Tornando a ripensare al dissent nei giudizi di costituzionalità (spunti offerti da un libro recente)*
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza - 2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta - 3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta - 4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale.
1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza
Desidero far precedere la succinta riflessione che mi accingo a svolgere da una confessione ad alta voce.
Rileggendo il libro di B. Caravita[1] che ci dà oggi modo di tornare a confrontarci sulla spinosa questione relativa alla eventuale introduzione del dissent nei giudizi davanti alla Corte costituzionale[2], ho provato una sensazione strana, già per vero avvertita in altre occasioni, come quella di un bambino che spia dal buco di una serratura e scopre un mondo che gli era rimasto dapprima nascosto. A volte, infatti, sono proprio le “microquestioni” – se così posso chiamarle – ad aprire gli occhi su quelle di maggior rilievo, ad oggi irrisolte ovvero risolte ma in modo non del tutto appagante, sì da non fugare alcuni dubbi che lasciano l’amaro in bocca anche a chi vede affermata la tesi nella quale si riconosce.
La sostituzione del giudice relatore per la redazione della decisione è una di queste.
Ad una prima (ma, appunto, erronea) impressione, la questione parrebbe presentarsi assai circoscritta quanto all’ambito materiale sul quale si situa e rende manifesta, come pure per ciò che concerne gli effetti di ordine istituzionale che possono discenderne; è, però, una questione sullo sfondo della quale stanno formidabili interrogativi ai quali la teoria costituzionale ad oggi non è riuscita a dare persuasive risposte.
In fondo, parrebbe esserne avvertita anche la dottrina che ha animatamente discusso (e seguita a discutere) al proprio interno in merito allo strumento o agli strumenti di normazione da mettere in campo al fine della introduzione del dissent, in ispecie quella parte di essa che caldeggia il ricorso alla legge costituzionale: a sottolineare, appunto, come possa risultarne modificata – e lascio, per il momento, insoluto il quesito se in meglio o in peggio – la posizione della Corte nel sistema, con immediati riflessi sulle relazioni che la stessa intrattiene con gli altri operatori istituzionali.
Tornerò sul punto, di non secondario rilievo, tra non molto.
Il libro del quale siamo oggi chiamati a discutere, nondimeno, per un verso, ripropone interrogativi antichi e, per un altro verso, ne pone di nuovi, col fatto stesso del modo con cui lo studio è stato metodicamente impostato e portato quindi ai suoi naturali e conseguenti svolgimenti.
Come ho già rilevato in altra occasione, si tratta di un autentico opus primum, per il taglio sperimentale che lo connota, essendosi fatto luogo ad un’accurata ricognizione di tutti i casi di sostituzione registratisi negli ultimi trent’anni, alla illustrazione dei loro connotati più salienti, alla loro sistemazione.
Gli esiti dello studio condotto sono di particolare interesse sotto più aspetti.
In primo luogo, pur presentandosi il fenomeno della sostituzione non particolarmente frequente, ugualmente è forse improprio definirlo – come molte volte si è fatto (e si fa) – “raro” o, addirittura, “rarissimo”[3]. I quasi novanta casi scrutinati da C. costituiscono, infatti, pur sempre un campionario idoneo a dare indicazioni di non poco significato. Inoltre (e vengo al secondo aspetto), si tratta di casi che vanno via via crescendo. Basti solo pensare che nel solo 2020 se ne sono avuti cinque, quasi cioè la metà di quelli registratisi nei sei anni immediatamente precedenti (dodici dal 2015 al 2019)[4].
Il punto induce ad una prima riflessione, aprendosi peraltro a valutazione di vario segno, da un canto ponendosi quale indice esteriore attendibile di viepiù frequenti dissensi e vere e proprie spaccature in seno al collegio, non soltanto – si badi – su questioni di particolare rilievo, coinvolgenti – come suol dirsi – la “coscienza” dei giudici, ma anche su altre di minor peso. Lo stesso C., nel tirare le fila del discorso svolto, fa notare – a mia opinione, giustamente – come talune sostituzioni risultino francamente inspiegabili (85); è pur vero, però, che gli arcana imperii, proprio perché tali, restano il più delle volte impenetrabili e sfuggenti ad ogni tentativo, per accurato che sia, di decifrazione.
La crescita del trend potrebbe anche significare una marcata (e, appunto, vistosa) insofferenza di questo o quel giudice a restare nell’ombra, imprigionato dalla segretezza del voto.
D’altronde, è risaputo che la questione del dissent, che peraltro – come si sa – ciclicamente riaffiora per poi seguitare, con andamento carsico, a restare sommersa, è tornata a riproporsi dopo che un autorevole membro del collegio non ha taciuto il proprio disagio dovuto alla mancata previsione dell’istituto, denunziandolo pubblicamente[5].
Sta di fatto che in seno alla Corte parrebbe oggi riscontrarsi un fermento di cui, ancora fino a pochi anni addietro, non v’era traccia, perlomeno non traspariva all’esterno con la stessa evidenza di oggi; un supplemento di riflessione sul punto, nel quadro di una complessiva riconsiderazione delle più salienti esperienze e tendenze concernenti l’organo e il ruolo che mostra di voler esercitare nel tempo presente, sarebbe, dunque, di particolare interesse[6], come pure lo è interrogarsi sul perché i giudici sempre più di frequente avvertano il bisogno di avere una visibilità che fino ad ieri non manifestavano.
