ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non può funzionare e se le risorse umane (le persone) che la compongono sono utilizzate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.
La magistratura onoraria ha diverse componenti: i vice procuratori onorari sono indispensabili per le piccole Procure (in molti sedi esposte a periodiche gravi carenze di organico) per lo svolgimento delle udienze e le indagini sui reati minori; il ruolo dei giudici onorari (come pure dei giudici di pace) potrebbe rivisitarsi nell’ambito di una nuova concezione dell’Ufficio del processo.
Per comprendere meglio i problemi attuali, ho intervistato un magistrato togato e un magistrato onorario esperti della materia.
Il primo è Raimondo Orrù, vice Procuratore onorario a Roma e presidente della FEDERMOT.
Il secondo è Ernesto Aghina che, per anni, si è occupato della magistratura onoraria -prima come membro della apposita commissione all’interno del CSM e poi come componente del consiglio direttivo della SSM che si occupa anche della loro formazione - e attualmente ne organizza il lavoro nel circondario del tribunale di Torre annunziata di cui è presidente.
D. I magistrati onorari chiedono al Ministro Bonafede di cambiare la riforma Orlando. Quali sono le criticità poste in evidenza?
R. La riforma non rilancia la funzione di supporto dei magistrati onorari, imponendo anche a quelli di lungo corso un regime part-time incompatibile con l'incremento di produttività. I diritti economici sono poi completamente disconosciuti
D. Un inquadramento full-time non snaturerebbe il rapporto di servizio onorario?
R. Secondo il Consiglio di Stato il trattenimento in servizio a tempo pieno e sino all'età pensionabile è attuabile in relazione a una specifica platea di destinatari, come avvenne nel 1974 per i vice-pretori onorari.
D. Quali ragioni giustificherebbero una misura straordinaria di questo tipo?
R. Il filo pilota non può che essere l'interesse pubblico. Occorre erodere in modo deciso l'arretrato giudiziario e i tempi medi di durata dei processi, che restano i più alti in Europa. Tale obiettivo non può prescindere dal trattenimento di personale già formato.
D. Si tratterebbe di un reclutamento straordinario nei ruoli ordinari?
R. No. Il magistrato onorario resterebbe tale; l'incarico rimarrebbe revocabile, senza accesso ai ruoli ordinari o al relativo cursus honorum.
D. L'idea è quindi quella di riproporre per intero i contenuti dello schema legislativo usato nel 1974 per i vicepretori?
R. La nostra proposta è di seguire quella impostazione ma con alcune precisazioni: esclusione espressa dell'elettorato attivo e passivo in relazione agli organi di autogoverno; esclusione di progressioni economiche; mantenimento delle attuali competenze.
D. Quale trattamento economico reclamano i magistrati onorari?
R. Quello che rispetti i parametri ritenuti loro applicabili in sede CEDU dal Comitato europeo dei diritti sociali: ossia retribuzione equiparata, pro rata temporis, a quella del magistrato di tribunale, ossia del magistrato di ruolo all'inizio della carriera.
D. Perché ritiene che un inquadramento part-time sia disfunzionale al buon andamento della giustizia?
R. Indurre lo svolgimento di altre attività lavorative conduce a trascurare quella giudiziaria, che non si compone solo di udienze, ma di studio dei procedimenti, di formazione permanente obbligatoria, di aggiornamento specialistico. Inoltre un rapporto full-time elimina in radice le ipotesi di incompatibilità ambientale e professionale, assicurando una maggiore imparzialità e incentivando una qualità professionale adeguata. Insomma: meglio un magistrato onorario a tempo pieno, sempre reperibile e "fidelizzato", di due a tempo parziale.
D. Le coperture finanziarie ci sono?
R. Vanno trovate; ma si parla di aggiungere circa 100 milioni di euro agli attuali stanziamenti; una somma irrisoria rispetto ai benefici macroeconomici correlati all'abbattimento dell'arretrato e della durata media dei processi. Senza contare i benefici fiscali dati dall'aumento delle sentenze percosse dalla imposta di registro e dei risparmi di spesa correlati al congelamento delle retribuzioni attualmente percepite dai numerosi magistrati onorari impiegati in altre amministrazioni come dipendenti pubblici.
D. L'ANM è diffidente sul trattenimento in servizio dei magistrati onorari sino all'età pensionabile.
R. Lo considero un errore strategico. Si tratta di una misura eccezionale, l'alternativa alla quale è aumentare stabilmente il numero dei magistrati di ruolo o fare affidamento su nuovi più rilevanti reclutamenti di magistrati onorari, che però potrebbero essere operativi solo tra alcuni anni, impegnando comunque le medesime risorse finanziarie richieste dal trattenimento di professionisti già formati.
D. Sulla qualità professionale il concorso rimane però una garanzia irrinunciabile.
R. Ne siamo convinti. Per questo riteniamo che la magistratura di ruolo debba essere sollevata dalla gestione del contenzioso di prossimità o seriale, devolvibile a una figura che la coadiuvi stabilmente senza invaderne le prerogative esclusive.
