ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Verso il processo telematico in Cassazione
di Pierpaolo Gori
Sommario: 1. Processo telematico e giurisdizioni superiori, il caso della Cassazione.- 2. Alcuni dati sul processo civile telematico - 3. Il PTT e il processo di legittimità. - 4. Il deposito telematico dei ricorsi civili presso la Corte di Cassazione, sperimentazioni in corso. - 5. Prospettive nell’immediato futuro: il Desk del consigliere di Cassazione.
Il presente contributo tratteggia le fonti normative e le condizioni concrete in cui la Corte di Cassazione, soprattutto nel settore civile, sta procedendo verso il processo telematico e le prospettive di sviluppo nell’immediato futuro. L’adozione del Desk del consigliere e del deposito telematico dei ricorsi e degli atti successivi è un obiettivo non differibile, dopo che il processo telematico è ormai obbligatorio da un decennio negli Uffici di merito, ed è stato negli anni adottato dalla giustizia amministrativa, contabile, tributaria e l’informatizzazione risponde a buone prassi consolidate anche presso Corti sovranazionali come la CEDU. Questo ritardo può anche essere un’opportunità, ove sia utilizzato per fare tesoro delle importanti esperienze raccolte presso gli altri Uffici e il Desk tenga conto delle peculiarità del processo di legittimità e della giurisdizione nazionale. La riprogettazione del Desk e la sua sperimentazione, sia sul versante del deposito telematico degli atti da parte degli avvocati, sia della visualizzazione degli atti e decisione dei ricorsi da parte dei consiglieri della Corte, è attualmente in corso.
1. Processo telematico e giurisdizioni superiori, il caso della Cassazione.
Un primo fondamentale passaggio per l’avvio del Processo Civile Telematico presso la Corte di Cassazione è intervenuto il 15 febbraio 2016, quando è stato dato inizio alle comunicazioni telematiche obbligatorie in Cassazione per i procedimenti civili[1].
Sul piano pratico, l’obbligo delle comunicazioni telematiche ha così determinato l’ingresso della Corte di legittimità nella progressiva digitalizzazione del processo civile, ormai molto avanzata in primo e secondo grado, dove il PCT è obbligatorio dal 2009[2] per quasi tutte le funzioni giudicanti. Questa prima iniziale svolta ha allineato la Corte di Cassazione con le altre giurisdizioni superiori italiane, ma solo in parte e per breve tempo.
Eccezion fatta per un iniziale periodo transitorio destinato alle necessarie verifiche tecniche, già a partire dal 2016 anche per i giudizi innanzi alla magistratura contabile è divenuto obbligatorio, sia nei confronti dell’Amministrazione, sia delle parti, l’utilizzo della posta elettronica certificata per il deposito, l'invio e la ricezione di comunicazioni e notifiche degli atti processuali[3].
Successivamente, a partire dal 2017 le giurisdizioni superiori iniziano a correre verso la telematizzazione. Il 7 ottobre 2016 entra in vigore il Codice della giustizia contabile[4], il quale ridisciplina le regole processuali dei giudizi di responsabilità erariale, di conto e di quelli sanzionatori e pensionistici innanzi alla Corte dei Conti. Nel Codice[5] è previsto che, nella giustizia contabile, ove non sia disposto diversamente, si applichino le regole e le specifiche tecniche del processo civile telematico. Nondimeno, va pure considerato che l’attuazione completa del PCT non è immediatamente completa e, ancora a novembre 2019[6], è risultata necessaria una nuova versione della piattaforma telematica per visualizzare ed estrarre copia dei documenti informatici contenuti nei fascicoli di causa.
Dal 1 gennaio 2017 il processo amministrativo è divenuto telematico per tutti i nuovi ricorsi incardinati non solo davanti ai TAR, ma anche davanti al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana[7].
Sul deposito telematico degli atti introduttivi, la Corte di Cassazione è invece attestata all’”Avvertenza” del Primo Presidente del 15.6.2016 di divieto del deposito telematico di atti processuali, restando efficace solo il deposito telematico di atti non aventi immediata incidenza sul processo[8]. In coerente applicazione di tali principi è stato ad esempio statuito che “Il tardivo deposito dell'originale del ricorso per cassazione ne comporta l'improcedibilità, indipendentemente dall'avvenuta sua trasmissione in via telematica nei termini di cui all'art. 369 c.p.c., né sussistono i presupposti per una rimessione in termini fondata sull'errore scusabile, atteso che la normativa vigente non ammette ancora i depositi in via telematica nei giudizi innanzi alla Corte di Cassazione.”[9].
Questo mancato adeguamento comporta la necessità di distinguere la stessa rilevanza dei principi dell’errore scusabile e del raggiungimento degli effetti tra gradi di merito e giudizio di legittimità, al fine di stabilire l’efficacia o meno dell’introduzione del processo per effetto del deposito telematico dell’atto processuale[10].
Anche il confronto con le Corti sovranazionali sull’uso del telematico è significativo, se si pensa che, ad esempio, il supporto informatico al lavoro della Corte EDU è costante ed è articolato su più livelli, e non è limitato ad un database di tutte le sentenze e decisioni accessibile dall’esterno attraverso un moderno motore di ricerca (HUDOC) per diversi aspetti assimilabile al CED. E’ infatti molto rilevante per l’omogeneità delle decisioni la rete informativa intranet della Corte e, quanto alla tenuta informatica dei fascicoli, l’applicativo interno alla Corte (CMIS), che reca informazioni sui dati esterni del singolo processo. Infine, il DM è il database utilizzato per effettuare e conservare tutto il lavoro di scrittura dei singoli provvedimenti, da quelli iniziali alla decisione finale. In DM sono contenuti tutti gli atti dei fascicoli e tutti i provvedimenti, sia in corso di redazione sia già firmati e pubblicati, in relazione al singolo fascicolo[11].
Lo stato di cose va poi letto alla luce del fatto che nei tribunali di primo grado l’istituzione dell’Ufficio per il processo è divenuta obbligatoria dal 30 giugno 2019, anche se per gli altri Uffici, inclusa la Corte di Cassazione è facoltativa[12]. Si tratta di uno strumento di efficienza chiave che può contribuire con forza all’introduzione e al successo del processo telematico in Cassazione in quanto struttura organizzativa finalizzata a “garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”[13].
2. Alcuni dati sul processo civile telematico.
Una delle peculiarità della Corte di Cassazione è essere giurisdizione nazionale e, dunque, si potrebbe pensare sia notevolmente più complesso organizzare buone prassi e protocolli che investano un gran numero di Avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori[14] e provenienti da varie realtà territoriali. Nondimeno, la percezione positiva del Foro e della stessa Magistratura[15] verso il processo telematico, dopo un’iniziale diffidenza, è progressivamente cresciuta insieme alla consapevolezza dei vantaggi che questa innovazione tecnologica assicura, come attesta un questionario raccolto su base nazionale dalla Cassa Forense.
La Commissione Informatica Giudiziaria ha diffuso il modulo attraverso tutti gli Ordini degli Avvocati d’Italia al fine di fare il punto sulle condizioni reali di attuazione del processo telematico sul territorio nazionale, e ha rilevato che, contrariamente a quanto si possa pensare, l’avversione del Foro è andata progressivamente scemando, dopo un primo momento restio e nostalgico rispetto al processo cartaceo.
Il questionario ha rivelato come, in tutta Italia, l’utilizzo del processo telematico è ormai entrato nell’uso quotidiano, senza che sia stato d’ostacolo il fatto che diversi magistrati continuino nei singoli uffici a richiedere le c.d. copie di cortesia, secondo prassi concordate dagli Uffici tramite protocolli, non incentivati dalla normativa né dal Foro, ma nemmeno preclusi e idonei a contemperare le esigenze della transizione.
In merito ai tempi di inserimento degli atti giudiziari depositati, l’87% degli Ordini intervistati ha riscontrato positivamente la risposta del processo telematico entro uno o due giorni dall'invio. Le differenze, quantitativamente esigue, riguardano soprattutto la tempestività relativa tra l’invio e la risposta che, generalmente, interviene per lo più entro il termine massimo di tre giorni[16].
Sui tempi di emissione della terza e quarta ricevuta, nell’83% dei casi si è riscontrato il decorso di un giorno per l’una e di due o tre o, più raramente, più giorni, per l’altra e ultima ricevuta prevista.
Nell'utilizzazione del PCT nei singoli Uffici, si riscontrano nondimeno significative differenze, con una limitazione soprattutto per determinate funzioni come l'ufficio del Giudice Tutelare. L’uso del PCT nell’ambito della Volontaria Giurisdizione è utilizzato soprattutto in alcuni grandi Uffici, ma questo sconta anche il fatto che spesso non è presente difesa tecnica, e anche presso il Tribunale dei Minorenni l’uso dell’applicativo è atteso solo per l’estate 2020[17].
Il processo telematico bene si è inserito nel processo esecutivo, senza particolari problemi quanto al deposito degli atti da parte degli avvocati. Alcune difficoltà permangono tuttavia nella consultazione dei fascicoli.
Il Ministero della Giustizia ha diffuso il 30 settembre 2019[18] i dati relativi all’utilizzo concreto del PCT, su base nazionale, nei dodici mesi precedenti. Così risulta che i depositi telematici siano stati 9.270.688, dei quali 2.045.913 atti introduttivi del giudizio, inclusi quelli di costituzione, 6.815.982 atti endoprocedimentali e 408.793 ricorsi per decreto ingiuntivo. Rispetto all’anno precedente sono stati ben 97.195 i depositi telematici in più, segno di un ulteriore riscontro del trend positivo di progressivo consolidamento della confidenza e affidabilità dell’applicativo.
Nei dodici mesi in considerazione, i soggetti attivi iscritti al ReGIndE[19] sono stati 1.171.530, di cui solo circa un quarto Avvocati (263.654), mentre la restante parte sono risultati essere appartenenti ad enti pubblici, altri professionisti iscritti ad albi ed elenchi istituiti con legge, e infine ausiliari del giudice. Molto significativo anche il dato dei pagamenti telematici relativi a spese di giustizia, diritti e contributo unificato effettuati nell’anno, con un incasso totale di Euro 72.260.403 per l’Erario, così come previsto dal Codice dell'Amministrazione Digitale[20].
3. Il PTT e il processo di legittimità.
Dal 1 dicembre 2015, ha preso il via il processo tributario telematico (PTT) presso le Commissioni tributarie provinciali e regionali di Umbria e Toscana [21] e, dopo oltre tre anni e mezzo, a partire dal 1 luglio 2019[22] l’obbligo di introduzione telematica del processo tributario è andato a regime per tutta Italia.