Qui, com’è chiaro, il discorso si lega a doppio filo a quella “apertura alla società civile” – com’è usualmente chiamata –, alla quale si è fatto luogo nel tempo a noi più vicino, nella varietà delle forme e degli effetti che le è propria, sulla quale mi limiterò qui a svolgere solo una rapida notazione, rimandando ad altri luoghi di riflessione scientifica nei quali se n’è detto con maggiore estensione. Un’apertura che, poi, per la sua parte, avvalora una generale tendenza alla emersione, a volte in modo particolarmente vigoroso e vistoso, dell’“anima” politica rispetto a quella giurisdizionale[7], con conseguente alterazione dell’equilibrio, per vero strutturalmente precario, nel quale esse, secondo modello, sarebbero tenute a stare, segnando in modo originale i complessivi sviluppi delle esperienze processuali maturate presso la Consulta e marcandone dunque le differenze rispetto ad analoghe esperienze venute alla luce presso organi giurisdizionali diversi.
Se ne dirà meglio a breve. Per il momento, è interessante notare come il dato numerico non insignificante di casi di sostituzione che risulta dall’indagine condotta da C. dia conferma del fatto che non tutti i casi stessi possono essere assunti ad indice di un dissenso tale da non consentire al relatore di far luogo alla stesura della decisione. A parte i due casi, del tutto peculiari, avutisi al tempo della elezione di Mattarella quale Presidente della Repubblica[8], il numero delle sostituzioni e la varietà dei casi in cui se n’è avuto riscontro testimoniano che, in aggiunta all’ipotesi del dissenso, anche altre ragioni potrebbero avere determinato la messa in atto della misura in parola.
Tutto ciò, al tirar delle somme, rende evidente la inadeguatezza della sostituzione ut sic a dar voce al dissenso.
Il giudizio che ne dà C. è tranciante. La qualifica una “forma dimezzata di dissenting opinion … insoddisfacente, inefficiente, autoreferenziale, fonte di nessuna chiarezza e, soprattutto, di nessun avanzamento delle conoscenze e della discussione” (86)[9].
Forse, come è stato di recente osservato da una sensibile dottrina[10], più che di un dissent vero e proprio, sarebbe giusto discorrere – perlomeno in relazione ad alcuni casi[11] – di una sorta di “obiezione di coscienza” del singolo giudice, che peraltro non può esternare le ragioni che la sostengono, se non in sede scientifica[12], sempre che – mi permetto di aggiungere – sia davvero provato che il dissenso sia la causa della sostituzione, cosa altamente probabile ma appunto non del tutto sicura[13].
Il relatore, nondimeno, si trova pur sempre in una posizione più vantaggiosa rispetto a quella in cui stanno gli altri componenti il collegio, i quali non dispongono di alcun mezzo, se non appunto quello scientifico, per illustrare le ragioni dell’orientamento adottato in occasione della trattazione della singola controversia. La qual cosa poi, per vero, qualche problema lo pone in ordine alla parità di condizioni in cui, secondo modello, stanno tutti i componenti il collegio[14]. Né vale, ovviamente, obiettare che, a turno, ciascun giudice potrà regolarsi allo stesso modo, dal momento che ciò che solo conta è il riconoscimento, che si ha a beneficio unicamente del relatore e non pure degli altri giudici rimasti in minoranza, di poter in qualche modo far conoscere il proprio dissenso, seppur nella forma – come si è veduto – complessivamente inappagante di cui qui si discorre.
2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta
Lo studio della sostituzione – tiene a precisare C., 96 – non intende portare argomenti né a favore né contro l’introduzione del dissent; si tratta, nondimeno, di una neutralità apparente, per una duplice ragione. In primo luogo, per il fatto che – si chiarisce senza mezzi termini, 95 – “non si può rimanere in mezzo al guado”; e, siccome non è pensabile che possa farsi a meno della sostituzione, se ne ha che o dovrebbero cambiarsi le regole in merito alla sottoscrizione delle decisioni (magari tornando all’antico della sottoscrizione da parte di tutti i giudici ovvero facendo comunque a meno di menzionare l’autore della redazione) oppure non rimarrebbe appunto che andare avanti e far luogo alla previsione del dissent (che pure – come si sa – potrebbe aversi in varie forme e con parimenti varia intensità di effetti). E, tra i due corni dell’alternativa, è sicuro che C. si senta maggiormente attratto dal secondo piuttosto che dal primo[15].
In secondo luogo, l’intero impianto dello studio in parola spinge – a me pare – verso quest’ultimo esito, secondo quanto è peraltro ora avvalorato dalle puntuali risposte date da C. al forum della Rivista del Gruppo di Pisa, già richiamato.
Ne dà sicura conferma il rilievo della contraddizione che, a suo avviso, sarebbe insita nell’apertura della Corte verso l’esterno, sopra già accennata, allo stesso tempo in cui “rimane – malamente – chiusa all’interno”: una soluzione, dunque, giudicata “ormai difficilmente accettabile” (87).
Quest’ultimo rilievo, tuttavia, non mi persuade del tutto, pur convenendo – come dicevo – a riguardo del fatto che la crescita dei casi di sostituzione s’inscriva in un quadro complessivo segnato da una studiata, crescente visibilità, speciale attenzione nei riguardi della pubblica opinione e, soprattutto, da una marcata sottolineatura dei tratti di “politicità” dei giudizi emessi dalla Consulta.