D. Nel caso di anticipata cessazione dall'incarico onorario, cosa accade?
R. La nostra proposta specifica è che il magistrato onorario deve poter tornare a fare il lavoro precedentemente svolto, senza perdere l'anzianità di servizio che avrebbe maturato nel frattempo. Per questo proponiamo che i dipendenti pubblici siano posti in aspettativa non retribuita per la durata dell'incarico e che gli avvocati, per non perdere l'anzianità professionale, possano rimanere iscritti all'albo ma esclusivamente nella sezione dedicata agli avvocati degli uffici legali, ossia senza possibilità di operare su libero mercato.
D. Esiste un unico modello di utilizzo dei magistrati onorari negli ordinamenti giudiziari dell’Unione? In questo contesto come si colloca la situazione italiana?
R. I magistrati onorari sono presenti in molti ordinamenti giudiziari europei, e quasi sempre in numero considerevolmente più elevato rispetto ai magistrati professionali. La loro utilizzazione è variabile ed è tendenzialmente dedicata - come in Italia - alla trattazione dei procedimenti (civili e penali) di minore rilevanza. La nozione di “onorarietà” viene esaltata dalle modalità di selezione, dalla temporaneità dell’incarico e, soprattutto, da una sorta di “onorabilità professionale” che ne costituisce la principale forma di retribuzione, sotto forma di riconoscimento sociale. Del tutto diversa è la situazione italiana, in cui i magistrati onorari si caratterizzano per una sorta di precarietà solamente virtuale, per effetto di un’iterazione di proroghe nell’incarico e per forme di retribuzione stabili.
D. Quali sono le problematiche più ricorrenti per un magistrato dirigente di un ufficio giudiziario nell’utilizzo dei magistrati onorari?
R. I magistrati onorari (nella vigente distinzione tra vice procuratori onorari e giudici onorari di pace) costituiscono per i dirigenti degli uffici di primo grado (Tribunali e Procure della Repubblica) una risorsa ineludibile cui attingere costantemente per fronteggiare le croniche carenze (anche temporanee) nell’organico dei magistrati professionali.
Viene costantemente in rilievo la nozione di “magistratura vicaria” che ha sin qui caratterizzato i v.p.o. e i g.o.t., e ha consentito di affrontare autentiche emergenze e garantire una risposta alla (rilevantissima) domanda di giustizia.
In proposito può essere utile ricordare come i dati offerti dal rapporto del Cepej su “Efficiency and quality of justice” e dall’European Justice Scoreboard della CE collocano l’Italia nella media europea nella percentuale di giudici per abitanti, ma solo in virtù dell’apporto numerico dei magistrati onorari.
Diverso discorso va fatto per i giudici onorari addetti alla giustizia di pace: la riforma del 2017 affida al presidente del tribunale compiti di coordinamento inediti ed onerosi, che vanno affrontati con particolare impegno, perché le dinamiche degli uffici del giudice di pace, fatalmente influenzate da fattori concorrenti (risorse ridotte, compenso a cottimo dei giudici di pace, abuso del processo, ecc..), determinano non pochi problemi gestionali, aggravati da una “separazione” territoriale e culturale dal Tribunale capoluogo di circondario.
D. Non tutti gli appartenenti alla categoria sono soddisfatti della recente riforma (in particolare quelli che per molti anni sono stati inseriti con reiterata precarietà nel sistema), hanno delle buone ragioni? A parte questo, la riforma costituisce un approdo soddisfacente o servirebbero dei correttivi?
R. Nonostante la riforma del d.lgs.vo. 116 del 2017 abbia determinato novità significative, quali l’uniformità di status tra “magistrature onorarie” sin qui troppo diverse tra loro, non vi è dubbio che non tutti i problemi siano stati risolti, principalmente il regime dei magistrati onorari in attività, che vedono bruscamente limitate le loro possibilità di utile impiego.
Ritengo che sia possibile, ed anche auspicabile un intervento correttivo, che accentui il “doppio binario”, pur parzialmente previsto dalla riforma, diretto a differenziare la disciplina applicabile ai magistrati onorari in attività rispetto a quelli di futura nomina, consentendo la permanenza illimitata in servizio dei primi, previo regolamento dei profili di incompatibilità.
Non si tratta peraltro delle uniche criticità della riforma, atteso che - se pure al termine di una fase transitoria - la limitazione nell’utilizzazione in tribunale dei giudici onorari e l’incremento della civile dell’ufficio del giudice di pace aprono dei fronti da presidiare con doveroso anticipo, senza far conto del termine del 2021, in cui la riforma entrerà a regime.
D. Più in generale, c’è ancora una distanza tra magistratura professionale e onoraria che è stata spesso denunziata come presente?
R. Non posso negare che in passato sia esistita una scarsa attenzione alle problematiche della magistratura onoraria da parte della magistratura professionale, ma il clima è (molto) cambiato da tempo.
I magistrati onorari non sono più considerati una sorta di “extracomunitari del diritto”, bensì una componente insostituibile della giurisdizione.
Per questo si è investito nella loro formazione e aggiornamento professionale (prima da parte del C.S.M. e poi della Scuola superiore della magistratura), nel costante confronto operato dall’ A.N.M. con le componenti sindacali (troppe..!!) dei giudici onorari, e più in generale nel rapporto che lega negli uffici magistrati professionali ed onorari.
Se esiste ancora una “distanza” forse oggi è più accentuata quella che separa la magistratura onoraria dall’avvocatura, di cui pure i magistrati onorari fanno parte a pieno titolo.
Oggi si parla della “presa delle funzioni”, della presa delle funzioni qui, a Catanzaro e in Calabria.