Si tratta anche sotto il punto di vista tecnico di un possibile riferimento complessivamente positivo pur con grandi differenze territoriali, per l’introduzione relativa al giudizio di legittimità, anche perché individua molti degli adeguamenti normativi necessari sul piano tecnico e processuale. E’ stata così espressamente disciplinata la facoltà di attestazione della conformità, al fine del deposito e della notifica con modalità telematiche, della copia informatica di un atto processuale, incluso il provvedimento dell’autorità giudiziaria[23].
Il tema è ben noto alla giurisprudenza di legittimità, che si è pronunciata più volte al fine di chiarire il rapporto tra attestazione di conformità e giudizio di Cassazione ai fini della notifica PEC fintantoché innanzi alla stessa non sia attivato il processo civile telematico[24].
Non va poi trascurato che la presenza di un fascicolo telematico del processo è funzionale alla possibilità di scaricare e stampare gli atti ivi contenuti da remoto e, conseguentemente, comporta la necessità di regolamentare il potere di attestare la conformità degli stessi, anche sotto forma di copia analogica di atti e provvedimenti tratti nel fascicolo informatico[25].
Il fine è garantire con metodi univoci di certificazione che, tanto la copia informatica, quanto il stampato cartaceo munito dell'attestazione di conformità equivalgano all'originale o alla copia conforme dell'atto o del provvedimento presente nel fascicolo informatico. Ciò, tra l’altro, implica necessariamente che, nel compimento di siffatta attività certificativa, il soggetto che ne ha facoltà - essenzialmente il difensore - assuma ad ogni effetto la veste di pubblico ufficiale, conformemente a quanto tradizionalmente stabilito ad esempio a proposito dell'autentica della procura da parte del difensore[26].
Si pone quindi il tema della prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo PEC, allorquando non sia possibile fornirla con modalità telematiche, questione tutt’altro che di piana applicazione giurisprudenziale per la stessa Corte di Cassazione[27]. Opportunamente dunque la disciplina introduttiva del processo tributario telematico prevede che, in tutti i casi in cui debba essere fornita la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo di posta elettronica certificata e non sia possibile fornirla con modalita’ telematiche, il difensore o il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell'albo dei gestori dell'accertamento e della riscossione dei tributi locali[28], provvedano ai sensi dell'articolo 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n.53 del 1994[29] , assumendo ad ogni effetto nel compimento di tali attività la veste di pubblico ufficiale[30].
E’ anche previsto che la partecipazione delle parti alla pubblica udienza possa avvenire a distanza, su apposita richiesta formulata da almeno una di esse nel ricorso o nel primo atto difensivo, attraverso un collegamento audiovisivo tra l'aula di udienza e il luogo del domicilio indicato dal contribuente, dal difensore, dall’ufficio impositore o dai soggetti della riscossione, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità[31]. Ciò implica, tra l’altro, la necessità di individuare le modalità tenico-operative per consentire la partecipazione all’udienza a distanza e la conservazione della visione delle immagini[32].
L’entrata in vigore dell’innovazione apportata dal d.l. n.119/2018 a partire dal 1 luglio 2019 è tanto più significativa per la Corte di Cassazione, in quanto la sezione Quinta Civile della S.C. è competente quale giudice di ultima istanza in materia tributaria. Il persistente mancato adeguamento del processo tributario di legittimità alle innovazioni del merito, che porteranno alla definizione dei primi processi di appello interamente telematici nei prossimi mesi, potrebbe diventare in futuro un dato non neutro nel dibattito in corso sulla conservazione della materia tributaria in capo alla Corte o sua devoluzione alla Corte dei Conti[33]. Infatti, nell’ambito di quest’ultima, le funzioni giurisdizionali, ad esempio in materia pensionistica, vedono un rito già ampiamente telematizzato, soprattutto per gli Avvocati, anche se dal lato giudicante permangono in molti casi prassi favorevoli al mantenimento del cartaceo attraverso copie di cortesia, con un circoscritto utilizzo dell’applicativo “GiuDiCo”.
4. Il deposito telematico dei ricorsi civili presso la Corte di Cassazione, sperimentazioni in corso.
Con una nota del 25 settembre 2019 il PST Giustizia (Portale dei Servizi Telematici del Ministero) ha messo a disposizione sul proprio sito gli schemi XSD degli atti introduttivi e successivi presso la Corte di Cassazione, rendendo così possibili i test di deposito telematico di atti processuali. E’ ancora una fase sperimentale, che consente di depositare telematicamente i ricorsi presso il sistema di Model Office della Corte di piazza Cavour, speculare e parallelo alla imminente sperimentazione del Desk del consigliere dal lato giudicante[34].
Lo schema XSD è un plesso di regole che in termini di “vincoli” definisce il tipo documento in formato XML[35], e può essere usato anche attraverso un programma di validazione al fine di accertare il tipo e la struttura del documento XML, realizzato secondo le linee guida del W3C. Gli schemi XSD rendono così univocamente leggibili i dati scambiati tramite documenti XML, producono una serie di informazioni aderenti a specifici tipi di dati e forniscono considerevoli strumenti di controllo[36]. Così, ad esempio, interi insiemi di documenti con caratteristiche omogenee possono essere raggruppati attraverso DTD[37], i quali definiscono gli elementi con cui costruire i singoli documenti XML, e identificano la struttura del documento sulla base della lista di regole prescelte[38].
E’ stata inoltre resa disponibile dal DGSIA la documentazione tecnica dell’URL del Model Office di Cassazione, dell’indirizzo di PEC e del codice dell’Ufficio giudiziario da utilizzare, oltre che il modulo per la richiesta di accesso remoto al Model Office della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, attraverso il PST Giustizia, ha quindi diffuso il 3 ottobre 2019 una ulteriore nota annunciando che è possibile dall’esterno effettuare i test per il deposito telematico dei ricorsi presso il sistema di Model Office Cassazione.
Il test è finalizzato allo svolgimento delle prove dei servizi PCT di consultazione dall’esterno dei registri civili e penali della Corte Suprema di Cassazione, oltre che il deposito sul sistema SIC-Cassazione degli atti processuali tipici: ricorso, controricorso, controricorso con ricorso incidentale e atti successivi[39].
Per essere abilitati è necessario trasmettere una domanda alla DGSIA e alla Corte di Cassazione compilando l’apposito modello disponibile sul Portale Servizi Telematici. Sulla base delle indicazioni ricevute, il personale tecnico della DGSIA e della Corte di Cassazione esegue le necessarie operazioni di configurazione dei sistemi, all’esito delle quali i referenti tecnici indicati nel modello ricevono un messaggio di posta elettronica che conferma l’avvenuta attivazione della connessione con registrazione dell’utente sul RegIndE. E’ quindi possibile procedere a depositare telematicamente le proprie buste di test, secondo le specifiche tecniche previste, utilizzando l’indirizzo PEC mittente registrato per il test[40].
5. Prospettive nell’immediato futuro: il Desk del consigliere di Cassazione.
Il test di accesso telematico dall’esterno sono solo una delle due facce della medesima medaglia. A partire dal mese di febbraio 2020, all’interno della Corte di Cassazione è in corso di organizzazione la sperimentazione dei depositi telematici e del Desk del consigliere. Questo è l’applicativo appositamente concepito per il consigliere di Cassazione, con caratteristiche diverse rispetto alla Consolle del magistrato in uso nei due gradi di merito.
Il Desk è concepito per consentire fin da subito le funzioni di consultazione del ruolo e del fascicolo da remoto, scrittura, confronto con il presidente del collegio e deposito della decisione. L’applicativo, in corso di riprogettazione da parte del DGSIA e di Netservice Spa, società fornitrice del servizio in appalto per la giustizia civile, è ideato per funzionare da remoto, senza dover essere installato sul singolo computer in dotazione al singolo Consigliere, con notevole facilità di gestione, anche in termini di aggiornamento software da remoto, ed è previsto un sistema di autenticazione e accesso sicuro ma agile, oltre di firma digitale del provvedimento, per sua natura quasi sempre collegiale.
Il fatto che l’applicativo sia ingegnerizzato in modo semplice per funzionare da remoto senza essere installato sul singolo computer è particolarmente importante per le peculiarità della giurisdizione nazionale della Corte, la quale è esercitata da consiglieri provenienti dall’intero territorio nazionale. La necessità di assistenza tecnica a distanza, la possibilità di poter scaricare facilmente l’aggiornamento software e il perfezionamento facile di depositi e firme digitali da remoto sono requisiti, quindi, molto più importanti per il Desk di quanto non sia per la Consolle del magistrato in un Ufficio distrettuale.
Inoltre, vi sono delle peculiarità nel rito di legittimità di cui tener conto nella riprogettazione, a norme processual-civilistiche invariate. Ad esempio, dopo l’introduzione del rito camerale in Cassazione per effetto del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 sull’efficientamento della giustizia, convertito con modifiche nella legge. n. 197 del 2016, la decisione del ricorso attraverso ordinanza a seguito di trattazione camerale è ormai molto più frequente rispetto alla tradizionale definizione con sentenza dopo l’udienza pubblica[41]. E’ così previsto che, a differenza della sentenza, l’ordinanza sia firmata dal solo presidente del collegio e non anche dall’estensore. Tuttavia, per esigenze di coordinamento del codice di procedura civile con la disciplina del processo telematico in termini parzialmente diversi sul punto, e in una certa misura per lo stesso contenuto di schemi XSD esistenti di validazione dei documenti XML, potrebbe non essere così facile eliminare la firma digitale dell’estensore - il quale a sua volta potrebbe essere diverso dal relatore -, sul provvedimento decisorio, salva la possibilità di non renderla “visibile” all’esterno.
Sul piano, centrale, della fruibilità e del successo applicativo del Desk nell’uso quotidiano da parte dei consiglieri, in una prima fase, al fine di evitare ulteriori dilazioni al lancio dell’applicativo, è forse opportuno perseguire un obiettivo minimo, di coesistenza dell’applicativo, circoscritto alle funzioni di scrittura e deposito dei provvedimenti e alla attività prodromica di studio del fascicolo, con l’esistenza del SIC, utile per la ricerca dei fascicoli, pendenze, connessioni, ed altri aspetti organizzativi, database esterno al Desk, ma già sperimentato da molti anni presso la Corte di Cassazione ed efficace.
