La rettificazione dell’identità anagrafica di genere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
Valentina Capuozzo
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina convenzionale – 3. Il percorso giurisprudenziale della Cedu – 3.1. La cautela iniziale – 3.2. La tutela per la transizione binaria – 3.3. La recente chiusura sul terzo genere – 5. Conclusioni.
1. Premessa
Negli ultimi decenni, la questione della rettificazione anagrafica del genere è venuta assumendo una rilevanza sempre crescente per il diritto, di pari passo alle rinnovate istanze di tutela dell’autodeterminazione individuale per ciò che riguarda la scelta dell’identità sessuale[1].
Si può parlare, a tale proposito, di un’evoluzione del diritto all’identità personale, che richiede agli ordinamenti statali un ripensamento delle legislazioni e delle procedure amministrative di identificazione nei registri civili, per rispondere alle istanze di quanti non si riconoscono nell’attribuzione originaria del sesso anagrafico.
Si tratta di un nodo giuridico di particolare complessità, in cui si intrecciano questioni relative insieme al principio di uguaglianza, alla libera determinazione dell’identità personale e alle tradizioni normative degli Stati, che, per essere comprese appieno, richiedono una breve premessa terminologica.
In primo luogo, occorre spiegare la differenza tra sesso e genere. Con il termine sesso, infatti, ci si riferisce a una condizione biologica, diversamente dal genere che indica invece un concetto meta-biologico[2]. Secondo la medicina, poi, in ciascun individuo si distinguono tre sessi: quello fenotipico, che si manifesta a livello morfologico; quello cromosomico (o genotipico), identificato con l’ultima coppia di cromosomi del cariotipo umano, vale a dire con le coppie che generalmente sono XX o XY; e il sesso psichico (o gender), determinato secondo l’autopercezione, concetto cui si riferisce l’identità di genere[3].
I tre sessi possono essere allineati o meno e il disallineamento può declinarsi in chiave binaria o non binaria, quando l’identità percepita non rientra nell’alternativa maschile/femminile, riflettendo nuove forme di soggettività[4].
È tale disallineamento, definito come disforia e incongruenza di genere[5], che fa sorgere la necessità di una rettificazione dei registri civili. Il problema giuridico si pone a partire dal momento attributivo del sesso anagrafico, che avviene alla nascita dell’individuo, quando è possibile considerare soltanto sesso fenotipico e cromosomico, poiché il sesso psichico si manifesta più tardi, con il progressivo sviluppo della percezione del sé[6].
In questi casi, la tutela dell’autodeterminazione individuale richiederebbe un adeguamento della registrazione anagrafica originaria, che tuttavia non sempre è prevista dalle normative statali. A tale proposito, gli studi comparativi operano una classificazione degli ordinamenti utilizzando come parametro, da un lato, il ruolo dell’autorità pubblica e dell’individuo nel riconoscimento del genere, e, dall’altro, la forma binaria o non binaria della scelta[7]. In applicazione di tali criteri si distinguono quattro modelli. Il più restrittivo per l’autodeterminazione individuale è il modello binary ascriptive, per cui il genere è attribuito dall’autorità pubblica solo in forma binaria. Anche nel modello non binary ascriptive è l’autorità pubblica ad attribuire il genere, ma sia in forma binaria sia non binaria. Nel sistema binary elective è l’individuo a scegliere, secondo l’alternativa maschile/femminile. Il modello nonbinary elective è invece quello più elastico, che attribuisce la scelta del genere sia in forma binaria sia non binaria[8].
L’appartenenza di ciascuno Stato all’uno o all’altro modello può cambiare a seconda dell’evoluzione del quadro normativo ordinamentale, che in effetti si presenta piuttosto mutevole trattandosi di una materia profondamente influenzata dai progressi della scienza e dal variare della percezione psico-sociale[9].
