Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta.
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione. – 2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione. -3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata. – 4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.. -5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte. – 6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza. – 7. In sintesi.
1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione
Nel 2012 una società immobiliare presenta al Comune di Termoli un progetto di recupero di interventi edilizi abusivi ai sensi della l. reg. Molise 14 maggio 1985 n. 17 per una area della quale la stessa società si era resa promissaria acquirente.
A fronte dell’inerzia del Comune, nel 2014 la società propone ricorso ex art. 117 c.p.a.. Il Tar Molise, accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, ordina al Comune di determinarsi sull’istanza e nomina un commissario ad acta, che si sarebbe insediato, nel caso in cui l’inerzia si fosse protratta oltre il termine assegnato dal giudice.
Scaduto il termine, il Commissario ad acta inizia la sua attività convocando una conferenza di servizi per l’esame della domanda.
A distanza di qualche mese, il Consiglio comunale dell’ente delibera di non potersi procedere all’intervento di recupero dell’insediamento edilizio abusivo per assenza dei presupposti e, con successivo atto, respinge l’istanza della società.
Su questa vicenda sostanziale si innestano tre sentenze del Tar Molise. Con la prima (n. 104/2017), il giudice di primo grado, adito con ricorso ex art. 29 c.p.a., dichiara nulli gli atti adottati dal Consiglio comunale oltre i termini assegnati alla amministrazione per provvedere e addirittura dopo l’insediamento del Commissario. La seconda (n. 469/2017) rigetta il reclamo proposto dal Comune avverso la determinazione con la quale il Commissario aveva individuato l’area della quale la società era divenuta promissaria acquirente tra quelle suscettibili di interventi edilizi di recupero, semmai annullabile dall’amministrazione comunale in autotutela. La terza (n. 287/2019) rigetta il ricorso contro la delibera comunale di annullamento della determina del Commissario ad acta trattandosi di atto amministrativo posto in essere da organo della p.a. che agisce quale sostituto dell’amministrazione competente e dunque rimovibile in autotutela.
Riuniti gli appelli rispettivamente proposti dal Comune e dalla società immobiliare avverso le sentenze n. 104/2017 e 287/2019, la Sezione IV del Consiglio di stato, con ordinanza n. 6925/2020, rimette all’Adunanza plenaria il quesito se, nel giudizio proposto avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione su una istanza del privato, la nomina del commissario ad acta, disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., o il suo insediamento, comportino per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il silenzio la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza ed il quesito, rispetto al primo conseguenziale, del regime giuridico dell’atto emanato tardivamente dall’amministrazione.
L’ordinanza richiama, con dovizia di precedenti, le tre letture proposte dalla giurisprudenza teorica e pratica: a) la nomina del commissario ad acta segnerebbe il limite oltre il quale verrebbe meno il potere-dovere di provvedere dell’amministrazione; b) il c.d. esautoramento dell’organo inottemperante (o inadempiente, ove si verta nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale o dopo il suo insediamento; c) infine la competenza commissariale sarebbe in ogni caso concorrente con quella dell’amministrazione la quale resterebbe titolare del potere di provvedere anche dopo la scadenza del termine fissato dal giudice e dopo la nomina/insediamento del commissario.
Quanto al regime giuridico dell’atto tardivamente adottato dall’amministrazione istituzionalmente competente, la Sezione afferma di non poter in ogni caso condividere la tesi della nullità del provvedimento posto in essere dall’amministrazione dopo la nomina o l’insediamento del commissario. A tale conclusione osterebbe la lettera dell’art. 21septies della l. 241 del 1990 che è chiara nel comminare la nullità nel solo caso del “difetto assoluto di attribuzione”. Nel caso dell’atto tardivo, il potere-dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento sussiste invece senz’altro ed è anzi ribadito dall’ordine del giudice. Dunque pure a voler ammettere la natura perentoria del termine impartito da giudice e l’effettiva sostituzione dell’organo inadempiente da parte del commissario, il provvedimento adottato oltre il termine non sarebbe nullo ma semmai annullabile nella ordinaria sede di giurisdizione di legittimità, a seguito del relativo tempestivo ricorso ex art. 29 c.p.a..
La tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario solleva, invece, l’interrogativo circa il regime degli atti del commissario ad acta successivi alle determinazioni infine assunte dall’amministrazione e con queste non coerenti. Ad avviso della Sezione, il problema non è definitivamente risolto dall’art. 117 comma 4, il quale, rimettendo al giudice del silenzio “tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ad acta”, lascia supporre che, al di fuori del caso in cui si contesti “l’esatto adempimento”, gli atti del commissario incaricato di portare a termine il procedimento sono soggetti alla giurisdizione generale di legittimità oppure al potere di autotutela dell’amministrazione istituzionalmente competente.
2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione
Esposti i termini della questione, la quarta Sezione prende motivatamente posizione a favore della tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario.
La tesi troverebbe conferma in una serie di principi, anche di rilievo costituzionale. Convergerebbero in questa direzione il principio di legalità, in connessione all’art. 97 Cost., per il quale l’ambito delle competenze dell’autorità amministrativa può essere inciso solo da una disposizione di legge; il principio di certezza dei rapporti giuridici, per il quale il carattere perentorio del termine assegnato all’amministrazione per provvedere deve risultare quanto meno da una espressa statuizione del giudice e dunque dal dispositivo della sentenza; il principio di responsabilità dei titolari degli uffici pubblici il quale sarebbe eluso se la perdurante inerzia del funzionario pubblico, comportando definitiva perdita del potere, fosse addirittura “premiata” con una sostanziale deresponsabilizzazione del funzionario. Infine – secondo la Sezione – congiura in questo senso anche un principio, se non di riserva, di preferenza per l’amministrazione il quale si dispiegherebbe al massimo grado quando l’attuazione della statuizione giudiziale di condanna ad agire investe l’attività di un organo collegiale di un ente esponenziale (quale appunto un consiglio comunale) essendo le valutazioni di spettanza di questo difficilmente sostituibili dal commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dà atto di non essere quella della competenza concorrente la posizione espressa dalla Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019 che si è espressa a favore della posizione per la quale “l’insediamento del commissario ad acta… nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell'amministrazione inadempiente surrogata, priva quest'ultima della potestà di provvedere integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta ”[1].
Tuttavia per la Sezione il precedente non è decisivo poiché la Plenaria, chiamata in quell’occasione a decidere sul valore delle astreinte e comunque in relazione al giudizio di ottemperanza, non ha affrontato espressamente il problema del rapporto tra competenza commissariale e della autorità amministrativa istituzionalmente competente lasciando così non risolto il contrasto ermeneutico tra le varie tesi proposte che sarebbe perciò ancora aperto.
3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata
L’iter motivazionale della pronuncia lascia in ombra alcuni dati di diritto positivo che meritano una lettura più attenta se non altro perché su di essi fa leva la dottrina che forse più approfonditamente si è occupata del tema per argomentare proprio le conclusioni predilette dalla IV Sezione.
Il primo dato è offerto dall’art. 117 c.p.a. che, nel dettare la disciplina del rito speciale avverso il silenzio, non ripropone una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 21 bis della l. 1034 del 1971. La norma da ultimo citata prevedeva che “all’atto dell’insediamento, il commissario, preliminarmente all’adozione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo, l’amministrazione abbia provveduto” ed era stata univocamente letta nel senso che l’insediamento del commissario segnasse il momento della decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso[2]. Nella sua soppressione nel testo vigente dell’art. 117 c.p.a. viene dunque da alcuni ravvisato un chiaro indizio della volontà del legislatore di inaugurare un percorso diverso, conservando sine die in capo alla amministrazione il potere di decidere[3].
Per l’ordinanza in commento, quello della diversa formulazione della normativa sopravvenuta è elemento troppo labile per poter fondare su di esso la soluzione del quesito e, piuttosto, è tale da “rendere attuale e di preminente rilievo il dubbio esposto” poiché “il legislatore neppure ha introdotto la regola opposta”.
L’osservazione è condivisibile e non sembra che la mancata riproposizione di una disposizione, che invero era espressa in termini un po’ ingenui, equivalga ad un indice univoco di una consapevole e diversa scelta del legislatore.
Una consapevole scelta del legislatore emergerebbe invece, nella lettura da alcuni proposta, dal comma 5, dell’art. 117 c.p.a. per il quale “Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito”.