Il Desk avrà in ogni caso bisogno di una sperimentazione di diversi mesi prima di essere esteso all’uso generale e quotidiano, comunque non prima dell’estate 2020 come confermato dallo stesso direttore generale DGSIA. A tal fine sono state individuate delle attività preliminari all’avvio della sperimentazione, finalizzata all’accertamento della funzionalità dei sistemi di trasmissione dell’applicativo[42], sia attraverso riunioni operative con il gruppo di lavoro per l’informatica giudiziaria in Cassazione, che attraverso sperimentazioni costanti del nuovo applicativo.
[1] Articolo 16, comma 10, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.
[2] In particolare, il D.M. 27 aprile 2009 reca le “Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia”.
[3] Decreto Presidente Corte dei Conti n.162 del 16 febbraio 2016.
[4] D.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
[5] Cfr. l’rt.6 del decreto n.174 del 2016, rubricato “Digitalizzazione degli atti e informatizzazione delle attività”.
[6] Si veda il sistema informativo della giustizia contabile “GiuDiCo”, accessibile da parte degli Avvocati previa autenticazione SPID, https://www.spid.gov.it.
[7] Il decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 sull’efficientamento della giustizia, lo stesso decreto che ha introdotto il giudizio camerale in Cassazione, ha disposto all’articolo 7 comma 4 che il deposito telematico è obbligatorio per i procedimenti introdotti con ricorsi depositati dal 1 gennaio 2017 mentre, per quelli già pendenti a tale data, si è stato previsto, fino all’esaurimento del grado di giudizio e comunque non oltre il 1 gennaio 2018, il mantenimento dei depositi cartacei.
[8] Avvertenza del Primo Presidente del 15.6.2016: “Presso la Corte di Cassazione non è ammesso il deposito telematico degli atti del processo (ricorso, controricorso, ricorso incidentale, memorie ex art. 378 c.p.c., memorie di costituzione di difensore, atti di “costituzione” a fini defensionali, atti depositati ex art. 372 c.p.c.), in assenza del decreto prescritto dall’art. 16 bis comma 6 D.L. 179 del 2012 convertito in legge 221 del 2012 ed in considerazione dell’espressa limitazione ai procedimenti innanzi ai tribunali ed alle corti di appello prevista dall’art. 16 bis comma 1 bis del medesimo D.L.. E’ invece ammesso il deposito telematico delle istanze dei difensori non aventi immediata incidenza sul processo (esemplificativamente: di prelievo o sollecita fissazione di ricorsi, di riunione, di differimento della trattazione, di assegnazione alle Sezioni Unite). La copia cartacea di tali istanze, formata dalla cancelleria, viene sottoposta al Presidente Titolare ed è inserita nel fascicolo.”.
[9] Nella specie l’errore scusabile era ingenerato dalla ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna dell'invio telematico, Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 104 del 07/01/2020, Rv. 656500 - 01.
[10] Ad esempio, con riferimento ai procedimenti contenziosi civili incardinati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014 ed anteriori alla modifica dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012 ad opera del d.l. n. 83 del 2015 è stato statuito che “il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell'atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell'attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ove l'atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell'ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è integrato il raggiungimento della scopo della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti.”, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9772 del 12/05/2016, Rv. 639888 - 01.
[11] P. Gori, Organizzazione del lavoro nella Corte Edu, riforme e buone prassi per l’Italia, in Questione Giustizia, 2019.
[12] Cfr. articoli 10 e 10 bis della Circolare del Consiglio Superiore della Magistratura sulle tabelle, vigente.
[13] Cfr. Art. 16 octies del decreto legge n. 179 del 2012, come modificato dal decreto legge n. 90/2014.
[14] Si veda sul punto la legge n. 247 del 2012, che reca la Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione forense ed ha modificato le modalità di accesso all'Albo speciale.
[15] Le “Commissioni permanenti Pct” sono composte da magistrati, avvocati, cancellieri e tecnici, in CSM, Dalle buone prassi ai “Modelli”: una prima manualistica ricognitiva delle pratiche di Organizzazione più diffuse negli Uffici Giudiziari italiani, in attuazione della delibera del 17.6.2015 (aggiornamento luglio 2016.
[16] I dati del presente paragrafo e dei successivi sono tratti da R. Di Francesco, Processo telematico: Cassa Forense consulta gli ordini sullo stato dell’arte, https://www.cfnews.it.
[17] Processi informatizzati, Intervista di M. Paolucci a A. Cataldi, direttore generale DGSIA, rilasciata ad Italia Oggi7 il 13 gennaio 2020.
[18] Ministero della Giustizia, DGSIA - Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati -, Processo Civile Telematico, Stato dell’arte Dati al 30/09/2019.
[19] Registro Generale degli Indirizzi Elettronici, ai sensi del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44 - pubblicato nella G.U. n. 89 del 18-04-2011.
[20] Cfr. in particolare il d.Lgs 235/2010, art. 5 oltre che il già citato D.M. 44 del 12 febbraio 2011.
[21] Al via il processo tributario telematico, adempimenti più semplici e veloci, https://www.giustiziatributaria.gov.it.
[22] Cfr. l’art.16, comma 5, del d.l. n.119/2018.
[23] L’art. 16, comma 5, punto 1 del d.l. da ultimo citato prevede: “Al fine del deposito e della notifica con modalita' telematiche della copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento formato su supporto analogico e detenuto in originale o in copia conforme, il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, attestano la conformita' della copia al predetto atto secondo le modalita' di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.”.
[24] “In tema di ricorso per cassazione, ai fini dell'osservanza di quanto imposto, a pena di improcedibilità, dall'art. 369, comma 2, c.p.c., nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale, l'attestazione di conformità della copia analogica predisposta per la S.C. può essere redatta, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter della l. n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono, anche nel caso in cui allo stesso fosse stata conferita una procura speciale per quel singolo grado, sino a quando il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore.” Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 10941 del 08/05/2018, Rv. 648805 - 01.
[25] Infatti, la riforma introdotta nel processo tributario disciplina anche questo aspetto al punto 2) dell’art.16, comma 5, d.l. n.119/2018: “2. Analogo potere di attestazione di conformità e' esteso, anche per l'estrazione di copia analogica, agli atti e ai provvedimenti presenti nel fascicolo informatico, formato dalla segreteria della Commissione tributaria ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163, o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dell'ufficio di segreteria. Detti atti e provvedimenti, presenti nel fascicolo informatico o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dell'ufficio di segreteria, equivalgono all'originale anche se privi dell'attestazione di conformità all'originale da parte dell’ufficio di segreteria.”.
[26] Cfr. Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 19785 del 25/07/2018, Rv. 650194 - 01.
[27] Ad esempio, due sentenze coeve della medesima sezione della Corte, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9812 del 2018 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4932 del 2018, fanno applicazione della medesima norma in materia, assumendo due decisioni contrastanti tra loro. “Per la Cassazione, infatti, in caso di prova della notifica PEC effettuata, l’art. 23 comma 2 del CAD potrebbe trovare applicazione in assenza di attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti, delle ricevute di accettazione, di consegna e degli allegati, come richiesto dall’art. 9 commi 1 bis e ter L. 53/94; tale articolo però, in caso di notifica PEC subita (ricevuta) dal difensore, non troverebbe applicazione e, conseguentemente, la mancata attestazione di conformità della relata di notifica e del provvedimento (poi impugnato) comporterebbero l’improcedibilità del ricorso.” M. Reale, Ricorso per Cassazione: contrasti giurisprudenziali sulla prova della notifica via PEC, su Altalex on line..
[28] Cfr. Art. 53 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
[29] L’art. 9 comma 1 ter della legge n. 53 del 1994 dispone che “in tutti i casi in cui l'avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1-bis" e quest’ultimo a sua volta prevede che "qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell'atto notificato a norma dell'art. 3-bis, l'avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1”.
[30] Sul tema si segnala l’interessante decisione Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 29749 del 2019 - pres. est. Frasca - che riconosce INIPEC pubblico elenco valido per le notifiche PEC ex lege n. 53 del 1994.
[31] Art.16, comma 5, punto 4) primo lemma del d.l. n.119/2018.
[32] A tal fine, il decreto rimette tale rilevante disciplina tecnica al “direttore generale delle finanze, sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria e [al]l'Agenzia per l'Italia Digitale”, Art.16, comma 5, punto 4) secondo lemma del d.l. ult. cit., mentre con riferimento alla Corte di Cassazione è probabilmente preferibile pensare ad un diverso percorso, che valorizzi le competenze specifiche acquisite dal Gruppo di lavoro per l’informatica giudiziaria in Cassazione (CED, UIC, personale amministrativo della Corte, DGSIA.
[33] E. Manzon, Sulla giustizia tributaria e sulla necessita’ di parlarne, in Giustizia Insieme on line.
[34] Cfr. https://pst.giustizia.it/ Processo telematico - Aggiornamento Specifiche tecniche deposito atti – ERRATA CORRIGE del 10/12/2019, con cui sono stati nuovamente pubblicati gli schemi XSD del Processo Civile Telematico, precisando che gli schemi XSD validi per la sperimentazione del deposito telematico dei ricorsi presso la Corte Suprema di Cassazione sono quelli pubblicati su PST il 25/09/2019.
[35] L’XML a sua volta è un linguaggio di descrizione di contenuto particolarmente affidabile, in quanto ha raggiunto la validazione ufficiale 1.1 del World Wide Web Consortium (W3C).
[36] Tra questi, principalmente: a) definizione di tipi complessi e il controllo su numero di volte che appaiono sul documento e sulla loro posizione, b) introduzione di elementi “nulli”, c) definizione di “chiavi” e “relazioni”, d) definizione di elementi “unici”, e) commenti e note sul singolo documento.
[37] DTD (Document Type Definition o definizione del tipo di documento) TUTORIAL sono disponibili in http://www.w3schools.com/dtd/.
[38] Gli schemi XSD prescelti in questo caso “forniscono in particolare: un modello per i dati (descrivono cioè l’organizzazione e i tipi dell’informazione); un contratto (cioè un protocollo molto specifico per lo scambio di informazioni); un insieme di metadati (informazioni valide per l’interpretazione di dati strutturati sulla sua base). Tali schemi presentano un grande vantaggio, poiché in genere le applicazioni che devono basarsi su documenti o dati provenienti dall’esterno utilizzano una grossa quantità di codice per controllarne la validità; ovviamente più complessi sono i dati, più il codice sarà laborioso da scrivere. Se, invece, i dati sono strutturati secondo un preciso schema XML, l’applicazione potrà avvalersi delle funzionalità di un qualsiasi validatore di schemi”. M. Iaselli, Ricorso in Cassazione: avviati i test sul deposito telematico, in Altalex on line, 2019.