Ancora di recente, peraltro, anche altri studiosi si sono dichiarati dell’idea che sarebbe “una forzatura collocare il tema della possibile introduzione del dissent entro la tendenza della Corte ad ‘aprirsi alla società’…”[16].
Dal mio canto, mi permetto di aggiungere una duplice notazione al riguardo.
La prima è che si dà qui per scontato che “l’apertura della Corte alla società civile” – come si è soliti chiamarla – sia, in ogni sua forma ed aspetto, cosa buona e giusta, dandosi dunque per dimostrato ciò che invece richiede di esserlo. Sarei piuttosto tentato di riprendere l’antico e saggio aforisma secondo cui errare humanum est, perseverare diabolicum…
E, invero, mi sfugge – come ho già osservato altrove – la ratio delle visite alle carceri o alle scuole che, in realtà, somigliano molto da presso (ed anzi, a conti fatti, in tutto coincidono) con pratiche cui fanno di frequente luogo esponenti politici al fine di catturare e mantenere il consenso di cui hanno costante e disperato bisogno. Francamente, fatico a vedere (e, anzi, non vedo affatto) cosa aggiungano o tolgano le visite in parola a ciò che è necessario per la risoluzione delle questioni portate alla cognizione della Corte, tanto più che quest’ultima – come tutti sanno – dispone di poteri istruttori di cui ha fatto (e fa) uso alla bisogna.
Il vero è che le esperienze in parola s’inscrivono in un quadro complessivo che vede oggi fortemente sovraesposta l’immagine della Corte e che la stessa accredita sempre di più come somigliante e talora persino indistinguibile rispetto a quella dei decisori politici. Ne danno una eloquente e, a mia opinione, preoccupante testimonianza il sostanziale accantonamento del limite del rispetto della discrezionalità del legislatore[17], per un verso, e, per un altro verso, la invenzione di tecniche decisorie inusuali e viepiù particolarmente incisive, quale quella inaugurata in Cappato e, ancora da ultimo, messa in campo nella vicenda dell’ergastolo ostativo.
A conti fatti, la Corte indirizza al legislatore ed agli operatori tutti, così come alla pubblica opinione, il messaggio di essere pronta a fare in tutto e per tutto le veci del legislatore stesso, in tal modo incoraggiando peraltro i giudici a prospettare questioni volte persino al sostanziale rifacimento di una disciplina data, in buona sostanza senza ormai più limite di sorta.
La cosa – come si è tentato di argomentare altrove – è particolarmente inquietante, assistendosi alla messa da canto del principio della separazione dei poteri, con grave pregiudizio per l’idea stessa di Costituzione, quale mirabilmente scolpita nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Ora, occorre chiedersi quali utilizzi del dissent potrebbero farsi in un contesto che – piaccia o no (ed a me non piace per nulla) – risulta caratterizzato dalla sostanziale fungibilità dei ruoli istituzionali. È chiaro, infatti, che, ammettendosi in tesi la eventualità che la Corte possa porre (così come in casi sempre più frequenti pone) mano al rifacimento di discipline positive in difetto dell’intervento regolatore del legislatore, se ne ha che, per un verso, potrebbero essere viepiù sollecitati i giudici a chiedere alla Corte di farvi luogo, nel mentre (e per un altro verso) potrebbe risultare ancora più acceso e politicamente connotato il confronto in seno al collegio, testimoniato proprio dalle opinioni minoritarie, esse pure dunque venute a formazione in numero crescente.
Insomma, temo che possa assistersi all’impianto di una spirale perversa: il dissent presentandosi in non pochi casi a tinte forti, politicamente colorate, e concorrendo per la sua parte ad innalzare ulteriormente il tasso di “politicità” che è di già vistoso nelle più recenti esperienze di giustizia costituzionale e quest’ultimo, poi, ulteriormente agevolando la crescita del secondo.
Il timore è, poi, che il dissent sia strumentalmente ed innaturalmente piegato allo scopo di catturare e preservare il consenso di larghi strati della pubblica opinione nei riguardi della Corte e del suo operato. Non a caso, d’altronde, ancora da ultimo una sensibile dottrina[18] si è espressa nel senso che, nella presente congiuntura storica, è proprio a mezzo dell’apertura alla società civile, cui si è fatta sopra parola, che la Corte in significativa misura riesce a centrare l’obiettivo di “rilegittimarsi” senza sosta.
Qui, però, il discorso si fa davvero spinoso e tocca – come dicevo già all’inizio della mia riflessione – micidiali questioni di ordine teorico, peraltro gravide di implicazioni di ordine istituzionale di non poco momento.
Senza che – com’è chiaro – se ne possa qui dire con il dovuto approfondimento, tengo solo a precisare che, secondo modello (perlomeno per come ai miei occhi appare), non sono i rapporti diretti con la pubblica opinione o il “consenso sociale”, al quale fa appello la dottrina da ultimo richiamata, a porsi quale fonte di “legittimazione” della Corte e dei suoi giudizi[19], per la elementare ragione che la fonte in parola non è (o non dovrebbe essere) la stessa di quella cui attingono i decisori politici e che, anzi, da quest’ultima va (o dovrebbe andare…) tenuta costantemente distinta. Non viene dal basso, insomma, ma dall’alto (dalla Costituzione, dai valori fondamentali in essa positivizzati e dai principi e dalle regole che vi danno voce) la fonte di legittimazione dell’operato del giudice costituzionale[20].
