Valparaiso, ricordo di Matilde e Pablo
di Paolo Spaziani
Da Santiago del Cile la baia di Valparaiso dista poco più di 100 chilometri.
Per andarvi si può prendere un autobus sull’Avenida Bernardo O'Higgins, nei pressi del Palacio de la Moneda. Inseguendo il sole al tramonto, il traffico dirada verso il cielo rosso del grande oceano, mentre l’odore del mare si impadronisce dei sensi e il rumore della metropoli cede il posto al silenzio degli aironi in volo.
La luminosa Avenida cittadina si spegne nella sonnolenta autopista costiera, ove il traffico, pur intenso nei fine settimana estivi, sembra progressivamente illanguidirsi, come a preconizzare il riposo delle vicine spiagge.
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Valparaiso non era tra le mie destinazioni; avevo viaggiato per il Pantanal brasiliano cercando più volte di raggiungere Corumbà, da dove avrei voluto rientrare a Bahia, per poi salutare il Brasile e tornare a casa.
Peraltro, Corumbà sembrava irraggiungibile, così Hans – che avevo conosciuto navigando lungo il fiume Paraguay, su un barcone diretto ad Asunción – mi aveva convinto ad andare in Cile.
Era un ragazzo svizzero-tedesco, di una ricchissima famiglia di Zurigo. Viveva di rendita e passava il tempo girando il mondo, particolarmente il Sud America.
In un primo momento aveva deciso di scrivere un libro sulla musica folk brasiliana e sull’onda di questa decisione aveva viaggiato per tutto il Nordeste del Brasile, dal Cearà al Maranhão, dallo Stato di Bahia al Pernambuco e al Sergipe.
Successivamente aveva concepito l’ambizioso progetto di scrivere un volume di archeologia: ma non gli interessavano i Maya o gli Inca, era piuttosto attratto dai Moai e dal mistero della civiltà scomparsa di una piccola isola, situata a circa 3.500 miglia al largo di Valparaiso.
Durante il viaggio mi aveva parlato dell’originario gruppo di donne e uomini che vi sarebbe giunto in canoa dalle Marchesi, solcando coraggiosamente l’oceano per miglia e miglia a bordo di fragili canoe.
Essi – mi disse – si riconoscevano in un unico capostipite, colui che li avrebbe guidati in quel mitico viaggio, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi fino a scolorarsi in una figura diafana: il leggendario Hotu-Matua.
Nell’ascoltarlo, mi pareva di ricordare quanto avevo letto nei manuali di diritto romano sulla distinzione tra familia proprio iure, familia communi iure e gens nella Roma più antica.
Il nucleo originario degli abitanti di quell’isola era quindi una “famiglia diacronicamente allargata”, collocabile concettualmente tra la gens e la familia communi iure romana, in cui il comune capostipite esisteva nella memoria delle persone, ma non era più certamente identificabile, se non nel ricordo, che annegava nella leggenda.
Sarebbe stata questa figura leggendaria ad ispirare i Moai: i grandi tutori dell’isola che, con il volto verso la preziosa terra e le spalle al mare, avrebbero protetto le persone dai pericoli dell’ignoto pelago, rendendo loro dolce quella terra preziosa.
Solo sette di essi – quelli dell’Ahu Akivi (il luogo dell’anima, l’ombelico della terra, la sede dello spirito) – avrebbero guardato verso il mare; perché nell’onirica visione del religioso Hotu Matu, l’anima della guida leggendaria sarebbe volata attraverso l’Oceano e, dopo avere avvistato l’isola, rientrata nel corpo, avrebbe inviato i più coraggiosi del gruppo, acciocché vi arrivassero per primi e attendessero gli altri. Così sette pionieri avrebbero raggiunto la preziosa terra in anticipo e sarebbero rimasti in attesa per accogliervi il re. Le sette statue rivolte verso il mare sarebbero state erette in loro memoria ed onore.
Valparaiso, dunque, non era una delle mete del nostro peregrinare, ma piuttosto un punto di partenza; il punto da dove avremmo fatto il gran salto nell’immensità del Pacifico; da dove avremmo raggiunto quel luogo così dimenticato dalla storia, eppure pieno di storia, da sembrare la porta di un’altra dimensione: un luogo chiamato Rapa Nui.
