ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
1. Il repertamento delle tracce biologiche. - 2.Rilievi, accertamenti e delega di indagini.- 3.Utilizzabilità degli accertamenti sul DNA.
IL DNA, acido desossiribonucleico, è una macromolecola che racchiude il genoma umano, ossia le caratteristiche biologiche ereditarie di ciascun individuo. L’analisi dei polimorfismi del DNA consente di distinguere, con significatività statistica, un individuo da un altro. La prova scientifica del DNA, utilizzata in ambito forense dal 1980, ha ampliato l’orizzonte delle investigazioni, non solo con riferimento ai cold cases e rappresenta la naturale evoluzione tecnologica degli accertamenti dattiloscopici. La Corte di Cassazione riconosce all'indagine genetica, in presenza di un numero consistente di evidenze statistiche confermative, valenza di prova piena, e non di mero elemento indiziario, sulla cui base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti, in ragione dell’elevato grado di affidabilità. ( Cass.pen.sez.2,n.43406 del I/06/2016; Cass.pen.,sez.5 n.36080 del 27/03/2015; Cass.pen., sez.2 n.8434 del 5/02/2013; Cass.pen. n.48349 del 30/06/2004).
1. Il repertamento delle tracce biologiche.
Le attività svolte nell’immediatezza sulla scena del crimine, al fine di acquisire le tracce biologiche lasciate dall’autore del reato, sono irripetibili e non differibili in quanto effettuate su materiali deperibili nel breve periodo. L’ immediata esecuzione è necessaria per non compromettere le prospettive di risultato. (Cass.pen.,sez.5,n.43413 del 24/9/2013). Il repertamento delle tracce biologiche va distinto dalla fase successiva di accertamento tecnico vero e proprio, dall’analisi volta all’estrazione, quantificazione, amplificazione e sequenziamento del DNA, ossia all’estrapolazione del profilo genetico riconducibile al proprietario della traccia. L’elaborazione giurisprudenziale ha tracciato le differenze tra rilievi e accertamenti: i primi attengono ad un'attività di mera osservazione, individuazione e raccolta di elementi attinenti al reato per il quale si procede, gli “accertamenti” tecnici, ripetibili o irripetibili, comportano lo studio critico, l’elaborazione valutativa, ovvero di giudizio di quegli stessi dati secondo canoni tecnici, scientifici ed ermeneutici (Cass.pen., sez. n. 11866/2000, D'Anna; Cass. pen. n. 38087/2009). Il prelievo di un campione biologico da oggetti contenenti residui organici (ad esempio su una tazzina di caffè, su un mozzicone di sigaretta o all'interno di un passamontagna) è riconducibile alla categoria dei rilievi. (Cass.pen., Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009). L'art. 359 c.p.p. riconosce al pubblico ministero la facoltà di avvalersi di consulenti tecnici laddove intenda procedere ad <
2. Rilievi, accertamenti e delega di indagini.
I prelievi del DNA, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici, qualificabili come rilievi tecnici non sono atti invasivi o costrittivi, essendo naturalmente prodromici all'effettuazione di successivi accertamenti tecnici -ripetibili o irripetibili- e non richiedono conseguentemente l'osservanza di garanzie difensive (Cass.pen., Sez. 1, n. 8393 del 02/02/2005), Si tratta, pertanto, di attività delegabili ai sensi dell’art.370 c.p.p.. Diverso, invece, è il procedimento di identificazione del DNA, il cui espletamento richiede lo svolgimento di attività irripetibili o ripetibili a seconda che comportino o meno la distruzione o il grave deterioramento dei campioni utilizzati, da accertarsi con una valutazione di natura esclusivamente tecnico-fattuale. Il procedimento di identificazione del DNA della persona si articola in fasi distinte: estrapolazione del profilo genetico presente sui reperti, decodificazione del profilo genetico dell'indagato e comparazione tra i due profili. L'identificazione del DNA della persona avviene trasponendo in supporti documentali la composizione della catena genomica rilevata dall'analisi dei campioni di materiale genetico. Gli elettroferogrammi, generalmente riversati su file, sono stabili e non modificabili. La comparazione genetica si risolve nel confronto dei supporti documentali su cui sono stati registrati i profili genotipici estratti dal sequenziatore. La natura irripetibile dell'accertamento tecnico che conduce all'estrapolazione del profilo genetico presente su reperti sequestrati deve essere accertata in concreto, dipendendo dalla quantità della traccia e dalla qualità del DNA sulla stessa presente. La Corte di legittimità ha affermato che l'attività di comparazione tra profili genetici estratti dai reperti e riversati in supporti documentali è un’operazione di confronto sempre ripetibile, a condizione che sia assicurata la corretta conservazione degli stessi supporti sui quali sono impresse le impronte genetiche (Cass.pen.,sez.1 n.18246/2015 e cass.pen., sez..2,n.2476 del 27/11/2014).
3 .Utilizzabilità degli accertamenti sul DNA.
Ove, al momento dell'accertamento tecnico irripetibile, si proceda contro ignoti ovvero contro un soggetto diverso da quello successivamente indagato non possono trovare applicazione le garanzie difensive previste per l’indagato, a pena di inutilizzabilità, dall'art. 360 c.p.p..
I risultati di tali attività sono, dunque, utilizzabili nei confronti di soggetti che al momento del conferimento dell'incarico non erano ancora indagati per assenza di elementi indiziari a carico (Cass.pen.,sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012). Ne consegue che qualora il pubblico ministero disponga accertamenti tecnici irripetibili, sussiste l'obbligo di dare avviso al difensore solo se, al momento dell'incarico, era già stata individuata la persona nei cui confronti si procede, mentre tale obbligo non ricorre nel caso che la persona indagata sia stata individuata successivamente nel corso dell'espletamento delle operazioni tecniche.(Cass.pen.,sez. 4, n.20591 del 23/02/2010). Pacifico è l’orientamento della Suprema Corte secondo cui il prelievo di tracce biologiche su un oggetto rinvenuto nel luogo del commesso reato e le successive analisi dei polimorfismi del DNA, per l'individuazione del profilo genetico al fine di eventuali confronti, sono utilizzabili quando l'indagine preliminare si svolga contro ignoti e non sia stato possibile osservare le garanzie di partecipazione difensiva previste per gli accertamenti tecnici irripetibili compiuti dal P.M.. (Cass.pen.,sez.2, n.45929 del 24/11/2011; cass.pen.,sez.2, n. 37708 del 24/09/2008; cass.pen.,sez.2, n.37708 del 24/09/2008).
Le eventuali nullità derivanti dalla violazione delle garanzie difensive in relazione ad altro indagato non inficiano l’utilizzabilità degli accertamenti irripetibili nei confronti della persona identificata successivamente. La violazione della procedura di cui all’art. 360 c.p.p. rientra nella categoria delle nullità così dette a regime intermedio. Pur trattandosi di una nullità di ordine generale ricadente nella previsione di cui all'art.178, lett.c c.p.p., attinente all'intervento dell'indagato (o del suo difensore), la stessa, non rientra tra le nullità assolute, insanabili e rilevabili anche di ufficio in ogni stato e grado, di cui al successivo articolo 179 c.p.p.. Il mancato avviso dell'inizio degli accertamenti è sanabile ai sensi dell’articolo 183 c.p.p., ciò in linea con il principio di rango costituzionale della ragionevole durata dei processi.(Cass.pen.,sez.5, n.11086 del 15/12/2014; Cass.pen.,sez. 3, n. 5207 del 15/03/2000).