In questa cornice, il presente contributo intende analizzare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che si caratterizza per un approccio prudente, considerevolmente sensibile al requisito del consensus europeo. Il lavoro si sofferma in particolare sulle tappe che, in caso di transizione binaria, hanno segnato la progressiva affermazione del diritto alla rettificazione dell’identità di genere, a fronte della recente chiusura mostrata rispetto alla registrazione anagrafica di un terzo genere. L’analisi si concentra dapprima sulle norme convenzionali utilizzate dalla Corte di Strasburgo nell’evoluzione della sua giurisprudenza (par. 2) e, successivamente, sull’esame dei casi più significativi che ne hanno scandito lo sviluppo (par. 3).
2. La disciplina convenzionale
La giurisprudenza della Cedu sulla rettificazione del sesso anagrafico può considerarsi un esempio di interpretazione evolutiva del diritto convenzionale[10], che ha fondato le esigenze di tutela delle persone con disforia di genere innanzitutto sul principio di uguaglianza e pari opportunità e sul connesso divieto di discriminazione[11].
In tal senso, le norme di riferimento sono l’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e il Protocollo addizionale n. 12 alla CEDU, che impongono agli Stati l’obbligo di garantire il godimento dei diritti convenzionali senza discriminazioni, inclusa quella basata sul sesso.
Rettificare l’identità anagrafica in conformità a quella percepita dall’individuo significa inoltre tutelarne il diritto alla salute, inteso in senso dinamico come completo benessere fisico, psicologico e sociale, compromesso dall’ansia e dalla sofferenza derivanti dalla discrepanza tra identità biologica e giuridica[12].
Anche l’articolo 12 CEDU, che garantisce il diritto al matrimonio, è stato utilizzato come parametro dalla Corte di Strasburgo. Nei sistemi giuridici in cui questo è vincolato al sesso anagrafico, infatti, l’impossibilità di rettificare tale dato finisce con l’impedire il libero accesso all’istituto matrimoniale, negando un diritto fondamentale sancito dalla Convenzione.
Un ruolo centrale è poi ricoperto dall’articolo 8 CEDU, che tutela il diritto alla vita privata e familiare. Come si vedrà, la Cedu ha ricondotto i diritti delle persone con disforia di genere al suo ambito applicativo per l’ampiezza del concetto di vita privata, che si riferisce non solo all’integrità psico-fisica della persona, ma anche all’identità sociale e di genere. In questo senso, la Corte ha espresso un orientamento ormai consolidato per cui la sfera sessuale, comprensiva dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, rientra tra i diritti protetti dall’articolo 8 CEDU in quanto definisce l’identità personale, così gradualmente riconoscendo l’importanza dell’identità di genere come parte essenziale dell’individualità della persona[13].
3. Il percorso giurisprudenziale della Cedu
3.1. La cautela iniziale
La giurisprudenza della Cedu in materia di rettificazione dell’identità anagrafica di genere si è inizialmente sviluppata con un approccio prudente, in linea con una concezione restrittiva del ruolo della Corte rispetto al margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri[14]. Per i primi anni, infatti, la Corte ha escluso che la mancata rettificazione dei documenti di stato civile potesse configurare una violazione della Convenzione, ritenendo la materia rientrante nella discrezionalità degli ordinamenti nazionali.
Questa impostazione iniziale trova il suo fondamento nel complesso bilanciamento sotteso alla questione, che vede la Corte tesa tra l’esigenza di tutelare l’identità dei soggetti con disforia di genere e quella di garantire la certezza del diritto cui sono improntate le tradizioni giuridiche statali.
Molto indicative, in questa prima fase di cautela, sono le sentenze Rees c. Regno Unito del 1986 e Cossey c. Regno Unito del 1990, che hanno visto la Cedu decidere su un caso di transessualismo, vale a dire una discrasia tra sesso fenotipico e sesso psichico che induce l’individuo a intraprendere un percorso di “trasnsito”, per mezzo di interventi chirurgici o trattamenti ormonali[15]. Secondo questo primo orientamento prudente, è il margine degli Stati a prevalere sul disagio di non poter adeguare i documenti anagrafici alla nuova identità di genere, in ragione delle significative implicazioni sociali e legislative legate all’obbligo di riconoscimento[16].