La seconda notazione che mi preme qui fare è che si intravedono somiglianze tra esperienze che, a mio modo di vedere, sono impropriamente accostate. Le visite suddette o le altre specie di apertura alla società civile sono, infatti, cosa ben diversa rispetto a ciò che può potenzialmente servire ovvero nuocere al giudizio ed ai suoi esiti, se è vero, com’è vero, che i verdetti del giudice costituzionale hanno unicamente bisogno di essere ben fatti, dotati di salde premesse che quindi richiedono di essere portate ai loro lineari e conseguenti svolgimenti. Nulla di più e nulla di meno, dunque.
Ebbene, si fa notare dai fautori della previsione del dissent che la parte motiva delle pronunzie emesse dalla Consulta ne avrebbe un sicuro guadagno, in fatto di linearità e di coerenza, laddove al presente lo sforzo prodotto di dare comunque un qualche rilievo anche alle posizioni assunte dai giudici rimasti in minoranza si traduce sovente in un appesantimento e in un fattore di scollamento interno alla motivazione che dunque risulta, in casi non infrequenti, penalizzata per qualità[21]. Allo stesso tempo, si rileva da parte di molti che le opinioni minoritarie si presterebbero a favorire il revirement giurisprudenziale (cosa che però – si faccia caso – di per sé non è detto che sia sempre un bene…)[22].
Ad ogni buon conto, è di tutta evidenza la circostanza per cui la mancanza del dissent non ha di certo ostacolato i mutamenti, anche radicali, della giurisprudenza non soltanto su questioni di merito ma persino per taluni profili istituzionali anche di centrale rilievo[23].
Per il primo aspetto, poi, occorre distinguere due casi diversi, per disagevole che invero ciò in non pochi casi si dimostri essere. Un conto è infatti la contraddizione interna che si riscontra talvolta nelle pronunzie del tribunale costituzionale ed un’altra cosa invece la elasticità strutturale della decisione e la sua apertura ad ulteriori sviluppi giurisprudenziali, che è cosa di per sé non negativa ed anzi foriera di non pochi benefici.
Il vero è che i fautori della introduzione del dissent tendono ad accreditare l’idea che, grazie ad esso, si centrerebbe l’obiettivo di avere – per dirla con un’attenta studiosa[24] – “motivazioni chiare, semplici, comprensibili, accessibili”, quasi che si dia un rapporto di diretta e necessaria conseguenzialità tra l’una e l’altra cosa. Ciò che, però, a mia opinione, non è affatto provato, l’esperienza piuttosto testimoniando che possono aversi buone o cattive motivazioni, ora le une ed ora le altre, indipendentemente dalla esistenza dell’istituto e dal fatto che, laddove esista, se ne faccia o no utilizzo.
3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta
Si diceva poc’anzi che, a giudizio di C., occorre comunque uscire dal “guado” o, diciamo pure, dall’ambiguità. Il punto è che, purtroppo, ammesso pure che si abbiano le idee chiare sulla meta, non è affatto sicuro quale sia la via da battere per raggiungerla.
Se n’è avuta, ancora da ultimo, conferma dal forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa, sopra già più volte richiamato, nel corso del quale, per un verso, non sono mancate le espressioni di perplessità in merito alla opportunità di far luogo al dissent senza indugio e, per un altro verso, anche da parte di coloro che vi si sono dichiarati favorevoli si sono avute indicazioni non poco divergenti in merito allo strumento positivo bisognoso di essere messo in campo allo scopo[25].
Ancora una volta, così come era già accaduto in passato[26], il ventaglio è stato dispiegato a tutto campo, prospettandosi la necessità allo scopo ora della legge costituzionale ed ora di quella comune ovvero ammettendosi la sufficienza della disciplina per via di autonormazione prodotta dalla stessa Corte e, magari, della innovazione ope juris prudentiae[27].
Il problema sul piano teorico c’è e sarebbe un grave errore, frutto di autentica miopia, non ammetterne la esistenza; e, tuttavia, come ho fatto notare di recente in altro luogo[28], forse praticamente va ridimensionato. È mia impressione, infatti, che qualunque sia lo strumento utilizzato è improbabile che se ne abbia la contestazione o, peggio, la rimozione in sede giurisdizionale.
Pressoché certo è quest’esito ove si faccia luogo all’adozione di una legge costituzionale (soluzione da me patrocinata già da molti anni[29] e che seguito a ritenere la più rigorosa, a motivo delle implicazioni di ordine istituzionale che possono aversi per effetto della novità in parola). Non si conoscono, infatti, casi di caducazione di leggi costituzionali, al di fuori della peculiare vicenda dello statuto siciliano, peraltro venuto alla luce – come si sa – ancora prima della Carta costituzionale e con questa oggettivamente in molte sue parti non compatibile. Non che ciò non si ritenga astrattamente possibile, alla luce della nota teoria dei limiti alle innovazioni venute alla luce con le procedure di cui all’art. 138; e, tuttavia, la Corte è comprensibilmente restia a far luogo all’annullamento di leggi di forma costituzionale (e, prima ancora, lo sono coloro che potrebbero chiederlo), specie poi laddove dovessero venire a formazione con i più larghi consensi in seno alle assemblee elettive e, forse più ancora, laddove confermate dal voto popolare. Si preferisce, piuttosto, far luogo – come si sa – ad aggiustamenti, anche corposi, per via interpretativa, secondo quanto è stato testimoniato per tabulas dai continui rifacimenti ai quali è andato soggetto il Titolo V e, in genere, l’intera Carta costituzionale, anche nella sua originaria versione, che non è riuscita a sottrarsi alle corpose modifiche tacite alle quali è andata soggetta[30].
