Essere presidente di un ufficio giudiziario, oggi.
Intervista di Marcello Basilico, Riccado Ionta e Federica Salvatore a Antonella Magaraggia e Giuseppe Meliadò
Essere un buon giudice è condizione necessaria per essere un buon presidente? Quali altre effettive capacità richiede l’impegno dirigenziale?
Magaraggia Per poter dirigere qualsiasi struttura bisogna conoscerla. Un presidente deve aver esercitato la giurisdizione e, aggiungo, sarebbe auspicabile che avesse fatto esperienza sia nel penale che nel civile (per riuscire a comparare il lavoro nei due settori) e lavorato in più uffici giudiziari (ciò consente di conoscere più modelli organizzativi).
L’essere un buon giudice è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Per essere un buon dirigente bisogna avere capacità organizzative (un giudice organizzato è riconoscibile facilmente, da come gestisce il proprio ruolo o partecipa alla vita dell’ufficio), passione per l’organizzazione (alcuni colleghi la ritengono, invece, un deminutio rispetto all’esercizio della giurisdizione) e un carattere empatico e dialogante.
Meliadò L’esperienza mi dice che senza un bagaglio risalente e autorevole di conoscenze e competenze giuridiche e giurisdizionali è difficile essere un buon dirigente, diffido da sempre degli ottimi organizzatori che non si sono misurati con la complessità e la difficoltà del fare giurisdizione, in quanto hanno una visione del tutto parziale, e spesso distorta, delle problematiche umane e professionali che dovrebbero orientare. E tuttavia ognuno di noi potrebbe testimoniare di come assai spesso ottimi magistrati non hanno inclinazione (passione e propensione) a organizzare non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro degli altri, a rapportarsi con tutti i soggetti che danno corpo a quello che si definisce l’ufficio giudiziario, e quindi non solo a fare giurisdizione, ma anche a organizzare la giurisdizione.
Il fatto è che in questi ultimi anni si sono innestati processi (per quanto lenti e a macchia di leopardo) di cambiamento non solo del ruolo della dirigenza, ma anche dei suoi comportamenti e atteggiamenti, su cui è necessario insistere.
Ed infatti mi sembra che si sia progressivamente acquisita la consapevolezza di come non sia fruttuoso né un atteggiamento di mera denuncia, né la pura attesa di risultati che dipendono solo dagli altri; un atteggiamento che esaltava il ruolo formale della dirigenza, come custode dell’osservanza delle regole e delle procedure, che può assicurare la conservazione, ma non certo il miglioramento di una struttura concepita a torto come sostanzialmente insensibile ad ogni valutazione in termini di efficienza.
Il che vale quanto dire che il limite dell’esistente – che è una verità di fatto non pretermettibile – non può costituire il raggio di azione esclusivo dell’attività del dirigente, precludendo una tensione verso il risultato e il cambiamento organizzativo che rischia di tradursi in una aprioristica rinuncia a esplorare le potenzialità che il sistema offre per ottimizzare le risorse disponibili e perseguire concreti e specifici obiettivi di efficienza e trasparenza dell’attività giudiziaria. Ma per superare il limite dell’esistente, è necessaria una visione generale dell’organizzazione, che va al di là della sola competenza giuridica.
Dirigere bene un ufficio è un compito spesso difficile e gravoso. La partecipazione attiva dei magistrati dell’ufficio in questo senso è un aiuto? Come può essere attuata concretamente, nell’organizzare, programmare e gestire l’ufficio?
Magaraggia La collaborazione dei magistrati è fondamentale. La porta dell’ufficio presidenziale deve essere sempre aperta. La mia lo è stata, anche fisicamente. Nessuna decisione significativa che riguarda il Tribunale può essere presa senza una previa consultazione. Questo è un principio tanto corretto quanto utile perché più la soluzione è condivisa più troverà facile attuazione. Se il Tribunale è piccolo si possono fare riunioni con tutto l’ufficio. Se è medio o grande sono fondamentali i presidenti di sezione, che sono un’ottima cinghia di trasmissione con i colleghi.
Anche le deleghe, lungi dall’essere uno strumento per far lavorare di meno il presidente, se utilizzate con intelligenza, possono essere utili. Un dirigente deve conosce bene i propri magistrati e valorizzare i talenti di ognuno. Questo consente di avere apporti significativi dai colleghi e li fa sentire partecipi dell’organizzazione complessiva. Dirigenza partecipata non vuol dire, peraltro, dirigenza deresponsabilizzata, che cerca a tutti i costi la condivisione. Ci sono, infatti, momenti in cui i dirigenti debbono assumersi la responsabilità delle scelte, anche se difficili o scomode.