Vero è, però, che con il progressivo mutamento del sentire sociale e l’emergere di nuove evidenze scientifiche circa la discrasia tra sesso e genere, l’approccio della Corte di Strasburgo ha sin da subito mostrato un’evoluzione. Nel 1992, con la sentenza B. c. Francia[17], la Cedu ha utilizzato per la prima volta il parametro dell’articolo 8 della Convenzione. A partire da questa pronuncia, anch’essa resa a proposito di un caso di transessualismo, seppure con un andamento inizialmente ondivago[18], l’identità o l’identificazione sessuale, il nome, l’orientamento e la vita sessuale sono stati progressivamente ricondotti sotto l’ombrello dell’articolo 8 CEDU[19].
Nonostante tale evoluzione, in questa prima fase di cautela la Cedu si limitava a imporre agli Stati la cosiddetta “piccola soluzione”, che garantisce il diritto al cambiamento del nome, lasciando invece all’apprezzamento discrezionale degli Stati il riconoscimento giuridico del mutamento dei caratteri sessuali, la cd. “grande soluzione”[20].
Pur mantenendo un atteggiamento prudente, tuttavia, si può osservare che la Corte già mostrava segnali di apertura. Negli stessi casi Rees c. Regno Unito e Cossey c. Regno Unito, pur respingendo le richieste dei ricorrenti, la Cedu ha riconosciuto che il progresso scientifico e l’evoluzione del sentire sociale rappresentano fattori determinanti per aggiornare l’interpretazione delle disposizioni convenzionali[21], riflettendo una sensibilità crescente verso le istanze di tutela delle persone con disforia di genere e ponendo le basi per un graduale cambiamento giurisprudenziale che troverà compimento negli anni successivi.
3.2. La tutela per la transizione binaria
È la sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito del 2002, anch’essa relativa a un caso di transessualismo, a rappresentare il momento di svolta per la giurisprudenza di Strasburgo. In tale pronuncia, infatti, la Corte riconosce per la prima volta che l’articolo 8 della Convenzione impone agli Stati un’obbligazione positiva di garantire il pieno riconoscimento giuridico del sesso di riassegnazione per le persone transessuali.
La vicenda sottesa alla decisione riguardava una persona che, pur avendo completato l’iter chirurgico di transizione da uomo a donna e vivendo come tale nella società, continuava a essere considerata di sesso maschile dall’ordinamento giuridico del Regno Unito, con tutte le conseguenze discriminanti e limitative che tale situazione comportava.
La Corte, nel dare seguito alle aperture già precedentemente manifestate, riscontra una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, affermando che il mancato riconoscimento giuridico dell’identità di genere dopo la transizione lede il rispetto della dignità e libertà umana, rappresentando un’interferenza dello Stato nella vita privata dell’individuo, atta a generare una condizione di vulnerabilità, umiliazione e stress per la persona interessata. Particolarmente significativa è la parte in cui la Corte argomenta circa l’incoerenza di una legislazione che, da un lato, consente interventi chirurgici e trattamenti di riassegnazione del sesso, ma, dall’altro, nega il pieno riconoscimento giuridico delle loro conseguenze, affermandone il contrasto con i principi della Convenzione[22].
La portata innovativa della sentenza Goodwin riguarda poi l’interpretazione dell’articolo 12 CEDU, relativo al diritto al matrimonio. Per la prima volta, la Cedu riconosce che le persone transessuali hanno il diritto di contrarre matrimonio conformemente alla loro nuova identità di genere, superando l’interpretazione tradizionale che collegava rigidamente il matrimonio al sesso attribuito alla nascita[23].