E credo che per parlare di questo, dell’esperienza che qui vi aspetta, il discorso debba esser fatto al passato e al presente, ma soprattutto al futuro, guardando all’esperienza che è stata, ed è, ma ancor di più all’esperienza che potrebbe essere.
Per questa ragione il mio intervento è un discorso su quelli che mi sembrano essere i punti critici dell’esercizio della giurisdizione in questa sede. Una critica, quindi, che da un lato è una autocritica e, dall’altro, un appello a chi ha appena preso le funzioni qui per tentare di mettere in moto qualche cambiamento.
Sono quattro le parole che possono sintetizzare quello di cui vorrei parlare. Le prima parola è numeri. La seconda è timore. La terza è dialogo. La quarta parola, invece, la lascio per la conclusione.
La prima parola è “numeri”, intesi come scusa e pretesto.
“I numeri sono alti perché le iscrizioni e pendenze elevate, dai numeri si giudica la giustizia e quindi la giustizia si assicura garantendo buoni numeri”. Tra le tante cose che si dicono, il rumore di sottofondo che spesso si sente durante le giornate di lavoro è questo.
In una realtà giudiziaria come quella attuale - in cui si tenta di svuotare il mare con una disorganizzata conchiglia - l’affanno costante, e proclamato, sui numeri determina inevitabilmente un approccio all’esercizio della giurisdizione basato sulla perenne emergenza.
Questo ha due conseguenze immediatamente percepibili.
La prima è che i numeri, e quindi l’approccio d’emergenza, sono la scusa per ogni cosa, per ogni prassi, anche la più svilente e deleteria. E ciò perché, si dice, non si può fare altrimenti. Udienze-mercato con decine e decine di procedimenti; gestione del ruolo con la finalità prevalentemente della statistica; decadente qualità delle decisioni e della gestione delle udienze (che forse non bisogna dimenticare è il principale veicolo attraverso cui la cittadinanza vede e percepisce i magistrati e la giustizia); un complessivo caos che aumenta in modo ipertrofico e ingiustificato il potere del magistrato (che con un rinvio, sempre giustificato dal “carico del ruolo”, può decidere le sorti di un procedimento); l’impossibilità di individuare le effettive responsabilità di una mala gestione dei ruoli e delle sezioni.
La scusa dei “numeri” porta a trasformare tutto in carta. Le cause sono carte da “smaltire” (e di “smaltimento” parlano i piani di gestione), i diritti dei cittadini sono carte, le persone sono carte e le responsabilità sono solo sulla carta. Con la conseguenza che anche la giustizia diventa di carta, una tigre di carta che perde progressivamente la fiducia e il rispetto della cittadinanza.
La seconda conseguenza è che i “numeri”, l’approccio d’emergenza sui “numeri”, determinano nel magistrato, soprattutto alle prese con le prime funzioni, quell’occupazione costante che contribuisce a formare e a consolidare il disinteresse e la mancanza di partecipazione dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione. Esercizio della giurisdizione che significa anche organizzare la giurisdizione, progettare la giurisdizione e non limitarsi a scrivere provvedimenti.
E così non c’è il tempo per fare la spesa, figuriamoci se c’è tempo per dialogare, discutere e occuparsi di cambiare prassi, organizzazione, di politica giudiziaria, figuriamoci se c’è tempo di curare orientamenti o sentenze che possano contribuire alla giurisprudenza.
La giurisdizione così perde l’apporto soprattutto delle sue forze più fresche, e smorza gli entusiasmi, affogando tutto nei numeri e nell’emergenza perenne. Risulta sempre più difficile risolvere i problemi alla radice e la Giustizia si mostra debole nel cambiare se stessa, debolissima nel contribuire al progresso della società in cui opera.
La seconda parola è “timore”, intesa come presenza.
E’ il timore dello spauracchio del disciplinare, delle valutazioni di professionalità, di intoppi nella carriera.
Un timore che si fonda, credo, su tre cose: ritmi che rendono l’errore inevitabile e il senso di stare in difetto costante; la scarsa trasparenza delle regole, dei dati, dei procedimenti e delle logiche delle decisioni dei direttivi e dell’autogoverno; la diffusa pratica della vicinanza correntizia usata in modo, diciamo, poco ortodosso.
Il risultato è che il sistema attuale si è sviluppato in un modo tale che chi non dovrebbe temere niente, chi esercita la giurisdizione in modo serio, comunque un poco teme e in qualche modo si ritira, si mette da parte.
Colui che, invece, dovrebbe temere - chi non esercita seriamente la giurisdizione - vivacchia abbastanza indisturbato, raggiunge le giuste statistiche, si occupa di presenziare all’evento giusto, nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a mettersi una mano sul cuore.
Il timore è poi anche quello di scontentare, di cambiare.
E non mi riferisco alle sentenze ma a al timore di prendere decisioni relative a come si esercita la giurisdizione. Decisioni che scontentano colleghi, direttivi o il foro ma che possono cambiare tante prassi e tanti atteggiamenti di compromesso al ribasso che bloccano la giurisdizione effettiva in favore di una giurisdizione burocratica e difensiva.