Meliadò Il coinvolgimento e la partecipazione consapevole dei magistrati dell’ufficio nei processi di cambiamento e di miglioramento organizzativo sono non solo di aiuto per la dirigenza, ma costituiscono una condizione indispensabile per la loro stessa realizzazione e il loro effettivo successo. Mi limito a ricordare l’esperienza che ha condotto alla costituzione, presso la Corte di appello di Catania, nell’anno 2016, e poi a Roma, nell’anno 2020, dell’ufficio per il processo; ben prima quindi che lo stesso venisse imposto dall’Europa (come a torto si dice) con il PNRR.
Il coinvolgimento dei magistrati della Corte nelle scelte intraprese per ridurre i tempi dei processi e modernizzare la risposta di giustizia è stata realizzata attraverso una articolata rete di punti di contatto e di responsabili per gli obiettivi perseguiti da ciascuna sezione ed è stata preceduta e accompagnata da molteplici gruppi di lavoro su temi particolarmente esposti (dalla comunicazione delle decisioni fra il primo e il secondo grado, all’esame preliminare delle impugnazioni), che si sono risolti in ulteriori momenti di confronto fra i consiglieri, attraverso la partecipazione dei magistrati delegati dei vari uffici.
Gli obiettivi di produttività e la realizzazione dei criteri di qualità e di priorità della Corte – sia in materia civile che penale – sono oggetto di costante rilevazione (con cadenza trimestrale) e di confronto fra tutti i consiglieri del settore. In tal modo le scelte organizzative dell’ufficio (per quanto grande e complesso) sono esposte ad un costante processo di confronto e di condivisa responsabilizzazione, che, senza diminuire la responsabilità del dirigente per le scelte operate, ne rende partecipati e diffusi gli obiettivi e le finalità.
La valutazione dei dirigenti è incentrata sui “risultati conseguiti nella gestione dell’ufficio”, spesso interpretati in termini meramente numerici. Com’è possibile valorizzare l’aspetto produttivo salvaguardando la qualità delle decisioni e l’autonomia ed indipendenza dei magistrati?
Magaraggia Non ritengo che la valutazione sia incentrata solo su questo. Se si scorrono i vari parametri che vengono presi in considerazione nei rapporti sulla conferma si può verificare che vi sono molti elementi che entrano in valutazione.
Personalmente non ho mai ragionato in termini quantitativi né nella gestione dell’ufficio né nella valutazione dei colleghi. Ad esempio, in sede di redazione del programma ex art. 37 D.L. 98/2011, se i ruoli dei giudici civili sono composti di cause molto risalenti nel tempo o complicate è ovvio che i risultati attesi siano quantitativamente minori, ma la valutazione del rendimento, sia dell’ufficio che del collega, deve essere positiva. L’importante è che il dirigente faccia una programmazione adeguata alla situazione del Tribunale e verifichi (e sia valutato per) i risultati sulla stessa e non su parametri standard e uguali per tutti.
Per salvare qualità e quantità credo dovrebbe essere fatto un grande lavoro sulla tecnica di redazione dei provvedimenti, ancora molto datata. Spesso i colleghi si spendono nella stesura dei provvedimenti quando un testo completo, ma sintetico farebbe risparmiare tempo e, aggiungo, ridurrebbe le impugnazioni.
Meliadò Io sono profondamente convinto della validità di un modello di ufficio giudiziario ove alla cultura dell’adempimento burocratico si sostituisce la cultura del servizio, in un contesto in cui prevale, sulle iniziative individuali, l’organizzazione e il lavoro di squadra, e che si pone pertanto come strumento funzionale ad una nuova organizzazione del lavoro giudiziario, per la realizzazione di alcuni obiettivi prioritari, ed innanzi tutto della riduzione dei tempi dei processi e del miglioramento della loro qualità.