1. Il respingimento alla frontiera tra disciplina interna e sovranazionale.- 2. Il respingimento in alto mare e la disciplina delle operazioni di salvataggio. - 3. Violazione dei diritti dello straniero e penale responsabilità: sulla nozione di “atto politico” e relativa sindacabilità da parte dell’Autorità giudiziaria.
L’Autore analizza la disciplina nazionale e sovranazionale in materia di respingimento alla frontiera, con particolare attenzione alle operazioni di salvataggio in mare e alla rilevanza dell’atto governativo nel vaglio di responsabilità per delitti contro la persona.
1. Il respingimento alla frontiera tra disciplina interna e sovranazionale.
L’ingresso e la permanenza dello straniero (non comunitario) nel territorio dello Stato trovano puntuale disciplina nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (nel prosieguo t.u.), da coordinarsi con le disposizioni dei d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 e 18 agosto 2015 n. 142, di attuazione delle direttive nn. 2005/85/CE, 2013/32/UE e 2013/33/UE, in tema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e armonizzazione delle procedure per il riconoscimento del particolare status in commento. La disamina della normativa interna prende, necessariamente, le mosse dalla lettura dell’art. 4, comma 1, t.u., a mente del quale l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito allo straniero in possesso di passaporto valido o documento equipollente e del visto d’ingresso, salve le ipotesi di esenzione, e può avvenire, salvi i casi di forza maggiore, soltanto attraverso i valichi di frontiera appositamente istituiti. Al terzo comma è, poi, precisato che l’ingresso sarà consentito soltanto allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata dello stesso e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. Non è, comunque, ammesso in Italia lo straniero che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato (o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone) ovvero che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, per taluni reati puntualmente indicati (tra cui i delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in ipotesi di flagranza). Non possono, infine, fare ingresso nel territorio dello Stato e sono respinti alla frontiera gli stranieri espulsi, salvo che abbiano ottenuto la speciale autorizzazione o che sia trascorso il periodo di divieto d’ingresso, gli stranieri che debbono essere espulsi e quelli segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore in Italia, ai fini del respingimento o della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico, di sicurezza nazionale e di tutela delle relazioni internazionali (art. 4, comma 6).
In difetto delle condizioni legittimanti l’ingresso nel territorio dello Stato, è previsto il respingimento (ex art. 10 t.u.), direttamente eseguito dalla polizia di frontiera o, in alternativa, disposto con accompagnamento dal Questore (c.d. respingimento differito), nei casi in cui lo straniero sia stato temporaneamente ammesso nel territorio per necessità di pubblico soccorso o, entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera, sia fermato all’ingresso o subito dopo.
In nessun caso può, tuttavia, disporsi il respingimento verso uno Stato in cui il migrante possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali (ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione) oppure qualora esistano fondati motivi di ritenere che questi rischi di essere sottoposto a tortura, tenuto anche conto dell’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani (art. 19, commi 1 e 1.1., citato decreto). In nessun caso può, infine, disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati (art. 19, comma 1bis). Il sistema delle tutele è, poi, implementato dalla complementare disciplina in tema di asilo politico, riconoscimento dello status di rifugiato nonché adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari, che inibisce la primaria reazione alla frontiera (così l’art. 10, comma 4). A tal proposito, all’art. 10ter, comma 1, t.u. (introdotto con d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017 n. 46), è riconosciuto allo straniero, rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare, il diritto all’informazione sulla procedura di protezione internazionale (nonché sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito), assicurato presso appositi punti di crisi, allestiti nell’ambito dei centri governativi di prima accoglienza. Già prima dell’attuazione della direttiva comunitaria n. 2013/32/UE s’era affermato, nella giurisprudenza di legittimità, che «qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere – nella specie fondato non già sull’espressa previsione contenuta nell’art. 8 della direttiva UE 26 giugno 2013, n. 32, non ancora recepita, quanto piuttosto sull’interpretazione conforme alle direttive europee in corso di recepimento e costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale – di fornire loro informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l’accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, altresì, il giudice statuire sulla dedotta illegittimità del primo cagionata da siffatta omessa informazione» (cfr. Cass., Sez. VI civ., ordinanza 25 marzo 2015, n. 5926). L’obbligo d’informazione sulle procedure di asilo è, poi, sancito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella motivazione della sentenza 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri c. Italia, ha ribadito l’importanza di garantire alle persone interessate da una misura di allontanamento, le cui conseguenze sono potenzialmente irreversibili, «il diritto di ottenere informazioni sufficienti a consentire loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi».
Sull’impugnabilità del decreto di respingimento differito emesso dal Questore, si veda, infine, Cass., S.U., 17 giugno 2013, n. 15115, a mente della quale «spetta al giudice ordinario, in mancanza di norma derogatrice al criterio generale, la cognizione dell’impugnazione dei respingimenti, incidendo il relativo provvedimento su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo, in quanto rivolto, senza margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell’Amministrazione, all’accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge e a quello negativo della insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale». L’arresto, seppur in punto di riparto di giurisdizione, comprova l’esistenza – anche in difetto di positiva disciplina (diversamente da quanto previsto in materia di espulsione dall’art. 13, comma 8, t.u.) – di strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento persino nelle situazioni di marginale radicamento, quale diritto umano fondamentale, riconosciuto allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato (art. 2, comma 1, t.u.).
2. Il respingimento in alto mare e la disciplina delle operazioni di salvataggio.
Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale sui poteri statuali di controllo delle frontiere, occorre verificare in quali termini (ed eventualmente con quali limiti) la disciplina in rassegna trovi applicazione in caso d’interventi a presidio delle frontiere marittime, con particolare riferimento alle operazioni di salvataggio in mare.
Due le ipotesi: che al salvataggio segua direttamente il respingimento, senza ricovero dello straniero sulla terraferma o, in alternativa, che questi sia condotto nel territorio nazionale, per le esigenze di soccorso e prima assistenza.
Nella prima, supponendosi l’esecuzione dell’intervento in acque internazionali, l’interprete deve confrontarsi con il preliminare accertamento della giurisdizione dello Stato, che radica, poi, ogni valutazione in punto di violazione delle garanzie accordate allo straniero. Il tema ha formato oggetto della pronuncia C. edu, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri, cit. In conformità al carattere essenzialmente territoriale del concetto di giurisdizione, la Corte ha premesso come solo in circostanze eccezionali le azioni degli Stati contraenti compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possano costituire esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 CEDU (cfr. C. edu, 26 giugno 1992, Drozd e Janousek c. Francia e Spagna). Tuttavia, il controllo continuo e ininterrotto su un individuo, seppur al di fuori del territorio nazionale, integra propriamente giurisdizione (quantomeno de facto), con conseguente applicabilità del complesso dei diritti enunciati dalla Convenzione, purché pertinenti al caso di specie. Osserva, inoltre, la Corte che, in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera. Il principio di diritto internazionale ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione. Detto principio è recepito, peraltro, dal diritto interno, atteso il chiaro tenore letterale dell’art. 4 c. nav. («le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano»). In questi casi si tratta, dunque, di un controllo de jure (oltre che de facto) esercitato dallo Stato sugli individui interessati.
