Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?
di Carlo Citterio
1. All’udienza del 28 gennaio 2021 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, chiamate a rispondere al quesito “se, in caso di annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna, pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o a quello penale” hanno risposto affermando il principio di diritto che “il rinvio deve essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen., che così dispone con riferimento a tutti i casi di annullamento che abbiano ad oggetto esclusivamente le statuizioni ad effetti civili” [ricorso n. 5219/2020, ordinanza di rimessione n. 30858/2020, ric. Cremonini].
2. Si tratta di una decisione di rilevantissima importanza, per le implicazioni che dovrebbe, o almeno potrebbe, comportare anche su una serie di altre questioni determinate dalla possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale.
Attendiamo con grande interesse le motivazioni della sentenza, perché dalle stesse si trarranno le indicazioni per comprendere se torneremo, finalmente, a restituire al senso sistematico del principio dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale un’efficacia di sicuro orientamento nelle soluzioni giurisprudenziali di tali questioni ovvero se proseguirà il recente approccio, che pare ancorato all’affermazione di un reciproco diritto di (ex)-imputato e (presunta) persona offesa danneggiata (o presunto mero soggetto danneggiato) di pretendere comunque la deliberazione del giudice penale. Tale ‘pretesa’ comportando poi il rispetto non già delle sole “forme” della procedura (art. 573, comma 1, cod. proc. pen.: L’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale), bensì pure delle peculiari garanzie che la legge processuale penale impone per poter affermare la responsabilità penale, quella che comporta applicazione di sanzioni di natura penale e che, solo come tale, trova anche in sede di normativa e giurisdizione europea specifiche peculiari tutele. Tutele in tale sede per il vero mai estese, in eguale natura dimensione e prospettiva, alla mera azione civile.
3. Valga, per tutte, la questione dell’applicabilità dell’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale nel caso di “appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen..
La dizione della norma introdotta dalla legge n. 103/2017 è chiarissima: limita l’obbligo al caso dell’appello del pubblico ministero, quindi all’impugnazione che determina prosecuzione dell’esercizio dell’azione penale. E si tratta di norma che segue (e quindi conosce) il diverso approdo delle precedenti sentenze Dasgupta (27620/2016) e Patalano (18620/2017).
Lo hanno riconosciuto le stesse Sezioni Unite nella sentenza n. 14426/2019, ric. Pavan, p. 9: “La norma - avendo evidente natura eccezionale rispetto alle previsioni di cui ai precedenti commi, ed essendo, quindi, di stretta interpretazione - ha sì introdotto una nuova ipotesi di ammissione d'ufficio delle prove (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), ma l'ha disciplinata limitando l'obbligo ("dispone") di rinnovazione dell'istruttoria alle seguenti condizioni: a) che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile);”.
La vicenda è davvero emblematica.
Tre appunto gli obiettivi dati di fatto: una giurisprudenza precedente che estende in via interpretativa l’obbligo anche al caso dell’impugnazione della parte civile (strutturalmente diverso per gli interessi sottesi alle azioni penale e civile); una norma successiva (l’art. 603, comma 3-bis) che, consapevole di tale giurisprudenza e della disciplina dell’art. 576, cod. proc. pen. (che anche alla parte civile riconosce il diritto di impugnare le sentenze di proscioglimento), riserva l’obbligo di rinnovazione al solo caso dell’impugnazione, quella della parte pubblica, che determina la prosecuzione dell’azione penale (e quindi la permanenza della qualità di imputato nell’appellato pur assolto in primo grado); una sentenza delle Sezioni Unite successiva (Pavan) che riconosce la inequivoca scelta normativa e l’afferma.
E tuttavia si impone la giurisprudenza estensiva che, bypassando la novità normativa e ignorando la sentenza Pavan, si àncora al precedente Dasgupta, seguito dalla sentenza Patalano. Ma se si ritorna al testo della sentenza Dasgupta (pregevolissima e condivisibile per l’impostazione sul piano penale) si deve constatare che il principio estensivo era nato in termini sostanzialmente assertivi: “8.5. Inoltre, lo stesso è da dire nella ipotesi in cui il rovesciamento della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile (in questo ordine di idee, Sez. 6, n. 37592 del 11/06/2013, Manna, Rv. 256332), essendo anche in questo caso in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.”