La possibilità del provvedimento sopravvenuto espresso e la sua efficacia sarebbero dunque ammesse dalla norma che ne prevede l’impugnabilità con motivi aggiunti e che offrirebbe così una valida sponda alla tesi della concorrenza tra potere dell’amministrazione e del commissario[4].
Il dato non è affatto preso in considerazione dall’ordinanza che dunque mostra di ritenerlo poco significativo.
La posizione è senz’altro condivisibile.
L’art. 117, comma 5, non fornisce una risposta esplicita o, quanto meno, non equivoca al quesito sollevato dalla IV Sezione. A ben vedere il contenuto della norma consiste nel mero rilievo dell’impugnabilità del provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti[5], essendo la relativa facoltà riconosciuta al ricorrente, e non si può ad essa attribuire una portata più ampia di quella meramente processuale sua propria. Inoltre la facoltà di impugnare i provvedimenti sopravvenuti con motivi aggiunti, anziché con ricorso autonomo, è accordata al ricorrente “nel corso del giudizio” e questo, ai sensi dell’art. 117, comma 2, si conclude con la sentenza che “in caso di totale o parziale accoglimento (….) ordina all’amministrazione di provvedere”. Dunque la disposizione potrebbe al più essere letta nel senso di riconoscere la permanenza del potere di provvedere dell’amministrazione inadempiente fino al momento finale del giudizio stesso e cioè fino al momento dell’adozione della sentenza di condanna ad adempiere.
In definitiva, nemmeno l’argomento fondato sula lettera dell’art. 117 comma 5 è risolutivo e fondatamente la IV Sezione esclude che nelle disposizioni del c.p.a. sia rintracciabile una risposta univoca al quesito proposto.
4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.
Una seconda verifica che si impone è se non sia possibile attingere alla più numerosa giurisprudenza che ha affrontato l’analogo problema con riferimento al giudizio di ottemperanza per estendere al commissario ad acta nominato ex art. 117 c.p.a. le soluzioni già raggiunte n quella sede.
La giurisprudenza degli ultimissimi anni sembra in effetti aver in parte risolto le divergenze interpretative puntualmente illustrate dalla ordinanza di rimessione ed avere maturato un orientamento abbastanza condiviso nel senso che l'insediamento del commissario ad acta ovvero la redazione del verbale d'immissione del commissario nelle funzioni amministrative e la sua presa di contatto con l'amministrazione segnano il definitivo trasferimento dei poteri in favore del primo, rimanendo precluso da quel momento all'amministrazione ogni margine di ulteriore intervento[6]. L’indirizzo è confermato dalla Plenaria n. 7 del 2019 che, invero, è abbastanza esplicita sul punto.
L’elaborazione giurisprudenziale in materia di ottemperanza potrebbe quindi fornire risposta al quesito che ugualmente si pone quando il commissario ad acta assume i suoi poteri nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio configurandosi così quale parametro per quella soluzione unitaria del problema del rapporto tra potere commissariale e potere dell’amministrazione commissariata che pure l’ordinanza di rimessione auspica.
Contro l’utilizzo estensivo della giurisprudenza in tema di ottemperanza, si potrebbe invero osservare che l’art. 117 c.p.a. nel dettare la disciplina, alquanto sommaria, della c.d. seconda fase del rito speciale avverso il silenzio (che consiste appunto nella nomina del commissario ad acta) non fa rinvio all’art. 112 e seguenti del c.p.a.. Il dato potrebbe essere considerato ancor più significativo se si tiene conto che, diversamente, per l’art. 59 c.p.a., quando al giudice sono richieste misure attuative dei provvedimenti cautelari non spontaneamente eseguiti, “il tribunale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza di cui al Titolo I del Libro IV e provvede sulle spese”. Nel mancato rinvio alle norme che disciplinano il ricorso per l’ottemperanza potrebbe leggersi la consapevole volontà del legislatore di marcare la distanza tra i due giudizi [7] ognuno dei quali resterebbe quindi regolato dalla sua disciplina e relativa elaborazione giurisprudenziale.
Si tratta di un’opzione interpretativa sulla quale l’ordinanza in commento non si pronuncia e che comunque non è a mio avviso praticabile.