E c’è da dire che tante volte il magistrato, soprattutto se di prima nomina e con almeno quattro anni davanti nella stessa sede, è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a preferire di accettare la prassi o la decisione sbagliata per non mettere a rischio i rapporti con colleghi e direttivi che dovrà vedere ogni giorno in ufficio.
La terza parola è “dialogo”, inteso come assenza.
Il dialogo, il confronto partecipato sui problemi e le soluzioni, manca tra magistrati, tra i direttivi, tra le sezioni, tra i diversi uffici, manca con la cittadinanza.
La mancanza di dialogo è sia causa che effetto della totale assenza di progettualità.
I problemi della giurisdizione sono male inquadrati e affrontati con soluzioni precarie e istantanee, di regola autoritative, che mostrano la loro fragilità dopo poco tempo.
Non vi sono progetti che riguardano l’esercizio della giurisdizione, la giurisdizione non è progettuale, non vi è coinvolgimento, soprattutto dei magistrati di prima nomina, in un pensiero organizzato ed orientato ad un futuro più lungo del problema che si presenta quel giorno alla porta.
Il Tribunale si riduce così ad essere un posto in cui si esercita solo il potere della decisione, invece di essere un luogo in cui si esercita la responsabilità della giurisdizione.
L’ultima parola è “opportunità”, parlo dell’ opportunità di cambiare tante cose.
L’esperienza calabrese è per tanti versi unica, da nessuna parte vi è un così alto tasso di giovani all’interno degli uffici che provengono da esperienze diverse da ogni parte d’Italia. Da nessuna parte si assumono così rapidamente ruoli delicati ed importanti.
La giurisdizione poi, qui in Calabria, è qualcosa di davvero importante, ha una netta forza conformativa nei confronti della società che va oltre il diritto.
Quel che voglio dire è che la presa delle funzioni qui, deve essere considerata come presa delle responsabilità che la giurisdizione comporta, non solo la presa d’atto che bisogna scrivere dei provvedimenti.
La maggior parte di noi qui in Calabria - e concludo - sono di passaggio, e sappiamo bene che fra qualche anno ce ne andremo. Ma questo non significa che non possiamo fare qualcosa e soprattutto lasciare qualcosa.
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
1. Il repertamento delle tracce biologiche. - 2.Rilievi, accertamenti e delega di indagini.- 3.Utilizzabilità degli accertamenti sul DNA.
IL DNA, acido desossiribonucleico, è una macromolecola che racchiude il genoma umano, ossia le caratteristiche biologiche ereditarie di ciascun individuo. L’analisi dei polimorfismi del DNA consente di distinguere, con significatività statistica, un individuo da un altro. La prova scientifica del DNA, utilizzata in ambito forense dal 1980, ha ampliato l’orizzonte delle investigazioni, non solo con riferimento ai cold cases e rappresenta la naturale evoluzione tecnologica degli accertamenti dattiloscopici. La Corte di Cassazione riconosce all'indagine genetica, in presenza di un numero consistente di evidenze statistiche confermative, valenza di prova piena, e non di mero elemento indiziario, sulla cui base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti, in ragione dell’elevato grado di affidabilità. ( Cass.pen.sez.2,n.43406 del I/06/2016; Cass.pen.,sez.5 n.36080 del 27/03/2015; Cass.pen., sez.2 n.8434 del 5/02/2013; Cass.pen. n.48349 del 30/06/2004).
1. Il repertamento delle tracce biologiche.
Le attività svolte nell’immediatezza sulla scena del crimine, al fine di acquisire le tracce biologiche lasciate dall’autore del reato, sono irripetibili e non differibili in quanto effettuate su materiali deperibili nel breve periodo. L’ immediata esecuzione è necessaria per non compromettere le prospettive di risultato. (Cass.pen.,sez.5,n.43413 del 24/9/2013). Il repertamento delle tracce biologiche va distinto dalla fase successiva di accertamento tecnico vero e proprio, dall’analisi volta all’estrazione, quantificazione, amplificazione e sequenziamento del DNA, ossia all’estrapolazione del profilo genetico riconducibile al proprietario della traccia. L’elaborazione giurisprudenziale ha tracciato le differenze tra rilievi e accertamenti: i primi attengono ad un'attività di mera osservazione, individuazione e raccolta di elementi attinenti al reato per il quale si procede, gli “accertamenti” tecnici, ripetibili o irripetibili, comportano lo studio critico, l’elaborazione valutativa, ovvero di giudizio di quegli stessi dati secondo canoni tecnici, scientifici ed ermeneutici (Cass.pen., sez. n. 11866/2000, D'Anna; Cass. pen. n. 38087/2009). Il prelievo di un campione biologico da oggetti contenenti residui organici (ad esempio su una tazzina di caffè, su un mozzicone di sigaretta o all'interno di un passamontagna) è riconducibile alla categoria dei rilievi. (Cass.pen., Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009). L'art. 359 c.p.p. riconosce al pubblico ministero la facoltà di avvalersi di consulenti tecnici laddove intenda procedere ad <