[39] L’accesso è consentito agli utenti già abilitati ai test sul Model Office DGSIA e non è un’esperienza nuova. A questi utenti sono stati associati anche alcuni fascicoli di prova e i testi con i primi Model Office sono iniziati nella seconda metà del 2015: https://pst.giustizia.it Processo telematico – Rilascio Model Office Cassazione per test dei servizi Consultazione Registri Civile e Penale della Corte Suprema di Cassazione 07/07/15.
[40] Cfr. Processo civile telematico, Modalità per l’esecuzione dei test di interoperabilità da parte di enti o società esterne - Tribunali Civili e Corte Suprema di Cassazione - Versione 8.0, disponibile su http://www.cortedicassazione.it.
[41] V. Di Cerbo, Brevi considerazioni sul nuovo rito civile in Cassazione, su Giustizia Insieme, 2019.
[42] Tali attività sono previste ai sensi dell’art.16-bis del d.l. n. 179 del 2012.
I guardiani della legge: le ragioni dell'intervento della Consulta sulla "spazzacorrotti"
di Andrea Apollonio
Da tempo la dottrina parla espressamente di legalità giurisprudenziale, facendo riferimento ad un'epoca, quella attuale, in cui l'interpretazione della legge riesce ad imporsi sul tenore - e talvolta anche sulle finalità - della legge stessa. Una legalità sempre più giurisprudenziale che è anche una forma di garanzia di coerenza interna del sistema penale, considerata la "mancanza di una organica visione d'insieme" del legislatore (così Giovanni Fiandaca, nella sua "Prima lezione di diritto penale"). E la vicenda che ci troviamo a commentare, in primissima battuta, ne è la più fulgida riprova.
Come noto, la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. "Spazzacorrotti") estende ai reati contro la Pubblica Amministrazione, senza alcuna specificazione intertemporale, le preclusioni previste dall'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario rispetto ai benefici e alle misure alternative alla detenzione. Un'estensione "pura e semplice", che per quei condannati ha immediatamente determinato la revoca di una congerie di principi di garanzia, primo tra tutti quello di necessaria prevedibilità della sanzione; un principio che non trova applicazione solo sul piano del diritto sostanziale. Lo Stato di diritto, qualunque sia la gravità del fatto o la pericolosità del suo autore, non può prescindere dal rispetto di una regola primaria: chi viene condannato deve sapere esattamente a cosa viene condannato - e quindi, anche a quali benefici può accedere in sede di esecuzione; anche perché è nella prospettiva della concreta sanzione da irrogare che - come tutti i frequentatori delle aule di giustizia sanno - si modulano le strategie processuali e si scelgono i riti da percorrere. Ogni modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio è lecita (con i limiti della ragionevolezza e proporzionalità costituzionali), purché non sia retroattiva, in tal modo andando ingiustamente ad incidere - a posteriori - sulla libera determinazione del fatto di reato prima, sulla libera condotta processuale dopo.
Questo, per sommi capi ed in estrema sintesi, il quadro assiologico in cui si colloca la legge n. 3/2019, emanata senza il supporto di un regime transitorio che potesse rendere meno problematico l'innesto di una norma tanto dirompente nell'ordinamento.
Davanti ad un dato letterale così secco e scarno, la giurisprudenza avrebbe potuto azionare quelle "valvole di sicurezza" utili a rendere costituzionalmente e convenzionalmente accettabile l'applicazione di questa norma che, oltre alla sua previsione intrinseca estremamente rilevante, si disinteressa(va) dei profili intertemporali? E' a questa domanda che ieri ha risposto la Corte Costituzionale, che sembra aver mosso un rimprovero non tanto al legislatore, quanto al giudice comune.
L'incidente di costituzionalità della legge n. 3/2019 - e questo lo si può dire anche in primissima battuta - presenta infatti un aspetto peculiare. "La Corte costituzionale ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n.3 del 2019". Singolare: il comunicato stampa della Consulta richiamando la decisione presa nel caso de quo non censura direttamente la legge, forse perché una disciplina da censurare ratione temporis non c'é, né è rivolto al legislatore, ma al giudice comune: è dato infatti per scontato - perché, ormai, lo si dà per scontato - che la legge debba essere intesa come un semilavorato, una formula normativa che la giurisprudenza deve prendere in carico e collocare correttamente sul piano dei principi. Da questo punto di vista, interpolando i più tradizionali concetti di controllo e tenuta del sistema giuridico elaborati da Hans Kelsen e Carl Schmitt un secolo fa, i giudici sono "guardiani della legge", legittimati a sperimentare quei percorsi interpretativi che rendano la norma compatibile con le opzioni liberali e garantiste della giustizia penale.
In questo caso la giurisprudenza, che ancora dibatte sull'applicazione retroattiva o meno di novelle processuali sfavorevoli, ma che si era attestata (sbagliando) sulla piana retroattività delle norme d'esecuzione, non ha tenuto conto che il legislatore avrebbe potuto (sarebbe potuto arrivare ad) introdurre una disciplina talmente sfavorevole per il reo (condannato) anche nel campo dell'esecuzione penale, precludendosi in tal modo - non volendo mettere in discussione i propri orientamenti consolidati - la possibilità di attenuarne, per via interpretativa, il sostanziale contenuto punitivo. Perché questo il punto: da più di un decennio, almeno dalla notissima sentenza della Corte Edu Sud Fondi c. Italia (del 2007), seguita a stretto giro dall'ancor più nota sentenza Coppola c. Italia (del 2009), ci si interroga, alla luce dell'art. 7 della Convenzione, sul concetto di pena "sostanziale", a prescindere da quale ramo dell'ordinamento ospiti la norma sanzionatoria e, ovviamente, dal suo nomen iuris. La Corte Costituzionale ha condiviso fin da subito quest'assunto, dando piena cittadinanza ai principi di garanzia convenzionale collegati all'art. 7 avviando, al contempo, un'opera di graduale bonifica del sistema dalle antiche e recenti incrostazioni illiberali.
Dopo un decennio di molte sperimentazioni ed un risultato acquisito - il nulla poena sine lege ha da dire molto di più di quanto sembri - viene dunque emanata la legge n. 3/2019, che "comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato", in quanto tale incompatibile con il principio di legalità di cui, appunto, all'art. 25 Cost.: ma questo - si tratta del muto rimprovero che dalla Consulta, dai guardiani della Costituzione, si muove ai giudici domestici - lo si doveva comprendere fin da subito, intanto rivedendo i propri orientamenti sul tempus regit actum che regge(va) qualsivoglia modifica normativa dell'esecuzione penale (e il principio di pena "sostanziale" dove lo mettiamo?), poi chiedendo alla Consulta di intervenire; ma si sarebbe trattato di una mera ratifica del meccanismo ermeneutico, che avrebbe permesso di mettere in sicurezza, fin da subito, l'ordinamento ed i suoi principi di legalità.
Così non è andata, ma la Corte è comunque intervenuta mettendo ordine; senza risparmiare un muto rimprovero verso chi, della legge e delle sue finalità, deve sentirsi esecutore ma anche guardiano.
Fiandaca o Giostra
di Andrea Apollonio
Qualche giorno fa è morto il grande George Steiner,il cui primo libro è al tempo stesso un caposaldo della critica letteraria: "Tolstoj o Dostoevskij". Steiner metteva a confronto quelle che per lui (e non solo per lui) erano due concezioni fondanti e antitetiche della letteratura russa e dunque occidentale, mettendo in risalto nel primo la connotazione epica del racconto, nel secondo il dato verista e talvolta tragico.
Ricordare il più grande critico letterario del Novecento è anche uno stimolo per mettere a confronto due grandi maestri del pensiero penalistico, che a distanza di un paio d'anni o poco più l'uno dall'altro hanno pubblicato, nell'oramai nota collana "Prime lezioni" di Laterza, due libretti apparentemente - apparentemente - speculari: "Prima lezione di diritto penale", di Giovanni Fiandaca (giugno 2017), e "Prima lezione sulla giustizia penale", di Glauco Giostra (gennaio 2020).
L'intento dei due giuristi prestati alla saggistica divulgativa è lo stesso, esplicitato in particolare da Fiandaca nella sua Premessa: puntare ad una cerchia di non specialisti vuol dire "adottare uno stile espositivo non appesantito da termini tecnici" e "prescindere da quei profili della materia che, se appassionano (e persino oltre misura!) gli studiosi accademici, rischiano di apparire ad occhi esterni astrattamente concettualistici o addirittura irritanti". Per un giurista scollarsi dal profilo tecnico, formale e volutamente - o necessariamente - affettato è spesso un'operazione (ahimé) impossibile, ma l'accademico palermitano è conosciuto anche per essere un ottimo divulgatore - tra i suoi pregevoli e multidisciplinari scritti sulle mafie, ricordiamo giusto "La mafia non ha vinto" (con Salvatore Lupo).
Il volume di Fiandaca nel suo primo quarto affronta il dibattito - annoso - sulla pena, ripercorre le concezioni di prevenzione generale e speciale, con molti riferimenti a filosofi e giuristi ottocenteschi senza omettere i grandi classici del pensiero tedesco contemporaneo, Roxin e Jacobs. Una dissertazione dall'alto tasso di astrazione ma pur sempre magistrale, impregnata di autorevole tradizione accademica, in cui si produce un grande maestro della scienza penalistica.
L'ampio respiro del Fiandaca divulgatore comincia ad emergere nel secondo capitolo ove si affronta il tema del diritto penale ipertrofico, che riguarda ogni aspetto della vita sociale. Un tema molto sentito e ben comprensibile dal comune cittadino, che ha per le mani questo testo perché "offre un quadro dei temi e dei problemi di fondo del diritto penale contemporaneo" (dalla quarta di copertina). Proseguendo nel filo tessuto da Fiandaca, ci si imbatte poi in una dissertazione sul bene giuridico avviata dal pensiero di Franco Bricola: questione imprescindibile per ogni studioso di diritto penale, un po' meno per quel lettore che vorrebbe trovare risposte alle domande che sorgono spontanee seguendo l'attualità, la cronaca, il dibattito pubblico.
Rimangono quindi per lui - superando anche il terzo capitolo, che verte su elemento oggettivo e soggettivo del reato - gli ultimi due capitoli, in cui Fiandaca affronta due temi corali e, potremmo dire, universali: il rapporto tra la legge e il giudice e quello tra il diritto penale e le scienze. "Un modello di giudice servo passivo (se non proprio sciocco!) del legislatore sarebbe improponibile nella realtà contemporanea": partendo da questa considerazione l'accademico siciliano prende per mano il lettore mostrandogli la vera natura della legalità contemporanea, che passa attraverso l'applicazione della legge al caso concreto previo vaglio critico del giudice; una legalità sempre più giurisprudenziale che è anche una forma di garanzia di coerenza interna del sistema penale, considerata la "mancanza di una organica visione d'insieme" del legislatore. E' una risposta concreta ed esaustiva quella che Fiandaca fornisce al lettore che, almeno dai tempi di Tangentopoli, si chiede quale sia il vero punto di frizione tra potere politico e potere giudiziario sul piano dell'applicazione della legge, se è vero che persino in Costituzione è detto che il secondo si deve limitare a dare mera esecuzione a quanto deciso dal primo nelle sedi parlamentari che occupa. Nè è scevro di spunti di riflessione l'ultimo capitolo (che mostra per intero l'indole multidisciplinare dell'autore), che espone in maniera scorrevole i temi certamente più accattivanti del diritto penale, tra i quali la capacità di intendere e di volere ed il collegato aspetto psicologico e criminologico del crimine.
Con questo volume, insomma, Fiandaca non sconfessa nessuna delle proprie qualità, ponendosi allo stesso tempo da professore e da divulgatore; essendo costui, peraltro, uno dei pochissimi maestri della scienza penalistica a saperle esercitare entrambe, ottimamente.
Un altro autore dalla duplice natura è Glauco Giostra, processualista di qualche anno in meno ma ugualmente, come Fiandaca nel suo campo, vertice del diritto processuale penale (e sarà un caso che entrambi sono stati membri del Consiglio Superiore della Magistratura?): la sua è una prima lezione sulla "giustizia penale", da intendersi come una prima lezione sul processo penale, quello "stretto ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda alla res iudicata". Come detto, anche Giostra vuole prestarsi ad una saggistica divulgativa, immaginando di "avviare un'ideale conversazione tra chi da molto tempo sta cercando di orientarsi nel complesso universo della giustizia penale e chi per curiosità, interesse o studio intende avvicinarsi ad esso per la prima volta. Ho cercato di intuire cosa valesse la pena trasmettere in un'unica, pur lunga lezione" - così, nell'Introduzione. Giostra si propone quindi di effettuare una selezione rigorosa e, al tempo stesso, semplificatoria, con risultati sorprendenti.
Ai risultati arriviamo, non prima di avere evidenziato come Giostra voglia mettere a suo agio il lettore, confortandone l'impreparazione con un Glossario dei termini tecnici o comunque di non facile comprensione, "da usare a mo' di pronto soccorso terminologico, per evitare che la mancata conoscenza di un vocabolo o di una locuzione pregiudichi la comprensione del discorso". L'accademico marchigiano si appresta così ad affrontare la sfida della procedura penale somministrata al grande pubblico.
Le forme e i riti, le direzioni e i metodi ("le regole processuali sono un guardrail metodologico") del diritto punitivo per eccellenza sono mostrati nella loro imperfezione, non di rado privi di esatta coincidenza con i principi di garanzia a cui dovrebbero conformarsi; ma spesso si rivelano una scusa appena plausibile per affrontare le questioni di cui, da anni, è intriso il dibattito pubblico: il rapporto della giurisdizione con i media, i condizionamenti mediatici sulla - e della - giustizia; la prescrizione, che copre quattro paginette fitte di spunti utili a formare - o a raffinare - una propria opinione su di una questione politica attuale di primaria importanza.
Certo non mancano, sopratutto nel terzo capitolo riguardanti "Le strutture portanti del processo penale", le dissertazioni teoriche (a tratti appesantite dall'immancabile filiera dei principi del rito penale: è il caso della formazione della prova in contraddittorio), ma anche gli istituti processuali più complessi vengono trattati sulla superficie di un linguaggio semplificato e gradevole, che utilizza formule efficaci ed esempi concreti: sono a questo fine richiamati i principali cold case degli ultimi anni: dal delitto di Meredith Kercher a quello di Chiara Poggi, con qualche implicito riferimento - anche qui - ai fatti di Tangentopoli.
Giostra sembra intendersi con il suo pubblico sopratutto quando sconfina in ambiti meta-giuridici:
ad esempio, fin dalle prime pagine è posto il problema del giudicare, che è un problema umano, esistenziale: "ogni persona investita del titanico compito di giudicare ha un vissuto, un patrimonio culturale e un assetto emotivo che fatalmente ne influenzano la capacità di percepire, di valutare e di decidere". Il lettore comprende che si parla anche di lui, o comunque si parla per lui. Una sensazione che trova conferma nell'ultimo capitolo del volume, sulla "narrazione della giustizia penale": necessaria, in ultima analisi, per il necessario "controllo della collettività sulla giustizia amministrata in suo nome". Il lettore è ormai certo che quando si parla di giustizia penale, si parla per lui.
Nel suo libro di critica letteraria, Steiner cerca di non stabilire supremazie, ma fa intendere che preferisce Dostoevskij, il suo realismo tragico, quasi shakesperiano, più aderente alla realtà; pur riconoscendo nelle opere di entrambi la massima espressione del romanzo ottocentesco. Sempre giocando su questo impossibile parallelismo tra i due grandi romanzieri russi da un lato, i due grandi giuristi dall'altro, allo stesso modo potrebbe dirsi che entrambi rappresentano due massimi vertici del pensiero giuridico - alzi la mano chi non ha studiato sui loro manuali o commentari - e queste "prime lezioni" confermano (se pure ce ne fosse bisogno) la loro profonda capacità di elaborazione, che riesce ad affiorare in spiegazioni semplici di questioni vertiginose. Eppure, un giudizio di maggiore aderenza ai propositi divulgativi che sorreggono i due volumetti (che non sono né compendi, ne saggi né, tantomeno, monografie: il cui senso principale, per questo, è proprio la divulgazione) premierebbe il bell'affresco di Giostra sulla giustizia penale nel suo insieme: il cui autore, facendosi davvero prossimo al lettore, di fatto non si occupa di distinguere tra diritto sostanziale e processuale, quanto piuttosto di veicolare verso il cittadino domande - e risposte - sull'aspetto più rilevante della contemporaneità (di ogni contemporaneità): quello del diritto e della sua narrazione pubblica. Narrazione tanto necessaria da far pensare che nessuno studioso possa tirarsi indietro, proclamandosi innocente.
P.S. E' da quando sono ragazzo che preferisco Dostoevskij a Tolstoj, ma fin da subito ho compreso che il vero padre della letteratura occidentale è lui. E' il gioco dei contrari, a cui nessuna percezione soggettiva può sottrarsi: e allora, che questa mia preferenza sia intesa a contrario, come un omaggio alla statura scientifica e umana di Fiandaca.
Le prove atipiche nel processo civile
di Giselda Stella
Avevo inizialmente pensato, nell’accostarmi al tema delle prove atipiche, di elaborare una sorta di tassonomia che muovesse da quelle più comuni e note alla giurisprudenza e al foro (si pensi ai verbali delle prove orali raccolte in altro giudizio civile, penale o amministrativo o di altro tipo ancora, alla sentenza che su quelle prove si fonda, alle scritture latu sensu testimoniali provenienti da terzi, alle CTU c.d. prestate, cioè raccolte in altro giudizio oppure alle CTU eccedenti il mandato conferito al perito), per finire con quelle più rare e curiose, come la prova testimoniale in lingua straniera raccolta senza l’ausilio dell’interprete, rimarrebbe deluso.
Certamente non pensavo di dovermi interrogare sull’ammissibilità delle prove c.d. innominate, che mi pareva assolutamente pacifica – senza distinzioni di sorta – sia presso le Corti di merito che nella giurisprudenza di legittimità. Al più, avrei indagato l’efficacia probatoria dei documenti in questione, sulla quale mi pareva che la riflessione fosse più vivace e variegata.
Tuttavia, man mano che andavo selezionando le pronunce utili ad una riflessione sul tema, registravo fastidiosamente il fatto che la piana valutazione di ammissibilità delle prove atipiche da parte della giurisprudenza – sia di merito che di legittimità - fosse argomentata in modo assai povero, sostanzialmente mediante un’acritica reiterazione della proposizione tralatizia secondo cui “nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche” (tra le tante, Cass. n.1593/2017).
Mi sono quindi accostata allo studio della dottrina che maggiormente si è interessata al tema della prova nel processo civile, nella speranza di reperire una base dogmatica convincente che riconducesse pur sempre nell’alveo del sistema le posizioni di tautologica apertura della giurisprudenza, che di fatto mi parevano devianti rispetto alla disciplina legale dell’istruzione probatoria.
Condividevo, difatti, la preoccupazione per cui ad ammettere che il giudice possa utilizzare per l’accertamento del factum probandum elementi diversi da quelli previsti e disciplinati dal nostro legislatore, atipici sia rispetto alle fonti di convincimento sia rispetto al modo in cui tali fonti vengono formate e acquisite al giudizio, si corre il rischio di ridurre i modelli normativi dei diversi procedimenti probatorii ad un “corpus di paterni suggerimenti forniti dal legislatore agli avvocati e ai giudici intorno ai metodi più efficaci e meglio collaudati dalla tradizione per provare e accertare in giudizio i fatti controversi”.
Lo studio delle riflessioni critiche o adesive degli interpreti – la dottrina sul punto è fortemente e motivatamente divisa, a differenza della giurisprudenza – mi ha procurato più incertezze di quante ne abbia risolto, ma quanto meno mi ha consentito un approccio meno superficiale alla questione.
La dottrina favorevole ad una generale ammissibilità delle prove atipiche riposa fondamentalmente sulla convinzione che, considerata la c.d. funzione epistemica del processo, teso cioè all’accertamento della verità materiale, ogni limitazione della prova si risolva in un vulnus alle possibilità per il giudice di accedere al fatto, e pertanto all’infuori delle rules of exclusion espressamente previste dal legislatore (ad es. la hearsay rule, le regole di privilegio della prova scritta dei contratti, le incapacità a testimoniare), il criterio di rilevanza dovrebbe costituire l’unico filtro per l’impiego delle prove nel processo, secondo il principio proprio degli ordinamenti di common law “all facts having rational probative value are admissible, unless some specific rule forbids”.
Detto altrimenti la regola fondamentale, da applicare con priorità logica, è “quella che fa discendere l’ammissibilità di una prova dalla sua rilevanza; le eccezioni a questa regola sono costituite dalle norme che prevedono la inammissibilità di prove rilevanti”.[1]
Si argomenta che la nozione di prova appartiene alla sfera della logica e, pertanto, la disciplina dell’istruzione probatoria non esaurisce la nozione di prova, ma serve unicamente ad escludere l’ammissibilità di taluni mezzi di prova quando ricorrono particolari ragioni di esclusione aventi anch’esse, per lo più, funzione epistemica per essere finalizzate a prevenire o evitare errori di valutazione da parte del soggetto o dell’organo che deve formulare la decisione finale sui fatti.
In definitiva, secondo l’orientamento dottrinale succintamente esposto e condiviso dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria, è prova qualunque dato empirico utile all’accertamento del fatto e non solo quello previsto e disciplinato come tale dal legislatore.
Sennonché, studiando le ragioni della dottrina positivista, e alla luce di una considerazione complessiva delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità su questioni strettamente collegate al tema dell’ammissibilità e valutazione della prova nel processo civile, mi sembra di poter pervenire alla conclusione che i rischi connessi all’indiscriminata ammissione delle prove atipiche nel processo superino di gran lunga i benefici conseguibili in termini di massimizzazione delle possibilità di accertamento del fatto e valorizzazione del principio del libero convincimento del giudice e, anzi, finiscano paradossalmente per vulnerare entrambe.
Procedendo con ordine, ritengo che l’impostazione del problema delle prove atipiche in termini di tassatività o esemplificatività del repertorio legale delle prove sia privo di utilità pratica.
Consideriamo che il nostro codice civile, come è stato ben detto, allinea “a guisa di entità omogenee elementi che evidentemente appartengono a piani logici e semantici diversi”[2]: quando parla (nella intitolazione dei diversi capi del titolo II del sesto libro) di prova documentale, prova testimoniale, presunzioni, (legali e semplici), confessione (giudiziale e stragiudiziale) e giuramento (decisorio e suppletorio), “il catalogo che ne risulta comprende cose materiali preesistenti al processo (documenti), dichiarazioni rese nel processo (testimonianza, confessione giudiziale, giuramento), dichiarazioni rese fuori del processo e pertanto bisognose a loro volta di prova (confessione stragiudiziale), meccanismi legali di ripartizione dell’onere della prova (praesumptiones iuris), e infine la descrizione del ragionamento inferenziale (praesumptio hominis)”[3].
Da quanto sopra detto discende che può parlarsi di “non tassatività” del vigente repertorio delle prove sia nel senso che deve ammettersi l’impiego di altre fonti “materiali” di prova, sia nel senso di apertura del catalogo dei “modi di acquisizione” del materiale istruttorio.
La riduzione dell’elenco a termini comparabili consente di dimostrare come la questione della apertura o chiusura del catalogo legale delle prove sia “futile”, per dirla con Cavallone che, efficacemente, così argomenta: “Chi pensi al repertorio soltanto come ad una classificazione per summa genera degli elementi della realtà sensibile, dai quali il giudice può attingere le informazioni necessarie alla cognizione dei fatti controversi, dovrà non tanto ritenerlo tassativo, quanto addirittura negare l’astratta possibilità di superarne i limiti, non essendo pensabile che il giudice ricavi quelle informazioni altrimenti che dall’audizione di altre persone (parti, testimoni, periti) ovvero dall’esame di cose o fenomeni materiali (documenti). Chi, per contro, intenda il repertorio come una elencazione per species delle fonti materiali utilizzabili dal giudice (non quindi “i documenti” e “le cose”, ma i tipi di documenti descritti negli artt. 2699-2720 c.c., e i tipi di cose “ispezionabili” ai sensi degli artt. 118 e 258 c.p.c.; non il sapere di “altre persone” ma, entro certi limiti e certe condizioni, quello delle parti, e dei terzi che non siano legittimati a partecipare al giudizio, e delle persone fornite di particolare competenza tecnica), potrà sì chiedersi se sia ammissibile l’impiego di fonti apparentemente escluse dall’elenco (per esempio le certificazioni amministrative, o la deposizione del terzo legittimato all’intervento adesivo). Ma il richiamo a presunti principii di tassatività ovvero di esemplificatività risulterà del tutto inutile al fine di valutare la legittimità di queste fonti “atipiche”; trattandosi invece, più semplicemente, di interpretare ed applicare in relazione a ciascuna ipotesi specifica la disciplina degli istituti tipici: e così, nei casi ora citati, di vedere se sia “documento”, e di che specie, anche la certificazione amministrativa…”.
Le stesse considerazioni valgono per il caso in cui si guardi alla disciplina dell’istruzione probatoria come ad un catalogo di “modi di acquisizione della prova”: anche per i procedimenti probatorii anomali (ad es. si pensi alla testimonianza non preceduta dal giuramento) ciò che rileva per la valutazione di legittimità o meno della prova non è se il repertorio sia chiuso o aperto, quanto se i requisiti e le condizioni previsti dalla legge per l’assunzione di una prova – nella specie mancanti - abbiano o meno carattere essenziale e inderogabile; per dirla più chiaramente, se l’anomalia sia compatibile con la disciplina degli istituti tipici o con i principii dell’ordinamento.
La correttezza del modus procedendi enunciato appare evidente, d’altra parte, se riflettiamo sul fatto che molte delle prove considerate “atipiche”, in realtà atipiche non sono né sotto il profilo della riconducibilità ad una delle fonti di convincimento catalogate, né sul piano delle modalità di acquisizione della prova. Pensiamo ad esempio alle prove c.d. costituende raccolte in altro giudizio (testimonianze o CTU) o alla sentenza che su quelle prove si fonda, introdotte in forma documentale nel giudizio ad quem: si tratta di “documenti” che spesso rivestono la forma dell’atto pubblico (come nel caso dei verbali istruttori raccolti dal giudice ordinario o delle sentenze) e sono introdotti nel giudizio mediante tempestivo inserimento nel fascicolo di parte, secondo le regole ordinarie. Il problema che si pone, quindi, non è quello della “atipicità”, ma dell’utilizzabilità, ai fini della prova, di dichiarazioni (latu sensu testimoniali, o peritali) che non sono state rese davanti al giudice chiamato a valutarle[4].
Anche sulla base di queste considerazioni aggiuntive, ritengo che il metodo più corretto per valutare la legittimità delle prove c.d. atipiche sia quello di ricercare nelle maglie del sistema, e nei principii dell’ordinamento processuale, indicazioni che depongano – sul piano del diritto positivo - per l’utilizzabilità di quelle prove ai fini dell’accertamento del fatto, secondo un approccio necessariamente casistico.
Parafrasando le parole di un grande matematico, Stefan Banach, il quale diceva che i bravi matematici sono capaci di cogliere le analogie, direi che lo stesso vale per i giuristi.
Avviandomi dunque all’esame del materiale giurisprudenziale selezionato in vista di questo studio mi sono accorta che – sotto la superficie di una generale valutazione di legittimità delle prove atipiche, le posizioni della Suprema Corte non sono poi così uniformi, e talvolta si differenziano sensibilmente sia sul piano delle decisioni sull’ammissibilità della prova, che su quello della sua efficacia probatoria.
Ho pensato di procedere ad un esame dei vari orientamenti secondo la tipologia di prova in questione, muovendo dai verbali ispettivi – che risultano di grande interesse nell’ambito del contenzioso previdenziale - per poi indagare l’ammissibilità ed efficacia delle dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite, dei verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali (e più in generale delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale), infine delle prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti - ivi compresi gli accertamenti peritali, nonché delle sentenze che su quelle prove si fondano.
Verbali ispettivi.
Per quanto riguarda l’utilizzabilità dei verbali ispettivi ai fini della prova, è pacifica la valutazione di generale ammissibilità da parte della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, nonché la necessità di distinguere in seno all’accertamento ispettivo i fatti attestati come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti, dai fatti risultanti dalle dichiarazioni di terzi acquisite dal verbalizzante, o dalle sue soggettive valutazioni. Mentre, tuttavia, sul valore probatorio dei primi la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che “i verbali redatti dagli ispettori del lavoro o dai funzionari degli enti previdenziali (al pari di quelli redatti dagli altri pubblici ufficiali) fanno piena prova, fino a querela di falso, dei fatti attestati nel verbale di accertamento come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti”, la Suprema Corte si divide invece sul valore probatorio da assegnare alle dichiarazioni rese da terzi al pubblico ufficiale. Un primo e maggioritario orientamento reputa prudentemente che “la fede privilegiata non si estende alla verità sostanziale delle dichiarazioni ovvero alla fondatezza di apprezzamenti o valutazioni del verbalizzante (cfr. Cass. n. 7993/2019; 13679/2018; 4462/2014; 14965/2012; n.17355/2009), sicché il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando l’onere di fornire la prova contraria al soggetto sul quale non ricade” (cfr. Cass. n.1786/2000; n.6847/87). Un secondo orientamento afferma invece che “I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell’Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di aver accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori” (ad es. Cass. n.3525/2005 ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva fondato il proprio convincimento sulle risultanze del verbale redatto dagli ispettori del lavoro, completo e dettagliato, al quale erano allegati due verbali ispettivi e numerose dichiarazioni rese dai lavoratori; cfr. Cass. n.9827/2000).
Dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite.
La questione sollevata si riallaccia a quella, più generale, dell’ammissibilità ed efficacia probatoria delle dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite, sulle quali la giurisprudenza di legittimità è divisa, affiancandosi ad un indirizzo consentaneo all’utilizzabilità degli scritti latu sensu testimoniali provenienti da terzi, sia pure con limitata efficacia probatoria, un più rigoroso orientamento che nega la legittimità – al di fuori delle previsioni del codice di rito – della testimonianza scritta.
Un primo indirizzo, infatti, sembrerebbe assegnare alle dichiarazioni scritte dei terzi la limitata efficacia probatoria che l’art. 116 secondo comma del nostro codice di rito assegna agli argomenti di prova, affermando testualmente che: “nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova; ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze de processo e, in particolare, gli scritti provenienti da terzi, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, non essendo stati raccolti nell’ambito del giudizio in contraddittorio delle parti, né di prova piena, sono rimessi alla libera valutazione del giudice di merito e possono, in concomitanza con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia, fornire utili elementi di convincimento…Né può ritenersi che il ricorso alle dichiarazioni scritte dei terzi configuri violazione del principio del contraddittorio atteso che, se è pur vero che le stesse sono raccolte al di fuori del processo, con la produzione in causa sulle stesse si forma il contraddittorio” (cfr. Cass. n.17392/2015, conforme a Cass. n.12763/2000 e n.4666/2003).