A seguito della sentenza Goodwin, altre pronunce hanno consolidato il riconoscimento del diritto alla rettificazione dell’identità anagrafica di genere quale componente essenziale del diritto al rispetto della vita privata ex articolo 8 della Convenzione. Tra queste, la sentenza Van Kück c. Germania del 2003, nell’ambito di un contenzioso assicurativo, ha precisato che il diritto delle persone a essere riconosciute nella propria identità di genere rappresenta uno degli aspetti fondamentali dell’autodeterminazione personale[24].
Un ulteriore sviluppo si è avuto con la sentenza A.P. Garçon e Nicot c. Francia del 2017. In questo caso, la Corte si è pronunciata contro la legislazione francese che subordinava la rettificazione delle voci relative al sesso e al nome nei registri di stato civile a interventi chirurgici o trattamenti medici idonei a causare sterilità permanente. La Corte ha stabilito che prevedere tale requisito viola l’articolo 8 CEDU poiché impone condizioni invasive e lesive della dignità umana per il riconoscimento giuridico del genere, così interferendo in misura sproporzionata con la vita privata della persona[25].
Degna di nota è poi la sentenza S.V. c. Italia del 2018, che ha censurato la rigidità procedurale della normativa italiana secondo la quale non era possibile ottenere la modifica del nome sui documenti prima del completamento definitivo della transizione con intervento chirurgico. Tale procedura, lasciando la ricorrente in una condizione di disagio e vulnerabilità per il limbo sociale cui era costretta, è stata ritenuta dalla Cedu incompatibile con l’obbligazione positiva dello Stato di garantire il rispetto della vita privata[26].
L’obbligo statale di prevedere procedure rapide, trasparenti e accessibili per il riconoscimento legale dell’identità di genere è stata poi oggetto, più recentemente, delle pronunce X c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia del 2019 e A.D. e altri c. Georgia 2022. In entrambi i casi, la Corte ha ribadito che la mancanza di strumenti adeguati a livello nazionale per consentire il cambiamento di genere anagrafico costituisce una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, confermando l’obbligo positivo di predisporre procedure adeguate a garantire una tutela effettiva e non discriminatoria[27].
3.3. La recente chiusura sul terzo genere
Posta innanzi al problema giuridico della registrazione anagrafica di un terzo genere, invece, la Cedu è ritornata su una posizione più cauta. La vicenda, decisa con la sentenza Y. c. Francia del 2023, riguardava un caso di intersessualismo, vale a dire una divergenza del sesso fenotipico o genotipico per ermafrofitismo o variazioni cromosomiche[28].
In particolare, si trattava di una persona che, pur essendo nata con caratteri sessuali ambigui, era stata registrata alla nascita come di sesso maschile in base al criterio di prevalenza, ma che, non identificandosi né come uomo né come donna, contestava la violazione dell’articolo 8 della Convenzione a seguito del rifiuto dello Stato francese di rettificare il proprio atto di nascita con la dizione “neutre” o “intersexe”[29].
In questo caso, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione da parte dello Stato francese del diritto al rispetto della vita privata tutelato dall’articolo 8 CEDU, argomentando la decisione in termini che evidenziano una posizione di cautela rispetto alla questione del riconoscimento giuridico delle identità non binarie.
L’iter logico seguito dalla Corte si articola in più passaggi. In primo luogo, i giudici di Strasburgo rilevano che il ricorso non concerne l’inadempimento dell’obbligazione negativa di non ingerenza dello Stato nel diritto alla vita privata della ricorrente, quanto piuttosto l’inadempimento di un’obbligazione positiva in capo all’ordinamento, che quindi gode di un ampio margine di apprezzamento[30].
La Corte, poi, osserva che è a causa di una lacuna del diritto che non può essere rilasciato il documento corrispondente al genere della ricorrente. Lacuna che, tuttavia, può essere colmata soltanto dal legislatore nazionale e non dalla Cedu, occorrendo invero una valutazione sulle modifiche ordinamentali necessarie, oltreché un bilanciamento con gli altri interessi generali dello Stato[31]. A tale proposito, la Corte ricorda che la Convenzione è uno strumento sussidiario e che, in materia di politica generale di un ordinamento, va rispettato il margine di discrezionalità della decisione politica statale[32].