L’affermazione avrebbe dovuto confrontarsi con il fatto obiettivo che, terminata l’azione penale, l’imputato rimane nel processo solo come “convenuto”, e la parte civile è non più la “persona offesa” (né mai lo è stata se soggetto solo danneggiato) ma l’ “attore”, e che pertanto si è davanti ad un’azione a contenuto solo civile che prosegue, depurata di ogni implicazione sanzionatoria penalistica, e il cui rito mantiene “le forme” del processo penale (573, comma 1), non necessariamente i suoi principi probatori (sicché la reinterpretazione del principio di accessorietà dell’azione civile avrebbe dovuto essere oggetto di specifico esame e pertinente spiegazione; ma, a ben vedere considerando il caso oggetto della sentenza Dasgupta, l’estensione del principio all’impugnazione della parte civile era sostanzialmente un obiter dictum: il pericolo del quale sta proprio nella mancata possibilità dello sviscerare tutte le implicazioni della questione).
Proprio su quest’ultimo passaggio (i principi probatori) attendiamo con interesse vivo la motivazione delle Sezioni Unite Cremonini. Perché la giurisprudenza non occasionale che le Sezioni Unite hanno disatteso nasceva dall’improvviso reciso rifiuto della Terza sezione civile della Corte di cassazione di adeguarsi, nei giudizi di rinvio ex art. 622, cod. proc. pen., ai principi penalistici di valutazione della prova.
4. Rinviamo dunque necessariamente ogni approfondimento alla lettura della motivazione della sentenza Cremonini. Con almeno due aspettative per i giudici penali d’appello.
La prima. Che si aprano strade interpretative sicure per restituirli alla funzione propria pertinente: innanzitutto e specialmente tutti i processi in cui è in atto l’esercizio dell’azione penale, allontanando il rischio inabissante di distogliere le non adeguate risorse per rispondere ad una tipologia di domanda e di incombenze procedurali che, nel processo penale, non trovano giustificazione mentre possono ancora trovare piena efficace e ‘naturale’ tutela nella sede civile propria. Basti pensare, per rendere la concretezza del problema e la gravità delle sue implicazioni, che il disegno di legge del Ministro Bonafede (C.2435, Camera dei Deputati in discussione alla Commissione Giustizia) contiene anche una norma, l’art. 13, che tra l’altro indica quale contenuto della delega: la previsione che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello (e in cassazione) stabiliti ai sensi dell’art. 12 (due anni per l’appello), dovendo i processi essere definiti ‘entro’ sei mesi dall’istanza di immediata definizione, con (ma questa ormai pare la bacchetta magica per risolvere i problemi a costo zero) possibili conseguenze disciplinari per il dirigente che non ha organizzato per assicurare il rispetto di tali termini e il giudice che non li abbia rispettati. Sia chiaro: con la giurisprudenza prevalente fino al 28 gennaio, vorrebbe dire che il giudice penale d’appello passerebbe il suo tempo a trattare solo i processi con azione penale in corso e parte civile (anche se bagatellari) ovvero le assoluzioni (intervenute dopo pieno contraddittorio e quindi quantomeno con presunzione di infondatezza della pretesa civilistica) con impugnazione delle sole parti civili, in questo secondo caso rinnovando pressoché in tutti i processi l’istruttoria. Con buona pace delle aspirazioni dei cittadini ad avere dalla giustizia penale, per le azioni penali esercitate e in atto, processi giusti e in tempi ragionevoli, con decisioni nel merito e non per prescrizione dei reati.
La seconda. Che si rifletta davvero in termini sistematici sull’attualità o meno di un principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale, per comprendere, così e per esempio, se davvero (come sorprendentemente conclude Sezioni Unite sentenza 28911/2019, ric. Massaria/Papaleo): “Nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l'impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile).
Difficile comprendere perché la legittimazione ad impugnare (576) debba assorbire l’interesse ad impugnare (568, comma 4) e perché, appunto “se” l’azione civile è accessoria, la parte civile abbia interesse ad impugnare una sentenza (erronea dichiarazione di prescrizione in primo grado) che non fa stato nei suoi confronti nel senso che (ex art. 651 ss, cod. proc. pen.) non le impedisce di rivolgersi, con la stessa impregiudicata domanda, al giudice civile, originario referente fisiologico della sua domanda; ed invece il giudice d’appello debba fare (in ipotesi) tutta l’istruttoria non svolta in primo grado per assecondare una scelta preferenziale discrezionale di una parte “accessoria” al processo penale, pure al di fuori di alcun pregiudizio giuridicamente rilevante (che il contingente interesse di fatto per sé mai rileva), mentre i ‘suoi’ processi penali corrono verso la prescrizione.
Ecco. Attendiamo che la motivazione Cremonini ci confermi che nel codice di rito esiste ancora il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale.