ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Processo telematico e sistema delle impugnazioni penali
di Ignazio Pardo
sommario: 1. Premessa - 2. Quadro normativo e regolamentare - 3. Le prassi operative nell'immediato e gli ostacoli esistenti - 4. Una soluzione semplice e possibile. - 5. Conclusioni
1. Premessa
La drammatica situazione sanitaria in cui versa il paese ha imposto il blocco di tutti gli affari giudiziari non urgenti; nelle more della ripresa, si impone una riflessione sulle possibili prassi operative che, senza gravare le cancellerie da ulteriori adempimenti, permettano ai giudici delle impugnazioni penali di procedere all'esame preliminare degli atti, effettuare le necessarie ricerche di giurisprudenza, predisporre le bozze dei provvedimenti.
2.
Quadro normativo e regolamentare
Come è noto i recenti provvedimenti normativi urgenti emanati in relazione all'emergenza Coronavirus hanno sollecitato i capi degli uffici e tutti gli operatori giudiziari ad adottare le migliori prassi per garantire la trattazione degli affari a distanza. In particolare, il noto art. 83 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 (Nuove misure urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare), dopo avere stabilito al comma 1 il rinvio d'ufficio ex lege di tutti i processi penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari a data successiva al 15 aprile 2020, nonché dettato le regole per la trattazione degli affari urgenti in tale fase temporale, ha espressamente previsto, al successivo comma 6 che, per il periodo compreso tra il 16 aprile ed il 30 giugno 2020 “ i capi degli uffici......adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie.....al fine di evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. Al successivo comma settimo si prevede espressamente che per realizzare tali fini i capi degli uffici giudiziari possono adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze (lett. d), stabilire la celebrazione a porte chiuse delle udienze penali pubbliche ( lett. e), prevedere il rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 delle udienze penali non rientranti nei casi urgenti.
Dal canto suo il CSM con la precedente deliberazione del 5 marzo 2020, adottata a seguito di disposizioni normative sostanzialmente analoghe già in vigore, ha espressamente stabilito che.” I dirigenti degli uffici dovranno......... adottare.... misure organizzative volte a modulare mediante modalità alternative lo svolgimento dell'attività lavorativa dal domicilio del magistrato e di favorire il più possibile modalità organizzative del lavoro da remoto mediante l'utilizzo delle dotazioni tecnologiche ed informatiche fornite dal ministero”.
3. Le prassi operative nell'immediato e gli ostacoli esistenti
Ora, proprio in forza di tali disposizioni e prima di disciplinare l'eventuale trattazione delle udienze da remoto, si pone, subito, il problema della individuazione di prassi operative tali da permettere anche in questa fase l'operatività del sistema giustizia e di quello delle impugnazioni in particolare che, per la sua struttura, può rendere meno indispensabile l'accesso agli uffici giudiziari; certamente l'assenza del fascicolo telematico penale si rileva un grave pregiudizio al momento poiché i consiglieri di corte di appello ed i consiglieri della corte di cassazione che volessero consultare gli atti del c.d. fascicoletto delle cause già fissate per il periodo 16 aprile-30 giugno si vedono preclusa tale possibilità.
Nel tentativo di utilizzare il forzato periodo di isolamento sono così pervenute alle diverse cancellerie della corte di cassazione istanze dei consiglieri del settore penale dirette ad ottenere o la spedizione materiale dei fascicoletti ovvero la scannerizzazione degli stessi ed il successivo invio in forma telematica per permetterne lo studio e procedere, poi, con la predisposizione delle bozze dei provvedimenti. Comprensibilmente, tali iniziative hanno determinato la immediata reazione del personale amministrativo cui sarebbe stata imposta una presenza in ufficio certamente duratura e gravosa, così che il Segretario Generale della Corte di Cassazione ha emesso una apposita circolare il 16 marzo u.s. con la quale ha comunicato l'attuale impossibilità di trasmissione di tali atti per posta o per via telematica a carico delle cancellerie.
Pare evidente, quindi, che la strada della trasmissione dei fascicoletti non può imporre adempimenti ad un personale che viene dirottato verso forme di lavoro agile e cui non può essere imposta la presenza in ufficio; problematiche analoghe appaiono prospettabili anche per gli uffici di appello ove, analogamente, l'acquisizione dei fascicoletti di tutti i procedimenti già fissati per il periodo 16 aprile-30 giugno non può essere effettuato attraverso oneri imposti alle diverse cancellerie ed ove si impone comunque di limitare l'accesso di personale e giudici agli uffici giudiziari.
Pertanto, appare a mio avviso evidente che la strada della spedizione o scannerizzazione degli atti non è percorribile; del resto una soluzione alternativa vi è, è di immediata operabilità, può costituire una prassi idonea a fungere da strada percorribile anche per il futuro, anticipando il processo telematico nella fase delle impugnazioni quanto meno in parte.
Difatti, i documenti costituenti il c.d. fascicoletto del giudice relatore in cassazione od in grado di appello sono files informatici originari poi trasferiti su supporto cartaceo e successivamente trasmessi al Presidente ed al relatore; imporre la ridigitalizzazione di files originari è un non senso; tanto più in un momento in cui bisogna garantire il lavoro a distanza di tutti, senza distinzione di funzioni. Ma anche imporlo in futuro si rileva una scelta insensata.
4. Una soluzione semplice e possibile.
Ciò che occorre fare è molto semplice; i capi degli uffici o lo stesso C.S.M. devono soltanto prevedere la trasmissione di sentenza e ricorso, ovvero pronuncia di primo grado ed appello, da parte del giudice relatore del procedimento a quo e del difensore o pubblico ministero impugnante con destinazione al giudice ad quem, sia esso la corte di cassazione o la corte di appello. In questo modo, al supporto cartaceo formato dalle cancellerie dei giudici a quo, siano esse le corti di appello, i tribunali della libertà ovvero gli uffici di primo grado, si affianca un fascicolo telematico, costituito naturalmente dai soli atti essenziali, provvedimento ed impugnazione, immediatamente consultabile dal giudice relatore a seguito della fissazione della causa. Davvero non sembra che una previsione di tal genere a fronte del profluvio normativo di disposizioni che invitano a realizzare il lavoro a distanza sia di difficile realizzazione; basta prevedere una casella di posta di ciascuna sezione in cui i giudici a quo ed i difensori ricorrenti od appellanti (ovvero p.m.), riversino i loro files con una semplice mail. Questa casella è naturalmente accessibile a presidenti e giudici relatori dei collegi i quali così consultano gli atti, studiano il caso, predispongono le bozze.
E nel caso dovesse anche partire l'udienza penale in cassazione da remoto è certo che lo scopo della stessa sarebbe mortificata se poi personale o giudici dovessero accedere ugualmente all'ufficio per acquisire i fascicoletti; con la trasmissione via telematica di provvedimenti impugnati e ricorsi tale evenienza sarebbe esclusa.
Accanto a questa prospettiva per il futuro, si pone il problema di come operare per tutti i procedimenti già trasmessi dal giudice a quo a quello ad quem ed in cui, ad oggi, manca naturalmente il supporto informatico; per esemplificare, che fare nei procedimenti già pervenuti presso la corte di cassazione che risultino già fissati, od in corso di fissazione ? Bene, anche questi procedimenti potrebbero essere oggetto di studio preventivo da parte dei consiglieri relatori pur in questo periodo di assenza forzata con possibilità di predisposizione degli argomenti di studio e delle bozze per le future udienze di trattazione; idem per i presidenti degli stessi collegi. A tal fine pare sufficiente prevedere la possibilità, in questa fase di passaggio ed emergenziale, per i componenti le sezioni penali della corte di cassazione di contattare immediatamente essi stessi i relatori dei provvedimenti impugnati e gli autori delle impugnazioni per sollecitare la trasmissione dei files in via informatica sulla base dei quali iniziare lo studio senza accedere all'ufficio. Analogamente potrebbe prevedersi anche per i componenti le sezioni di appello che sarebbero messi in condizione di analizzare provvedimento ed atto di impugnazione dei procedimenti già fissati e ciò senza essere loro imposto l'accesso all'ufficio. Se si dovesse ritenere non opportuno un contatto diretto con le parti private lo si preveda almeno attraverso i consigli dell'ordine.
5. Conclusioni
L'adozione della spedizione via mail del provvedimento impugnato e dell'atto di impugnazione dal giudice a quo e dalla parte impugnante con destinazione giudice ad quem si configura quale semplice prassi del tutto idonea a sgravare le cancelleria da oneri e compiti e che, una volta standardizzata alla ripresa ordinaria delle attività, si profila utile ad alleggerire il lavoro delle stesse strutture amministrative, ad oggi gravate dalla predisposizione di numerose copie dei c.d.fascicoletti, idonea ad abbattere l'utilizzo massiccio di carta negli uffici giudiziari, idonea ancora a ridurre i costi di spedizione.
Inoltre, nella eventuale predisposizione ed attuazione delle udienze da remoto anche per il settore penale, è il solo sistema compatibile con la minor presenza in ufficio di personale, giudici e parti.
Insomma il fascicolo telematico non è mai stato realizzato nel settore penale; adoperiamoci almeno per realizzare il fascicoletto telematico. Questo si può fare, anche subito.
Saepe in periculis
Note in tema di persona e comunità
di Marco Dell’Utri
Il distanziamento e l’isolamento forzati, imposti dal controllo del rischio epidemico, rivelano il volto violento del diritto e, insieme, nuove forme o visioni della socialità.
Il saggio propone una rilettura del rapporto tra il potere e le libertà individuali, seguendo schemi propri del discorso biopolitico, sullo sfondo dello spazio e dei limiti costituzionali.
Sommario - 1. Controllo epidemico e isolamento forzato: il volto violento del diritto. - 2. Diritto e paradigma immunitario: salvezza e giustizia della forza. - 3. Stato di eccezione, biopolitica e sovranità della persona. - 4. Lo spazio costituzionale. Costruzione della persona e fede nel diritto.
1. Controllo epidemico e isolamento forzato: il volto violento del diritto. - «Saepe in periculis … periculis in civitate, periculis in solitudine».[1] I provvedimenti assunti dal governo per la difesa della collettività dalla diffusione del virus COVID-19, in assenza di adeguati presidi di carattere farmacologico o di altre specifiche terapie preventive, hanno drasticamente imposto (salve le specifiche necessità) la chiusura di tutti i luoghi aperti al pubblico, il divieto di circolare senza adeguata giustificazione, la permanenza domiciliare.[2]
Allo scopo di impedire l’ulteriore propagazione dell’epidemia, attraverso il distanziamento e l’isolamento forzato dei corpi, la disciplina giuridica si piega all’estrema misura dell’interdetto del contatto ravvicinato tra le persone, secondando le ferme indicazioni degli esperti biomedici: avvicinarsi o toccarsi, in ambito pubblico, è giuridicamente proibito.
L’immagine indotta dalle misure del governo suggerisce una singolare inversione di quel ‘capovolgimento del timore d’essere toccati’ descritto in Massa e potere da Elias Canetti.
Nel paragrafo d’esordio di Massa e potere, nota Canetti: «nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito. Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro […]. La ripugnanza d’essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo tra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli. Se facciamo l’opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno: nostra è quindi l’iniziativa di avvicinarci a lui. La prontezza con cui gli uni si scusano se ci toccano involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l’odio che proviamo per il ‘malfattore’ – anche se non possiamo affatto essere certi che sia stato lui – tutto questo groviglio di reazioni psichiche intorno all’essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci conferma che si tratta qui di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona. Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo facilmente da un timore di questo tipo.
«Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. È necessario per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi ‘ci sta addosso’. Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il più compiutamente possibile del timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa».[3]
La riflessione di Canetti – per lungo tempo suggestionata dall’esperienza della partecipazione politica, e ad oggi ancora preziosa (secondo l’interpretazione ‘positiva’ del fenomeno) nell’analisi dei raduni musicali giovanili o del tifo calcistico organizzato – guarda alla dimensione collettiva della massa, e alla fusione in questa dell’individuale, come a una forma istintiva di protezione dalle insidie dell’ignoto: il corpo unico della massa affranca il singolo da ogni angoscia di annientamento, secondo un meccanismo d’indole vagamente mistica.
Quando tuttavia il pericolo si insinua all’interno della stessa struttura corporale della massa, tutti, singoli e massa, divengono improvvisamente esposti in modo indifferenziato all’angosciosa minaccia dell’oscurità.
L’indistinta confusione dei corpi non è più in grado di garantire il singolo; cessa di costituire la naturale nicchia protettiva dal timore d’essere toccati.
E’ allora che, per singolare paradosso, la regola giuridica assume la difesa della comunità attraverso l’imposizione formale proprio di quell’istintiva difesa ancestrale dal contatto tra i corpi. Nel farlo, tuttavia, assume la necessità di estendere l’interdetto a tutte le condotte potenzialmente suscettibili di favorire quel contatto, impedendo forzosamente l’apertura di tutti i luoghi di ritrovo e la stessa circolazione delle persone.
Con un gesto di apparente e paradossale violenza, la regola giuridica raggiunge l’estremo limite della sua stessa essenza ontologica, negando in radice, pena l’irrogazione di severe sanzioni, la possibilità stessa del rapporto umano.
2. Diritto e paradigma immunitario: salvezza e giustizia della forza. - Il carattere strutturalmente paradossale, non solo dell’estremo contingente appena rilevato, ma dell’intera esperienza giuridica in quanto tale, è alla radice dell’articolata riflessione condotta da Roberto Esposito nel saggio composto (con singolare coincidenza) nel segno dell’Immunitas.[4]
Il meccanismo di funzionamento del fenomeno giuridico viene ricondotto da Esposito al paradigma immunitario; uno schema che non limita il proprio orizzonte di senso alla sola esperienza biologica (dell’immunizzazione dell’organismo vivente dal contagio di una malattia), prestandosi a letture più complesse, anche di carattere sociale. «Che ad essere insidiato sia il corpo individuale da parte di una malattia diffusa, il corpo politico da parte di un’intrusione violenta o il corpo elettronico da parte di un messaggio deviante, ciò che resta costante è il luogo in cui si situa la minaccia: che è sempre quello del confine tra l’interno e l’esterno, il proprio e l’estraneo, l’individuale e il comune. Qualcuno o qualcosa penetra in un corpo – singolare o collettivo – e lo altera, lo trasforma, lo corrompe. Il termine che meglio si presta a rappresentare questa dinamica dissolutiva – proprio per la sua polivalenza semantica che lo colloca all’incrocio tra i linguaggi della biologia, del diritto, della politica e della comunicazione – è quello di ‘contagio’».
I dizionari latini ci insegnano che il sostantivo immunitas è un vocabolo privativo, che deriva il proprio senso da ciò che nega, o di cui risulta privo, vale a dire il munus. Se si esamina il significato prevalente di quest’ultimo termine, si ricava per contrasto quello dell’immunitas: rispetto all’ufficio, incarico, onere, dovere (anche nel senso di un dono da restituire), rappresentato dal munus. «Chi risulta muneribus vacuus, sine muneribus, sgravato, esonerato, ‘dispensato’ dal pensum di tributi o prestazioni nei confronti di altri. È immune chi non deve niente a nessuno secondo il doppio registro della vacatio e della excusatio: che si tratti di autonomia originaria o di sollevamento successivo da un debito precedentemente contratto, ciò che conta nella determinazione del concetto è l’esenzione dall’obbligo del munus – personale, fiscale o civile che sia». Quello di ‘immunità’, oltre che privativo, è anche un concetto essenzialmente comparativo: è la diversità rispetto alla condizione altrui, «al punto che si potrebbe ipotizzare che il vero antonimo di immunitas non sia il munus assente, bensì la communitas di coloro che, viceversa, se ne fanno portatori. Se la privazione, insomma, riguarda il munus, il punto di contrasto da cui l’immunità assume senso è il cum in cui esso si generalizza nella forma della communitas». Rispetto a tale generalità, l’immunità è una condizione di particolarità, di privilegio: che si riferisca ad un singolo o ad un collettivo, essa è sempre ‘propria’, nel senso specifico di ‘appartenente a qualcuno’, e dunque di ‘non comune’.[5]
Al campo semantico di prevalente connotazione giuridica occorre accostare, secondo Esposito, la descrizione del processo di immunizzazione propria dell’ambito semantico biomedico. Da questo punto di vista, per immunità deve intendersi la condizione di refrattarietà dell’organismo rispetto al pericolo di contrarre una malattia contagiosa. Con la scoperta del vaccino antivaioloso da parte di Jenner e poi con gli esperimenti di Pasteur e di Koch nasce la vera e propria batteriologia medica. Il passaggio rilevante è quello che conduce dall’immunità naturale all’immunità acquisita: l’idea di fondo è che una forma attenuata di infezione può proteggere da una più virulenta dello stesso tipo. Da qui la deduzione – comprovata dall’efficacia dei vari vaccini – che l’inoculazione di quantità non letali di virus stimola la formazione di anticorpi capaci di neutralizzarne anticipatamente le conseguenze patogene.
Il paradigma immunitario, prosegue Esposito, si presenta non in termini di azione, bensì di reazione – più che di una forza propria, si tratta di un contraccolpo, di una controforza, che impedisce a un’altra forza di manifestarsi. «Ciò significa che il meccanismo dell’immunità presuppone la presenza del male che deve contrastare. E ciò non solo nel senso che deriva da esso la propria necessità – è il rischio dell’infezione a giustificare la misura profilattica. Ma anche in quello, più impegnativo, che funziona precisamente attraverso il suo uso. Che riproduce in forma controllata il male da cui deve proteggere. […] Attraverso la protezione immunitaria la vita combatte ciò che la nega, ma secondo una strategia che non è quella della contrapposizione frontale, bensì dell’aggiramento e della neutralizzazione. Il male va contrastato – ma non tenendolo lontano dai propri confini. Al contrario includendolo all’interno di essi. La figura dialettica che così si delinea è quella di un’inclusione escludente o di un’esclusione mediante inclusione. Il veleno è vinto dall’organismo non quando è espulso al suo esterno, ma quando in qualche modo viene a far parte di esso. Lo si diceva: più che a un’affermazione, la logica immunitaria rimanda a una non-negazione, alla negazione di una negazione. Il negativo non soltanto sopravvive alla sua cura, ma ne costituisce la condizione di efficacia. È come se esso si sdoppiasse in due metà di cui l’una è necessaria al contenimento dell’altra – un negativo minore destinato a bloccare quello maggiore ma all’interno dello stesso linguaggio».
Per restare tale, la vita, deve piegarsi ad una forza estranea, se non ostile, che ne inibisce lo sviluppo. Incorporare un frammento di quel niente che vuole evitare – in realtà semplicemente differendolo. «Da qui il carattere strutturalmente aporetico della procedura immunitaria: non potendo raggiungere direttamente il proprio obiettivo, è costretta a perseguirlo rovesciato. Ma, così facendo, lo trattiene nell’orizzonte di senso del proprio opposto: può prolungare la vita solo facendole di continuo assaggiare la morte».
Trasferendo in ambito giuridico il paradigma immunitario così descritto, Esposito richiama il pensiero di Simone Weil là dove coglie il passaggio che dal diritto conduce alla forza, o meglio che fa della forza il presupposto, insieme logico e storico, del diritto. Il diritto è per natura dipendente dalla forza: qui si determina come un transito interno all’immunizzazione giuridica che sembra raddoppiarla: «per potere immunizzare la comunità dalle sue tendenze autodistruttive, il diritto ha bisogno di proteggere innanzitutto se stesso. Ma, secondo quella dialettica dell’immunità che abbiamo imparato a conoscere, può farlo solo affidandosi allo stesso principio che intende dominare – alla medesima forza che deve tenere a bada».
Sono distinguibili tre passaggi distinti e concatenati: 1) all’inizio è sempre un atto violento – giuridicamente infondato – a fondare il diritto[6]; 2) quest’ultimo, una volta istituito, tende ad escludere ogni altra violenza ad esso esterna; 3) ma tale esclusione non può essere effettuata che attraverso un’ulteriore violenza, non più istitutiva, bensì conservativa del potere statuito. Questo è, in ultima analisi, il diritto: una violenza alla violenza per il controllo della violenza.
«Il suo carattere immunitario nei confronti della comunità è fin troppo evidente: se anche l’esclusione della violenza esterna all’ordinamento legittimo si produce attraverso mezzi violenti – l’apparato di polizia o addirittura la pena di morte – ciò significa che il dispositivo giuridico funziona mediante l’assunzione della medesima sostanza da cui intende proteggere. E cos’è, del resto, l’esclusione di un esterno, se non la sua inclusione? Benjamin è molto chiaro in proposito. Della violenza esterna, il diritto non vuole eliminare la violenza, ma, appunto, l’‘esterno’ – cioè tradurla al suo interno».
Il tema della violenza, naturalmente, non esaurisce il profondo significato simbolico e culturale dell’esperienza giuridica.
In uno degli ultimi saggi dedicati al diritto, nel ‘rileggere’ un frammento[7] dei ‘Pensieri’ di Blaise Pascal, Jacques Derrida ha tentato di ordinare il rigore e il senso di quella riflessione: il frammento suggerisce che «quello che è giusto deve - ed è giusto - essere seguìto: seguìto di conseguenza, seguìto d’effetto, applicato, enforced; poi che ciò che è ‘il più forte’ deve ugualmente essere seguìto: di conseguenza, d’effetto ecc. Detto altrimenti, l’assioma comune è che il giusto e il più forte, il più giusto come il più forte devono essere seguiti. Ma questo ‘dover essere seguìto’ comune al giusto e al più forte, è ‘giusto’ in un caso, ‘necessario’ nell’altro: è giusto che ciò che è giusto sia seguìto [detto altrimenti, il concetto o l’idea del giusto, nel senso di giustizia, implica analiticamente e a priori che il giusto sia ‘seguìto’, enforced, ed è giusto - anche nel senso di giustezza - pensare così], è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto (enforced).
«Pascal prosegue: “La giustizia scompaginata dalla forza è impotente [detto altrimenti, la giustizia non è la giustizia, non è resa se non ha la forza di essere enforced; una giustizia impotente non è una giustizia, nel senso del diritto]; la forza scompaginata dalla giustizia è tirannica. La giustizia senza forza viene contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Bisogna dunque congiungere la giustizia e la forza; per fare in modo che quel che è giusto sia forte e che quel che è forte sia giusto”».[8]
‘Giustizia’, ‘diritto’ e ‘forza’ riannodano così, in un rapporto di reciproca implicazione, il legame che trascorre tra la legittimazione della forza (e quindi del ‘potere’ che ne costituisce l’espressione più saliente sul territorio dei rapporti politici) in base al diritto; e ancora di quest’ultimo in base alla giustizia. Per il mistico cristiano (se tale può qualificarsi la vocazione del giansenismo pascaliano), un potere che pretenda di legittimare l’imposizione di regole sulla base della sola forza (come valore in sé), svincolandone ‘programmaticamente’ la manifestazione da alcun nesso con il valore della ‘giustizia’, costituisce l’esempio più evidente dell’azione ‘arbitraria’ e ‘violenta’, della criminosa pretesa del tiranno.
Tornando al tema inizialmente introdotto, varrà concludere rilevando come la misura del divieto, giuridicamente sanzionato, dell’accostamento dei corpi, assuma, secondo il paradigma immunitario, la forma della violenza del diritto (che si autolegittima come forza secondo i propri canoni di giustizia) che si esercita per la salvezza della comunità. Il distanziamento forzato diviene – in quanto inclusione della violenza – il dispositivo immunitario a tutela del gruppo sociale, la dimensione simbolica del contributo individuale alla comune salvezza e, dunque, il gesto solidale per eccellenza.
3. Stato di eccezione, biopolitica e sovranità della persona. - L’emergenza sanitaria (implicata dalla minaccia radicale della vita della comunità) non sospende, né attenua, il tradizionale (necessario) rigore del discorso critico rivolto nei riguardi dell’istanza biopolitica.
Converrà interrogarsi fino a che punto il potere e il diritto che agiscano, secondo i propri canoni di giustizia, in esecuzione di paradigmi scientifici ordinati all’unico scopo della salvezza collettiva, consentono di escludere il riscontro di finalità che (almeno in apparenza) valgano a tradursi nel controllo o nello sfruttamento in chiave politica o economica dei ‘corpi docili’, secondo le preziose denunce di ascendenza foucaultiana.
Occorre non sottovalutare il carattere sottile o insidioso della sorveglianza democratica condotta in un contesto emergenziale, e stabilire con rigorosa nettezza i confini che separano il quadro dell’emergenza sanitaria dalla nozione che allude, secondo il tradizionale linguaggio, ai presupposti dello stato di eccezione.
Ai temi dello ‘stato di eccezione’, dell’infondatezza della legge e dei tratti essenzialmente violenti del diritto, si lega la riflessione di Giorgio Agamben, nei suoi scritti più sensibili alla lezione del pensiero tedesco del Novecento, e alla figura di Carl Schmitt in particolare.
Il recupero della teoria schmittiana dello ‘stato di eccezione’, e della connessa dottrina della sovranità, suggerisce ad Agamben l’idea della ‘decisione sovrana’ che, pur rimanendo ancora all’interno dell’ordine giuridico, vale ad annullare, o a sospendere, il vigore della norma giuridica, ponendosi in uno spazio - per l’appunto lo ‘stato di eccezione’ - ‘che non è (per riprendere l’immagine già incontrata a proposito del paradigma immunitario) né fuori né dentro’ quello che corrisponde alla norma annullata o sospesa. Il «sovrano sta fuori dell’ordine giuridico normalmente valido e tuttavia, appartiene ad esso, perché è responsabile per la decisione se la costituzione possa essere sospesa in toto».[9]
«Essere-fuori e, tuttavia, appartenere: questa è la struttura topologica dello stato di eccezione, e solo perché il sovrano, che decide sull’eccezione, è, in verità, logicamente definito nel suo essere da questa, può anch’esso essere definito dal suo ossimoro estasi-appartenenza».[10]
Lo stato di eccezione secondo la dottrina schmittiana rappresenta dunque un «campo di tensioni giuridiche, in cui un minimo di vigenza formale coincide con un massimo di applicazione reale e viceversa. Ma anche in questa zona estrema e, anzi, proprio in virtù di essa, i due elementi del diritto mostrano la loro intima coesione».[11]
Da un punto di vista tecnico, la prestazione specifica dello ‘stato di eccezione’ non dev’essere rinvenuta in una generica ‘confusione dei poteri’, bensì nell’isolamento della ‘forza di legge’ dalla ‘legge’. «Esso definisce uno ‘stato della legge’ in cui, da una parte, la norma vige, ma non si applica (non ha ‘forza’) e, dall’altro, atti che non hanno valore di legge ne acquistano la ‘forza’. […] Lo stato di eccezione è uno spazio anomico, in cui la posta in gioco è una forza-di-legge senza legge».[12]
L’esperienza istituzionale della Roma repubblicana e imperiale fornisce al discorso suggestioni concettuali e schemi esplicativi di rara limpidezza. La vicenda della ‘sospensione’ senatoriale del diritto in epoca repubblicana, con la conseguente proclamazione del c.d. iustitium[13], riconsegna, alla riflessione attuale, la nozione centrale dell’auctoritas patrum: «è noto che il termine che designava a Roma la prerogativa più propria del Senato non era, infatti, né imperium, né potestas, ma auctoritas».[14]
Nei casi estremi - cioè quelli che meglio la definiscono, se è vero che sono sempre l’eccezione e la situazione estrema a definire il carattere più proprio di un istituto giuridico – «l’auctoritas sembra agire come una forza che sospende la potestas dove essa aveva luogo e la riattiva dove essa non era più in vigore. Essa è un potere che sospende o riattiva il diritto, ma non vige formalmente come diritto». In tali casi, il potere di attivare o riattivare la potestas vacante non è un potere giuridico ricevuto dal popolo o da un magistrato, ma scaturisce immediatamente dalla condizione personale dei patres.
L’essenza dell’auctoritas – come potenza che può, insieme, ‘accordare la legittimità’ e ‘sospendere il diritto’ - esibisce il suo carattere più intimo proprio nel punto della sua massima inefficacia giuridica. Essa «è ciò che resta del diritto se si sospende integralmente il diritto».[15]
La dialettica di potestas e auctoritas – seguita nella profondità delle sue implicazioni storico-culturali - vale pertanto ad esprimere il rapporto di reciproca fondazione tra ‘diritto’ e ‘vita’, e dunque tra ‘diritto’ e ‘senso’ o, se si preferisce, tra diritto e ‘cultura’.[16]
Dallo specifico punto di vista evidenziato da Agamben, i sistemi giuridici dell’Occidente si presentano nella forma di una doppia struttura, formata da quei due elementi eterogenei e (tuttavia) coordinati: uno normativo e giuridico in senso stretto (la potestas) e uno anomico e metagiuridico, in cui si riassumono le istanze della ‘vita’, del ‘senso’, della ‘cultura’ (l’auctoritas).
L’elemento normativo «ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas. In quanto risulta dalla dialettica fra questi due elementi in certa misura antagonistici, ma funzionalmente connessi, l’antica dimora del diritto è fragile e, nella sua tensione verso il mantenimento del proprio ordine, sempre già in atto di rovinare e corrompersi. Lo stato di eccezione è il dispositivo che deve, in ultima istanza, articolare e tenere insieme i due aspetti della macchina giuridico-politica, istituendo una soglia di indecidibilità fra anomia e nomos, tra vita e diritto, fra auctoritas e potestas. Esso si fonda sulla finzione essenziale per cui l’anomia - nella forma dell’auctoritas, della legge vivente o della forza-di-legge - è ancora in relazione con l’ordine giuridico e il potere di sospendere la norma è in presa immediata sulla vita. Finché i due elementi permangono correlati, ma concettualmente, temporalmente e soggettivamente distinti […], la loro dialettica - ancorché fondata su una finzione - può tuttavia in qualche modo funzionare. Ma quando essi tendono a coincidere in una sola persona, quando lo stato di eccezione, in cui essi si legano e si indeterminano, diventa la regola, allora il sistema giuridico-politico si trasforma in una macchina letale».
Accanto al movimento che cerca di mantenere a ogni costo in relazione violenza e diritto, vita e norma, «vi è un contromovimento che, operando in senso inverso nel diritto e nella vita, cerca ogni volta di sciogliere ciò che è stato artificiosamente e violentemente legato. Nel campo di tensione della nostra cultura agiscono, cioè, due forze opposte: una che istituisce e pone e una che disattiva e depone. Lo stato di eccezione è il punto della loro massima tensione e, insieme, ciò che, coincidendo con la regola, minaccia […] di renderle indiscernibili. Vivere nello stato di eccezione significa fare esperienza di entrambe queste possibilità e tuttavia, separando ogni volta le due forze, incessantemente provarsi a interrompere il funzionamento della macchina che sta conducendo l’Occidente verso la guerra civile mondiale».
Esibire il diritto nella sua non-relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto «significa aprire fra di essi uno spazio per l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di ‘politica’. La politica ha subito una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto. Veramente politica è, invece, soltanto quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto. E soltanto a partire dallo spazio che così si apre sarà possibile porre la domanda su un eventuale uso del diritto dopo la disattivazione del dispositivo che, nello stato di eccezione, lo legava alla vita».[17]
Sul piano dei rapporti che il potere istituisce con la disciplina dei corpi, la norma giuridica trova dinanzi a sé, paradossalmente, il situarsi di un oggetto ‘bifronte’: il ‘corpo’ come portatore della soggezione al potere sovrano, e il corpo come portatore delle libertà individuali.[18]
Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo, originariamente concepiti sul piano della riflessione morale e filosofica (e dunque sul terreno ‘anomico’ della cultura), si mostrano sprovvisti di ogni tutela e di ogni realtà fino al momento in cui non sia possibile configurarli come diritti dei cittadini di uno stato.
Ciò è implicito, se ben si riflette, nell'ambiguità del titolo stesso della dichiarazione del 1789: Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, dove non è chiaro se i due termini nominino due realtà autonome o formino invece un sistema unitario, in cui il primo è già sempre contenuto e occultato nel secondo; e, in questo caso, che tipo di relazioni esista fra di essi.[19]
Nello spazio giuridico contemporaneo, le dichiarazioni dei diritti hanno cessato, ormai da lungo tempo, di costituire mere a proclamazioni gratuite di valori eterni metagiuridici, tendenti a vincolare il legislatore al rispetto di principi etici eterni, avendo (definitivamente?) assunto una funzione storico-giuridica reale.
«Le dichiarazioni dei diritti rappresentano la figura originaria dell'iscrizione della vita naturale nell'ordine giuridico-politico dello Stato-nazione. Quella nuda vita naturale che, nell'antico regime, era politicamente indifferente e apparteneva, come vita creaturale, a Dio e, nel mondo classico era (almeno in apparenza) chiaramente distinta (come zoé) dalla vita politica (bios), entra ora in primo piano nella struttura dello stato e diventa anzi il fondamento terreno della sua legittimità e della sua sovranità».[20]
Le dichiarazioni dei diritti (che, dal tempo storico delle Carte di fine Settecento, giungono, nell’attuale panorama giuridico italiano, alla Costituzione del 1948, alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e alla Carta di Nizza integrata nel Trattato istitutivo dell’Unione Europea) vanno allora viste come il luogo in cui si attua il passaggio dalla sovranità regale di origine divina alla sovranità nazionale.
Trasformando il ‘suddito’ in ‘cittadino’, la nascita - cioè la nuda vita naturale come tale - diviene per la prima volta (con una trasformazione le cui conseguenze biopolitiche possiamo solo oggi cominciare a misurare) il portatore immediato della sovranità: «il principio di natività e il principio di sovranità, separati nell’antico regime (dove la nascita dava luogo solo al sujet, al suddito) si uniscono ora irrevocabilmente nel corpo del soggetto sovrano per costituire il fondamento del nuovo Stato-nazione. […] Il nuovo principio ugualitario [..] nomina il nuovo statuto della vita come origine e fondamento della sovranità. […]. Ciò che […] aveva costituito [in epoca storica] solo un tema fra gli altri discussi nelle antropologie filosofiche, comincia […] a diventare una questione politica essenziale, presa, come tale, in un costante lavoro di ridefinizione, finché, col nazionalsocialismo, la risposta alla domanda “chi e che cosa è tedesco” (e, quindi, anche: “chi e che cosa non lo è”) coincide immediatamente col compito politico supremo».[21]
«Uno dei caratteri essenziali della biopolitica moderna (che giungerà nel nostro secolo all’esasperazione) è la sua necessità di ridefinire continuamente nella vita la soglia che articola e separa ciò che è dentro da ciò che è fuori. Una volta che l'impolitica vita naturale, divenuta fondamento della sovranità, varca le mura dell'oicos e penetra sempre più profondamente nella città, essa si trasforma nello stesso tempo in una linea in movimento che dev’essere incessantemente ridisegnata».[22]
4. Lo spazio costituzionale. Costruzione della persona e fede nel diritto. - Sottrarre l’esercizio della potestà regolativa dei corpi, così come concretizzatasi nel quadro delle attuali misure di salvaguardia contro l’emergenza COVID-19, allo spazio anomico dello stato di eccezione (in cui la ‘nuda vita’ si presenta del tutto indifesa, siccome al di fuori delle strutture formali del nomos), significa, in primo luogo, lasciar emergere i punti cardine del discorso costituzionale sul rapporto tra il potere e il corpo e, segnatamente, i documenti normativi in relazione ai quali il riconoscimento della dimensione del corpo vale a porsi nei termini di un momento essenziale e indissolubile nel processo di costruzione della persona.
Vale qui richiamare, più ancora delle norme che la Costituzione detta in materia di circolazione (dove limitazioni sono consentite, nei soli casi stabiliti in via generale dalla legge, per motivi di sanità o di sicurezza, e mai per ragioni politiche), il punto di non ritorno segnato dall’art. 32, là dove, anche nei casi in cui la stessa legge è autorizzata a disporre trattamenti sanitari in via obbligatoria a tutela della salute individuale o collettiva, si erge il limite, in nessun caso valicabile, del rispetto della persona umana.
Il rispetto della persona umana non può non rappresentare, per sua stessa natura, il confine estremo di ogni esercizio del potere in qualsivoglia situazione, pur definibile nei termini della ‘necessità’ o dell’‘eccezione’. Si tratta, come si è in precedenza avuto modo di segnalare, di un limite connaturato alle stesse radici che alimentano la sovranità nazionale e che si rinviene al fondamento degli stessi diritti inviolabili dell’uomo, quali veicoli essenziali del processo (dinamico) di realizzazione della persona (art. 2).
Interrogarsi sul limite (il rispetto della persona umana, appunto) entro il quale la mobilitazione giuridica dei corpi rischia di attivare il corto circuito che annulla lo spazio politico tra diritto e vita, significa risalire alle ragioni ultime che individuano nel corpo, e segnatamente nel corpo-in-relazione, il luogo primario di costruzione della persona.
Fuori da ogni più complessa implicazione d’indole filosofica o psicologica sul senso del ‘riconoscimento’ come momento costitutivo del soggetto e dell’autocoscienza, varrà più sobriamente fermarsi a leggere (vorrebbe dirsi fenomenologicamente) il dato dell’istintiva fuga dalla solitudine che pure è possibile riscontrare negli esempi della cronaca dei giorni dell’isolamento.
Al di là dei casi di più marcata difficoltà nell’adesione psicologica o morale all’ottemperanza dei provvedimenti governativi (talora non privi di una qualche ingenua o, più spesso, condannabile incoscienza), colpisce con immediatezza la spontanea emersione del senso di comunità che si manifesta a distanza nell’organizzazione estemporanea di momenti di condivisione musicale o altrimenti simbolici (i c.d. flash-mob) esibiti attraverso le finestre, i terrazzi o i tetti condominiali.
Anche il massiccio ricorso alla rete sorprende per l’impressionante quantità delle connessioni, al punto (secondo quanto riportato dalle cronache dei quotidiani) da indurre gli esperti, o le imprese che gestiscono le infrastrutture, a porre sotto stretta osservazione l’andamento dei collegamenti e la sostenibilità tecnologica del sistema complessivo.
Si organizzano a distanza, oltre all’esecuzione di prestazioni di lavoro (secondo i moduli del c.d. smart working incoraggiato dagli stessi provvedimenti dell’autorità), riunioni, discussioni tematiche, giochi, lezioni scolastiche e universitarie, celebrazioni di riti religiosi, session musicali, spettacoli di intrattenimento, terapie psicologiche, perfino visioni cinematografiche, cene o aperitivi vissuti online: una forma di negazione dell’isolamento che suona come il segno inequivoco di un istintivo rifiuto.
Le stesse esperienze, apparentemente solitarie, della lettura o della visione televisiva, chiedono ancora d’essere decifrate nel segno della naturale propensione alla condivisione ideale e all’ascolto silenzioso.
La cifra antropologica dell’inquietante ‘presenza’ della solitudine nell’esperienza esistenziale[23] si arricchisce con profitto della testimonianza dell’arte (essa stessa forma par excellence della comunicazione), dove è appena il caso di rammentare (e in ciò s’insinua il valore universale della cultura come vettore di senso) i silenziosi ritmi del cinema di Michelangelo Antonioni o l’intera esperienza pittorica di Edward Hopper: un ricco patrimonio figurativo e simbolico di quel senso di angoscia, che, almeno in un evidente caso (Nighthawks, esposto all’Art Institute of Chicago), la critica artistica ha ricondotto al clima mortifero della guerra.
L’ombra di morte che la solitudine trascina con sé discende dalla sua capacità di offrirsi come il luogo dell’insensatezza, o, più ancora, come un ‘non-luogo’ dell’anima, allo stesso modo dei concretissimi ‘non-luoghi’ urbani mirabilmente descritti nei saggi di Marc Augé.[24]
Risuona, dalla mesta ricapitolazione dei punti di emersione esistenziale della solitudine, l’ammonimento di Jean-Paul Sartre sull’intrinseca ‘nullità’ dell’uomo privo di relazione, e s’intende il significato o la ragione dell’affermazione sartriana dell’uomo come il risultato che di quel nulla ‘hanno fatto gli altri’.
Si comprende il senso del principio che vuole l’esistenza (come luogo dell’interrelazione e, dunque, della costruzione del ‘senso’) come momento che ‘precede l’essenza’ umana. L’uomo è ‘mancanza d’essere’; il nulla (ossia l’essere umano, secondo la logica e il lessico sartriano) è chiamato a colmare il vuoto attraverso l’esistenza. L’esistenzialismo è un umanismo in chiave intersoggettiva, dove all’idea del progetto esistenziale corrisponde la costruzione comune del senso e della reciproca responsabilità, e in cui la distinta percezione della ‘nausea’[25] si addensa in un eccesso di insensatezza.
E’ un richiamo, quello all’esperienza esistenzialista francese (storicamente vicina ai tempi e all’ambiente culturale in cui andava preparandosi la redazione della nostra carta costituzionale), da ritenersi non casuale in periodo di epidemia, se ancora s’avvertono le sferzanti e dolorose pagine della Peste di Camus.
La cultura francese ancora ci regala, sul versante del carattere costitutivo ed essenziale del rapporto intersoggettivo, i richiami alla responsabilità del ‘Volto dell’Altro’ nel pensiero di Emmanuel Lévinas, la preziosa riflessione lacaniana sul linguaggio, e la splendida analisi del pensiero spinoziano di Gilles Deleuze.[26]
Anche una certa lettura dei classici della letteratura americana (ancora una volta auspice Deleuze) ci aiuta a intendere, attraverso l’incontro fatale con il Moby Dick di Melville, il senso delle progressive trasformazioni di Achab, della sua vita, del suo modo d’essere e di ‘cambiare divenendo’ (mercé il suo simbolico nemico), fino al limite estremo della disfatta.
Costringere una collettività entro i limiti angusti di un domicilio coatto, ancora non sembra giungere al punto di ferire in modo irrispettoso il senso della persona umana, se in quella costrizione è dato ravvisare l’unico ed estremo rimedio di salvezza della salute e della vita di ciascuno.
Varrà piuttosto intendersi sui modi e le forme esecutive di una simile scelta biopolitica, se è vero – come pure occorre ritenere – che in ogni evenienza della vita converrà tenersi distanti dalla grossolanità delle semplificazioni e imparare ad articolare, o sapersi lasciar educare dalla complessità delle cose.
Raggiungere il ‘senso’ della persona umana all’interno della sua clausura fisica, potrà allora – per un potere che sappia (o voglia) innalzarsi all’altezza delle regole e dei valori che danno significato alla vita comune – tradursi in una rassegna di criteri regolativi: non tradire, nell’esercizio delle prerogative di potere, le forme che ne scandiscono limiti e competenze; contenere nel tempo, con scrupoloso rigore, ogni misura limitativa in rapporto alle esigenze effettive di protezione; selezionare con ragionevolezza le cause di giustificazione delle deroghe al divieto di circolazione; rifuggire da ogni pregiudiziale selezione ‘per categorie’ (come l’età, il sesso, la provenienza, etc.) le persone ammesse alle cure e quelle da abbandonare alla deriva della sofferenza e della morte; assicurare o agevolare il ricorso massivo agli strumenti alternativi che consentono la comunicazione a distanza (computers o devices connettibili; l’accesso libero alla rete; un flusso continuo e sicuro di collegamenti; etc.); potenziare i modelli organizzativi che consentono il pieno assetto della cooperazione lavorativa da remoto (smart working); disciplinare con intransigenza i divieti di controllo a distanza, non solo nel corso dell’attività lavorativa, ma nel quadro della stessa rilevabilità elettronica degli spostamenti nello spazio; misurare con costante attenzione e scrupolo il rispetto di tutte le norme sulla protezione dei dati personali; agevolare (anche attraverso la collaborazione di enti, istituzioni o imprese private) l’accesso alle fonti di informazione, di comunicazione riflessiva, alla stampa, alle biblioteche, alle cineteche, pubbliche e private.
Si tratta di una rassegna che non soffre di puntuali o conclusive definizioni, come non ne soffrono la latitudine e l’intensità dei percorsi e dei progetti realizzativi della persona, nel potenziale raccolto della profondità di senso della soggettività, della sua ricca, complessa e articolata teatralità, che proprio la dimensione simbolica della regola e del diritto accoglie e fa propria.
La fedeltà alle regole, fino a quelle minime o essenziali che trattengono ogni potere dalla perdizione o dalla follia della sua ybris, torna a proporsi, in ogni circostanza, come l’esortazione che il giurista è chiamato a riproporre, in ogni tempo, da quello dei giorni più luminosi, a quello della pena e del ripiego.
In un saggio che ha accompagnato la pubblicazione del libro sulla ‘certezza del diritto’ di Lopez de Oñate, Piero Calamandrei ammoniva sulla necessità di rendersi consapevoli che «il diritto è perpetuamente in pericolo».[27]
Questo passaggio è stato ricordato (da Guido Alpa) nella presentazione della pubblicazione di una conferenza tenuta dallo stesso Calamandrei nel 1940 nella sede della Fuci: una pubblicazione arricchita, oltre a quello di Guido Alpa, dai saggi di presentazione di Gustavo Zagrebelsky e di Pietro Rescigno.[28]
Il testo della conferenza, intitolata alla ‘fede nel diritto’, valeva, allora, come un monito contro la creazione libera del diritto fuori dal perimetro costituito dal sistema positivo.
La fede dell’intellettuale liberale nel diritto positivo si poneva, in quegli anni, in ultima analisi, come la disperata difesa contro l’arbitrarietà del potere, che appariva, a quel tempo, più facilmente predicabile in relazione all’attività dei giudici e dei funzionari, che alla volontà del legislatore.
Se è doveroso trarre un insegnamento dai fatti del passato, tocca dunque al nostro impegno di contemporanei, e alla nostra responsabilità di interpreti, lavorare affinché quella “fede nel diritto” possa senza riserve tradursi (non certo in una del tutto inappropriata fede nel giudice, bensì) in una sincera ‘fede nell’uomo’ e nella sua capacità di interrogarsi con intelligenza sulle più profonde ragioni della vita vissuta in comune e sul valore dell’accoglienza dell’altro.
Si tratta di un appello che è anche un invito a considerare, di quel diritto “perpetuamente in pericolo”, la natura e la vocazione autentiche di un’arte dell’incontro.
Converrà dunque tornare, a conclusione del lungo discorso sui tempi della clausura, a raccomandare, nel conflitto apparentemente insolubile tra principi e valori, la pratica della saggezza e del compromesso, come insegnamento e lezione superstite della storia: un grano di significato da destinare al futuro, individuale e collettivo, nel segno dell’antico verso di Hölderlin, per cui “lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
[1] Paolo, 2 Cor. XI, 26. L’estratto della seconda lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso compare in esergo all’introduzione del volume Persona e comunità (Cedam - Padova, 1987, rist., [ma Il Mulino - Bologna, 1966]) di Pietro Rescigno.
[2] Le misure legislative per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 sono contenute, principalmente, nel decreto-legge del 23 febbraio 2020, n. 6, nel successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020 e nell’ordinanza della Protezione civile del 9 marzo 2020.
[3] E. Canetti, Massa e potere, Adelphi - Milano, 1960.
[4] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi – Torino, 2002.
[5] Ai temi dell’immunità e del privilegio in chiave giusprivatistica è dedicato il saggio di P. Rescigno, Immunità e privilegio, in Riv. dir. civ., 1961; ricompreso nel volume Persona e comunità richiamato all’esordio del presente saggio.
[6] Sull’infondatezza del diritto (o della legge), sui suoi tratti essenzialmente violenti e sul ‘fondamento mistico’ dell’autorità, si soffermano gli Essai di M. De Montaigne (Essais, libro III, cap. XIII, De l’expérience; trad. it. Saggi, Milano - Adelphi, 1992, vol. II, pp. 1433 s.) più di recente ripresi da J. Derrida (Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità» Bollati Boringhieri - Torino, 2003, pp. 60 ss.).
[7] «Giustizia, forza. – E’ giusto che ciò che è giusto sia seguìto, ed è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto».
[8] J. Derrida, Diritto alla giustizia, in Annuario filosofico europeo. Diritto, giustizia e interpretazione, Laterza - Roma-Bari, 1998, p. 12.
[9] C. Schmitt, Politische Theologie, München, 1922, p. 13.
[10] G. Agamben, Stato di eccezione, Einaudi - Torino, 2003, p. 48.
[11] G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 49.
[12] Op. ult. cit., p. 52
[13] Il iustitium era un istituto del diritto romano in forza del quale, in caso di diffusione di notizie relative ad una situazione idonea a porre in pericolo la stabilità della Repubblica, il Senato era ‘autorizzato’ ad emettere il c.d. senatus consultum ultimum col quale chiedeva ai consoli (o a coloro che ne facevano le veci a Roma, interrex o proconsoli) e, in alcuni casi anche ai pretori e ai tribuni della plebe, e, al limite, ad ogni cittadino, di prendere qualsiasi misura che si ritenesse necessaria per la salvezza dello Stato. «Questo senatoconsulto aveva alla sua base un decreto che dichiarava il tumultus (cioè la situazione di emergenza conseguente in Roma a una guerra esterna, a un’insurrezione o a una guerra civile) e dava luogo di solito alla proclamazione di un iustitium» (G. Agamben, op. cit., p. 55)
[14] Op. ult. cit., p. 95.
[15] G. Agamben, op. cit., p. 103.
L’interesse degli studiosi moderni per la dottrina dello stato di eccezione, e per la connessa nozione dell’auctoritas, non tarda a manifestarsi, là dove occorra fornire immediate patenti di legittimità a figure in cui ‘immanente’ deve apparire la relazione tra il ‘diritto’ e la ‘vita’. Nel 1933, «in un breve articolo che cerca di delineare i concetti fondamentali del nazionalsocialismo, Schmitt definisce il principio della Führung attraverso “l’identità di stirpe fra capo e seguito”. […] Nel 1938 viene pubblicato il libro del giurista berlinese Heinrich Triepel Die Hegemonie, che Schmitt si affretta a recensire. Nella prima sezione, il libro espone una teoria del Führertum come autorità fondata non su un ordinamento preesistente, ma su un carisma personale. Il Führer è definito attraverso categorie psicologiche (volontà energica, cosciente e creatrice) e la sua unità col gruppo sociale e il carattere originario e personale del suo potere sono fortemente sottolineati. Ancora nel 1947, l’anziano romanista Pietro De Francisci pubblica Arcana imperii, che dedica ampio spazio all’analisi del “tipo primario” di potere che egli, cercando con una sorta di eufemismo di prendere le distanze dal fascismo, definisce ductus (e ductor il capo in cui s’incarna). De Francisci trasforma la tripartizione weberiana del potere (tradizionale, legale, carismatico) in una dicotomia, calcata sull’opposizione autorità/potestà. L’autorità del ductor o del Führer non può mai essere derivata, ma è sempre originaria e scaturisce dalla sua persona; essa, inoltre, non è, nella sua essenza, coercitiva, ma si fonda, come già Triepel aveva mostrato, sul consenso e sul libero riconoscimento di una “superiorità di valore”. «Né Triepel né De Francisci, che pure avevano sotto gli occhi le tecniche di governo naziste e fasciste, sembrano rendersi conto che l’apparenza di originarietà del potere che essi descrivono deriva dalla sospensione o dalla neutralizzazione dell’ordine giuridico - cioè, in ultima istanza, dallo stato di eccezione. Il «carisma» - come il suo riferimento (in Weber perfettamente consapevole) alla charis paolina avrebbe potuto suggerire - coincide con la neutralizzazione della legge e non con una figura più originaria del potere. «In ogni caso, ciò che i tre autori sembrano dare per scontato è che il potere autoritario-carismatico scaturisce quasi magicamente dalla persona stessa del Führer. La pretesa del diritto di coincidere in un punto eminente con la vita non poteva essere affermata con più forza. In questo senso la dottrina dell’auctoritas convergeva almeno in parte con la tradizione del pensiero giuridico che vedeva il diritto come, in ultima analisi, identico alla vita o immediatamente articolato ad essa. Al motto di Savigny (“Il diritto non è che la vita considerata da un punto di vista particolare”) faceva riscontro nel Novecento la tesi di Rudolph Smend secondo cui “la norma riceve il suo fondamento di validità [ Geltungsgrund ], la sua specifica qualità e il senso della sua validità dalla vita e dal senso che ad essa è attribuito, come, all’inverso, la vita deve essere compresa solo a partire dal suo senso vitale [ Lebensinn ] normato e assegnato” (Smend, 1954, p. 300)» (G. Agamben, op. cit., pp. 107 ss.).
[16] Sia consentito il richiamo alle più distese riflessioni svolte in M. Dell’Utri, Diritto, politica e cultura, Roma – Aracne, 2012.
[17] Cfr. G. Agamben, op. cit., pp. 109-113.
[18] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino – Einaudi, 2005, p. 138
[19] La boutade di Burke, secondo cui ai diritti inalienabili dell'uomo egli preferiva di gran lunga i suoi «diritti di inglese» (Rights of an Englishman), acquista, in questa prospettiva una insospettata profondità (G. Agamben, Homo sacer, cit p. 140).
[20] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 140.
[21] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 141-143.
[22] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 144-145.
[23] Dove nel paradossale e contraddittorio confronto con il ‘timore d’essere toccati’ rilevato da E. Canetti (v. supra) trova riscontro il rilievo kantiano dell’‘insocievole socievolezza dell’uomo’.
[24] M. Augé, Nonluoghi, Elèuthera – Milano, 1993.
[25] Da cui il nome del capolavoro letterario del 1938 di J.-P. Sartre, La nausea (ora in Torino – Einaudi, 2014).
[26] Nella raccolta di lezioni contenute in G. Deleuze, Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Ombre Corte – Verona, 2010.
[27] P. Calamandrei, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto, Milano, 1968, pp. 169 ss. (v., in partic., p. 190).
[28] P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, 2008.
Viaggio in Cina
di Giovanni Tamburino
Sono reduce da un viaggio in Cina (con rientro anteriore all’epidemia) e vorrei porre in comune, per il poco che può valere la conoscenza, alcune rapide considerazioni.
Il testo non contiene citazioni di articoli di legge né riferimenti dottrinali. Non escludo, tuttavia, che possa avere qualche utilità come stimolo ad alcune riflessioni in tema di sistema e, perché no? autocritiche in noi, magistrati, ex-magistrati e giuristi.
Tre premesse. Primo: resta estranea qualunque considerazione politica. Nessuna delle opinioni che seguono implica un giudizio nemmeno implicito di approvazione o disapprovazione del regime cinese. Questa dimensione, pur rilevante, resta fuori da un discorso finalizzato a tutt’altro. Seconda premessa: la Cina ha circa 1/5 della popolazione mondiale in un territorio grande tre volte l’India (quest’ultima, com’è noto, è da sola un sub-continente). Parlarne come di un’unica cosa è assurdo. La Cina è un mondo di mille realtà diverse. Qui esprimo opinioni tratte dall’incontro durato poco più di due settimane con alcune città, seppur grandi e importanti, tra cui Pechino, Wuhan, Xi’An, Chengdu. Ultima premessa: del molto che ho visto utilizzo ciò che può avere interesse rispetto al dramma che stiamo vivendo in Italia e che la Cina, dove il dramma è iniziato alla fine dello scorso anno, sta superando.
Nell’ambito dell’interesse di cui ho detto cinque aspetti mi sono sembrati significativi.
1. - Una tecnologia informatica avanzatissima. Dai ragazzi agli anziani non ho incontrato persona incapace di utilizzare con assoluta normalità gli strumenti anche più sofisticati. Il più comune è ovviamente il telefonino. Lo smartphone è non solo mezzo di comunicazione continuamente attivo, ma è carta d’identità, certificato anagrafico e di residenza, tessera sanitaria, strumento di localizzazione, mezzo di trasferimento di denaro (basta l’account telefonico senza passare da una banca) e mezzo principale di pagamento: dal biglietto dell’autobus al ristorante tutto si paga con lo smartphone tanto che è comune uscir di casa senza denaro in tasca. Apro una parentesi, per segnalare l’importanza dello scambio economico che non richiede la mediazione del denaro, essendo sufficiente il “colloquio” tra smartphone collegati tramite un unico semplice applicativo (WeChat). Oggi, in piena emergenza epidemica, costretti a casa facciamo spesso acquisti essenziali via telefono e facendoci recapitare la spesa. Tuttavia, siamo costretti a recarci periodicamente in banca o a uno sportello bancomat per prelevare il contante. In tal modo moltiplichiamo il rischio di diffusione del contagio o di essere noi stessi contagiati. Inoltre, quando paghiamo, consegniamo a chi recapita la spesa banconote che possono essere veicolo di contagio. A sua volta colui che riceve il denaro ci dà un resto che prendiamo con le mani moltiplicando ancora una volta i rischi. Tutto ciò viene eliminato in radice con il pagamento con lo smartphone utilizzato pressoché universalmente in Cina. Lo scambio delle comunicazioni è d’altronde assai rapido. Una stessa app ti dice dove sei, dove si trova un negozio, qual è l’orario di apertura, come arrivarci e quanto impiegherai, quali merci troverai oltre ad altre comunicazioni che vanno dal tempo atmosferico alle news. Infine, appositi codici sul display consentono l’accesso automatico a musei, mezzi di trasporto, luoghi pubblici senza transitare dalle casse o far la fila. Quando arrivi alla stazione ferroviaria o in un ufficio gli addetti ti riconoscono e ciò può ridurre o azzerare le code. Vi è un interscambio pervasivo di informazioni il cui risultato è il seguente: città con decine di milioni di abitanti mostrano una scorrevolezza e un ordine a tutta prima sorprendenti. Beninteso è questa una condizione essenziale alla sopravvivenza di immense metropoli che da sole hanno la popolazione di un terzo dell’Italia. Tale condizione può ovviamente evocare l’idea del grande fratello. Ho detto che prescindo qui da giudizi di valore.