Il coinvolgimento dei magistrati intorno ad un modello organizzativo volto a lavorare per progetti e obiettivi condivisi (all’insegna del proposito di lavorare meglio e non solo di più) costituisce la indispensabile premessa per conseguire risultati positivi nella gestione della giustizia civile e penale, garantendo anche un aumento sostenibile della produttività, rispettoso della specificità del nostro lavoro. Ricordo sempre il giovane magistrato che mi raccontava come il suo primo capo ufficio gli dicesse che non gli importava “quel che scrivesse”, ma “quante sentenze sfornasse”; naturalmente quel collega era privo di cultura della giurisdizione, ma anche di reale capacità organizzativa, era un finto organizzatore.
Nell’esercizio delle funzioni direttive che ruolo gioca l’effettiva presenza nell’ufficio e in quale misura l’impegno dedicato a compiti amministrativi, lontani dalla direzione dell’attività dei colleghi, potrebbe essere ridimensionato da interventi migliorativi del CSM o ministeriali?
Magaraggia Un dirigente è al servizio dell’ufficio e, come i giudici e il personale amministrativo, deve essere presente. L’esperienza mi ha insegnato che ogni giorno accade qualcosa di nuovo e di diverso, importante o meno importante, che richiede l’intervento, anche solo rassicurante, del presidente.
Quanto ai compiti amministrativi, non ritengo che la soluzione sia quella di eliminarli o ridurli. Il settore giurisdizionale e quello amministrativo procedono di pari passo e l’uno condiziona l’altro. La visione deve essere unica. Il problema è che il dirigente dovrebbe ricevere maggior formazione (quelle del C.S.M. e della S.S.M. sono ancora carenti) e, soprattutto, avere uno staff tecnico che lo supporti per decisioni che non rientrano nelle sue competenze ordinarie.
Meliadò È questo un punto nodale dell’attuale stato della dirigenza. La devoluzione al Ministero della giustizia della materia delle spese di giustizia, già gestite dai Comuni, per il modo in cui è stata attuata, sta determinando una sorta di mutazione genetica del ruolo dei capi degli uffici, che va rigorosamente attenzionata e denunciata. La mancata istituzione delle direzioni regionali, previste nell’impianto originario della riforma, in grado di far fronte alle complesse questioni connesse alla disciplina degli appalti pubblici e delle altre procedure di acquisto (e cioè, di una problematica del tutto estranea alla formazione esclusivamente giuridica e pubblicistica dei dirigenti amministrativi), sta stabilizzando, infatti, nonostante il tempo trascorso (oltre sette anni) una situazione originariamente concepita come transitoria, che incide sulla funzionalità degli uffici, esponendoli a compiti e rischi gestionali aggiuntivi del tutto insostenibili, e sul ruolo stesso dei capi degli uffici, ed in primo luogo dei presidenti delle Corti di appello.
Lo stabile trasferimento a questi ultimi di compiti delegati determina, infatti, una impropria commistione fra competenze amministrative relative all’organizzazione dei servizi, che rientrano, ai sensi dell’art.110 Cost., nelle attribuzioni del Ministero della Giustizia, e compiti di organizzazione della giurisdizione, propri dei capi degli uffici.
Tale situazione non giova né alla funzionalità degli uffici (se non altro per la necessaria “creatività” con cui si è costretti ad affrontare problemi che implicano specifiche competenza tecniche e scelte gestionali centralizzate, e che, in ogni caso, determinano un’ulteriore distrazione delle scarse risorse umane disponibili), né alla funzione propria dei dirigenti giudiziari, progressivamente assorbiti da incombenze che non attengono alle loro attribuzioni giurisdizionali e ai compiti di gestione e di miglioramento dell’apparato giudiziario alle prime connesse. Si tratta di una condizione ambigua ed insostenibile che merita di essere al più presto sciolta e rispetto alla quale si impone grande attenzione da parte del CSM e della magistratura associata.
L’incarico dirigenziale implica un intenso rapporto con l’avvocatura, chiamata anche ad esprimere un rapporto informativo sul dirigente in sede di conferma. Come deve atteggiarsi il dirigente nei suoi confronti?
Magaraggia L’apporto dell’avvocatura è fondamentale. Ci deve essere una stretta collaborazione tra presidente del Tribunale e presidente del C.O.A. Gli avvocati sono una fonte di conoscenza dei problemi (che, alcune volte, i giudici non vedono) e anche di loro soluzione (anche in questo caso, se è condivisa, trova più facile attuazione). Deve essere, però, un dialogo reale e biunivoco. Nella mia esperienza ho tratto molto giovamento dall’istituzione oltre che degli, ormai diffusi, osservatori sulla giustizia civile, che raccolgono prassi interpretative ed elaborano protocolli, anche di altri osservatori, più legati all’organizzazione. A Verona ne esistono due (uno nel civile e uno nel penale), composti dal presidente del Tribunale, dal presidente del C.O.A. e della Camera penale, da legali, da magistrati e da personale amministrativo. Si occupano dei problemi, molto concreti, segnalati dal foro, dalle cancellerie, dai giudici e dagli utenti, ricercando, in maniera condivisa, i possibili rimedi. I risultati sono stati molto positivi.