La Cedu osserva inoltre che la maggioranza degli Stati contraenti della Convenzione continua a prevedere un sistema binario per l’identificazione del sesso negli atti di nascita e nei documenti ufficiali, senza ammettere opzioni ulteriori. Al momento soltanto cinque degli Stati membri (Germania, Austria, Islanda, Paesi Bassi e Malta) consentono di indicare, sull’atto di nascita, un genere diverso rispetto all’alternativa maschile/femminile[33]. Quindi, la sentenza conclude che non può dirsi ancora esistente un consensus europeo favorevole alla registrazione non binaria.
Un altro elemento di rilievo è quello relativo agli interessi pubblici coinvolti, quali la certezza delle relazioni giuridiche e la sicurezza dei registri dello stato civile. Sebbene infatti la ricorrente non reclami il riconoscimento di un diritto generale alla registrazione anagrafica del terzo genere, ma solo la rettificazione del proprio stato civile, inevitabilmente questo richiederebbe allo Stato francese di modificare in tal senso tutto il suo diritto interno, scelta che la Cedu ha ritenuto appartenente alla sola discrezionalità del decisore politico statale.
4. Conclusioni
Riannodando le fila del discorso, si può dire che lo stato dell’arte della giurisprudenza di Strasburgo evidenzia una differenza notevole tra i passi avanti compiuti nella direzione di una tutela piena per la registrazione anagrafica della transizione binaria di genere, rispetto alla prudenza mostrata a proposito del non binarismo.
Questa cautela ha suscitato ampio dibattito. Si è parlato in proposito di un’eccessiva timidezza della Cedu nell’affrontare una questione così complessa, ma allo stesso tempo cruciale per la tutela dell’identità personale[34].
Nella sentenza Y. c. France, tuttavia, non sembrano mancare segnali di apertura che potrebbero indicare successivi revirements della Corte di Strasburgo. Il riferimento è alle argomentazioni che si leggono nella sentenza a proposito della Convenzione come strumento vivente, da interpretare e applicare alla luce delle condizioni esistenti. Tali considerazioni, analoghe a quelle sviluppate sul tema della transizione binaria, hanno già segnato un preludio a cambiamenti nella giurisprudenza della Cedu[35], la quale sembra orientata ad attendere ulteriori evoluzioni del diritto nazionale.
Sembra dunque non azzardato prevedere che non si tratta dell’ultima parola dei giudici di Strasburgo in materia di terzo genere, ma del primo passo verso un ampliamento di tutela che, tuttavia, per le notevoli implicazioni interne sugli ordinamenti, chiede ai legislatori nazionali un’importante riflessione sul metodo di riconoscimento delle persone.
[1] Si v. sul punto M.X. Catto, S. Osella, The Sexed Subject, in The Cambridge Companion to Gender and the Law, 2023, pp. 25 e ss.; R. Rubio-Marín, S. Osella, El nuevo derecho constitucional a la identidad de género entre la libertad de elección, el incremento de categorías y la subjetividad y fluidez de sus contenidos. Un análisis desde el derecho comparado, in Revista española de derecho constitucional, 40, n. 118/2020, pp. 45 e ss.; P. Valerio, P. Marcasciano, C. Scandurra, Una visione psico-sociale sulle varianze di genere: tra invisibilità, stima e risorse, in Rivista di sessuologia, gennaio 2016, pp. 23 e ss.