In primo luogo, la distanza tra il giudizio di ottemperanza e quello per la esecuzione della condanna a provvedere non sono poi così netta se si tiene conto che, nella prassi, non è infrequente l’utilizzo del ricorso ex art. 112 c.p.a. per far fronte alla perdurante inerzia dell’amministrazione, incurante della condanna a provvedere inflitta dal giudice ex art. 34, comma 1, lett. b)[8].
Ma il punto decisivo è un altro. Anche nel caso del giudizio di ottemperanza la soluzione più accreditata, che è poi “cristallizzata” dalla sentenza 7/2019, viene argomentata dalla giurisprudenza non tanto dalla disciplina positiva, che sul punto è carente anche nel giudizio di ottemperanza, quanto dai principi. E non c’è dubbio che i principi cui far riferimento sono i medesimi che si tratti di giudizio di ottemperanza, della fase di esecuzione di una sentenza resa all’esito del rito speciale ex art. 117 c.p.a. o di una ordinanza cautelare ex art. 59 c.p.a..
5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte
In definitiva il metodo seguito dalla ordinanza di rimessione che, come sopra sottolineato, attinge la soluzione dai principi è pienamente condivisibile.
Il dubbio è semmai se i principi richiamati dall’ordinanza conducano univocamente alle conclusioni che la Sezione mostra di prediligere.
In effetti sembra di poter osservare che i principi di legalità e di certezza dei rapporti giuridici non valgono qui tanto per la riserva alla legge che essi sanciscono riguardo alla individuazione delle competenze istituzionali delle singole amministrazioni. Questo aspetto è, a mio avviso, recessivo rispetto all’esigenza, che i medesimi principi sicuramente pongono, che l’organo titolare del potere sia uno ed uno soltanto in modo che il privato abbia un solo e certo interlocutore.
Per questa ragione proprio i principi richiamati implicano che, a partire da un certo momento (convenzionalmente individuabile nella redazione del verbale di immissione del commissario), il commissario ad acta non si aggiunge né si pone in concorrenza o, ancor meno, in subordine rispetto agli organi ordinari dell'amministrazione inadempiente, ma assume i poteri di questa e ne diviene titolare esclusivo, come organo straordinario, in via eccezionale e per tutto il tempo in cui il mandato gli è conferito.
Il principio di legalità può essere, quindi, a buona ragione richiamato proprio a sostegno della tesi opposta della consumazione del potere della p.a., competente a decidere secondo le regole ordinarie, in conseguenza e per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario.
Il principio di responsabilità ha poi portata ambivalente.
Da un lato non sembra del tutto implausibile la tesi di chi imputa proprio all’indulgenza e alla cautela che spesso sono prevalse nella soluzione del problema del rapporto tra scadenza del termine e conservazione/esercitabilità del potere[9] di avere favorito la scelta dell’inazione da parte dell’organo pubblico[10]. Si tratta di un angolo di visuale opposto al quale non può negarsi un fondamento di verità.
Dall’altro il nostro ordinamento prevede severe sanzioni a carico del funzionario che non agisce. La mancata o tardiva conclusione del procedimento entro i termini prescritti comporta conseguenze gravi proprio sul piano della responsabilità. Il ritardo è elemento di valutazione della performance individuale nonché fonte di responsabilità disciplinare, amministrativo-contabile e civile del funzionario inadempiente. Astrattamente, e lasciando da parte lo scarso tasso di effettività delle misure disciplinari e sanzionatorie previste in caso di ritardo/inerzia, il funzionario che non agisce rischia altrettanto e forse di più rispetto a quello che, quanto meno, assume una decisione.
Il problema posto in luce dall’ordinanza di rimessione è tuttavia serissimo. L’attivazione di una competenza pienamente sostitutiva (almeno a partire da un certo momento) potrebbe essere vista di buon occhio dal funzionario che così si troverebbe esonerato dal peso e dalla responsabilità di decidere.
Qui si innesta l’altro argomento prospettato dalla IV Sezione a sostegno della tesi della competenza concorrente e che è quello della difficile sostituibilità della competenza e della discrezionalità di un organo collegiale di un ente esponenziale da parte di un organo tecnico quale il commissario ad acta.
Le possibili soluzioni si saldano.