Discorso solo in parte diverso parrebbe doversi fare con riguardo alle leggi comuni; e, tuttavia, anche per esse l’ipotesi della caducazione da parte della Corte che si senta lesa o invasa nella propria sfera di competenze dall’atto legislativo, nell’assunto che la introduzione del dissent debba aver luogo per mano della Corte stessa, appare ugualmente alquanto remota, se non pure scartabile a priori.
Molto più realistica è, invece, l’ipotesi che la novità in parola (se proprio ha da venire alla luce…), si abbia per iniziativa della Consulta, in sede di autonormazione ovvero per via giurisprudenziale. Ed anche in questo caso, mi parrebbe assai improbabile che lo stesso giudice costituzionale, eventualmente adito[31], possa tornare sui propri passi, delegittimando a conti fatti se stessa.
Recenti esperienze, alle quali si è poc’anzi fatto cenno, che hanno visto la Corte occupare il campo un tempo dalla stessa ritenuto esclusivamente coltivabile dal legislatore, danno sicura conferma del fatto che le Camere tendono ad assistere inerti all’iperattivismo che connota le più recenti tendenze della giustizia costituzionale. E, francamente, non si vede perché qui le cose dovrebbero andare diversamente, tanto più che la novità di cui ora si discorre si ritiene – a torto – che attenga esclusivamente alle dinamiche del processo costituzionale, restando improduttiva di sostanziali effetti a carico di altri operatori istituzionali (e, segnatamente, di quelli preposti alla direzione politica).
Di contro, proprio la novità stessa potrebbe essere ritenuta vantaggiosa per questi ultimi, dal momento che renderebbe palesi le fratture interne alla Corte e potrebbe pertanto essere sfruttata in ambiente politico secondo occasionali convenienze.
4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale
Quest’ultima notazione, unitamente alla consapevolezza che realisticamente – come si diceva – il dissent può nutrire la speranza di venire alla luce unicamente per iniziativa della Corte, deve indurre ad una seria e disincantata riflessione finale che ora si passa a svolgere con la massima rapidità, avendo avuto già modo di dirne ancora di recente altrove[32].
Ebbene, C. è pienamente avvertito delle conseguenze che, nel bene e nel male, potrebbero aversi a far luogo alla novità in discorso. Affida il suo pensiero ad una serie di puntuali interrogativi formulati nelle considerazioni finali del suo studio, lasciandoli accortamente in sospeso. Ad es., sul versante dei rapporti tra la Corte costituzionale e le Corti europee e le altre massime autorità giurisdizionali di diritto interno, richiama la discussa ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del settembre 2020, interrogandosi su cosa sarebbe potuto accadere per il caso che la decisione stessa fosse stata fatta oggetto di una o più opinioni dissenzienti (95).
Convengo, ovviamente, sul rilievo della questione; mi chiedo, però, spostando il tiro al piano dei rapporti tra la Corte e gli organi statali d’indirizzo politico, quali scenari potrebbero delinearsi in presenza di opinioni dissenzienti coinvolgenti decisioni della Consulta su leggi elettorali o su altre discipline “scottanti” e gravide di implicazioni per le dinamiche riguardanti la forma di governo e la stessa forma di Stato[33].
Dicevo all’inizio della succinta riflessione che volge ormai alla fine che il dissent mi ricorda il buco della serratura da cui è possibile vedere quanto prima era rimasto nascosto.
Ora, è sicuro che dell’osservazione del contesto complessivo del tempo presente non possa farsi a meno, essendo necessario interrogarsi sugli effetti di sistema che potrebbero conseguire all’introduzione della novità di cui si è oggi nuovamente discorso[34], specie laddove il contesto stesso si presenti gravato da plurimi focolai di tensione istituzionale, veri e propri conflitti (a volte anche assai aspri), porzioni del campo in cui si svolgono le dinamiche istituzionali ad oggi avvolte da una fitta nebbia che impedisce di vedere con chiarezza come le dinamiche stesse prendono forma e quale ne sia l’orientamento e il fine.
Ebbene, in un quadro siffatto consiglierei molta cautela prima di far luogo ad una innovazione, quale quella di cui si è discorso, sicuramente produttiva di non pochi benefici ma anche – in relazione al nostro assetto politico-istituzionale – suscettibile di mostrarsi foriera di svantaggi e di far correre rischi da cui potrebbero scaturire effetti che non si saprebbe poi come circoscrivere nella loro portata, se non pure eliminare del tutto[35].
Viviamo un tempo difficile e, per molti aspetti, sofferto, e non solo per la pandemia che ad oggi ci affligge ed inquieta.