[2] Cfr. L. Palazzani, Identità di genere come problema biogiuridico, in F. D’Agostino (a cura di), Identità sessuale e identità di genere, Milano, 2012, 8 ss. Si v. anche A. Astone, Il controverso itinerario dell’identità di genere, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 2/2016, pp. 305 e ss.; G. Baldini, Riflessioni di biodiritto. Profili evolutivi e nuove questioni, Wolters-Kluver, Milano, 2019, pp. 243 e ss.; L.P. Martina, La prospettiva di genere. Un processo di normativizzazione politica mondiale, Aracne Editrice, Roma, 2017, p. 19; E. Ruspini, Le identità di genere, Roma, Carocci, 2023, p. 30.
[3] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, in GenIUS, n. 1/2018, p. 31.
[4] Si v. L. Palazzani, Identità di genere, cit.; C. Richards, W.P. Bouman, L. Seal, M.J. Barker, T.O Nieder, G.T Sjoen, Non-binary or Genderqueer Genders, in International Review of Psychiatry, n. 28/2016, pp. 95 e ss.
[5] La disforia di genere (gender dysphoria) è la classe diagnostica indicata dall’attuale versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), che definisce la condizione di malessere vissuto dall’individuo a causa del disallineamento tra identità di genere e sesso attribuito alla nascita, depatologizzandola rispetto al passato, quando veniva invece rubricata come un disordine dell’identità di genere (gender identity disorder). L’incongruenza di genere (gender incongruence) è la classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità nell’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases (ICD-11), definita come una marcata e persistente incongruenza tra il genere sperimentato da un individuo e il sesso attribuito. Per un approfondimento, si v. ex aliis C. Richards, W.P. Bouman, L. Seal, M.J. Barker, T.O Nieder, G.T Sjoen, Non-binary or Genderqueer Genders, in International Review of Psychiatry, n. 28/2016, pp. 95 e ss.
[6] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 31 e ss.
[7] Cfr. S. Osella, R. Rubio-Marín, Gender Recognition at The Crossroads: Four Models and The Compass of Comparative Law, in International Journal of Constitutional Law, 2023, vol. 21, n. 2, pp. 574 ss.
[8] Ivi, p. 577 “Our argument departs from two basic premises. First, legal systems normally provide two legal genders or more. Gender recognition, therefore, may take a binary or a nonbinary form, depending on the number of gender options given in a specific jurisdiction. Second, legal identity can either be determined by the concerned person or by a third party. Recognition may thus be granted on the basis of self-determination (elective form), without any requirements, or on the basis of the fulfillment of certain preconditions (ascriptive form), such as conforming to medical or behavioral standards that a third party must certify. We contend that, at the intersection of these two axes, four main models of gender recognition can be identified: ascriptive binary, ascriptive nonbinary, elective binary, and elective nonbinary. These axes of classification rely on two central demands of trans and nonbinary advocacy—namely, the nonbinary option and gender self-determination. At a deeper level, these axes also relate to central issues discussed in queer theory, including the gender binary, and the understanding of gender as a system of norm production”.
[9] Cfr. sul punto P. Passaglia (a cura di), Appunto recante la panoramica degli ordinamenti nei quali è ammessa la registrazione del genere non binario, Com. 322, aprile 2024, predisposto dal Servizio Studi, Area di diritto comparato, della Corte costituzionale italiana, e reperibile al seguente indirizzo web: https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/comp-322-genere-non-binario-1_20240930145106.
[10] Cfr. sul punto A.C. Visconti, La disforia di genere nel prisma della giurisprudenza europea, in Revista Brasileira de Direito Animal, n. 2/2024, p. 10.
[11] Si v. S. Whittle, Respect and Equality: Transsexual and Transgender Rights, Cavendish, London, 2002.
[12] Cfr. A. Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, Milano, 2013, pp. 216 e ss.
[13] Tra le diverse pronunce si v. in part. Cedu, Van Kück c. Germania del 12 giugno 2003, par. 69; K.A. e A.D. c. Belgio del 17 febbraio 2005, parr. 78-79; Y.Y. c. Turchia del 10 marzo 2015, par. 56; A.P. Garçon and Nicot c. Francia del 6 aprile 2017, par. 92.