L’esigenza di limitare il pericolo di atteggiamenti di comodo (o difensivi) da parte dell’amministrazione così come quella di salvaguardarne la sfera di discrezionalità potrebbero essere soddisfatte entrambe dall’impiego di strumenti di coazione indiretti in luogo di quello di coazione diretta consistente nella nomina del commissario ad acta. In altre parole i rilievi correttamente formulati dall’ordinanza di rimessione potrebbero trovare una composizione soddisfacente ove le parti fossero incoraggiate a chiedere[11] ed il giudice ad utilizzare con maggiore larghezza il rimedio dell’astreinte per indurre l’amministrazione recalcitrante ad agire. Della penalità di mora, che è espressamente prevista come misura di coercizione indiretta a disposizione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 114, lett. e) c.p.a., la giurisprudenza[12] ha definitivamente riconosciuto l’applicabilità generale e dunque l’utilizzabilità anche in sede di giudizio di cognizione[13]. Sicché nulla osta – sembra - al suo impiego anche nel rito avverso il silenzio e ad opera della sentenza che ordina all’amministrazione rimasta inerte di provvedere entro un termine.
6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza
La soluzione che sembra di poter argomentare dai principi circa il rapporto tra potere commissariale e quello dell’amministrazione istituzionalmente competente apre il problema del regime dell’atto adottato dall’amministrazione oltre il termine segnato, appunto, dall’insediamento del commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dubita fortemente che l’atto tardivo possa considerarsi nullo per la ragione che – essendo comunque l’amministrazione competente in astratto – non ricorre l’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione cui l’art. 21 septies della l. 241 del 1990 collega la nullità dell’atto. La violazione del termine impartito dal giudice, pure a volerne ammettere il carattere perentorio, comporterebbe pertanto l’annullabilità e non già la nullità del provvedimento.
A mio avviso, la categoria dell’annullabilità non è qui proficuamente utilizzabile.
A voler ricorrere ad essa si dovrebbe peraltro pure ammettere che l’inosservanza del termine concreti al più un vizio formale il cui effetto invalidante sarebbe eventuale e comunque sottoposto alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies. Gli effetti pratici della predicata annullabilità del provvedimento tardivo sarebbero, dunque, limitatissimi.
In definitiva delle due una: o l’amministrazione non decade mai dal potere di provvedere e il termine per l’esercizio del potere conserva la natura ordinatoria o meramente sollecitatoria che aveva prima della instaurazione del ricorso e della definizione del medesimo con sentenza di condanna[14] e allora l’inosservanza non comporta alcuna conseguenza in termini di validità/invalidità del provvedimento[15]; oppure il termine, almeno a partire dal momento che si è identificato con l’insediamento del commissario ad acta, assume carattere perentorio e di decadenza e allora è gioco forza concludere che la sua inosservanza comporta la sanzione più grave della nullità/inefficacia.
E’ chiaro, peraltro, che – come correttamente rileva l’ordinanza in commento – la “figura” di nullità cui fare riferimento non è quella del difetto di attribuzione perché l’amministrazione istituzionalmente competente è, in astratto, titolare del potere.
La categoria cui appellarsi sarebbe semmai quella - forse superata - della carenza di potere in concreto, nella quale un tempo si comprendevano proprio le ipotesi di esercizio del potere - pure conferito all’amministrazione - oltre i limiti temporali e spaziali per il suo valido esercizio[16] .
Si può supporre che la riluttanza della IV Sezione a ragionare in termini di nullità per carenza di potere in concreto trovi la sua giustificazione nel precipitato in punto di giurisdizione (ordinaria) che tale qualificazione tradizionalmente comporta e che sembra confermato dalla disciplina vigente. Difatti le “nullità” il cui accertamento è demandato al giudice amministrativo ex art. 31 c.p.a. sono solo quelle previste dalla legge e cioè, appunto, dall’art. 21 septies il quale però non contempla la figura della carenza di potere in concreto.
Tuttavia, da un lato, il silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 è materia di giurisdizione esclusiva, ai sensi dell’art. 133, lett. a) n.3, sicché la eventuale qualificazione del vizio in termini di carenza di potere in concreto può essere considerata comunque neutrale in termini di giurisdizione, dall’altro la disciplina dell’art. 21 septies, integrata sul punto dall’art. 114, comma 4, lett. c), offre spazio sufficiente per accogliere nell’alveo delle fattispecie di nullità/inefficacia da far valere in sede di giurisdizione amministrativa lo stato viziato del provvedimento tardivo.