2. Rilievi, accertamenti e delega di indagini.
I prelievi del DNA, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici, qualificabili come rilievi tecnici non sono atti invasivi o costrittivi, essendo naturalmente prodromici all'effettuazione di successivi accertamenti tecnici -ripetibili o irripetibili- e non richiedono conseguentemente l'osservanza di garanzie difensive (Cass.pen., Sez. 1, n. 8393 del 02/02/2005), Si tratta, pertanto, di attività delegabili ai sensi dell’art.370 c.p.p.. Diverso, invece, è il procedimento di identificazione del DNA, il cui espletamento richiede lo svolgimento di attività irripetibili o ripetibili a seconda che comportino o meno la distruzione o il grave deterioramento dei campioni utilizzati, da accertarsi con una valutazione di natura esclusivamente tecnico-fattuale. Il procedimento di identificazione del DNA della persona si articola in fasi distinte: estrapolazione del profilo genetico presente sui reperti, decodificazione del profilo genetico dell'indagato e comparazione tra i due profili. L'identificazione del DNA della persona avviene trasponendo in supporti documentali la composizione della catena genomica rilevata dall'analisi dei campioni di materiale genetico. Gli elettroferogrammi, generalmente riversati su file, sono stabili e non modificabili. La comparazione genetica si risolve nel confronto dei supporti documentali su cui sono stati registrati i profili genotipici estratti dal sequenziatore. La natura irripetibile dell'accertamento tecnico che conduce all'estrapolazione del profilo genetico presente su reperti sequestrati deve essere accertata in concreto, dipendendo dalla quantità della traccia e dalla qualità del DNA sulla stessa presente. La Corte di legittimità ha affermato che l'attività di comparazione tra profili genetici estratti dai reperti e riversati in supporti documentali è un’operazione di confronto sempre ripetibile, a condizione che sia assicurata la corretta conservazione degli stessi supporti sui quali sono impresse le impronte genetiche (Cass.pen.,sez.1 n.18246/2015 e cass.pen., sez..2,n.2476 del 27/11/2014).
3 .Utilizzabilità degli accertamenti sul DNA.
Ove, al momento dell'accertamento tecnico irripetibile, si proceda contro ignoti ovvero contro un soggetto diverso da quello successivamente indagato non possono trovare applicazione le garanzie difensive previste per l’indagato, a pena di inutilizzabilità, dall'art. 360 c.p.p..
I risultati di tali attività sono, dunque, utilizzabili nei confronti di soggetti che al momento del conferimento dell'incarico non erano ancora indagati per assenza di elementi indiziari a carico (Cass.pen.,sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012). Ne consegue che qualora il pubblico ministero disponga accertamenti tecnici irripetibili, sussiste l'obbligo di dare avviso al difensore solo se, al momento dell'incarico, era già stata individuata la persona nei cui confronti si procede, mentre tale obbligo non ricorre nel caso che la persona indagata sia stata individuata successivamente nel corso dell'espletamento delle operazioni tecniche.(Cass.pen.,sez. 4, n.20591 del 23/02/2010). Pacifico è l’orientamento della Suprema Corte secondo cui il prelievo di tracce biologiche su un oggetto rinvenuto nel luogo del commesso reato e le successive analisi dei polimorfismi del DNA, per l'individuazione del profilo genetico al fine di eventuali confronti, sono utilizzabili quando l'indagine preliminare si svolga contro ignoti e non sia stato possibile osservare le garanzie di partecipazione difensiva previste per gli accertamenti tecnici irripetibili compiuti dal P.M.. (Cass.pen.,sez.2, n.45929 del 24/11/2011; cass.pen.,sez.2, n. 37708 del 24/09/2008; cass.pen.,sez.2, n.37708 del 24/09/2008).
Le eventuali nullità derivanti dalla violazione delle garanzie difensive in relazione ad altro indagato non inficiano l’utilizzabilità degli accertamenti irripetibili nei confronti della persona identificata successivamente. La violazione della procedura di cui all’art. 360 c.p.p. rientra nella categoria delle nullità così dette a regime intermedio. Pur trattandosi di una nullità di ordine generale ricadente nella previsione di cui all'art.178, lett.c c.p.p., attinente all'intervento dell'indagato (o del suo difensore), la stessa, non rientra tra le nullità assolute, insanabili e rilevabili anche di ufficio in ogni stato e grado, di cui al successivo articolo 179 c.p.p.. Il mancato avviso dell'inizio degli accertamenti è sanabile ai sensi dell’articolo 183 c.p.p., ciò in linea con il principio di rango costituzionale della ragionevole durata dei processi.(Cass.pen.,sez.5, n.11086 del 15/12/2014; Cass.pen.,sez. 3, n. 5207 del 15/03/2000).
1. Il respingimento alla frontiera tra disciplina interna e sovranazionale.- 2. Il respingimento in alto mare e la disciplina delle operazioni di salvataggio. - 3. Violazione dei diritti dello straniero e penale responsabilità: sulla nozione di “atto politico” e relativa sindacabilità da parte dell’Autorità giudiziaria.
L’Autore analizza la disciplina nazionale e sovranazionale in materia di respingimento alla frontiera, con particolare attenzione alle operazioni di salvataggio in mare e alla rilevanza dell’atto governativo nel vaglio di responsabilità per delitti contro la persona.