Quanto alle violazioni oggetto d’accertamento, la Corte ha ritenuto in contrasto con l’art. 4 del Protocollo n. 4 (che pone il divieto di espulsioni collettive di stranieri), il respingimento in alto mare (mediante trasporto, nel caso di specie, sino alle coste libiche), eseguito in difetto di congrua valutazione della posizione del singolo individuo attinto dal provvedimento (così già C. edu, 3 ottobre 1975, Henning Becker c. Danimarca, ove si è per la prima volta definita “l’espulsione collettiva di stranieri” come «qualsiasi misura dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che compongono il gruppo»). Si è, infatti, affermata la configurabilità di un’espulsione anche nell’ipotesi in cui si sia, a monte, impedito l’ingresso nel territorio nazionale, considerato lo scopo della norma, ossia evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminarne la situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le proprie argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente. «Se dunque – afferma la Corte – l’art. 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra». S’è, inoltre, accertata la violazione dell’art. 13 CEDU, che garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso effettivo che permetta di far valere i diritti e le libertà della Convenzione, avendo constatato la Corte che i ricorrenti non avevano avuto accesso ad alcuna procedura volta alla loro identificazione e alla verifica delle loro situazioni personali prima dell’esecuzione dell’allontanamento verso la Libia (tali procedure non erano previste a bordo delle navi militari sulle quali erano stati imbarcati i ricorrenti né fra il personale vi erano interpreti o legali).
L’ulteriore ipotesi in rassegna (ossia il caso in cui al salvataggio in mare consegua il trasporto dei migranti nel territorio nazionale) ha formato oggetto delle più recenti sentenze C. edu, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia (la seconda pronunciata dalla Grande Camera in parziale riforma della prima), sulle condizioni di trattenimento presso il centro di soccorso e di prima accoglienza di Contrada Imbriacola (Lampedusa). Si è, innanzitutto, accertata la violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU, che, sancendo il diritto alla libertà personale, ne consente la limitazione, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno (par. 1, lett. f). Invero, l’ordinamento italiano prevede, quale unica forma lecita di trattenimento dello straniero, la misura della detenzione amministrativa nei centri di permanenza per i rimpatri, di cui all’art. 14 t.u., soggetta, come noto, alla convalida dell’Autorità giudiziaria ordinaria (commi 3 ss.). Diversamente, in ipotesi di respingimento (evidentemente differito), non v’è norma che consenta di limitare la libertà personale degli stranieri temporaneamente collocati presso i centri di soccorso e di prima accoglienza, di cui all’art. 10ter t.u. È stata, infine, affermata la violazione dei parr. 2 e 4 dell’art. 5, concernenti gli obblighi d’informazione circa le ragioni del trattenimento nonché il diritto a un ricorso effettivo innanzi all’Autorità giudiziaria, per le doglianze sulla legittimità della limitazione della libertà personale patita.
3. Violazione dei diritti dello straniero e penale responsabilità: sulla nozione di “atto politico” e relativa sindacabilità da parte dell’Autorità giudiziaria.
Tanto premesso, ci si interroga sulle conseguenze giuridiche, nel diritto interno, della violazione della procedura delineata dagli artt. 10 e 10ter t.u., potenzialmente integrante, nell’interpretazione costituzionalmente orientata, indebita limitazione della libertà personale del migrante, penalmente rilevante. Risulta di particolare interesse il vaglio di legittimità di atti eventualmente emessi, in violazione della disciplina in rassegna, da figure apicali governative, imponendo lo stesso il preliminare confronto con la categoria giuridica dell’atto politico (come noto sottratto al sindacato, quantomeno, del Giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.). Secondo consolidata giurisprudenza, la politicità dell’atto è data dalla convergente presenza di due requisiti, l’uno soggettivo, l’altro oggettivo. In ordine al primo (che attiene alla provenienza del provvedimento), deve trattarsi di «atto emanato dal governo, e cioè dall’autorità cui compete, altresì, la funzione d’indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica» (cfr. C. Stato, sez. V, 6 maggio 2011, n. 2718 e C. Stato, sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094). Sotto il profilo oggettivo, invece, deve essersi al cospetto di un atto adottato «nell’esercizio di un potere politico, anziché nell’esercizio di un’attività meramente amministrativa», che «deve riguardare la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (si vedano C. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397 nonché TAR Veneto, sez. III, 25 maggio 2002, n. 2393), talora specificandosi che «gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge» (cfr. C. Stato, sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502 e C. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209; in dottrina, per una recente disamina dell’istituto, G. Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, III, p. 329 ss.). Preme, tuttavia, precisare come, in subiecta materia, si sia esclusa la caratura politica del decreto di espulsione emesso dal Ministro dell’Interno ai sensi dell’art. 13, comma 1, t.u. (così C. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 88), diversamente reputato atto di alta amministrazione (dunque soggetto al giudizio di legittimità, sebbene limitato, in ragione della latitudine dell’apprezzamento discrezionale, al vaglio estrinseco in ordine alla mancanza di una motivazione adeguata o alla sussistenza di eventuali profili di travisamento, illogicità o arbitrarietà), argomento che si menziona per evidente specularità nonché contiguità logica.
Ora, così definita la nozione di atto politico (e chiaritone il regime d’impugnabilità nel processo amministrativo), occorre indagarne l’incidenza nell’ambito di un eventuale giudizio penale, ovverosia verificarne l’idoneità a escludere la rilevanza di condotte tipiche, in quanto sussumibili sotto puntuali fattispecie incriminatrici.
Non si ravvisano, in primo luogo, apprezzabili motivi per sostenere l’assoluta insindacabilità dell’atto politico (ove effettivamente configurabile) innanzi al Giudice ordinario. Innanzitutto, in ragione dell’assenza di disposizioni normative del medesimo tenore dell’art. 7 c.p.a., che, in quanto norma eccezionale, risulta insuscettibile di applicazione analogica (così già O. Ranelletti-A. Amorth, Atti politici (o di Governo), in NDI, I, 2, Torino, 1958, p. 1515, in relazione all’art. 31 t.u. C. Stato). Va, inoltre, evidenziata la diversità strutturale del giudizio ordinario, avente principalmente a oggetto il vaglio di liceità di condotte (si veda, sulla distinzione fra illegittimità e illiceità, E. Guicciardi, L’atto politico, in ADP, 1937, 504-505): in altri termini, il Giudice ordinario conosce della legittimità dell’atto soltanto in via incidentale, quale mero elemento della fattispecie fattuale dedotta, di cui verificare l’aderenza al paradigma normativo di riferimento, secondo operazioni logiche di sussunzione o distinzione (cfr. Cass. pen., S.U., 21 dicembre 1993, n. 11653 nonché, da ultimo, Cass., Sez. III pen., 10 ottobre 2017, n. 46477).
