segmento processuale che si svolge dinanzi al giudice monocratico. In secondo luogo, la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, co. 1-quater, ord. penit. si esegue con modalità tali – ossia è caratterizzata da un così spiccato connotato contenitivo – da non porre in pericolo la sicurezza collettiva.
La Corte costituzionale replica a queste argomentazioni contestando che le periodiche revisioni imposte al magistrato di sorveglianza mirino ad indurre il giudice alla revoca di un provvedimento già concesso, perché esse, in realtà, sono dirette a verificare «la perdurante attualità del bilanciamento tra le imprescindibili esigenze di salvaguardia della salute del detenuto e le altrettanto pressanti ragioni di tutela della sicurezza pubblica»[21]. Non bisogna inoltre dimenticare – aggiunge la Corte – che, essendo stata la scarcerazione, a suo tempo, disposta per carenze di carattere oggettivo (riconducibili ad un’inidoneità dell’apparato carcerario a tutelare il condannato dagli effetti della pandemia), una volta che si siano realizzate le condizioni per ovviare a tale mancata tutela, viene meno l’unico elemento da prendere in considerazione ai fini della concessione della misura extramuraria. Non solo: secondo il giudice costituzionale il contrasto tra la disposizione sottoposta al suo esame e l’art. 32 Cost. sarebbe smentito dalla lettera della legge, la quale consente che venga disposto il rientro in carcere del condannato solo qualora sia documentata la «disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell’interessato».
Anche a questo proposito non manca lo spazio per qualche notazione a margine. Ci si riferisce, in particolare, all’affermazione della Corte relativa all’indiscussa necessità di un persistente bilanciamento tra esigenze della salute e quelle di sicurezza della collettività. In linea di massima tale affermazione può essere condivisa, fermo restando che l’eccessiva frequenza con cui la verifica di tale bilanciamento è stata stabilita dal legislatore del 2020 obbedisce in primis a ragioni diverse dalla sua volontà di mantenere in equilibrio i due piatti della bilancia a cui si riferisce il giudice costituzionale Infatti non si può dimenticare quello che è stato il vero connotato genetico della disposizione in esame, elaborata per placare l’allarme sociale di un’opinione pubblica spaventata per la scarcerazione di pericolosi boss mafiosi – così, secondo la vulgata – e pervasa da una forte animosità nei confronti non solo della “generosa” magistratura di sorveglianza, ma anche nei confronti di un legislatore ritenuto troppo permissivo[22]. Il quale si è prontamente adoperato affinché il j’accuse del “fuori tutti” potesse essere sostituito nell’immaginario collettivo da uno slogan di segno contrario.
Tenendo presente tutto ciò, sembra difficile negare che per il modo in cui è articolata la risposta della Corte costituzionale, nel punto in cui si limita ad affermare sic et simpliciter che le ripetute verifiche imposte al magistrato di sorveglianza mirano ad impedire uno sbilanciamento tra le esigenze della salute e quelle della sicurezza, non sia pienamente soddisfacente. Le sarebbe bastato un conciso riferimento al fatto che lo stabilire la frequenza delle verifiche rientra nella discrezionalità del legislatore per allontanare l’impressione di un suo acritico appiattimento su una regola trasparentemente anomala.
Qualche perplessità può suscitare anche il troppo meccanico ragionamento secondo cui non c’è niente da eccepire se il legislatore, in mancanza di un’idonea allocazione nella struttura penitenziaria del condannato seriamente malato, ha fatto prevalere, in un primo momento, le esigenze della sua salute sulla sicurezza collettiva e ha privilegiato, in un secondo tempo, queste ultime, una volta accertata la sopravvenuta disponibilità di un’adeguata allocazione del medesimo. Affermare, come fa il giudice delle leggi, che se così non fosse stato stabilito si sarebbe arrecato – per definizione – un ingiustificato vulnus alle esigenze della sicurezza collettiva significa escludere a priori qualsiasi rilevanza del periodo trascorso all’esterno del carcere dal condannato. La cui pericolosità sociale potrebbe essersi nel frattempo ridimensionata e risultare quindi tale da non richiedere limitazioni della sua libertà personale più intense di quelle che comporta la detenzione domiciliare surrogatoria (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Per quanto concerne il merito della risposta negativa che è stata fornita, la Corte costituzionale è rimasta nel solco della sua precedente giurisprudenza. Per rendersene conto, può essere sufficiente richiamare un paio di passaggi della sentenza n. 70 del 1994[23], in cui è stata scrutinata la normativa in tema di condannati affetti da infezione HIV[24], nei confronti dei quali il legislatore, per impedire la diffusione del virus all’interno delle carceri, aveva stabilito il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Nella motivazione di tale sentenza la Corte ha affermato che «l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute [del condannato] non comporta soluzioni a "rime obbligate" sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto»[25]. E ha successivamente aggiunto che il controllo del giudice costituzionale deve essere finalizzato soltanto a «verificare se la disposizione, che il legislatore ha ritenuto di dettare integri [….] una ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principii costituzionali che il giudice rimettente ritiene esser stati violati»[26]. È indubbio che le puntuali indicazioni desumibili da tale precedente abbiano costituito la premessa della conclusione a cui è pervenuta la Corte nella sentenza 245/2000, anche se a causa della stringatezza delle sue argomentazioni, di esse non si ritrova alcuna traccia.
4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.)
La parte più insoddisfacente della sentenza in esame è quella in cui viene liquidata in pochissime righe la quaestio de legitimitate concernente la normativa devoluta all’esame della Consulta con riferimento al principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Una censura ritenuta manifestamente infondata, in quanto – si afferma - basata su un parametro «inconferente», dato che la detenzione domiciliare in surroga (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.) e il differimento facoltativo della pena (art. 147 c. p.) non sono funzionali alla rieducazione del condannato, bensì in via esclusiva alla tutela della sua salute.
Anzitutto vale la pena di fare presente che mentre sin qui, come si è visto, le risposte fornite nella sentenza 245/2000 sono risultate in sintonia con i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, in questo caso non è così. Si vuole alludere in particolare al passaggio di una precedente pronuncia in cui il giudice delle leggi ha espresso un orientamento contrario rispetto all’odierna presa di posizione in tema di art. 27, comma 3, Cost. Si tratta per l’esattezza della già citata sentenza 70/1994 – inerente, come si è detto, alla sospensione obbligatoria dell’esecuzione della pena a favore dei condannati colpiti da infezione da HIV – nella quale si è affermato che non bisogna assegnare, in via esclusiva, alla fase esecutiva funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, perché, così facendo, si oblitererebbe quella «eminente finalità rieducativa»[27] ad essa riconosciuta, in particolare, dalla sentenza 313/1990[28]. Ma non è tutto: infatti, contestualmente, non si è mancato di sottolineare che tale finalità sicuramente caratterizza anche l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena.
Che dire di questa impostazione? Nei termini in cui è espresso nella sentenza 70/1994, il ragionamento della Corte non è condivisibile, perché il rinvio dell’esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p. significa, com’è facile arguire, che non c’è più una fase esecutiva in corso – tant’è vero che la libertà personale del condannato non è in alcun modo compressa[29] – per cui, senza ombra di dubbio, ci si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 27, comma 3, Cost.
Trattandosi di detenzione domiciliare in surroga, il discorso deve invece assumere cadenze diverse: infatti, considerato che tale misura non interrompe l’iter esecutivo, qualora si interpreti latamente la sentenza costituzionale 313/90 e si coltivi, quindi, l’idea che il principio del finalismo rieducativo permei di sé capillarmente la fase esecutiva, si potrebbe in teoria sostenere che anche la detenzione in surroga non è estranea all’ambito di operatività dell’art. 27, comma 3, Cost. Senonché, sebbene suggestiva, la tesi di una pervasiva incidenza in executivis del fondamentale principio della rieducazione suscita fondati dubbi circa la sua compatibilità con talune disposizioni della legge penitenziaria: aderendo ad essa, si dovrebbe, per esempio, riconoscere una valenza rieducativa anche ai brevi ed eccezionali permessi di uscita di cui all’art.30 ord. penit. Il che pare difficilmente sostenibile.
Sempre con riferimento alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., va aggiunto però che il dubbio appena superato può riproporsi qualora si correli questa disposizione con l’art.54 comma, 1 ord. penit., il quale stabilisce – senza alcuna distinzione fra le diverse species di detenzione domiciliare – che le riduzioni di pena previste dall’articolo in questione, siano concesse, sussistendone i presupposti, anche al condannato che stia espiando la pena nella sua abitazione o in un altro dei luoghi indicati nell’art. 47-ter, comma 1, ord. penit. Ma allora, se si riflette sul fatto che il presupposto per la concessione della liberazione anticipata è quello della «partecipazione all’opera di rieducazione», bisogna riconoscere, con la consapevolezza della non risolutiva robustezza di questa argomentazione, che non è così pacifica - come mostra di ritenere la Corte costituzionale – la conclusione secondo cui la custodia domestica disciplinata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. e la categoria della rieducazione ruotino indiscutibilmente su orbite separate. La cautela della Consulta avrebbe dovuto essere maggiore anche in considerazione del fatto che la Suprema corte ha non occasionalmente asserito che la detenzione domiciliare di cui ci si sta occupando «al pari delle altre misure alternative alla detenzione, ha come finalità il reinserimento sociale del condannato»[30].
Tutto questo premesso, si deve però riconoscere fondata la tesi, sostenuta – pressoché unanimemente - dalla dottrina[31], che riconduce la ragion d’essere della detenzione domiciliare in surroga all’esigenza di non disumanizzare l’espiazione della pena, e che esclude qualsiasi interferenza dell’art. 27, comma 3, Cost. con tale misura..
Non si può tuttavia fare a meno di sottolineare che il quesito proposto dai giudici a quibus implicava non già una risposta che si limitasse ad una telegrafica ricognizione della natura giuridica delle due misure extramurarie in discussione, ma che considerasse l’interrogativo sulla denunciata lesione della finalità rieducativa della pena nel contesto del meccanismo messo a punto dal d.l. 28/2020. Un meccanismo che comporta il rientro del condannato in carcere, quando viene riscontrata in un istituto la disponibilità di posti sanitariamente idonei. Non già tuttavia – se non del tutto casualmente – nel carcere dove costui stava espiando la pena, il quale dovrebbe coincidere col carcere più vicino alla sua residenza o a quella della famiglia, in conformità ai criteri forniti dagli artt. 14 comma 1 e 42 comma 2 ord. penit., bensì in un carcere dovunque ubicato[32], purché in grado di soddisfare l’esigenza di una collocazione adeguata dal punto di vista della protezione dal virus.
Anche a volere ipotizzare che il carcere di “vecchia” assegnazione non fosse quello individuato sulla scorta dei criteri dettati dal legislatore penitenziario, è difficile sostenere che - a prescindere dai condannati sottoposti al regime di cui all’art.41-bis ord. penit., per i quali l’esecuzione della pena è governata da regole tutt’affatto particolari – il passaggio ad una diversa struttura carceraria, scelta esclusivamente sulla base del parametro fornito dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, non incida negativamente sul percorso trattamentale del condannato e, quindi, sul suo processo di reinserimento sociale.
Pochi esempi, tra i molti disponibili, sono sufficienti ad avvalorare questo assunto. Si pensi al condannato che stava seguendo un corso scolastico o di addestramento professionale che non abbiano equivalenti nell’istituto di nuova destinazione; o al tempo che deve trascorrere prima che i componenti del gruppo di osservazione-trattamento acquisiscano una conoscenza non solo cartacea del nuovo arrivato, e siano quindi in grado di porre le premesse necessarie per l’avvio di un trattamento individualizzato, difficilmente coincidente, peraltro, con quello attuato nella precedente struttura. Quanto poi alla diversa ipotesi in cui il condannato fosse stato anteriormente ristretto in un carcere rispondente al criterio di territorializzazione della pena, che costituisce il caposaldo di ogni percorso trattamentale, le ripercussioni negative del ricominciamento sarebbero intuibilmente ancora più gravi.
Sembra quindi che sia concesso salire di tono rispetto alle critiche formulate relativamente ad altri profili della sentenza. Anche se la Corte – contrariamente a quanto qui si sostiene – avesse ritenuto di dovere escludere il contrasto della normativa impugnata con l’art.27, comma 3, Cost., non avrebbe dovuto essere tanto laconica. Più precisamente: non avrebbe dovuto dedicare al denunciato contrasto solo tre righe della motivazione.
* Ndr Sulla sentenza della Corte costituzionale in commento leggi anche La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20) di Stefano Tocci
[1] Nel testo ci si riferirà sempre all’art.2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 convertito con l. 25 giugno 2020, n.70. Vale la pena di precisare che una disposizione di analogo contenuto figurava nel d.l. 10 maggio 2020, n. 29 (art. 2). Tuttavia, in sede di conversione del d.l. 28/2020, il d.l.29/2020 è stato abrogato e il suo contenuto è transitato nella l. 70/200. Sull’art. 2 d.l. 29/2020, v., tra gli atri, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistemapenale.it, 5 giugno 2020; F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in Giustizia Insieme, 12 maggio 2020;
[2] Nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 si fa riferimento non solo ai condannati, ma anche agli internati. Si tratta di una delle ricorrenti sviste del legislatore, dal momento che l’internato non può beneficiare né del rinvio della esecuzione della pena detentiva, né della detenzione domiciliare in surroga.
[3] Gli articoli menzionati si riferiscono ai seguenti delitti: associazione sovversiva (art. 270 c.p.), associazione con finalità di terrorismo (art. 270-bis c.p.), associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare l’associazione mafiosa, delitti commessi con finalità di terrorismo, in base alla definizione di cui all’art. 270-sexies c.p..
[4] Vale a dire i condannati per un delitto di cui al primo periodo dell’art.4-bis, comma 1, ord. penit., nei confronti dei quali «vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva».
[5] Sul punto, cfr., volendo, F. Della Casa, L’intervento del d.l. 28/2020 sull’istruttoria dei permessi di necessità: un innesto sine causa e fuori asse rispetto al divieto di detenzione inumana, in sistema penale.it, 9 luglio 2020.
[6] Per quanto concerne la fonte che ha ricollegato la concessione delle misure extramurarie all’emergenza COVID, v. in particolare, il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (decreto “Cura Italia”), convertito con l. 24aprile 2020, n. 27; Per un’analisi di tale provvedimento, v., M. Ruaro, Le disposizioni relative all’esecuzione penale del d.l. “cura Italia”, in Cass. pen, 2020, p.2185 ss.; M. Peraldo, Licenze, permessi e detenzione domiciliare "straordinari": il decreto "ristori" (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137) e le misure eccezionali in materia di esecuzione penitenziaria, in sistemapenale.it,, 16 novembre 2020.
[7] Da non sottovalutare il fatto che i brevi intervalli temporali stabiliti nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 possono essere, in concreto, spazzati via grazie alla previsione, contenuta nel medesimo comma 1, in base alla quale la valutazione del magistrato di sorveglianza deve essere effettuata «immediatamente», nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture adeguate alle condizioni di salute del condannato.
[8] Il termine perentorio di trenta giorni è stato inserito in sede di conversione del d.l. 28/2020 e corrisponde ad un auspicio formulato dalla dottrina: v., in particolare, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistema penale.it, 5 giugno 2020, p. 11.
[9] Con riferimento alle pronunce più recenti, cfr., per la declaratoria di manifesta infondatezza, Corte cost. (ord.), 18 luglio 2003, n.257; Corte cost. (ord.) 15 gennaio 2003, n. 8.
[10] È il comma 4 dell’art. 47 ord. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale, la norma “madre” che disciplina la concessione in via di urgenza delle misure alternative alla detenzione: ad essa si rifanno sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit. per quanto concerne la detenzione domiciliare, sia l’art. 50, comma 6 (ult. periodo), ord. penit., relativo alla semilibertà. Per quanto concerne invece il rinvio dell’esecuzione delle pene detentive (nonché delle sanzioni sostitutive) e il relativo intervento in via provvisoria del magistrato di sorveglianza, bisogna fare capo all’art. 684, comma 2, c.p.p. Circa l’affermazione che non è ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza rigetta la richiesta di concessione della detenzione domiciliare in via provvisoria, dato che si tratta di provvedimento interinale, cfr. Cass. 21 giugno 2007, Missarelli, in CED 236879-01.
[11] Si tratta della l. 19 dicembre 2002, n. 277. Anteriormente a tale provvedimento sia per la concessione, sia per la revoca della liberazione anticipata era competente il tribunale di sorveglianza, il quale procedeva col rito di cui agli artt.666 e 678 c.p.p.
[12] Per tale raffronto, cfr. Mag. sorv. Spoleto 18 agosto 2020, in sistemapenale.it, 23 settembre 2020.
[13] Vale la pena di evidenziare altresì che, mentre nel procedimento per decreto il giudizio caratterizzato dal contraddittorio è eventuale, nel caso della procedura coniata dal legislatore del 2020 la seconda fase si instaura automaticamente, così che si può parlare di un procedimento connotato da un contraddittorio necessario.