1. Il respingimento alla frontiera tra disciplina interna e sovranazionale.
L’ingresso e la permanenza dello straniero (non comunitario) nel territorio dello Stato trovano puntuale disciplina nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (nel prosieguo t.u.), da coordinarsi con le disposizioni dei d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 e 18 agosto 2015 n. 142, di attuazione delle direttive nn. 2005/85/CE, 2013/32/UE e 2013/33/UE, in tema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e armonizzazione delle procedure per il riconoscimento del particolare status in commento. La disamina della normativa interna prende, necessariamente, le mosse dalla lettura dell’art. 4, comma 1, t.u., a mente del quale l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito allo straniero in possesso di passaporto valido o documento equipollente e del visto d’ingresso, salve le ipotesi di esenzione, e può avvenire, salvi i casi di forza maggiore, soltanto attraverso i valichi di frontiera appositamente istituiti. Al terzo comma è, poi, precisato che l’ingresso sarà consentito soltanto allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata dello stesso e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. Non è, comunque, ammesso in Italia lo straniero che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato (o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone) ovvero che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, per taluni reati puntualmente indicati (tra cui i delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in ipotesi di flagranza). Non possono, infine, fare ingresso nel territorio dello Stato e sono respinti alla frontiera gli stranieri espulsi, salvo che abbiano ottenuto la speciale autorizzazione o che sia trascorso il periodo di divieto d’ingresso, gli stranieri che debbono essere espulsi e quelli segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore in Italia, ai fini del respingimento o della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico, di sicurezza nazionale e di tutela delle relazioni internazionali (art. 4, comma 6).
In difetto delle condizioni legittimanti l’ingresso nel territorio dello Stato, è previsto il respingimento (ex art. 10 t.u.), direttamente eseguito dalla polizia di frontiera o, in alternativa, disposto con accompagnamento dal Questore (c.d. respingimento differito), nei casi in cui lo straniero sia stato temporaneamente ammesso nel territorio per necessità di pubblico soccorso o, entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera, sia fermato all’ingresso o subito dopo.
In nessun caso può, tuttavia, disporsi il respingimento verso uno Stato in cui il migrante possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali (ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione) oppure qualora esistano fondati motivi di ritenere che questi rischi di essere sottoposto a tortura, tenuto anche conto dell’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani (art. 19, commi 1 e 1.1., citato decreto). In nessun caso può, infine, disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati (art. 19, comma 1bis). Il sistema delle tutele è, poi, implementato dalla complementare disciplina in tema di asilo politico, riconoscimento dello status di rifugiato nonché adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari, che inibisce la primaria reazione alla frontiera (così l’art. 10, comma 4). A tal proposito, all’art. 10ter, comma 1, t.u. (introdotto con d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017 n. 46), è riconosciuto allo straniero, rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare, il diritto all’informazione sulla procedura di protezione internazionale (nonché sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito), assicurato presso appositi punti di crisi, allestiti nell’ambito dei centri governativi di prima accoglienza. Già prima dell’attuazione della direttiva comunitaria n. 2013/32/UE s’era affermato, nella giurisprudenza di legittimità, che «qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere – nella specie fondato non già sull’espressa previsione contenuta nell’art. 8 della direttiva UE 26 giugno 2013, n. 32, non ancora recepita, quanto piuttosto sull’interpretazione conforme alle direttive europee in corso di recepimento e costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale – di fornire loro informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l’accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, altresì, il giudice statuire sulla dedotta illegittimità del primo cagionata da siffatta omessa informazione» (cfr. Cass., Sez. VI civ., ordinanza 25 marzo 2015, n. 5926). L’obbligo d’informazione sulle procedure di asilo è, poi, sancito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella motivazione della sentenza 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri c. Italia, ha ribadito l’importanza di garantire alle persone interessate da una misura di allontanamento, le cui conseguenze sono potenzialmente irreversibili, «il diritto di ottenere informazioni sufficienti a consentire loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi».
Sull’impugnabilità del decreto di respingimento differito emesso dal Questore, si veda, infine, Cass., S.U., 17 giugno 2013, n. 15115, a mente della quale «spetta al giudice ordinario, in mancanza di norma derogatrice al criterio generale, la cognizione dell’impugnazione dei respingimenti, incidendo il relativo provvedimento su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo, in quanto rivolto, senza margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell’Amministrazione, all’accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge e a quello negativo della insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale». L’arresto, seppur in punto di riparto di giurisdizione, comprova l’esistenza – anche in difetto di positiva disciplina (diversamente da quanto previsto in materia di espulsione dall’art. 13, comma 8, t.u.) – di strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento persino nelle situazioni di marginale radicamento, quale diritto umano fondamentale, riconosciuto allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato (art. 2, comma 1, t.u.).
2. Il respingimento in alto mare e la disciplina delle operazioni di salvataggio.
Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale sui poteri statuali di controllo delle frontiere, occorre verificare in quali termini (ed eventualmente con quali limiti) la disciplina in rassegna trovi applicazione in caso d’interventi a presidio delle frontiere marittime, con particolare riferimento alle operazioni di salvataggio in mare.
Due le ipotesi: che al salvataggio segua direttamente il respingimento, senza ricovero dello straniero sulla terraferma o, in alternativa, che questi sia condotto nel territorio nazionale, per le esigenze di soccorso e prima assistenza.