Un secondo indirizzo pur richiamando l’orientamento secondo cui gli scritti testimoniali dei terzi estranei alla lite “costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono quindi contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo” (così Cass. n.23554/2008, n.23788/2014; n. 252/2016), afferma per un verso che “possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 cod. civ., né quella processuale di cui all’art. 214 cod. proc. civ.”(cfr. Cass. sez. lav. n.1315/2017) e per altro verso precisa che l’utilizzazione delle dichiarazioni scritte provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti costituisce non già un obbligo del giudice di merito, bensì una facoltà il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in sede di legittimità, sia sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia (cfr. Cass. n. 24976/2017).
Sulla scorta di tali principii la Suprema Corte, ad es., ha condiviso la decisione dei giudici di merito che avevano annullato il licenziamento per giusta causa intimato dalla società appellante ad un suo dipendente, ritenendo inutilizzabili le dichiarazioni rese da altri dipendenti della società al di fuori del processo in considerazione del fatto che “essendo state redatte e finalizzate in funzione volutamente probatoria di una tesi di parte si traducevano in una testimonianza scritta, inammissibile, perché resa senza le garanzie del contraddittorio, ex art. 244 e ss. c.p.c.”.
In una diversa pronuncia (Cass. n.26113/2014), analogamente, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte territoriale che aveva “accertato il mancato rispetto dell’onere di deduzione e dell’onere della prova, essendosi l’Amministrazione (si trattava dell’impugnativa di un licenziamento intimato dal MIUR, n.d.r.) limitata a depositare dichiarazioni scritte di alcuni dipendenti non sottoponendole al vaglio giudiziale ai fini della loro conferma”.
L’orientamento più rigoroso cui avevo inizialmente fatto cenno, infine, afferma più esplicitamente l’inammissibilità della scrittura proveniente da terzo, allorché la stessa sia “redatta e finalizzata in funzione volutamente probatoria di una tesi di parte”, risolvendosi “in una sorta di testimonianza scritta, inammissibile…perché fornita senza le garanzie del contraddittorio, di cui all’art. 244 c.p.c. e segg., che nella specie resterebbero eluse” (cfr. Cass. n.5440/2010).
Nella pronuncia appena citata i giudici di legittimità chiariscono che “Pur non essendo vietato, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, nel vigente ordinamento processuale improntato al principio del libero convincimento del giudice, la possibilità di porre a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione, deve tuttavia escludersi che le prove c.d. atipiche possano valere ad aggirare divieti o preclusioni dettati da disposizioni, sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda adeguate garanzie formali”.
Il monito chiaramente espresso dalla Suprema Corte ci consente di approdare – in chiave critica, dal mio punto di vista – all’esame della giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema dell’utilizzabilità dei verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali e più in generale dell’utilizzabilità delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, e delle sentenze che su di esse si fondano.
Verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali e più in generale risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, e sentenze che su di esse si fondano.
La prima pronuncia della Suprema Corte che vorrei sottoporre al “prudente apprezzamento” dei miei benevoli lettori, a mio giudizio vìola – eludendone l’applicazione - diverse norme di carattere processuale (651 e 654 c.p.p.; 244 e segg. c.p.c.), nonché principii di rilevanza costituzionale come quello di difesa e del contraddittorio (art. 24 e art. 111, co.5 Cost.).
Nella vicenda in questione la Suprema Corte (Cass. n.18025/2019) ha confermato la decisione del giudice di prime cure (l’appello era stato dichiarato inammissibile ex art. 348 ter c.p.c.), che aveva accolto la domanda di annullamento del testamento per incapacità del testatore: il de cuius aveva disposto di tutti i suoi beni in favore del convenuto, il quale a sua volta era stato condannato in sede penale per il delitto di circonvenzione di incapace, a seguito di rito abbreviato.
Il Tribunale, in particolare, aveva rigettato le richieste di prova orale articolate dal convenuto, ritenendo che l’accertamento dello stato di incapacità del testatore al momento della redazione delle ultime dichiarazioni di volontà, effettuato con la sentenza penale di condanna, facesse stato nel giudizio civile e che, dalle informazioni acquisite in sede di indagini preliminari e dalle perizie di parte prodotte in causa, fosse pienamente dimostrato che, al momento delle disposizioni di ultima volontà, il de cuius era privo della capacità di intendere e di volere.
La Suprema Corte ha motivato la sua decisione nei seguenti termini: “Quanto all’utilizzabilità delle sommarie informazioni assunte in sede penale, questa Corte ha ripetutamente affermato che, anche nei casi in cui non possono attribuirsi alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile ai sensi degli artt. 654, 652 e 651 c.p.p., nulla impedisce al giudice civile, tenuto a rivalutare integralmente i fatti di causa, di tener conto delle acquisizioni probatorie del processo penale e di ripercorrere lo stesso “iter” argomentativo della sentenza di condanna, condividendone gli esiti (Cass. n.17316/2018; n.20170/2018; n.14570/2017; n.8603/2017; n.1948/2016; n. 24475/2014; Cass. S.U. n.1768/2011). Più in particolare, al di fuori delle ipotesi in cui la sentenza penale ha effetto di giudicato nel processo civile, occorre distinguere tra gli elementi acquisiti dal giudice penale senza la successiva verifica dibattimentale, da quelli sottoposti al contraddittorio o per i quali il dibattimento è mancato per la scelta dell’imputato di optare (come nel caso in esame) per un rito alternativo (giudizio abbreviato ex artt. 438 c.p.p. e ss. o patteggiamento ex art. 444 c.p.p. e ss.: cfr. Cass. n.2168/2013; n.132/2008).
Questi ultimi sono liberamente valutabili in sede civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., posto che la loro acquisizione in sede penale, senza alcun vaglio dibattimentale, è riconducibile ad una scelta processuale dell’interessato”.
Ora a me pare che – al netto della istintiva antipatia per l’erede testamentario protagonista della vicenda processuale – affermare che “nei casi in cui non possono attribuirsi alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile ai sensi degli artt. 654, 652 e 651 c.p.p., nulla impedisce al giudice civile, tenuto a rivalutare integralmente i fatti di causa, di tener conto delle acquisizioni probatorie del processo penale e di ripercorrere lo stesso “iter” argomentativo della sentenza di condanna, condividendone gli esiti” significa precisamente attribuire alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile al di fuori dei casi consentiti dalla legge, secondo il brocardo latino per cui “salvis verbis, legis sententiam eius circumvenit”.
Per non parlare di come il rigetto delle richieste di prova orale e la formazione del convincimento giudiziale, in sede civile, sulla sola base di elementi di prova sui quali il convenuto non ha avuto neppure la possibilità di interloquire (perizie stragiudiziali e verbali di sommarie informazioni testimoniali), raccolti - quanto alle prove costituende -senza nessuna delle garanzie prescritte dagli artt. 244 e segg. c.p.c., costituisca una patente violazione degli art. 24 Cost. e anche dell’art. 111, 2° co., a mente del quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità”.
Addirittura nella sentenza n.1593/2017 la Suprema Corte ha deciso un giudizio petitorio acquietandosi sulle risultanze delle indagini preliminari relative ad un procedimento penale nell’ambito del quale era stata accertata incidentalmente la proprietà di alcuni dipinti al fine dell’adozione di un provvedimento di dissequestro, omettendo di svolgere alcuna attività istruttoria nel contraddittorio, pure ritualmente richiesta dalla parte attrice, e sostanzialmente valutando alla stregua di prove precostituite le audizioni degli indagati, persone offese e sommari informatori e ritenendole inconfutabili.
Esiste tuttavia un orientamento più cauto, secondo cui il giudice non potrebbe prescindere dal raffronto critico delle prove atipiche provenienti da un giudizio penale, con le altre risultanze del processo (cfr. Cass. n.12577/2014; n.5965/2004).
Prove raccolte in un diverso processo svoltosi tra le stesse o altre parti.
Sull’ultima delle prove c.d. atipiche che mi sono proposta di esaminare, esiste un dato normativo (a mio parere, ineludibile) che circoscrive l’efficacia probatoria delle prove raccolte in altro giudizio nel senso che non possano di per sé sole fondare il convincimento del giudice e la sua decisione.
Ai sensi dell’art. 310 c.p.c., che regola gli effetti dell’estinzione del processo, “le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116 secondo comma” (cfr. art. 310, terzo comma, c.p.c),
A sua volta, l’art. 116 secondo co. c.p.c. dispone che “il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente (che è quello che regola l’interrogatorio non formale, n.d.r.), dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”.
Nonostante la lettera della legge, la giurisprudenza della Suprema Corte reputa che il giudice possa fondare il proprio convincimento anche solo sulle prove raccolte in altro processo, e che queste possano costituire fonte esclusiva col solo limite di non poter giustificare il rifiuto di ammissione di diverse prove (Cass. n.19457/2004).
Il giudice della nomofilachia ha infatti affermato di aver “costantemente ricondotto al giudizio del giudice circa l’utilità e pertinenza della prova, insieme al potere di utilizzare per la formazione del proprio convincimento le prove raccolte in altro giudizio, pur con parti diverse, poi estinto, anche il potere di trarre solo semplici indizi o elementi di convincimento o anche di attribuire loro valore di prova esclusiva” (Cass. n.11555/2013; n.14766/2007; n.8585/1999), aggiungendo che “ritenere che prove acquisite e provenienti da altro giudizio possano essere utilizzate solo come meri argomenti di prova contrasterebbe con il principio di economia processuale, funzionalizzato alla ragionevole durata prescritta dall’art. 111 Cost.”.