Contrariamente alle rassicuranti e, talora, persino ireniche raffigurazioni che, per comprensibili motivi, autorevoli operatori istituzionali (a partire dal Capo dello Stato) danno del quadro politico-istituzionale e del futuro che l’attende, seguito a ritenere la nostra democrazia fragile, per quanto siano ormai trascorsi tre quarti di secolo dalla nascita della Repubblica; una democrazia al proprio interno ancora non del tutto pacificata e nella quale operano forze politiche dalla irrefrenabile vocazione populista e, in alcune loro espressioni, nazionaliste ad oltranza e venate di autoritarismo[36]; una democrazia in seno alla quale si registra un calo vistoso di fiducia nei riguardi degli operatori di giustizia che hanno – ahimè – perduto una parte consistente della credibilità di cui, ancora fino a poco tempo addietro, godevano[37], senza peraltro che sia chiaro come possa tentarsene il pur parziale recupero; una democrazia, infine, che – come ha segnalato la più avvertita dottrina[38] –, allo stesso tempo in cui rende testimonianza di una grave crisi della rappresentanza[39], ci consegna un’immagine del corpo sociale afflitto al proprio interno dalla medesima crisi, il cui tessuto connettivo appare essere ormai vistosamente sfilacciato e problematicamente ricucibile[40].
Non è, di certo, piacevole restare nel “guado”, per riprende ancora una volta l’efficace metafora di C.; attenzione, però, a non spingersi troppo al largo nel mare procelloso, col rischio di non avere poi la forza per tornare indietro e guadagnare la riva[41].
Torniamo, dunque, a discuterne in tempi migliori, se avremo la fortuna di vederli[42].
* Intervento al webinar di presentazione del libro di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinio. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, per iniziativa dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria e di Federalismi, 8 giugno 2021, alla cui data lo scritto è aggiornato.
[1] … che d’ora innanzi, per ragioni di speditezza, richiamerò con la sola lettera iniziale dell’autore; avverto, inoltre, che farò riferimento alle pagine dello scritto con la sola indicazione del loro numero data nel testo.
[2] La questione – come si sa – è da tempo dibattuta: dopo i noti studi di L. Luatti, Profili costituzionali del voto particolare. L’esperienza del tribunale costituzionale spagnolo, Giuffrè, Milano 1995; S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; L. Scaffardi, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, in St. parl. pol. cost., 124/1999, 55 ss., e A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016, l’istituto è stato, ancora di recente, fatto oggetto di animate discussioni che – come qui pure per taluni aspetti di vedrà – hanno dato conferma della perdurante esistenza di opinioni reciprocamente distanti e, in relazione a taluni profili anche di cruciale rilievo, frontalmente contrapposte: v., dunque, tra i molti altri, K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, e, della stessa, ora, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», in Riv. Guppo di Pisa, 1/2021, 29 aprile 2021, 360 ss.; AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019; D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss.; C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss.; A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, in Giur. cost., 5/2020, 2571 ss. Infine, i contributi al forum dal titolo Sull’introduzione dell’opinione dissenziente nel giudizio di costituzionalità, organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa ed ospitato dal fasc. 1/2021, 17 maggio 2021, 383 ss.; D. Camoni, Due importanti lezioni europee per l’introduzione dell’opinione dissenziente nella Corte costituzionale italiana, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 3/2021, 1° giugno 2021, 59 ss., e, se si vuole, anche il mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, in questa Rivista, 28 gennaio 2021.
[3] Così, E. Rossi, Relatore, redattore e collegio nel processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo, Giappichelli, Torino 1996, 349, richiamato anche da C., 2, in nt. 2.
[4] È pur vero però che alla data di svolgimento del nostro incontro non si è registrato nell’anno in corso neppure un caso di sostituzione; e sarà interessante verificare se si avvererà la previsione fatta da B. Caravita nell’intervento conclusivo dell’incontro stesso, secondo cui potrebbe, prima o poi, accadere che un giudice sostituito per la redazione chieda che sia pubblicata contestualmente alla decisione la sua opinione separata.
[5] Il riferimento – com’è chiaro – è all’intervista resa da N. Zanon ad A. Fabozzi, ed apparsa ne Il Manifesto del 29 dicembre 2020, il cui titolo parla da solo (Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”). Lo stesso giudice ha poi ulteriormente ribadito il proprio orientamento in un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Spinge, d’altronde, in questa direzione proprio lo studio su cui oggi siamo chiamati a confrontarci.
[7] Su ciò il dibattito è in corso da tempo, infittendosi ed animandosi peraltro in particolare misura proprio negli anni a noi più vicini [indicazioni in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.), e, dello stesso, ora, Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in Federalsimi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, 170 ss.; A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. Infine, se si vuole, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 16 aprile 2021, 456 ss.
[8] … che, peraltro, non possono neppure annoverarsi con sicurezza quali eccezioni alla regola del dissenso, non potendosi stabilire se Mattarella si sia, o no, trovato in minoranza in occasione dell’adozione delle decisioni in parola.
[9] Il concetto è ribadito nell’intervento svolto da C. al forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa sull’istituto, che può vedersi nel fasc. 1/2021, 419. Di “una ‘via italiana’ criptica e soft” di dissent si discorre in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 69; similmente, ora, E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2021, 83 s.
[10] A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2574.
[11] Come C. argomenta efficacemente, non pochi sono tuttavia i casi in cui è del tutto improprio evocare la “coscienza” a giustificazione della sostituzione.
[12] Ovviamente, è fuori discussione che il giudice costituzionale, al pari di ogni altro operatore, disponga di pienezza di libertà di ricerca scientifica. Per problematico che tuttavia sia, in alcune circostanze, tenerne distinte le sue genuine e peculiari espressioni da altre invece ad esse non riportabili in modo appropriato, va ugualmente avvertito che chi è chiamato a compiti di particolare delicatezza e rilievo, qual è appunto il giudice costituzionale, va incontro a limiti di correttezza istituzionale e, forse, riferibili pure al dovere di fedeltà alla Repubblica, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, che gli impongono il mantenimento del riserbo in relazione alle modalità di esercizio del munus del quale è titolare. Ne dà sicura conferma, d’altronde, proprio la mancata previsione del dissent che proietta la sua immagine anche fuori della Consulta, richiedendo l’adozione di comportamenti con esso conseguenti.