[14] Cfr. in part. Cedu, sentt. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986 e Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990.
[15] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 37 e ss.
[16] Cfr. Cedu, sent. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986, par. 35; sent. Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990, par. 40 ove la Corte afferma che in mancanza di significativi progressi scientifici l’intervento di riattribuzione di sesso non comporta l’acquisizione di tutte le caratteristiche biologiche dell’altro sesso.
[17] Cedu, sent. B. c. Francia, del 25 marzo 1992.
[18] Si v. Cedu, sent. Sheffield e Harsham c. Regno Unito, del 30 luglio 1998, sebbene con alcune partly dissenting opinions, su cui cfr. A.C. Visconti, La disforia di genere…, cit., p. 11.
[19] Cfr. in part. Cedu, sentt. Van Kück c. Germania, del 12 giugno 2003; Sclumpf c. Svizzera, dell’8 gennaio 2009; Y.Y. c. Turchia, del 10 ottobre 2018.
[20] Si v. sul punto S. Patti, Il transessualismo tra legge e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e delle Corti costituzionali), in Nuova giur. civ. comm., 2006, pp. 143 e ss.
[21] Cfr. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986, par. 47 e Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990, par. 42.
[22] Cedu, sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito, dell’11 luglio 2002, par. 77 e 78.
[23] Ivi, par. 98. Per un approfondimento sul punto, cfr. A.C. Visconti, La disforia di genere…, cit., p. 10.
[24] Cedu, sent. Van Kück c. Germania, del 12 giugno 2003.
[25] Cedu, sent. A.P. Garçon e Nicot c. Francia, del 6 aprile 2017. Sulla questione della subordinazione della rettificazione dell’attribuzione di sesso a una condizione di infertilità permanente, si v. amplius A. Cordiano, La Corte di Strasburgo (ancora) alle prese con la transizione sessuale. Osservazioni in merito all’affaire Y.Y. c. Turquie, in Nuova giur. civ. comm., 2015, pp. 502 e ss.
[26] Cedu, S.V. c. Italia, dell’11 ottobre 2018, in part. parr. 57 e 72.
[27] Cedu, sentt. X c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, del 17 gennaio 2019, par. 70; A.D. e altri c. Georgia, del 1° dicembre 2022, par. 76.
[28] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 37 e ss.
[29] Si tratta peraltro della seconda volta in un lasso di tempo limitato che la Cedu viene posta dinanzi a un caso riguardante la tutela delle persone intersessuali in Francia. Il riferimento è al caso M c. Francia del 26 aprile 2022, dichiarato tuttavia inammissibile poiché non erano stati esperiti tutti i gradi di giudizio interni, quindi non pronunciandosi nel merito della questione. Sul punto cfr. F. Brunetta D’Usseaux, Le persone intersessuali e il terzo genere: ciascuno Stato Membro può procedere al proprio ritmo, in DPCE online, n. 2/2023, pp. 2299 e ss.
[30] Cedu, sent. Y. c. France, del 31 gennaio 2023, par. 69.
[31] Ivi, par. 72.
[32] Sul punto cfr. V. Casillo, Cambio del marcatore di genere per persona intersex e art. 8 CEDU, in Giurisprudenza italiana, n.3/2023, p. 521.
[33] Si v. amplius D. Ferrari, F. Brunetta D’Usseaux, La condizione intersessuale dalla “normalizzazione” alla dignità? Linee di tendenza dal diritto internazionale alla Corte costituzionale tedesca, in GenIUS, 2018, pp. 125 e ss.
[34] Cfr. L. Aït Ahmed, La Cour européenne face au sexe neutre: les contorsions et l’embarras, in Rev. droits et libertés fondamentaux, 2023.
[35] F. Brunetta D’Usseaux, Le persone intersessuali e il terzo genere, cit., p.2304; M. Brillat, Mention «sexe neutre»: la CEDH se prononce, que faut-il retenir?, in Dalloz Actualité, 9 febbraio 2023.