Successivamente, è stato superato perfino l’ultimo baluardo del necessario raffronto critico con le ulteriori ed eventuali prove ammesse ed assunte nel processo ad quem, secondo la valutazione per cui “in tale contesto, la prova può essere rappresentata anche dalla sentenza adottata dal diverso giudice, che costituisce in ogni caso un documento che il giudice civile è tenuto ad esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio… la necessità che il giudice proceda ad una diretta ed autonoma valutazione delle circostanze accertate con altra sentenza, non implica che debbano essere nuovamente esibiti e direttamente riesaminati i documenti presi in considerazione nell’altro giudizio, o che debbano essere riprodotti o ripetuti le prove o gli accertamenti ivi già compiuti, e non esclude che l’acquisizione o l’utilizzazione di quegli elementi e circostanze possa avvenire anche mediante adesione alla ricostruzione dei fatti eseguita dall’altro giudice, quando risulti che a tale adesione il giudice sia pervenuto attraverso un autonomo vaglio critico delle prove già raccolte e delle argomentazioni e deduzioni proposte dalle parti” (così Cass.n. n.840/2015, che sulla scorta del suddetto principio ha confermato la pronuncia della Corte territoriale che aveva negato ingresso alla prova testimoniale adducendone la superfluità per avere la teste già deposto nell’ambito di un giudizio disciplinare davanti al C.O.A., in assenza di contraddittorio; conforme a Cass. n.132/2008 circa il fatto che l’autonomo accertamento non deve necessariamente concretizzarsi nella reiterazione dell’istruttoria).
Il suddetto indirizzo interpretativo è stato condiviso dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte che, ad esempio, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva negato l’utilizzabilità, nell’ambito del giudizio di opposizione al passivo fallimentare, delle prove assunte nel giudizio in materia di lavoro, dichiarato interrotto a seguito dell’intervenuto fallimento, evidenziando che: “il collegio dell’opposizione ha ritenuto che i verbali delle dichiarazioni testimoniali relative al procedimento civile svoltosi avanti al giudice del lavoro non fossero opponibili alla curatela fallimentare, da ritenersi terzo e non anche successore e/o rappresentante della società fallita. Il rilievo, nel soffermarsi sulla posizione di terzietà della procedura fallimentare, trascura però di considerare la giurisprudenza di questa corte secondo cui il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, sempre che siano acquisite al giudizio della cui cognizione è investito, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova” (così Cass. n.25067/2018).
Tirando le somme del nostro discorso, mi sento di esprimere la preoccupazione che la generale valutazione di legittimità delle prove atipiche proclamata a gran voce dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, possa produrre (e nei fatti abbia prodotto) frutti avvelenati proprio rispetto a quegli enunciati obiettivi di valorizzazione del libero convincimento del giudice e massimizzazione della ricerca della verità materiale, all’insegna dei quali quella apertura è stata favorita.
Sotto il primo profilo perché l’orientamento di generale ammissibilità delle prove atipiche, saldandosi agli altrettanto consolidati insegnamenti che prescrivono per un verso una valutazione globale e complessiva delle prove da parte del giudice di merito e negano, per altro verso, che tra le prove liberamente valutabili possa istituirsi una gerarchia, rischia di valorizzare non tanto il libero convincimento del giudice quanto il suo arbitrio, collocando – come è stato efficacemente detto – il giudizio di fatto in una sorta di zona d’ombra, sottratta al vigore di qualsiasi regola normativa o razionale, e dunque ad ogni seria possibilità di controllo (si pensi in tal senso alla proposizione tralatizia secondo cui “la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni delle soluzioni accolte, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata”, ex plur. Cass. n.16056/2016; n.17097/2010).
Sotto il secondo profilo perché, nel modello di processo al quale fatalmente tende la indiscriminata ammissione e utilizzazione di materiale probatorio della più oscura origine, “non soltanto non possono trovare più attuazione, neppure simbolica, i principii dell’oralità e della immediatezza, ma finisce addirittura per scomparire la partecipazione del giudice alla formazione della prova.”[5]
Concludendo, penso che sia ancora attuale, e dovremmo prestare maggiore attenzione, all’ammonimento di Chiovenda secondo cui esiste “un rapporto fra la funzione della prova e la forma del procedimento”, in virtù del quale “la libertà del convincimento vuole l’aria e la luce dell’udienza”, mentre “nei labirinti del processo scritto essa si corrompe e muore”[6].
[1] Così Michele Taruffo ne “La semplice verità”, Ed. Laterza, pag. 145.
[2] Così Bruno Cavallone, ne “Il giudice e la prova nel processo civile”, CEDAM 1991.
[3] Così Bruno Cavallone, ibidem.
[4] Così argomenta condivisibilmente Bruno Cavallone, ibidem.
[5] Così giustamente Cavallone, ibidem.
[6] G. Chiovenda, Sul rapporto tra le forme del procedimento e la funzione della prova. L’oralità e la prova, in Saggi di diritto processuale civile, Roma, Foro italiano 1931, p. 197 ss. a p. 225.
L’ergastolo e l’accesso al rito abbreviato.
La questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale di La Spezia con l'ordinanza del 6 novembre 2019.
di Giorgio Spangher
Il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di La Spezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1 bis, c.p.p., così come inserito dall’art. 1 della l. n. 33 del 2019, per la violazione degli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., nella parte in cui in relazione ai reati di cui agli artt, 575, 576, comma 1, n, 1, c.p. con riferimento all’art. 61 c.p., 577, comma 2, c.p., in quanto puniti con l’ergastolo, impedisce l’accesso al rito abbreviato; e dell’art. 5 della l. n. 33 del 2019, in relazione agli artt. 117 Cost. e 7 Cedu nella parte in cui consente l’applicazione del neo introdotto art. 438, comma 1 bis, c.p.p., e parallelamente esclude applicazioni dell’art. 442, comma 2, c.p.p., anche agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo che abbiano tenuto la condotta prima dell’entrata in vigore della predetta legge, con verificazione dell’evento successivamente al mutamento di normativa.
Quest’ultimo profilo potrebbe essere scrutinato in via prioritaria, in considerazione del fatto che un’eventuale suo accoglimento potrebbe far venir meno la rilevanza dell’altra questione sollevata dal giudice di La Spezia.
Invero, tenuto conto di quanto già deciso proprio con riferimento alla successione di norme relativamente all’ergastolo punito con il rito abbreviato nella vicenda Scoppola la Corte edu si era espressa nel senso che ha riconosciuto il diritto dell’imputato ad ottenere il trattamento sanzionatorio previsto al momento della richiesta del rito (trenta anni) e non quello (l’ergastolo) operante al momento della celebrazione del rito (e decisione) per effetto del sopravvenuto art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001 (Corte edu 17 settembre 2009).
Per questa ragione, si è ritenuto superata la questione della riferibilità del tema de quo alla tematica della natura sostanziale e non processuale delle disposizioni relative al trattamento sanzionatorio nel rito contratto.
La questione nel caso di specie, tuttavia, coinvolge il problema relativo alla riferibilità della successione di norme, in relazione alla rilevanza tra il momento dell’azione e quello dell’evento.
Indiscutibilmente è necessario riferirsi al momento dell’azione, quello, cioè, del momento in cui si prefigura il atto delittuoso e lo pone in essere proiettandolo già da quel momento sull’evento voluto.
Il dato trova un preciso riscontro nell’art. 8 c.p.p., ove al comma 2 si precisa che “se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, competente è il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’amissione”.
Il conseguente possibile superamento della questione di costituzionalità ipotizzato in esordio, non impedisce – considerata la sua riproponibilità in termini generali, della compatibilità della riferita previsione delittuosa, “e di altre similari” che escludono l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo – di affrontare le questioni di costituzionalità sollevate sub artt. 3 e 111, comma 2, Cost.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, non appaiono condivisibili le considerazioni relative alla violazione che la nuova previsione determinerebbe in relazione alla durata ragionevole del processo, sia con riferimento a questi specifici reati, sia più in generale sull’intero sistema processuale. Anche considerando le implicazioni relativamente alle indiscutibili conseguenze negative sul “funzionamento” delle Corti di Assise, rispetto alla presenza di un giudice monocratico; alla indispensabile celebrazione di un giudizio di primo grado che l’abbreviato, invece, consentirebbe di non celebrare; alla diversa distribuzione delle sedi di svolgimento dei relativi processi, deve sottolinearsi come “ricadute” di questo tipo si determinano ogni qual volta il legislatore, fissando limiti all’accesso ai percorsi differenziati canalizza in modo diversificato i procedimenti, consentendo ovvero escludendo lo svolgimento dei vari riti premiali, acceleratori, deflattivi. Si consideri che questi percorsi sono derogatori del rito ordinario quindi eccezionali, con conseguente esigenza di una adeguata motivazione.
Lo stesso discorso vale per la distribuzione delle competenze ove siano sorrette da necessaria giustificazione, ragionevolezza, proporzionalità.
Maggiormente complesse si profilano le considerazioni in relazione al secondo profilo posto a fondamento della questione di incostituzionalità: quella relativa alla ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost.
Invero, la questione potrebbe essere presa in esame sotto due prospettive.
In primo luogo, si potrebbe considerare se la specifica ipotesi delittuosa di cui al processo presso il giudice dell’udienza preliminare di La Spezia, giustifichi l’esclusione del rito contratto.
Invero, le ipotesi delittuose che sono sanzionate con la pena dell’ergastolo sono differenziate tra di loro e proprio le ipotesi di omicidio aggravato evidenziano significative differenze, specificamente in relazione alla sanzionabilità differenziata per effetto necessario della presenza della circostanza specializzante.
Non si può non considerare al riguardo la giurisprudenza in materia cautelare, legata alle decisioni di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. in relazione alla presunzione di pericolosità.
Tuttavia, anche tenuto conto proprio di questa giurisprudenza non si può non sottolineare come il proprio riferimento all’aggravamento dell’ipotesi ordinaria di omicidio sia stata alla base della specifica scelta legislativa di escludere il rito contratto, in conseguenza della pena – l’ergastolo – riconducibile in astratto al fatto di reato.
Ciò non esclude, tuttavia, di considerare la questione sotto un altro profilo.
Superato – negativamente – questo passaggio, infatti, resterebbe da verificare se la questione di incostituzionalità non potrebbe prospettarsi sotto il profilo dell’applicazione della premialità del rito – necessabilmente richiesto dalla parte in limine – qualora all’esito del dibattimento il giudice escludesse l’applicabilità dell’ergastolo, in conseguenza dell’esclusione dell’aggravante per effetto dell’equivalenza o della prevalenza di un attenuante.
La questione, pertanto, potrebbe comportare la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 438, comma 6 bis, c.p.p. ove si prevede che “qualora la richiesta di rito abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1 bis (dello stesso art. 438 c.p.p.), il giudice se all’esito del dibattimento ritiene che il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato applica la riduzione della pena ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p.
Maggiori difficoltà incontrerebbe una questione prospettata in relazione all’art. 429, comma 2 bis, c.p.p., poiché si fa riferimento ad una “definizione giuridica diversa”.
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