[13] Giudico questa precisazione meritevole di essere tenuta costantemente presente, dal momento che ogni discorso che si va qui pure facendo con riguardo al rapporto tra sostituzione e dissent resta pur sempre sottoposto alla condizione che l’una sia dovuta all’altro, senza che però se ne possa avere la prova se non nel caso di esternazione resa dallo stesso giudice relatore.
[14] Non c’è, tuttavia, rimedio, a tener ferma la possibilità della sostituzione, di cui comunque in alcuni casi non può farsi a meno, senza tornare all’antico della sottoscrizione di ogni decisione da parte di tutti i giudici (sul punto, anche a breve).
[15] Troviamo infatti scritto che “i benefici, soprattutto per ciò che attiene alla autorevolezza della Corte, che si ricaverebbero da una meditata introduzione della possibilità di esprimere motivatamente una opinione diversa potrebbero essere superiori agli svantaggi provocati da una situazione in cui vi è la contemporanea assenza della dissenting opinion e presenza di una forma incontrollata, dimidiata e autoreferenziale di dissenso” (97).
[16] Così, M. Ruotolo, Intervento al forum cit., 443.
[17] Il punto è di cruciale rilievo e merita un’attenzione ancora maggiore di quella pure fin qui dedicatavi, specie se si considera la vera e propria escalation alla quale si è assistito nel tempo a noi più vicino e che, per vero, parrebbe non conoscere limite di sorta alla sua crescente affermazione [riferimenti al limite in parola ed alle oscillazioni alle quali è andato soggetto fino a pervenire, di recente, al suo sostanziale superamento, possono, tra gli altri, aversi da A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss.; T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.; F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115; M.T. Stile, Discrezionalità legislativa e giurisdizionale nei processi evolutivi del costituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli 2020; A. Matteoni, Legittimità, tenuta logica e valori in gioco nelle “decisioni di incostituzionalità prospettata”: verso un giudizio costituzionale di ottemperanza?, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 2/2021, 3 maggio 2021, 348 ss., spec. 371 ss. Infine, volendo, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, cit., spec. 473 ss., e L. Pesole, La Corte costituzionale oggi, tra apertura e interventismo giurisprudenziale, in Federalismi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, spec. 242 ss.].
[18] D. Tega, Intervento al forum, cit., 444.
[19] Le plurime ed annose questioni che si pongono al piano dei rapporti tra Corte e pubblica opinione sono fatte da tempo oggetto di parimenti plurimi e discordi punti di vista (tra gli altri, v. M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha discorso in più luoghi di riflessione scientifica, tra i quali “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.; più di recente, v. D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, v., poi, con riguardo alle esternazioni dei pubblici poteri, A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.
[20] Su ciò, richiamo qui, per tutti, solo gli studi di A. Spadaro, in ispecie il suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994.
[21] Della motivazione delle decisioni della Corte, per ciò che è e per come dovrebbe essere, si discute – come si sa – da tempo (indicazioni, per tutti, in AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giuffrè, Milano 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996; utili spunti a finalità teorico-ricostruttiva sono, inoltre, offerti da D. Galliani, I criceti e la ruota che gira. Il senso costituzionale dell’obbligo di motivazione, in Scritti per Roberto Bin, a cura di C. Bergonzini - A. Cossiri - G. Di Cosimo - A. Guazzarotti - C. Mainardis, Giappichelli, Torino 2019, 684 ss., nonché, in prospettiva comparata, da G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020). Sta di fatto, però, che ogni tentativo volto a correggerne alcune espressioni, perlomeno nei casi in cui si presentino maggiormente devianti dal modello che si suppone debba per esse valere, si infrange nella pratica contro il muro eretto a “copertura” delle pronunzie della Consulta dall’art. 137, ult. c., Cost. Un efficace rimedio agli scostamenti in parola è, a mio modo di vedere, costituito, sullo specifico terreno sul quale maturano le esperienze processuali relativi alla tutela dei diritti fondamentali, dal c.d. “dialogo” tra le Corti (termine, nondimeno, improprio, che richiederebbe non poche precisazioni la cui esposizione però – com’è evidente – non può qui aversi), in ispecie laddove si intrattenga con le Corti europee quali interpreti e garanti esse pure di documenti materialmente (o, come preferisce dire la Consulta, tipicamente) costituzionali, le Carte dei diritti.
[22] Confesso di non disporre di alcuni elementi di conoscenza che sarebbero ai nostri fini preziosi; non sarei, tuttavia, così sicuro che, nei Paesi che conoscono il dissent, si assista a più frequenti mutamenti d’indirizzo rispetto a quelli che non lo hanno sperimentato. Il vero, poi, è che i mutamenti stessi dovrebbero rinvenire giustificazione in dati oggettivi, e segnatamente in una diversa “situazione normativa” sulla quale la Corte sia chiamata a pronunziarsi e che appunto solleciti (e, anzi, imponga) l’aggiustamento, ora più ed ora meno corposo, di un precedente orientamento (della “situazione normativa” quale oggetto dei giudizi di costituzionalità discorrono A. Ruggeri e A. Spadaro, di recente e riassuntivamente nei Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 101 ss.).