[14] Cfr. Corte cost. (ord.), 5 dicembre 2003, n. 352. Per un commento, cfr. E. Esposito, Ordinamento penitenziario e liberazione anticipata, in Giur. cost., 2003, p.3659; A. Pulvirenti, Dal “giusto” processo alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. 283 ss.
[15] Questo limite si accentua, ovviamente, nell’ipotesi in cui, ai fini della revoca provvisoria, il magistrato di sorveglianza si attivi «immediatamente». V. supra, nota 8.
[16] Cfr. Cass. 24 giugno 2020, Cilio, in CED 279578-01; Cass. 8 maggio 2019, Capezzuto, in CED 276199-03; Cass., 16 marzo 2018, Tropea e altri, in CED 272542.
[17] L’acquisizione del parere del Presidente della giunta regionale, che a prima vista potrebbe sembrare incongruente, va ricollegata all’esigenza di un chiarimento circa la situazione epidemiologica sussistente nel territorio in cui si trova il carcere da prendere in considerazione per la nuova allocazione.
[18] In proposito, cfr. M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009, p. 401.
[19] G. Rossetto, sub art.185 disp. att. e coord., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Normativa complementare, vol. I, Torino, 1992, p.692 ss.
[20] L’art. 51-ter ord.penit. prevede che il magistrato di sorveglianza emetta un decreto motivato che può comportare, in caso di periculum in mora, il rientro in carcere del condannato. Di qui l’esigenza di non compromettere l’effetto sorpresa, sacrificando il quale l’interessato sarebbe messo in condizione di sottrarsi all’esecuzione della pena detentiva.
[21] Cfr. § 9.2 del considerato in diritto.
[22] Sull’importante tematica, v., diffusamente, G. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in sistemapenale.it ,19 maggio 2020, spec. p. 2.
[23] Corte cost. 3 marzo 1994, n. 70. Relativamente a questa sentenza, v. C. Fiorio, Libertà personale e dritto alla salute, Padova, 2002, p.141 ss. nonché E. Fassone, Corte costituzionale e AIDS: una conclusione infelice ma inevitabile, in Legislazione pen., 1996, p. 282; A. Margara, Normativa per i detenuti malati di AIDS: è per morire o per vivere?, in Quest. giust., 1995, p. 135.
[24] Ci si riferisce al d.l. 14 maggio 1993, n. 139 (conv. l. 14 luglio 1993, n. 222) e, più precisamente, all’art. 4, grazie al quale è stata disciplinata nell’art. 146, comma 1, c.p. una nuova ipotesi di rinvio obbligatorio di esecuzione della pena, concernente la «persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'articolo 286- bis, comma 1, del codice di procedura penale».
[25] Corte cost n. 70/1994, § 4 del considerato in diritto.
[26] ibidem
[27] ibidem
[28] Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, nella quale si afferma che il principio della rieducazione di cui all’art. 27, comma 3, Cost. deve permeare la pena ed essere rispettato a partire da «quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (§ 4 del considerato in diritto).
[29] Nel senso che al tribunale di sorveglianza non è consentito disporre una qualsiasi prescrizione all’atto della concessione del rinvio dell’esecuzione della pena, cfr. Cass. 9 novembre 1992, Molé, in CED n.192410; Cass. 27 novembre 1991, Alanpiù, in CED n. 189030-01.
[30] Così, Cass. 27 maggio 2008, Nunnari, in CED n. 240867-01; conf. Cass. 12 giugno 2000, Sibio, in CED 216912-01.
[31] Cfr. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, IXa, ed,, Milano,2010, p. 320; C.E.Paliero, Commento all’art.4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in Legislazione pen., 1998, 821; A. Pulvirenti, Le misure alternative alla detenzione, in P. Corso, Manuale della esecuzione penitenziaria, VIIa ed., Milano, 2019, p.324 conf. Cass.7 dicembre 1999, Saraco, in CED . 215203-01.
[32] Per un esempio, cfr. Cass. 20 novembre 2020, Furnari, massima n. 35772, dalla cui motivazione emerge che, in occasione del procedimento per la revoca della detenzione domiciliare nei confronti di un condannato precedentemente detenuto nella casa circondariale di Nuoro, è stata indicata dall’amministrazione penitenziaria, come carcere scelto per l’ulteriore fase di esecuzione della pena, la casa circondariale di Catanzaro.