Né può sostenersi l’idoneità dell’atto, in sé considerato, a elidere l’antigiuridicità della condotta tipica, in particolare ai sensi dell’art. 51 c.p., nell’ipotesi in cui il provvedimento, lungi dal rappresentare antecedente logico e cronologico della condotta, integri esso stesso il fatto di reato (per evidente circolarità logica del ragionamento).
In definitiva, non paiono riscontrabili nella disciplina dell’illecito penale argomenti a sostegno dell’imperscrutabilità tout court dell’atto politico (come fosse attributo suo proprio), dovendosi, di contro, analizzare il tema della punibilità puntualmente verificando la sussistenza di guarentigie eventualmente accordate dall’ordinamento a tutela della funzione pubblica. Si fa, evidentemente, riferimento alle immunità riconosciute dalla Costituzione, che costituiscono il corollario operativo dell’autonomia accordata ai poteri supremi dello Stato. Spetta, dunque, all’interprete coniugare le opposte istanze – legalità secondo il diritto comune e autonomia dei poteri – applicando istituti positivamente disciplinati.
In alcuni casi l’immunità compenetra intimamente l’apprezzamento sostanzialistico, talora integrando causa di giustificazione (Cass., Sez. V pen., 24 novembre 2006, n. 38944) o, comunque, di non punibilità (Cass., Sez. V pen., 11 aprile 2008, n. 15323 e Cass., Sez. V pen., 22 novembre 2007, n. 43090), talaltra concorrendo persino alla perimetrazione del fatto tipico. In merito alla possibile incidenza della prerogativa tutelata sulla tipicità della condotta, si veda la più recente giurisprudenza di legittimità (così Cass., Sez. VI pen., 11 settembre 2018, n. 40347), ove si è esclusa la configurabilità del delitto di corruzione propria nell’esercizio della funzione legislativa, ostandovi il combinato disposto degli artt. 64, 67 e 68 Cost. (che non consente l’individuazione di doveri specificamente e riconoscibilmente correlati al mandato parlamentare), così residuando la sola punibilità per il meno grave reato di corruzione impropria (per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum).
In altri, derivando l’immunità dall’attivazione di particolari procedure, la distinzione tra penale rilevanza e concreta punibilità rimane netta: così in ipotesi di reati commessi da membri del Governo nell’esercizio delle funzioni (art. 96 Cost.), in relazione ai quali soltanto il rituale svolgimento dell’iter procedurale prescritto (con l’insindacabile valutazione di cui all’art. 9, comma 3, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1) determina esenzione dalla reazione sanzionatoria. Tanto induce a ritenere che l’imperscrutabilità non sia attributo genetico dell’atto (quand’anche politico), il quale, diversamente, “diviene” immune da stigma penale solo all’esito della procedura a tutela della prerogativa statuale, nel vaglio diacronico che s’è descritto.
La disciplina dei congedi (parte prima)
La disciplina a tutela della genitorialità applicabile ai magistrati è regolata da una serie variegata di norme: è infatti applicabile, in quanto compatibile, la normativa prevista per tutti i pubblici dipendenti, cui si affianca la normativa speciale relativa all’ordinamento giudiziario, e la normativa secondaria prodotta dal CSM. Il quadro si presenta come di non agevolissima lettura, soprattutto se si considera che il magistrato madre – a fronte del ritardato ingresso in magistratura – è spesso un magistrato giovane in carriera, che si confronta per le prime volte non soltanto con le questioni amministrative ed ordinamentali, ma anche e soprattutto con le difficoltà lavorative che la presa di funzioni porta con sé. È facile allora immaginare che possa trovarsi sopraffatta dalle molte incombenze dell’ufficio da un lato, della maternità dall’altro, e non abbia il tempo di cimentarsi nella ricerca dei vari frammenti normativi e nella ricomposizione del mosaico dei diritti che le spettano. Può essere quindi utile tentare di mettere un po’ di ordine, anche con l’ausilio delle circolari riepilogative del CSM e con gli studi dell’Ufficio sindacale ANM, partendo da una panoramica sulla disciplina dei congedi, rinviando ad un successivo approfondimento l’esame delle disposizioni contenute nella circolare sulle tabelle del CSM.
1. I congedi[1].
a) Il congedo obbligatorio per maternità.
Il primo diritto del magistrato madre, come quello di qualsiasi altra lavoratrice pubblica, è il congedo obbligatorio per maternità di cui all’art. 16 del d.lgs. 151/2001. Si tratta dell’astensione obbligatoria dal lavoro, a partire da due mesi prima della data presunta del parto e per i tre mesi successivi alla nascita del bambino. L’astensione obbligatoria copre anche il periodo che va dalla data presunta alla data effettiva del parto; se il parto è anticipato rispetto alla data presunta, l’astensione obbligatoria copre anche il numero di giorni non goduti prima del parto. L’art. 20 del d.lgs. 151/2001 consente inoltre di gestire tale congedo con un margine di flessibilità, posticipando l’astensione di massimo un mese, e godendo quindi di un periodo massimo di 4 mesi di astensione dopo il parto, oltre ai giorni eventualmente intercorrenti tra la data presunta e la data effettiva e quelli eventualmente non goduti prima del parto pretermine. Per fruire della flessibilità è necessario che il medico specialista attesti la compatibilità di tale scelta con lo stato di salute della madre e del bambino. Il parto gemellare non influisce sulla durata del congedo.
Dal punto di vista amministrativo, la competenza ad autorizzare l’astensione è del capo dell’ufficio di appartenenza, cui va comunicata la propria scelta allegando la certificazione medica richiesta[2]. Il trattamento economico spettante, per tutto il periodo di astensione obbligatoria, è pari all’intero trattamento normalmente percepito, ivi inclusa la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81[3]. Anche per quanto riguarda la maturazione dei diritti accessori, quali ferie e tredicesima mensilità, nonché per quanto attiene all’anzianità ed all’avanzamento di carriera, il periodo di astensione obbligatoria è considerato come periodo di servizio effettivo.
Nel caso di interruzione della gravidanza, l’art. 19 del d.lgs. 151/2001 distingue due ipotesi: al caso di interruzione volontaria o comunque precedente al 180° giorno di gestazione, si applicano le norme sul congedo straordinario per malattia; dopo il 180° giorno di gestazione, l’interruzione di gravidanza è equiparata al parto, e alla lavoratrice spetta un congedo di 3 mesi dalla data dello stesso, alle medesime condizioni del congedo obbligatorio per maternità, con la differenza che la donna può decidere di riprendere in qualsiasi momento a lavorare[4].
b) Il congedo per complicanze della gestazione.