[23] Un solo esempio per tutti: le tecniche di risoluzione delle antinomie tra il diritto (ieri comunitario ed oggi) eurounitario e il diritto interno.
[24] V. Marcenò, Intervento al forum, cit., 438.
[25] V., in particolare, le risposte alla seconda domanda.
[26] … ad es., in occasione del Seminario su L’opinione dissenziente, svoltosi presso la Consulta nel novembre del 1993, i cui Atti, curati da A. Anzon, sono venuti alla luce per i tipi della Giuffrè nel 1995.
[27] … senza, peraltro, trascurare la eventualità del cumulo degli strumenti, pure giudicato possibile: in particolare, ad avviso di G. Repetto, Intervento al forum, cit., 428, l’introduzione dell’istituto per mano della Corte, in sede normativa ovvero per via di prassi, non farebbe da ostacolo alla successiva disciplina legislativa. Non è tuttavia precisato il modo con cui gli strumenti stessi dovrebbero concorrere alla messa a punto dell’istituto, in ispecie se la normativa apprestata dalla legge possa – e, se sì, fino a che punto – prendere il posto di quella eventualmente data per via di autonormazione.
[28] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit., spec. in nt. 12.
[29] … sin dal mio Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità: problemi di tecnica della normazione, Intervento al Seminario su L’opinione dissenziente, cit., 89 ss., e già in Pol. dir., 1994, 299 ss.
[30] … modifiche peraltro estese agli stessi principi fondamentali, con la conseguenza che ciò che si considera impedito al legislatore di revisione costituzionale non lo è, di fatto, al massimo garante della legalità costituzionale. Ciò che equivale – come vado dicendo da tempo – a far di quest’ultimo un autentico potere costituente permanente.
[31] … ad es., dalle Camere in sede di conflitto di attribuzione, sub specie di conflitto da menomazione.
[32] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit.
[33] Riprendo sul punto una preoccupata notazione già svolta nel mio scritto per ultimo cit.
[34] A questa indicazione di metodo si attiene anche altra dottrina, pervenendo tuttavia ad esiti teorico-ricostruttivi assai discosti da quelli ai quali io sono già approdato altrove e che qui pure confermo. Cfr., ad es., al mio punto di vista quello di recente manifestato da G. Repetto, Intervento, cit., 399 ss., il quale, dopo aver avvertito che l’istituto del dissent “risente del momento storico e delle coordinate storico-politiche sulla posizione della Corte nel sistema”, conclude nel senso che gli argomenti favorevoli alla sua introduzione risultino prevalenti su quelli di segno opposto. Contraria si è, invece, dichiarata A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2580 s.
[35] Similmente, nella manualistica, G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e, se si vuole, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 79 s.
[36] Ammoniscono, da varie angolazioni e con pari varietà di esiti teorico-ricostruttivi, del rischio della sempre temibile degenerazione autoritaria dell’ordinamento i contributi di AA.VV., Crisi dello Stato e involuzione dei processi democratici, a cura di C. Panzera - A. Rauti - C. Salazar - A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, e, più di recente, M. Calamo Specchia, Un prisma costituzionale, la protezione della Costituzione: dalla democrazia “militante” all’autodifesa costituzionale, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1/2021, 91 ss.
[37] Lo scandalo Palamara è forse la punta più appariscente del fenomeno che ha però origini risalenti e ramificazioni profonde e varietà di espressioni ad oggi, a mia opinione, non sufficientemente esplorate in ogni loro aspetto.
[38] V., part., M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss., e, dello stesso, La massima concentrazione del minimo potere. Governo e attività di governo nelle democrazie contemporanee, in Teoria pol., 2015, 113 ss., spec. 128.
[39] Della condizione svilita in cui versa la rappresentanza politica si discorre nel mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[40] Ho trovato particolarmente lucida ed istruttiva la cruda diagnosi fatta nel libello di un’accreditata dottrina romanistica (A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020), venuto alla luce in tempi recente, nel quale si rileva come le radici della crisi si rinvengano, prima ancora che nelle istituzioni, nel profondo del corpo sociale. Ed è perciò che – come ho ritenuto di dover osservare altrove – tagliare le erbacce in superficie lasciando però nel terreno le loro radici non soltanto risulti improduttivo ma rischi piuttosto di rafforzarle ancora di più.
[41] Non si trascuri, infine, un punto, con specifico riguardo al caso che l’avvento del dissent si abbia – come dietro prospettato – per mano della stessa Corte; ed è che, laddove i fatti dovessero poi indurre ad un ripensamento della novità dapprima introdotta, si faticherebbe non poco a tornare indietro, per la elementare ragione che, una volta inventata e messa a punto una certa tecnica decisoria che fa dilatare i margini di manovra di cui il giudice costituzionale dispone, quest’ultimo è comprensibilmente restio a restringerli, privandosi di uno strumento già sperimentato. Come si sa, infatti, la tendenza è per il crescente arricchimento e affinamento delle tecniche decisorie, non già per il loro impoverimento ad opera della stessa Corte. Con ogni probabilità, è ingenuo ritenere che il caso nostro possa fare eccezione alla regola.
[42] Lo stesso invito figura già nel titolo di una recente riflessione dedicata al tema da A. Fusco, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», cit., 360 ss.