Nella prima, supponendosi l’esecuzione dell’intervento in acque internazionali, l’interprete deve confrontarsi con il preliminare accertamento della giurisdizione dello Stato, che radica, poi, ogni valutazione in punto di violazione delle garanzie accordate allo straniero. Il tema ha formato oggetto della pronuncia C. edu, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri, cit. In conformità al carattere essenzialmente territoriale del concetto di giurisdizione, la Corte ha premesso come solo in circostanze eccezionali le azioni degli Stati contraenti compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possano costituire esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 CEDU (cfr. C. edu, 26 giugno 1992, Drozd e Janousek c. Francia e Spagna). Tuttavia, il controllo continuo e ininterrotto su un individuo, seppur al di fuori del territorio nazionale, integra propriamente giurisdizione (quantomeno de facto), con conseguente applicabilità del complesso dei diritti enunciati dalla Convenzione, purché pertinenti al caso di specie. Osserva, inoltre, la Corte che, in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera. Il principio di diritto internazionale ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione. Detto principio è recepito, peraltro, dal diritto interno, atteso il chiaro tenore letterale dell’art. 4 c. nav. («le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano»). In questi casi si tratta, dunque, di un controllo de jure (oltre che de facto) esercitato dallo Stato sugli individui interessati.
Quanto alle violazioni oggetto d’accertamento, la Corte ha ritenuto in contrasto con l’art. 4 del Protocollo n. 4 (che pone il divieto di espulsioni collettive di stranieri), il respingimento in alto mare (mediante trasporto, nel caso di specie, sino alle coste libiche), eseguito in difetto di congrua valutazione della posizione del singolo individuo attinto dal provvedimento (così già C. edu, 3 ottobre 1975, Henning Becker c. Danimarca, ove si è per la prima volta definita “l’espulsione collettiva di stranieri” come «qualsiasi misura dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che compongono il gruppo»). Si è, infatti, affermata la configurabilità di un’espulsione anche nell’ipotesi in cui si sia, a monte, impedito l’ingresso nel territorio nazionale, considerato lo scopo della norma, ossia evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminarne la situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le proprie argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente. «Se dunque – afferma la Corte – l’art. 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra». S’è, inoltre, accertata la violazione dell’art. 13 CEDU, che garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso effettivo che permetta di far valere i diritti e le libertà della Convenzione, avendo constatato la Corte che i ricorrenti non avevano avuto accesso ad alcuna procedura volta alla loro identificazione e alla verifica delle loro situazioni personali prima dell’esecuzione dell’allontanamento verso la Libia (tali procedure non erano previste a bordo delle navi militari sulle quali erano stati imbarcati i ricorrenti né fra il personale vi erano interpreti o legali).
L’ulteriore ipotesi in rassegna (ossia il caso in cui al salvataggio in mare consegua il trasporto dei migranti nel territorio nazionale) ha formato oggetto delle più recenti sentenze C. edu, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia (la seconda pronunciata dalla Grande Camera in parziale riforma della prima), sulle condizioni di trattenimento presso il centro di soccorso e di prima accoglienza di Contrada Imbriacola (Lampedusa). Si è, innanzitutto, accertata la violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU, che, sancendo il diritto alla libertà personale, ne consente la limitazione, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno (par. 1, lett. f). Invero, l’ordinamento italiano prevede, quale unica forma lecita di trattenimento dello straniero, la misura della detenzione amministrativa nei centri di permanenza per i rimpatri, di cui all’art. 14 t.u., soggetta, come noto, alla convalida dell’Autorità giudiziaria ordinaria (commi 3 ss.). Diversamente, in ipotesi di respingimento (evidentemente differito), non v’è norma che consenta di limitare la libertà personale degli stranieri temporaneamente collocati presso i centri di soccorso e di prima accoglienza, di cui all’art. 10ter t.u. È stata, infine, affermata la violazione dei parr. 2 e 4 dell’art. 5, concernenti gli obblighi d’informazione circa le ragioni del trattenimento nonché il diritto a un ricorso effettivo innanzi all’Autorità giudiziaria, per le doglianze sulla legittimità della limitazione della libertà personale patita.
3. Violazione dei diritti dello straniero e penale responsabilità: sulla nozione di “atto politico” e relativa sindacabilità da parte dell’Autorità giudiziaria.
Tanto premesso, ci si interroga sulle conseguenze giuridiche, nel diritto interno, della violazione della procedura delineata dagli artt. 10 e 10ter t.u., potenzialmente integrante, nell’interpretazione costituzionalmente orientata, indebita limitazione della libertà personale del migrante, penalmente rilevante. Risulta di particolare interesse il vaglio di legittimità di atti eventualmente emessi, in violazione della disciplina in rassegna, da figure apicali governative, imponendo lo stesso il preliminare confronto con la categoria giuridica dell’atto politico (come noto sottratto al sindacato, quantomeno, del Giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.). Secondo consolidata giurisprudenza, la politicità dell’atto è data dalla convergente presenza di due requisiti, l’uno soggettivo, l’altro oggettivo. In ordine al primo (che attiene alla provenienza del provvedimento), deve trattarsi di «atto emanato dal governo, e cioè dall’autorità cui compete, altresì, la funzione d’indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica» (cfr. C. Stato, sez. V, 6 maggio 2011, n. 2718 e C. Stato, sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094). Sotto il profilo oggettivo, invece, deve essersi al cospetto di un atto adottato «nell’esercizio di un potere politico, anziché nell’esercizio di un’attività meramente amministrativa», che «deve riguardare la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (si vedano C. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397 nonché TAR Veneto, sez. III, 25 maggio 2002, n. 2393), talora specificandosi che «gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge» (cfr. C. Stato, sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502 e C. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209; in dottrina, per una recente disamina dell’istituto, G. Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, III, p. 329 ss.). Preme, tuttavia, precisare come, in subiecta materia, si sia esclusa la caratura politica del decreto di espulsione emesso dal Ministro dell’Interno ai sensi dell’art. 13, comma 1, t.u. (così C. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 88), diversamente reputato atto di alta amministrazione (dunque soggetto al giudizio di legittimità, sebbene limitato, in ragione della latitudine dell’apprezzamento discrezionale, al vaglio estrinseco in ordine alla mancanza di una motivazione adeguata o alla sussistenza di eventuali profili di travisamento, illogicità o arbitrarietà), argomento che si menziona per evidente specularità nonché contiguità logica.