L’ art. 17 del d.lgs. 151/2001 disciplina l’ipotesi di complicanze della gestazione, nonché le ipotesi in cui c’è rischio che la gestazione aggravi il rischio di patologie preesistenti della madre, e spetta in tutti i casi in cui le condizioni di lavoro o ambientali possano pregiudicare la salute della donna o del bambino, a condizione che la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni maggiormente compatibili, il che – essendo le funzioni del magistrato piuttosto omogenee – appare improbabile. Nel caso in cui il parto prematuro avvenga in questo periodo (prima quindi dell’inizio dei due mesi di astensione obbligatoria), la lavoratrice ha diritto ad un periodo di 5 mesi di astensione da fruire dopo il parto.
Anche in questo caso, le circostanze che legittimano all’astensione anticipata devono essere comunicate, con la relativa documentazione medica, direttamente al capo dell’ufficio di appartenenza. Il trattamento economico dovuto, per l’intero periodo di astensione, anche in questo caso include la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81 ed è valido ad ogni altro effetto.
c) Il congedo di paternità alternativo a quello della madre naturale.
L’art. 28 del d.lgs. 151/2001 consente in determinate ipotesi (morte o grave infermità della madre, abbandono del bambino da parte della stessa, affidamento esclusivo del bambino al padre, riconoscimento da parte del solo padre) che il padre possa godere del congedo non fruito dalla madre, fino ad un massimo di tre mesi dalla nascita del bambino. Tale congedo, essendo equiparato a quello della madre, è coperto da trattamento economico integrale, è valido ad ogni altro effetto, ed è di competenza del capo dell’ufficio di appartenenza.
d) Il congedo parentale.
L’art. 32 del d.lgs. 151/2001, gli artt. 7 e 9 del d.lgs. 80/2015, l’art. 43 del d.lgs. 148/2015 disciplinano il congedo parentale facoltativo, che va ad aggiungersi a quello obbligatorio. Si tratta della possibilità, per entrambi i genitori, di astenersi dal lavoro, per un massimo di sei mesi per ogni genitore ed un massimo di dieci mesi totali (elevati ad 11 se il padre decide di astenersi per almeno tre mesi), fino al dodicesimo anno di vita del bambino.
Il trattamento economico spettante varia a seconda dell’età del bambino. Fino al sesto anno, il trattamento economico per i primi 45 giorni di congedo per ogni anno solare, corrisponde a quello previsto per il congedo straordinario, in virtù dell’equiparazione effettuata dall’art. 41, co. 2, del DPR 3/57[5]; per gli ulteriori periodi, spetta una retribuzione pari al 30% dello stipendio, con esclusione della speciale indennità di cui all’art. 3 l. 27/81, per un periodo massimo complessivo retribuito tra i genitori di sei mesi ogni anno solare. Dopo i sei anni del bambino e fino agli otto, tale retribuzione spetta entro dati limiti di reddito; oltre, il congedo parentale non è retribuito[6]. I periodi fruiti contano ai fini dell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie, alla tredicesima annualità, alla gratifica natalizia. Spetta la contribuzione figurativa per tutto il periodo, anche quello non retribuito. La competenza è del C.S.M. [7].
e) Il congedo per la malattia del figlio.
L’art. 47 del d.lgs. 151/2001 prevede che entrambi i genitori, alternativamente, hanno il diritto di astenersi dal lavoro in occasione alle malattie di ogni figlio. La durata dell’astensione ed il trattamento economico dipendono dall’età del bambino. Fino ai tre anni, il diritto spetta per l’intera durata delle malattie di ogni figlio, e tali periodi sono retribuiti come il congedo straordinario, a condizione che il magistrato non abbia già fruito, ad altro titolo, dei relativi 45 giorni (eventualmente, potrà beneficiare del contributo economico per il periodo residuo); dopo i primi tre anni di vita, e fino agli otto anni, non è retribuito e spetta per 5 giorni annui[8].
I periodi fruiti a tale titolo contano ai fini dell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie, alla tredicesima annualità, alla gratifica natalizia. La competenza è del C.S.M.
f) Il congedo straordinario.
L’art. 37 del t.u. 3/57 disciplina la possibilità, per tutti i magistrati, di fruire di 45 giorni ogni anno solare di congedo straordinario per gravi motivi. Tale periodo è valutabile a fini economici, giuridici e di carriera. Il trattamento economico previsto dalla normativa è così articolato: per il primo giorno di ogni periodo ininterrotto spettano gli assegni ridotti di 1/3, per i giorni successivi gli assegni interi; per tutto il periodo è esclusa la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81 (art. 41, co. 2, d.p.r. 3/57). Come si è visto, tale trattamento è esteso al congedo parentale, per i primi 45 giorni di ogni anno solare.
2. Disciplina dei congedi: tramutamenti, valutazioni di professionalità, formazione.
Al di là di quanto già visto sul trattamento giuridico e retributivo spettante al magistrato in occasione dei congedi, vi sono dei profili di disciplina comuni a tutte le tipologie.
Va innanzitutto chiarito che, per quanto riguarda il congedo parentale e per il congedo straordinario, i genitori hanno diritto di fruire contemporaneamente dell’astensione, così come il magistrato padre ha diritto di fruirne nel periodo in cui la madre sta fruendo del periodo di congedo obbligatorio: l’art. 32 del d.l.gs. 151/2001, infatti, attribuisce espressamente il diritto a «ciascun genitore».
Nel caso di tramutamento durante il periodo di congedo obbligatorio, il magistrato ha diritto a posticipare la presa di possesso al termine del congedo stesso; per quanto riguarda invece i congedi facoltativi, la prassi è l’interruzione degli stessi per la presa di possesso[9].
I congedi non hanno influenza sulla valutazione di professionalità, in quanto il CSM ha chiarito che il parere deve essere redatto ugualmente, anche laddove l’intero periodo quadriennale di riferimento fosse stato trascorso in astensione obbligatoria per maternità, congedo straordinario, congedo parentale o ordinario[10]. In tali ipotesi, il parere deve basarsi sull’autorelazione, nonché sulle informazioni acquisibili presso gli enti competenti quanto a capacità, competenze, impegno, come emersi nel precipuo contesto in cui il magistrato si è trovato ad operare nel periodo di congedo.
Quanto alla formazione permanente, nel periodo di congedo (obbligatorio, facoltativo o straordinario) il magistrato non è tenuto a parteciparvi. Non vi sono invece esoneri per il magistrato genitore di figli fino a sei anni che si trovi in servizio: l’art. 25 del d.lgs. 26/2006 pone infatti un vero e proprio obbligo di partecipazione alla formazione da parte del magistrato, trattandosi peraltro ad attività necessaria anche ai fini del superamento delle valutazioni di professionalità.
3. I congedi non fruibili dai magistrati: il congedo di paternità.
Alcuni dei congedi previsti per la generalità dei lavoratori non sono fruibili dai magistrati, per ragioni inerenti la specificità del lavoro o per altre ragioni, non tutte ugualmente condivisibili. È il caso, ad esempio, del congedo parentale su base oraria di cui all’art. 21 d.lgs. 151/01, non fruibile dal magistrato in quanto quest’ultimo non ha un orario di lavoro predeterminato.
Altra ipotesi è quella del congedo di paternità obbligatorio previsto della l. 92/2012, art. 4, co. 24, 25, 26, e prolungato, per il 2018, dalla l. 232/2016, art. 1, comma 354; si tratta di quattro giorni di congedo obbligatorio, del tutto equiparato a quello della madre, e quindi con pieni diritti quanto a trattamento economico e giuridico.