L’atto adottato dall’amministrazione una volta scaduto il termine per provvedere impartito dal giudice e addirittura oltre i “tempi supplementari” accordati da una interpretazione benevola che le concede di agire fino all’insediamento del commissario di nomina giudiziale è posto in essere in violazione o elusione di sentenza esecutiva e, per questa ragione, incorre nella nullità/inefficacia sancita dall’ art. 114, comma 4, lett. b) e c), c.p.a.[17]
7. In sintesi
In conclusione, è pienamente condivisibile l’assunto, fatto proprio dall’ordinanza, per il quale la soluzione del problema del rapporto tra potere del commissario ad acta e potere dell’amministrazione commissariata deve essere rintracciata nei principi. L’indicazione che possiamo trarre dal principio di legalità, il quale non consente che il medesimo potere possa far capo a due soggetti diversi, è nel senso che, a partire da un certo momento identificabile con quello dell’insediamento del commissario ad acta,l’amministrazione commissariata decade dal potere di provvedere. L’atto adottato oltre detto termine non è nullo per difetto assoluto di attribuzione. Si può invece fondatamente ipotizzare che si tratti della nullità/inefficacia in cui incorrono, ai sensi degli artt. 21 septies l. 241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b) e c), gli atti emessi in violazione o elusione del giudicato o di sentenza comunque esecutiva.
Quanto ai pericoli di deresponsabilizzazione dell’amministrazione competente e/o di eccessiva compressione della sfera della discrezionalità amministrativa che la definitiva sostituzione della p.a. da parte del commissario ad acta potrebbe comportare, l’uno e l’altro potrebbero essere evitati da un più liberale utilizzo di strumenti di coazione indiretti. L’esecuzione della sentenza di condanna ad adottare il provvedimento, specie se priva di un contenuto di accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale, ben si presta ad essere assistita dalla penalità di mora a carico della stessa amministrazione la quale sarebbe costretta a adempiere assumendo la piena responsabilità delle conseguenze della propria azione e di quelle di una ulteriore inerzia.
[1] Vedi punto n. 5.6. della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019
[2] m. andreis, Commissario ad acta, regime dei suoi atti e nuovo codice del processo amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2012, p. 573 ss, per il quale la cautela imposta dalla norma che prescrive al commissario giudiziale di verificare se, anche tardivamente e sia pure all’ultimo momento, l’amministrazione ha comunque provveduto, esprime un atteggiamento di particolare deferenza che si giustifica in considerazione dell’ampiezza della discrezionalità che residua in capo all’amministrazione a seguito di sentenza che accerta l’obbligo di provvedere.
[3] l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo a cura di b. sassani e r. villata, Torino, 2012, a p. 929 nt. 68 osserva che l’art. 117, diversamente da quanto si era soliti ritenere in base all’art. 21bis della l. 1034 del 1971, non prevede “la decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di provvedere all’atto dell’insediamento del commissario ad acta, realizzandosi così una concorrenza di poteri dell’una e dell’altro, emancipati dai termini finali”.
[4] Così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit. p. 911 per il quale “l’art. 117 comma 5, nell’abilitare il ricorrente avverso il silenzio ad impugnare con motivi aggiunti il provvedimento espresso sopravvenuto, presuppone che oggetto del ricorso introduttivo sia il silenzio inadempimento che lascia residuare in capo all’amministrazione il potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente”.
[5] La possibilità di impugnare il provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti aveva trovato in effetti resistenza nella giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice con il conseguente rischio per il ricorrente di incorrere in declaratoria di inammissibilità della domanda di annullamento del provvedimento sopravvenuto ove introdotta nelle forme previste per il rito camerale speciale. Sul punto, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 ottobre 2006, n. 6439.