Ora, così definita la nozione di atto politico (e chiaritone il regime d’impugnabilità nel processo amministrativo), occorre indagarne l’incidenza nell’ambito di un eventuale giudizio penale, ovverosia verificarne l’idoneità a escludere la rilevanza di condotte tipiche, in quanto sussumibili sotto puntuali fattispecie incriminatrici.
Non si ravvisano, in primo luogo, apprezzabili motivi per sostenere l’assoluta insindacabilità dell’atto politico (ove effettivamente configurabile) innanzi al Giudice ordinario. Innanzitutto, in ragione dell’assenza di disposizioni normative del medesimo tenore dell’art. 7 c.p.a., che, in quanto norma eccezionale, risulta insuscettibile di applicazione analogica (così già O. Ranelletti-A. Amorth, Atti politici (o di Governo), in NDI, I, 2, Torino, 1958, p. 1515, in relazione all’art. 31 t.u. C. Stato). Va, inoltre, evidenziata la diversità strutturale del giudizio ordinario, avente principalmente a oggetto il vaglio di liceità di condotte (si veda, sulla distinzione fra illegittimità e illiceità, E. Guicciardi, L’atto politico, in ADP, 1937, 504-505): in altri termini, il Giudice ordinario conosce della legittimità dell’atto soltanto in via incidentale, quale mero elemento della fattispecie fattuale dedotta, di cui verificare l’aderenza al paradigma normativo di riferimento, secondo operazioni logiche di sussunzione o distinzione (cfr. Cass. pen., S.U., 21 dicembre 1993, n. 11653 nonché, da ultimo, Cass., Sez. III pen., 10 ottobre 2017, n. 46477).
Né può sostenersi l’idoneità dell’atto, in sé considerato, a elidere l’antigiuridicità della condotta tipica, in particolare ai sensi dell’art. 51 c.p., nell’ipotesi in cui il provvedimento, lungi dal rappresentare antecedente logico e cronologico della condotta, integri esso stesso il fatto di reato (per evidente circolarità logica del ragionamento).
In definitiva, non paiono riscontrabili nella disciplina dell’illecito penale argomenti a sostegno dell’imperscrutabilità tout court dell’atto politico (come fosse attributo suo proprio), dovendosi, di contro, analizzare il tema della punibilità puntualmente verificando la sussistenza di guarentigie eventualmente accordate dall’ordinamento a tutela della funzione pubblica. Si fa, evidentemente, riferimento alle immunità riconosciute dalla Costituzione, che costituiscono il corollario operativo dell’autonomia accordata ai poteri supremi dello Stato. Spetta, dunque, all’interprete coniugare le opposte istanze – legalità secondo il diritto comune e autonomia dei poteri – applicando istituti positivamente disciplinati.
In alcuni casi l’immunità compenetra intimamente l’apprezzamento sostanzialistico, talora integrando causa di giustificazione (Cass., Sez. V pen., 24 novembre 2006, n. 38944) o, comunque, di non punibilità (Cass., Sez. V pen., 11 aprile 2008, n. 15323 e Cass., Sez. V pen., 22 novembre 2007, n. 43090), talaltra concorrendo persino alla perimetrazione del fatto tipico. In merito alla possibile incidenza della prerogativa tutelata sulla tipicità della condotta, si veda la più recente giurisprudenza di legittimità (così Cass., Sez. VI pen., 11 settembre 2018, n. 40347), ove si è esclusa la configurabilità del delitto di corruzione propria nell’esercizio della funzione legislativa, ostandovi il combinato disposto degli artt. 64, 67 e 68 Cost. (che non consente l’individuazione di doveri specificamente e riconoscibilmente correlati al mandato parlamentare), così residuando la sola punibilità per il meno grave reato di corruzione impropria (per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum).
In altri, derivando l’immunità dall’attivazione di particolari procedure, la distinzione tra penale rilevanza e concreta punibilità rimane netta: così in ipotesi di reati commessi da membri del Governo nell’esercizio delle funzioni (art. 96 Cost.), in relazione ai quali soltanto il rituale svolgimento dell’iter procedurale prescritto (con l’insindacabile valutazione di cui all’art. 9, comma 3, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1) determina esenzione dalla reazione sanzionatoria. Tanto induce a ritenere che l’imperscrutabilità non sia attributo genetico dell’atto (quand’anche politico), il quale, diversamente, “diviene” immune da stigma penale solo all’esito della procedura a tutela della prerogativa statuale, nel vaglio diacronico che s’è descritto.
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