L’inapplicabilità di tale strumento al padre magistrato è stata sancita dal CSM nella risposta al quesito del 18 novembre 2015, in cui il Consiglio ha argomentato a partire dalla considerazione che la nuova forma di congedo di paternità, in presumibile connessione con il suo carattere temporaneo e sperimentale, è stata introdotta in via autonoma rispetto al Testo Unico compendiato nel d.lgs n. 151/2001, in quanto le disposizioni della l. n. 92/2012 costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs n. 151/2001, ma gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti pubblici richiedono iniziative, anche normative, da assumersi da parte del Ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche[11].
Tale disposto è stato interpretato dal CSM nel senso che, qualora non sia stabilita in modo univoco l’estensione dell’ambito applicativo della regolamentazione ai rapporti di lavoro del settore pubblico, i precetti e gli istituti contenuti nella legge n. 92/2012 siano destinati a fungere da criteri ispiratori di separata, analoga regolamentazione da dettarsi per quelle categorie di lavoratori. Quindi il congedo di paternità, in attesa di tale regolamentazione, non si applicherebbe ad alcun lavoratore della pubblica amministrazione, da intendersi come tale la categoria dei dipendenti pubblici contrattualizzati, e deve quindi, a maggior ragione, escludersi l’applicabilità di tale congedo alle categorie rimaste in regime di pubblico impiego, tra cui appunto i magistrati.
A prescindere, infatti, dall’esistenza di contrasti tra quanto sostenuto in dottrina e giurisprudenza amministrativa e quanto sostenuto dal CSM stesso, sul fatto se la magistratura sia ricompresa nel novero del personale delle amministrazioni pubbliche elencate dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, residua la necessità che l’estensione ai membri dell’Ordine giudiziario delle regole dettate per la generalità dei dipendenti pubblici operi previo il vaglio di compatibilità ex art. 276, comma 3, r.d. n. 12/1941.
L’assenza di un periodo di congedo obbligatorio per il padre magistrato rappresenta uno dei principali ostacoli alla realizzazione di una piena parità di genere in materia, oltre a costituire un vulnus importante per la persona, soprattutto se si considera che, così come il magistrato madre, anche il padre è il più delle volte giovane in carriera, con la frequente conseguenza di prestare servizio in una sede lontana da quella di residenza della famiglia. Egli sarà quindi costretto ad organizzarsi con i (pochi) giorni di ferie disponibili e con i congedi straordinario e facoltativo (e le conseguenti decurtazioni stipendiali).
4. L’effettività della fruizione dei congedi.
Così come in altre ipotesi (si pensi al congedo per ferie o, salvi i casi gravi, quello per malattia), qualsiasi magistrato sa benissimo che il periodo di congedo non sempre, ed anzi, quasi mai, coincide realmente con l’astensione dal lavoro, a fronte degli strascichi costituiti dall’arretrato e dai provvedimenti in decisione i cui termini per il deposito vanno a scadere durante il periodo relativo. Il magistrato madre che, fino all’ultimo giorno in servizio (o comunque fino a 80 giorni prima, nel caso di procedimento civile ordinario), prenda cause in decisione, si trova inevitabilmente costretta a lasciare il lavoro con un carico notevole di “compiti a casa”, che di fatto impediscono la fruizione piena del congedo stesso, posto che (così come per le ferie e per la malattia) non è prevista alcuna sospensione dei termini di deposito dei provvedimenti durante tale periodo. Di tale problema si è fatto carico il CSM, rimettendone tuttavia la soluzione al singolo giudice, cui è demandata la modulazione del proprio lavoro in modo da evitare che nel periodo immediatamente antecedente all’astensione siano introitate decisioni da depositarsi ad astensione iniziata. Precisato, infatti, che nel periodo di astensione obbligatoria per maternità viene meno l'obbligo della prestazione lavorativa, il CSM ha comunque ribadito che l’astensione obbligatoria e facoltativa non danno luogo a sospensione dei termini per il deposito della motivazione[12]. La giurisprudenza disciplinare, ad ogni modo, è orientata nel senso di non sanzionare i ritardi dei depositi che siano concomitanti con il periodo di congedo obbligatorio per maternità[13].
In prospettiva futura, sarebbe senz’altro auspicabile la previsione, analoga a quella in materia di ferie, di un “periodo cuscinetto” a tutela dell’effettività della fruizione del periodo di astensione. Tale strumento consentirebbe di concentrare almeno l’ultimissimo periodo nella scrittura, sgravando il magistrato gestante dal peso dell’udienza e degli incombenti connessi.
In conclusione, la disciplina posta a tutela della genitorialità applicabile ai magistrati appare sufficientemente garantista, sebbene la reale effettività di tali strumenti sia destinata a scontrarsi con le ben note problematiche conseguenti al cronico sotto-organico degli uffici giudiziari ed all’impossibilità di sostituzioni effettive. Riservando i commenti all’esito di un completamento dell’analisi della normativa, attraverso l’esame delle circolari del CSM in materia tabellare, devono fin d’ora segnalarsi due profili sensibili. Il primo attiene al periodo precedente alla fruizione del congedo, inevitabilmente corredato da sensi di colpa nei confronti dei colleghi e preoccupazione per la sorte del proprio ruolo e dei fascicoli più delicati. Il secondo attiene alla fase del rientro, in cui la neo-mamma si troverà a scontrarsi con gli accresciuti problemi di un ruolo che sarà purtroppo rimasto, nella maggioranza delle ipotesi, sostanzialmente abbandonato a sé stesso.
[1] Oltre a quelli qui analizzati, vi sono anche altri strumenti, alla cui disciplina ci si limita a rinviare, quali l’aspettativa per motivi di famiglia di cui all’art. 69 del TU 3/57, ed il congedo per eventi e cause particolari di cui all’art. 4 comma 2 d.lgs. 53/2000.
[2] Cfr. delibera dell’11.12.2015 del CSM, che ha semplificato la materia dei congedi, individuando le competenze ad autorizzare i singoli benefici riconosciuti dalla legge ed ha ricapitolato i relativi presupposti e trattamento economico previdenziale.
[3] Cfr. art. 41 del DPR 3/57.
[4] Previa presentazione di due certificati, quello del medico ASL o di struttura convenzionata e quello del medico competente a fini di tutela della salute sul lavoro.
[5] Come chiarito dalla circolare del CSM 1697g/DIM/4126 del 16 luglio 1994.
[6] Ai sensi dell’art. 34 d.lgs. 151/2001.
[7] Cfr. delibera dell’11.12.2015 del CSM.
[8] Cfr. documento dell’Ufficio sindacale ANM, “Tutela della genitorialità”.
[9] Cfr. documento dell’Ufficio sindacale ANM, “Tutela della genitorialità”, che sottolinea come, per il congedo obbligatorio, ciò non sia possibile, con possibili conseguenze discriminatorie in termini di legittimazione.
[10] CSM, risposta al quesito 88/VQ/2012.
[11] Cfr. art. 1, commi 7 e 8, della Legge n. 92/2012.