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Dal porto di Valparaiso la nave per l’Isola di Pasqua avrebbe viaggiato per dodici giorni. Ci avrebbe condotti al posto più remoto e isolato del pianeta. Distante quasi 4.000 chilometri dalle coste cilene e oltre 4.000 da Tahiti. Il luogo abitato più vicino – la romanzesca Pitcairn, l’isola dei discendenti degli ammutinati del Bounty – si sarebbe trovato a circa 2.000 chilometri.
All’ultimo momento rifiutai di imbarcarmi. Ero in viaggio da due mesi, avevo voglia di fermarmi e Valparaiso – luogo lirico per eccellenza, dove aveva riposato la sua tumultuosa anima e disteso le membra, stanche di una vertiginosa esistenza, uno dei miei poeti preferiti – mi sembrava il posto giusto per prendere una pausa.
Salutai Hans - ci dicemmo che ci saremmo reincontrati di nuovo, in futuro, in qualche angolo di mondo – e lo vidi sparire tra la folla nel porto.
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Nei giorni successivi percorsi la baia.
Nonostante l’impietoso incedere di un’edilizia selvaggia, essa non aveva perduto il suo fascino innato. Tra ripidi pendii e dolci declivi sabbiosi, l’azzurro del Pacifico penetrava con lingue profonde i promontori di roccia dura e le penisole friabili di arena rossa.
Come perle preziose, lungo la baia, risaltavano di uno splendore naturale inoffuscabile le spiagge di Renaca, di Cartagena, di Viña del Mar, e, più a sud, di Isla Negra.
Qui, a ridosso del mare, quasi protetta dal rumore delle onde, meta di ininterrotto pellegrinaggio, sorgeva, lunga e stretta, la modesta casa di Pablo Neruda, trasformata in un museo.
Le lunghe vetrate, che chiudevano i piccoli locali, quasi scavalcavano la scogliera protettiva. E mentre questa respingeva con fermezza paziente la spuma sferzante delle maestose onde oceaniche, quelle sembravano quasi invitarle ad invadere l’intimità delle stanze luminose e a travolgere i numerosi oggetti che vi erano ordinatamente contenuti.
L’immagine dell’Oceano che, come un amante temuto e desiderato, è, ad un tempo, attratto e respinto dalla piccola abitazione, colpisce oggi il visitatore prima e più di ogni altra cosa.
Quella stessa immagine, simbolo di grandezza e di violenza, di pericolo e di vitalità, dovette essere tenuta presente dal poeta quando scrisse uno dei più bei componimenti del Canto General: El Gran Océano.
Quella stessa immagine consente, oggi – credo –, di comprendere la poetica di Pablo Neruda, nel suo continuo transitare tra realismo e surrealismo.
L’oceano è il Foro esterno, la realtà, che può essere sia la realtà materiale, composta dai suoi elementi primordiali (terra, acqua, fuoco, aria) o meno primordiali (l’oceano, la montagna, la natura), sia la realtà politica e sociale (la libertà, il popolo, la dittatura, il regime, l’oppressione, la tirannia).
La piccola dimora e le sue vetrate sono il Foro interno, la sfera intima, lirica ed elegiaca, l’anima che alberga in ognuno, il regno dei sentimenti.
La realtà invade l’anima che in parte se ne difende in parte ne viene travolta. I sentimenti sono forgiati dalle sensazioni. L’empirismo di ciò che si prova determina il moto della coscienza che interiorizza la sensazione e la valuta come sentimento.
Questo, dunque, non è altro che l’interiorizzazione della realtà materiale, delle sensazioni, dei sensi; ma in tale interiorizzazione, la realtà materiale viene a perdere la consistenza di mondo inanimato, per elevarsi a entità panteistica, ad ordine spirituale.
L’oceano, penetrato nella piccola casa, non è più soltanto
la potenza distesa delle acque
quanto piuttosto
l’immota solitudine affollata di vite.
E l’onda non è solo
quella che frange le coste e genera
la pace di arenile che contorna il mondo
quanto piuttosto
tempo, forse, o calice colmo
di ogni movimento, unità pura
non sigillata dalla morte, verde viscere
della totalità bruciante.
Anche il sentimento dell’amore è forgiato dalla realtà dei sensi.