Meliadò Il dialogo e l’azione comune fra la magistratura e l’avvocatura costituiscono, insieme ad un ampio coinvolgimento dei magistrati negli obiettivi programmatici e di gestione degli uffici, l’altro pilastro su cui costruire il successo delle strategie di riforma dell’amministrazione della giustizia. Protocolli e intese programmatiche, attività congiunte negli organi di gestione e azioni formative comuni, tavoli di lavoro e osservatori permanenti hanno costituito in questi anni un reticolo prezioso di esperienze che hanno inciso profondamente sulla visione comune dei problemi della giurisdizione e hanno dato corpo a quella cultura dell’autogoverno, ben diversa dall’antica separatezza, che sostanzia la libertà delle formazioni sociali, l’autonomia dell’avvocatura e l’indipendenza della magistratura.
In realtà, in questi ultimi anni, se non è decollata quella “comune cultura della giurisdizione”, che a torto è stata accusata di essere solo un titolo buono per i convegni, e che invece ha avuto il merito di tenere aperto un canale di dialogo importante anche in momenti particolarmente difficili di reciproca incomprensione, si è progressivamente radicata, nella magistratura e nell’avvocatura, l’idea che il perseguimento di prassi e azioni comuni di miglioramento delle rispettive funzioni, oltre che della qualità del servizio giustizia, ha carattere strategico e non presente credibili alternative. Questa comune visione, nonostante inevitabili tensioni e differenziazioni, ha dato anche nel periodo della pandemia i suoi frutti, consentendo di proseguire l’attività giudiziaria, e di assicurare la tutela dei diritti, in una situazione inedita ed eccezionale.
Il dirigente giudiziario concorre, coi rapporti che gli sono richiesti, alla valutazione di professionalità dei giudici e, in sede di conferma, dei semidirettivi. Come avete interpretato questo compito? C’è il rischio di personalismi e di assecondare una visione e una deriva gerarchica degli uffici giudicanti?
Magaraggia I rapporti non devono essere standardizzati, ma rispecchiare il lavoro e la personalità del singolo giudice. Io chiedevo che le autorelazioni fossero il più possibile dettagliate. Soprattutto volevo che venissero elencati dati di fatto (che provvedevo a riscontrare), sui quali esprimevo le mie valutazioni. Se i rapporti sono basati su fatti e sulla loro valutazione si evitano i personalismi sia in senso positivo che in quello negativo. Tra l’altro io, prima di inviare il rapporto al C.G., lo facevo leggere al collega che, se aveva qualcosa da rilevare, me lo segnalava.
Non credo, quindi, che la gerarchizzazione passi per le valutazioni di professionalità. Si dovrebbe, forse, ragionare di più sul fatto che, quando il presidente fa un parere negativo, difficilmente trova seguito al C.S.M., che tiene parzialmente conto di quanto osservato dal dirigente e ha maglie di valutazione molto più larghe.
Meliadò Il problema non mi sembra quello dei personalismi, che è una criticità che per un dirigente serio non dovrebbe ipotizzarsi nemmeno in astratto, quanto quello delle fonti di cognizione che sono poste a sua disposizione per offrire un giudizio coerente con il reale impegno professionale di ogni magistrato. Per i semidirettivi il compito è più agevole, in quanto il capo dell’ufficio opera (o, almeno, dovrebbe operare) a stretto contatto con gli stessi, qualunque sia la dimensione dell’ufficio, ed è in grado di apprezzarne capacità e limiti; si complica per i giudici, rispetto ai quali la valutazione è mediata dal contributo conoscitivo offerto dai presidenti di sezione.