[12] CSM, risposta al quesito del 23 ottobre 2002.
[13] Cfr. Cass., Sez. U., Sent. n. 20815/2013 e CSM, Sent. n. 80/2015.
Appello rinnovato ed obblighi del giudice e delle parti di Ignazio Pardo
Intervenendo con la modifica degli artt. 581 e 603 c.p.p. il legislatore della riforma ha operato un profondo mutamento dell’assetto del giudizio di secondo grado con il preciso intento di evitare la trattazione di impugnazioni meramente dilatorie da un lato e di adeguare l’assetto normativo alla recente giurisprudenza della CEDU dall’altro (Corte EDU Dan contro Moldavia ed Hanu contro Romania ).
Ne è nato così un sistema che si differenzia a secondo dell’esito del giudizio di primo grado e della natura dell’impugnazione proposta; giudizio critico e di controllo nel caso dell’appello proposto avverso la sentenza di condanna, novum iudicium con l’obbligo del preciso rispetto del contraddittorio sulla formazione della prova e dell’immediatezza tra giudice e mezzo di prova nel caso di appello avverso decisione assolutoria fondata su prove dichiarative.
Nel millenario dilemma circa la funzione e la conseguente struttura del giudizio di secondo grado, se finalizzato allo stretto “controllo” della correttezza del giudizio di primo grado ovvero alla riformulazione del giudizio di colpevolezza, anche al fine di assicurare il canone della responsabilità “oltre ogni ragionevole dubbio” con una doppia conforme, il legislatore stretto dalla necessità, da un lato, di deflazionare i carichi degli uffici giudiziari penali in maggiore crisi e dall’altro dalla impellenza di dovere dare risposta anche normativa alle sferzate provenienti dalla Corte europea che imponevano la riassunzione della prova dichiarativa in secondo grado ben oltre gli stretti limiti previsti dalla disciplina dettata dall’art. 603 c.p.p., è intervenuto proponendo un sistema a due “braccia” imponendo da un lato con la riformulazione dell’art. 581 c.p.p. maggiore specificità ai motivi ed alle richieste e dall’altro inserendo il comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. che assicura il rispetto del principio di immediatezza tra il giudice della condanna e la prova dichiarativa.
Attraverso la riformulazione dell’art. 581 c.p.p. e l’inserimento della specificità come parametro generalizzato di ammissibilità dell’impugnazione il legislatore della riforma ha aderito ad una ben precisa opzione dogmatica sottesa alla strutturazione del giudizio di appello come giudizio di controllo, di verifica ed eliminazione degli eventuali errori contenuti nel dibattimento di primo grado e nel provvedimento conclusivo. Tale precisa scelta appare essere frutto della precipua volontà di ricondurre il giudizio di appello avverso decisione di condanna ad un giudizio di critica ragionata su motivi tassativamente proposti aventi ad oggetto quei punti decisivi della sentenza di primo grado che parallelamente il legislatore si è sforzato di elencare nella nuova previsione dell’art. 546 c.p.p. E così si è da un lato specificato il necessario ed imprescindibile contenuto della motivazione della decisione di primo grado e dall’altro si è parallelamente attribuito al giudizio di appello il ruolo di controllo dell’esattezza di tale motivazione alla luce dei risultati probatori dell’istruzione dibattimentale già compiuta.
Per effetto quindi da un lato della volontà di ridurre il campo devolutivo del giudizio di appello e ricondurlo agli spazi della critica vincolata e dall’altro alla necessità di assicurare il contraddittorio e l’immediatezza dinanzi al giudice chiamato ad affermare l’eventuale colpevolezza dell’imputato il sistema oggi introdotto, per effetto delle modifiche normative e dei ripetuti interventi giurisprudenziali a Sezioni Unite e della Corte EDU, ha finito per configurare due figure essenzialmente differenti di giudizio di secondo grado; strumento di critica e di controllo nell’ipotesi dell’impugnazione di una pronuncia di condanna, nuovo giudizio nel caso di appello avverso sentenza assolutoria.
In relazione alla prima delle due distinte “forme” del giudizio di appello, rileva, per comprendere esattamente l’ampiezza e funzione del canone della “specificità” il recente intervento delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8825 del 27/10/2016 Cc. (dep. 22/02/2017 ), imp. Galtelli, Rv. 268822) che pur pronunciandosi sull’assetto normativo previgente hanno anticipato nel corpo della motivazione il commento anche alla nuova disciplina del 581 c.p.p. che così si vede sostanzialmente ad essere interpretata già al momento della sua entrata in vigore; chiamata ad intervenire sulla questione di diritto "se, e a quali condizioni e limiti, il difetto di specificità dei motivi di appello comporti l'inammissibilità dell'impugnazione" il supremo collegio ha affermato che l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata.
Ed a questo risultato le Sezioni Unite pervengono dopo un attento studio dei casi di specificità dei motivi di impugnazione distinguendo per la precisione la c.d. "genericità intrinseca" dei motivi, riferibile a quegli appelli fondati su considerazioni generiche o astratte, o comunque non pertinenti al caso concreto (ex plurimis, Sez. 6, n. 3721 del 2016 e Sez. 1, n. 12066 del 05/10/1992, Makram), ovvero su generiche doglianze concernenti l'entità della pena a fronte di sanzioni sostanzialmente coincidenti con il minimo edittale (ex multis, Sez. 6, n. 18746 del 21/01/2014, Raiani, Rv. 261094) che senza alcun dubbio e contrasto debbono ritenersi per ciò solo ed anche nel vigore della precedente normativa inammissibili, dalla c.d. "genericità estrinseca" dei motivi di appello, ravvisabile nella mancanza di correlazione fra questi e le ragioni di fatto o di diritto su cui si basa la sentenza impugnata. Fornendo una interpretazione certamente di fatto limitativa del tradizionale canone del favor impugnationis le Sezioni Unite affermano che la necessità della specificità estrinseca dei motivi di appello trova fondamento nella considerazione che essi non sono diretti all'introduzione di un uovo giudizio, del tutto sganciato da quello di primo grado, ma sono, invece, diretti ad attivare uno strumento di controllo, su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata. E in un processo accusatorio, basato sulla centralità del dibattimento di primo grado e sull'esigenza di un diretto apprezzamento della prova da parte del giudice nel momento della sua formazione, il giudizio di appello non può e non deve essere inteso come un giudizio a tutto campo; con la conseguenza che le proposizioni argomentative sottoposte a censura devono essere, in relazione al punto richiesto, enucleate dalla decisione impugnata. L'impugnazione deve, in altri termini, esplicarsi attraverso una critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata e da essa deve trarre gli spazi argomentativi della domanda di una decisione corretta in diritto ed in fatto. Le esigenze di specificità dei motivi non sono, dunque, attenuate in appello, pur essendo l'oggetto del giudizio esteso alla rivalutazione del fatto. Poiché l'appello è un'impugnazione devolutiva, tale rivalutazione può e deve avvenire nei rigorosi limiti di quanto la parte appellante ha legittimamente sottoposto al giudice d'appello con i motivi d'impugnazione, che servono sia a circoscrivere l'ambito dei poteri del giudice stesso sia a evitare le iniziative meramente dilatorie che pregiudicano il corretto utilizzo delle risorse giudiziarie, limitate e preziose, e la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Costituzione.