Nella poesia Due Amanti Felici, il 48° dei Cento Sonetti d’Amore, due amanti felici sono pane aria e vino, e si fondono in un unico aroma.
Essi
non hanno fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.
Nella poesia Corpo di Donna, componimento della raccolta giovanile Venti poesie d’amore e una canzone disperata, il corpo della donna amata è come la terra per il contadino.
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Nella poesia Quando morrò, 89° dei Cento sonetti, l’amore sopravvive alla morte se l’amante superstite continuerà ad udire lo stesso vento, a sentire lo stesso aroma del mare, a calpestare la stessa arena.
Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio la luce e il frumento delle tue mani amate
passare una volta ancora su di me la loro freschezza,
sentire la soavità che cambiò il mio destino.
Voglio che tu viva mentr’io, addormentato, t’attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l’aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l’arena che calpestammo.
L’amore non è per Neruda un’avventura intellettuale. Egli non conosce un concetto di amore. L’amore è metamorfosi incompiuta delle sensazioni nei sentimenti. È trasfigurazione del senso nell’interiorità dell’elegia.
Dunque, non assume dimensioni filosofiche, non è domanda, né risposta, non è sillogismo, non è esercizio di logica. È un insieme disordinato di odori, di sapori, di visioni, di contatti, di suoni. Il sentimento nasce dalla sensazione, esiste in quanto c’è quella.
Peraltro, la sensazione è la sua matrice, ma non il suo limite. La morte della sensazione non determina quella del sentimento. Pur generato dalla sensazione, il sentimento vive di vita propria, si affranca dal senso e diviene afflato di eternità.
Amore mio, se muoio e tu non muori,
amore mio, se muori e io non muoio,
non concediamo ulteriore spazio al dolore:
non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto.
Polvere nel frumento, sabbia tra le sabbie,
il tempo, l’acqua errante, il vento vago,
ci ha trasportato come grano navigante.
Avremmo potuto non incontrarci nel tempo.
Questa prateria in cui ci siamo trovati,
oh piccolo infinito! la rendiamo.
Ma questo amore, amore, non è finito,
così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra
È l’attitudine del sentimento, pur generato dal senso, a rivestirsi di infinito, a sfidare i limiti del tempo.
E nel sonetto successivo, il 93°, l’amore vince la fine consentendo agli amanti di vivere per sempre, confusi nell’eternità di un bacio.
Se un giorno il tuo petto si arresta,
se qualcosa cessa d'andar ardendo per le tue vene,
se la voce nella tua bocca esce senz'essere parola,
se le tue mani dimenticano di volare e s’addormentano.
Matilde, amore, lascia le tue labbra socchiuse
perché quell’ultimo bacio deve durare con me,
deve restare immobile per sempre sulla tua bocca
perché anche così m'accompagni nella mia morte.
Io morirò baciando la tua pazza bocca fredda,
abbracciando il grappolo perduto del tuo corpo,
cercando la luce dei tuoi occhi chiusi.
Così quando la terra riceverà il nostro abbraccio
andremo confusi in una sola morte
a vivere per sempre l’eternità di un bacio.
“Se un giorno il tuo petto si arresta”.
Leggevo questo sonetto, mentre, salito al primo piano della casa, avevo abbandonato i tanti, forse troppi, oggetti del piano inferiore e mi ero rifugiato nella silenziosa camera da letto, donde si udiva l’Oceano ritmicamente infrangersi sulla barriera delle rocce sottostanti.
Lo leggevo mentre immaginavo Matilde e Pablo sotto le coperte, dondolanti al mormorio della risacca, accompagnati, nell’amore e nel riposo, nella veglia e nel sonno, nelle parole e nel silenzio, dalla presenza infinita del Pacifico.
Lo leggevo quando, voltato l’angolo del giardino della villa, proprio di fronte all’oceano, scoprii la lapide nera dei due amanti, con i loro nomi lievi incisi: Matilde Urrutia e Pablo Neruda.
Non distante, eppure lontana dalle molte cose della casa.
Separata dai numerosi oggetti del passato.
Quasi sospesa come in un luogo e un tempo immutabili ed eterni.
Un tempo presente come le persone.
Come l’amore che le unì.
Immagine: Porto di Valparaíso via Wikimedia Commons.