Mi sembra necessario, pertanto, che il dirigente e i presidenti di sezione concordino ex ante le modalità di verifica, specie con riferimento a quegli aspetti dell’attività giudiziaria che non risultano statisticamente verificabili, e che nondimeno valgono a configurare il profilo professionale complessivo del magistrato, in modo da evitare giudizi differenziati sostanzialmente privi di riscontro. Che, in questo contesto, gli uffici giudicanti stiano andando incontro al rischio di una deriva gerarchica è affermazione che merita di essere attentamente monitorata e verificata; allo stato a me sembra che il sistema tabellare contenga in sé tutti gli antidoti necessari per dare persistente tutela al principio, fondamentale nell’organizzazione costituzionale della magistratura italiana, per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.
I semidirettivi e i magistrati dell’ufficio, invece, non sono chiamati ad esprimersi nella procedura di conferma del dirigente. Un’inversione di tendenza è auspicabile e possibile?
Magaraggia La ritengo assolutamente necessaria. Chi meglio dei giudici e dei presidenti di sezione può conoscere l’operato di un presidente di Tribunale? Aggiungo che sarebbe necessaria anche l’audizione del dirigente amministrativo e del procuratore. L’unico inconveniente di questa scelta è che complica e allunga la procedura che, così articolata, forse, la struttura del C.S.M. non può permettersi.
Meliadò È una prospettiva che mi lascia perplesso, in quanto presenta l’evidente rischio della ricerca del consenso, che può trasformarsi nell’anticamera del condizionamento; lo penso giusto in quanto sono profondamente convinto di una organizzazione pienamente partecipata dell’ufficio, ma con chiare distinzioni di responsabilità.
Completata un’esperienza dirigenziale è possibile professionalmente tornare all’esercizio della giurisdizione alla scadenza dell’incarico? È auspicabile che ciò diventi la regola?
Magaraggia Ritengo che il cd. bagno di giurisdizione sia una scelta un po' populista. Sembra quasi che l’aver fatto il dirigente significhi non aver lavorato. Se un presidente ha acquisito una buona esperienza organizzativa (e non è facile), è irragionevole che la stessa non venga messa a servizio di un altro ufficio. E’ un principio organizzativo elementare. Si dice che così si crea il cd. circuito dei dirigenti. È vero. Il T.U della dirigenza aveva tentato di superarlo, ma, nell’attuazione pratica, ha fallito. Questo è il vero problema e la soluzione non è semplice.
Meliadò La temporaneità degli incarichi direttivi è stata una rivendicazione storica della magistratura italiana, sorretta da giustificazioni ineccepibili; un naturale corollario di tale principio è che, scaduto il mandato, si possa ritornare all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Altra cosa è la previsione di un obbligo in tal senso, quasi che i dirigenti partecipino di uno status separato da quello degli altri giudici. In realtà, spiace dirlo, ma mi sembra che si tratti di uno dei tanti luoghi comuni che circolano in materia di giustizia, frutto di suggestione più che di riflessione.
Nella narrazione ora circolante penetra anche all’interno della magistratura, l’incarico dirigenziale viene collegato al correntismo. Entrambi voi avete una storia di vita attiva in gruppi associativi dell’ANM. Quale è il rapporto tra questi e gli incarichi dirigenziali?
Magaraggia Sarebbe ipocrita nascondere che l’appartenere ad una corrente abbia favorito alcune nomine. In sistema di autogoverno gestito correttamente questo non dovrebbe accadere. In ogni caso, anche in assenza di favoritismi, l’aver fatto parte di un gruppo consente, probabilmente, a un collega di farsi conoscere di più e, quindi, di avere più chances rispetto a un altro. Quanto affermato non può, comunque, gettare un’ombra generalizzata su chi fa politica associativa. Nella mia esperienza, l’averla praticata mi ha insegnato molto e mi ha consentito di costruire una rete, positiva, di relazioni che sono tornate utili nella gestione del Tribunale.
Meliadò Per i magistrati della mia generazione l’impegno all’interno dell’ANM e dei suoi gruppi associativi rappresentò lo strumento per cambiare la nostra condizione umana e professionale, per rompere l’isolamento cui ci costringeva il nostro lavoro, ricercando, attraverso la riflessione e l’azione comune, un diverso modo di fare il magistrato, in modo da trasformare una magistratura che vedevamo ossequiosa e impotente. Il principio per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni fu, nella sua versione precettiva, il frutto della ostinata determinazione di quegli anni, orienta a tutt’oggi la mia attività di dirigente e mi dispero per quanti non comprendono che quella fu per tutti noi la più grande conquista, realizzata grazie all’aggregazione e al confronto su un nuovo sistema di valori.