Così riformulata la struttura del giudizio di appello con valutazioni che hanno ancor più pregnanza, valenza e vincolatività in un regime di specificità rafforzato come quello designato dal nuovo art. 581 c.p.p., ne conseguono nuovi obblighi per il giudice di appello e per le parti di tale fase di giudizio.
Il giudice infatti è chiamato ad effettuare un vaglio preventivo circa l’ammissibilità della impugnazione che è assai più vasto di quanto precedentemente effettuato proprio perché spinto sino alla specificità estrinseca dei motivi, e cioè all’effettivo e concreto controllo del confronto tra le ragioni argomentative della decisione di primo grado distinte per ciascun capo e punto della sentenza ed in singoli motivi proposti e rivolti sempre a ciascuno dei capi e punti appellati.
Ed è bene sottolineare che nell’effettuare tale controllo il giudice non può essere “indulgente” nel rispetto del principio del favor impugnationis poiché pronunciare nel merito una sentenza di appello a seguito della proposizione di motivi che difettino della richiamata specificità estrinseca significa emettere una sentenza che è “viziata” ed è aggredibile con il successivo ricorso per cassazione dalle parti eventualmente interessate ove fare valere l’inammissibilità originaria dell’appello ex art. 591 quarto comma c.p.p.. E difatti l’inammissibilità per difetto di specificità non rilevata dal giudice di appello potrà essere motivo di successiva impugnazione da parte del Procuratore Generale ovvero della parte civile ove la sentenza di appello abbia riformato anche in parte quella di primo grado con statuizioni pur solo parzialmente favorevoli all’imputato anche limitatamente ad un capo o punto della decisione impugnata. La trattazione “generalizzata” degli appelli proposti nella vigenza della nuova normativa espone quindi la sentenza di appello di riforma anche parziale a questo evidente rischio poiché l’inammissibilità è vizio originario dell’impugnazione deducibile anche nella fase di legittimità.
E se il giudice di appello è chiamato a svolgere un adeguato e preciso controllo dell’impugnazione anche al fine di deflazionare la seconda fase di giudizio da quelle impugnazioni pretestuose e generiche, altrettanto delicato diviene il compito del Procuratore Generale presso la Corte di appello che chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione proposta dall’imputato deve eccepire l’inammissibilità per vizio di specificità estrinseca secondo il dettato del nuovo 581 c.p.p. così come anticipatamente interpretato dalle Sezioni Unite. Un ruolo quindi, quello del P.G. che diviene fondamentale nella fase della apertura del giudizio e della conclusione dello stesso poiché l’organo chiamato a rappresentare l’accusa potrà anche richiedere l’emissione dell’ordinanza di inammissibilità ex secondo comma del 591 c.p.p. e comunque concludere per la specificità di tutto l’appello o di singoli motivi di esso nella fase della discussione conclusiva.
Ancor più dinamico è il giudizio di secondo grado prospettato dal legislatore in caso di impugnazione da parte del pubblico ministero di una sentenza assolutoria di primo grado fondata su prove dichiarative. Premesso infatti che anche l’atto di impugnazione della sentenza di proscioglimento è sottoposto al preventivo vaglio di ammissibilità per specificità estrinseca e deve quindi obbligatoriamente confrontarsi con le ragioni argomentative adottate dal giudice di primo grado con il nuovo comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. si è stabilito che « Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Come noto la giurisprudenza della Corte EDU precedentemente citata deve ritenersi avere profondamente mutato il quadro del giudizio di appello avverso la sentenza assolutoria poiché ad un giudizio cartolare e statico, nel quale l'organo dell'accusa poteva limitarsi a prospettare una differente valutazione con il giudice libero di accoglierla o meno, pur sentita la difesa - limitata certamente ad un ruolo passivo -, ha sostituito un gravame caratterizzato da un obbligo istruttorio che sollecita il p.m. all'adozione di istanze istruttorie, permette alla difesa di controdedurre sulle stesse e impone al giudice di pronunciarsi solo dopo l'audizione diretta della fonte orale. In questo contesto appare decisivo richiamare un interessante orientamento della Corte di cassazione che sebbene anteriore la modifica normativa continua a mantenere intatta tutta la sua rilevanza; ci si riferisce a quella pronuncia (Sez. 2, Sentenza n. 40798 del 09/09/2016 Ud. (dep. 29/09/2016 ) Rv. 267654) secondo cui in caso di appello avverso sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative è onere del pubblico ministero ovvero della parte civile impugnante, nell'ottica del rispetto dei ruoli assunti dalle parti nel procedimento di gravame, chiedere, unitamente alla riforma della sentenza impugnata, la rinnovazione di ufficio dell'istruttoria dibattimentale affinchè il giudice possa procedere ad un diverso apprezzamento dell'attendibilità delle prove poste a fondamento della pronuncia di primo grado e ciò perché nell’ottica del rispetto dei ruoli assunti dalle parti nel procedimento di gravame, sarà onere dell’organo del pubblico ministero che rappresenta l’accusa in appello, ovvero della parte civile impugnante, chiedere al giudice di ufficio l’assunzione della prova. Se è difatti vero che secondo l’insegnamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 27620 del 28/04/2016 Ud. (dep. 06/07/2016), imp. Dasgupta Rv. 267487) ed in base al nuovo testo dell’art. 603 comma 3 bis c.p.p. il giudice deve procedere anche d’ufficio a tale riassunzione, non può però negarsi che incombe sull’organo che rappresenta l’accusa e che è legittimato a proporre gravame avverso una pronuncia assolutoria di primo grado (ovvero sulla parte civile appellante), l’onere di accompagnare la richiesta di riforma con l’istanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di procedere alla riassunzione delle prove già acquisite. E tale onere seppure non configura alcuna causa di inammissibilità dell’appello deve essere posto in rapporto al fondamentale principio dell’onere della prova valido anche per il giudizio penale e secondo cui la parte che intenda provare un fatto, ha l’onere di dedurre la prova relativa allo stesso.
Può ben dirsi che la riforma Orlando modificando il testo degli artt. 581 e 603 c.p.p. ha imposto una nuova struttura del giudizio di appello e che rispetto a detto nuovo sistema si profilano nuovi obblighi per le parti che sembrano prospettare l’importanza di un ruolo più dinamico e funzionale dell’accusa nel secondo grado di giudizio prima sconosciuto e per altro verso impongono una preliminare verifica di ammissibilità dell’impugnazione demandata al giudice chiamato quindi ad effettuare un vaglio dapprima limitato agli estremi casi di appelli intrinsecamente inammissibili ed oggi invece basato su più ampi parametri.
Sarà l’esperienza del giudizio di appello ora a rispondere a questi interrogativi ed a dirci se la nuova forma dell’impugnazione risponde alle esigenze di un processo più moderno e funzionale alla realizzazione di una decisione “giusta”.
Ignazio PARDO
Consigliere della Corte di Cassazione
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