[6] Consiglio di Stato sez. V, 05/06/2018, n.3378; Consiglio di Stato sez. IV, 22/03/2017, n.1300; Consiglio di stato, sez. IV, 3 novembre 2015 n. 5014; Consiglio di Stato, sez. IV, 1 dicembre 2014, n. 5912; TA.R. Catania, (Sicilia) sez. IV, 10/07/2019, n.1746; T.A.R. Catania, (Sicilia) sez. III, 18/04/2018, n.772; T.A.R. Catanzaro, (Calabria) sez. I, 18/10/2017, n.1529; T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VIII, 21/06/2018, n.4170
[7] Consiglio di Stato sez. VI, 28/01/2016, n.338
[8] Contra, però, T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VII, 25/11/2019, n.5558. La sentenza, invero alquanto isolata, sostiene che il giudizio di ottemperanza non è esperibile per dare esecuzione ad una sentenza amministrativa in tema di silenzio in quanto il rito speciale già contiene la possibilità di richiedere al giudice che ha adottato la sentenza di accoglimento (statuendo la sussistenza dell'obbligo di provvedere dell'Amministrazione) di nominare (nella stessa sentenza o a seguito di successiva istanza dell'interessato) un commissario ad acta che dia compiuta attuazione, in sostituzione dell'Amministrazione inadempiente, al decisum sicché, a configurare una diversa via processuale (cioè che il giudizio di ottemperanza possa avere applicazione anche per l'esecuzione delle sentenze rese a seguito dello speciale procedimento previsto avverso il silenzio), si verrebbe a determinare un inutile quanto defatigante aggravamento dei rimedi processuali e addirittura a configurare un possibile profilo, per il ricorrente in ottemperanza, di abuso del processo.
[9] Cautela che sembra invero superata dal legislatore che, con l’art. 12, co. 1, lett. a) del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni, convertito in l. n. 120/2020), divenuto comma 8-bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, ha sancito l’inefficacia delle determinazioni relative a fattispecie in cui opera il regime del silenzio assenso e i provvedimenti inibitori relativi alle ipotesi di s.c.i.a. “adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti”. Almeno nelle fattispecie di silenzio assenso, il termine per provvedere assume oggi chiaramente natura perentoria. Su questi aspetti m. calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) (note a margine di Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034 e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 1 luglio 2020, n. 7476) in www.giustiziainsieme.it 26 novembre 2020
[10] b. sassani, Il regime del silenzio e l’esecuzione della sentenza in Il processo amministrativo davanti al giudice amministrativo, Le nuove leggi amministrative a cura di r. villata, Torino 2004, p. 406.
[11] Sulla necessità dell’istanza di parte perché il giudice adotti la misura della penalità di mora, correttamente, Tar Trento, sez. I, 13/04/2018, n.85;
[12] Vedi A.p. 9 maggio 2019, n. 7.
[13] L’art. 34, comma 1, lett. e) anticipa al giudizio di cognizione la possibile adozione delle misure idonee ad assicurare l’attuazione della sentenza, compresa la nomina del commissario ad acta. La norma non esclude espressamente l’adozione di altre misure, come la penalità di mora. Il riferimento alla nomina del commissario ad acta non vale ad escludere la possibilità di adottare altre misure di coercizione indiretta, quale la comminatoria di penalità di mora e trova invece la sua spiegazione nel carattere maggiormente invasivo della misura sostitutiva. Sul punto sia consentito rinviare a a. scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. Proc. Amm,, 2017, p. 465.
[14] Nessun dubita, in effetti, che l’amministrazione conserva il potere-dovere di provvedere anche dopo la scadenza dei termini fissati dall’art. 2, l. 241 del 1990, salve le ipotesi nelle quali la legge espressamente sancisce il carattere perentorio, e a pena di decadenza, del termine, per tutti m.clarich, Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Bologna, 2021, p. 251. La conclusione trova del resto conferma proprio nella disciplina in tema di ricorso avverso il silenzio. L’apparato rimediale approntato dal legislatore non avrebbe addirittura ragion d’essere se fosse preordinato all’adozione di provvedimenti espressivi di poteri da cui l’amministrazione è decaduta e per ciò solo illegittimi, così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit., p. 929, nt. 68..
[15] Altrettanto ferma la posizione favorevole ad escludere che la tardività del provvedimento ne determini l’annullabilità. Peraltro al più si potrebbe ipotizzare un vizio formale da sottoporsi alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies comma 2...
[16] E tuttavia sulla vitalità della categoria vedi alb. romano, Nullità del provvedimento, in L’azione amministrativa a cura di alb. romano, Torino, 2016, p. 816 ss.
[17] Anche in questo caso, si verte peraltro in materia di giurisdizione esclusiva che è sancita dall’art. 133, lett. a, n. 5.