2. – La tecnologia non passa solo attraverso i telefonini, che ne sono evidentemente il livello micro. Le strade sono ricche di cartelli le cui scritte continuamente aggiornate indicano che cosa si può fare o non fare e ciò che può essere utile alla popolazione, dalle indicazioni sul traffico a segnalazioni di emergenze varie, consigli o richiami. Ho notato una cura quasi maniacale del verde e della pulizia dei parchi, delle strade e dei luoghi pubblici. Ho trovato musei affollati di giovani, famiglie (in generale di tre persone, ma anche con due figli e spesso con gli anziani genitori o nonni, che rimangono molto rispettati) e comitive che destinano il giorno di riposo alla visita dei musei, ricchi e interessanti. Nei grandi parchi ho assistito a semplici intrattenimenti creati dalla folla, come la danza o balli spontanei e la musica in un clima di spensieratezza e allegria che mi ha ricordato alcuni aspetti dell’Italia degli anni ‘60.
3. – Tornando al piano tecnologico, ho notato l’ampia diffusione delle lezioni universitarie a distanza grazie a collegamenti video sia nelle aule attrezzate, sia nei computer dei singoli studenti. Anche in questo caso il funzionamento degli apparati di trasmissione è per lo più ottimo.
4. – La presenza della polizia e delle forze militari è contenuta, salvo talune aree. L’ordine pubblico sembra fondarsi sul sistema di comunicazione continua e di conoscenza capillare garantito da canali informatici evoluti. Quando arrivi in Cina sei fotografato e la foto, scannerizzata, entra nel sistema per essere riverificata a ogni passaggio, da città a città, sia che viaggi in auto, in treno o in autobus. Nulla di invasivo, beninteso: tutto avviene in modo fluido, automatico, efficiente, quasi senza che te ne accorga. Ma ogni movimento all’occorrenza è seguito e registrato. Il sistema è stato fondamentale sia in Cina sia nella Corea del Sud per affrontare l’emergenza virus consentendo di monitorare qualunque spostamento delle persone in quarantena o comunque confinate in casa. Ed è ovviamente efficace nella prevenzione generale. Città enormi, rispetto alle quali Roma o Milano sono meno di quartieri, risultano leggibili secondo una organizzazione sicura. Si esce notte e giorno con una sensazione di tranquillità da noi dimenticata. A ciò probabilmente contribuisce la circolazione di contante ridotta al minimo.
5. – Le grandi città, da oltre 10 milioni di abitanti a oltre 20 milioni, hanno chilometri coperti da teorie di grattacieli ognuno dei quali ospita tanti abitanti quanto un nostro piccolo paese. Anche in questo caso l’esistenza di sistemi informatici avanzati consente la gestione di queste unità abitative e le collega alle strutture amministrative municipali e, a un secondo livello, alle centrali. In ogni grande caseggiato esiste, di regola, un rappresentante politico che funge da tramite: un tramite certamente informativo, ma anche di segnalazione delle necessità dei residenti.
L’immagine che mi è rimasta è di una potenza proiettata verso il futuro con un’attitudine straordinaria all’utilizzo delle tecnologie avanzate già diffuse a ogni livello, dai bambini agli anziani, da chi vende per la strada piccoli oggetti all’albergo con migliaia di camere. Mi è sembrato che il balzo da una storia plurimillenaria, caratterizzata da aspetti medievali protrattisi fino a cent’anni fa, al presente segnato dall’Intelligenza artificiale e da sofisticati sistemi di connessione-comunicazione-elaborazione, sia stato compiuto con la convinta partecipazione della popolazione, specie giovane, consapevole e fiera, per ciò che ho potuto percepire, dell’età di straordinaria crescita che sta vivendo la Cina.
Non sarei sincero se chiudessi senza dire della sensazione di precipizio o di vuoto d’aria che mi ha colto al rientro in Italia nel contatto con le miserrime strutture e le boccheggianti amministrazioni (ben prima della maledizione del virus), in particolare del sistema giustizia (certo non il solo, né il peggiore) afflitto da grave arretratezza: un sistema in cui ancora non si è realizzato il processo per videoconferenza quanto meno per tutti i detenuti ([1]), non si sono attrezzate sufficienti ed efficienti postazioni per colloqui audiovisivi a distanza in tutte le carceri, non si è abbracciato con entusiasmo nemmeno il processo telematico. E’ di questi giorni la notizia che finanche sistemi pur modesti se non arcaici, come il SIUS ([2]), trovano difficoltà di funzionamento sui portatili dei magistrati. Tutto ciò è sconcertante e rinvia al ritardo, forse ormai incolmabile, dovuto all’immobilismo e all’arretratezza ai quali l’Italia si è condannata per mantenere posizioni di comodo, vecchie abitudini mentali, ossequio a regole concepite per un mondo che non esiste più. Si sono così paralizzate per decenni la semplificazione e l’efficienza, utili entrambe anzitutto ai cittadini con maggiori difficoltà: anziani e giovani, malati, disoccupati, poveri.
Il breve confronto con la Cina, in particolare con la città di Wuhan subito prima dell’epidemia, ha reso facilmente prevedibile la risposta che sarebbe stata data al flagello del virus. La capacità di strutture pubbliche che controllano il sistema e l’efficienza della strumentazione informatica hanno consentito, certamente aiutate dall’attitudine degli abitanti alla disciplina e al rigore, di affrontare un’emergenza che in Italia ha fatto, mentre scrivo, più vittime dell’intera Cina. Dio non voglia che ne causi ancora se proseguirà una gestione improvvisata e caotica di quella che dovrebbe essere considerata a ogni effetto una terribile guerra.
[1] Un opportuno ampliamento dell’utilizzo del processo a distanza nei confronti dei detenuti è stato adottato con le disposizioni dell’art. 2, comma 7, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, e, poi, dell’art.83, comma 12, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Purtroppo si è ancora una volta agito nella emergenza di un’epidemia già dilagata, anziché affrontare un problema che già da anni era maturo ed era stato evidenziato. Richiamo anche l’eccellente proposta di Ignazio Pardo “Processo telematico e sistema delle impugnazioni penali” (in questa Rivista, 23 marzo 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/938-processo-telematico-e-sistema-delle-impugnazioni-penali-di-ignazio-pardo) dirette alla accelerazione delle impugnazioni penali. Si tratta, scrive Pardo, di “semplice prassi del tutto idonea a sgravare le cancelleria da oneri e compiti e che, una volta standardizzata alla ripresa ordinaria delle attività, si profila utile ad alleggerire il lavoro delle stesse strutture amministrative, ad oggi gravate dalla predisposizione di numerose copie dei c.d. fascicoletti, idonea ad abbattere l'utilizzo massiccio di carta negli uffici giudiziari, idonea ancora a ridurre i costi di spedizione”.
[2] Una surreale discussione viene attestata in questi giorni (19/20 marzo 2020) dalla mailing-list dei magistrati di sorveglianza che vivono il dramma della “prima linea” e stentano a ottenere risposte adeguate circa la possibilità di lavorare da casa servendosi del sistema SIUS. Lascia sgomenti la lettura delle mail che si sono susseguite e ancora si susseguono a dimostrazione del fatto che il problema non è risolto. E’ impossibile non pensare a un ritardo di anni che pesa come un macigno sul sistema giustizia.
Privacy e lavoro nello scenario dell’emergenza da Covid-19
di Caterina Del Federico*
Sommario: Introduzione. 1. Le previsioni del DL 9 marzo 2020 in materia di trattamento dei dati personali. 2. Lo specifico profilo del trattamento dei dati personali dei lavoratori: il Protocollo condiviso e la conformità al Comunicato del Garante. 3. La dichiarazione dello European Data Protection Board. Conclusioni.
Introduzione
Lo stato di emergenza causato dal virus Covid-19, non solo in Italia e in Europa, ma nel Mondo, farà rilevare lacune esistenti in ogni ambito della società: nella politica, nell’economia, nella tecnologia, sicuramente anche nella legislazione.
Nell’odierno scenario emergenziale non si sta perdendo occasione per mettere la privacy - argomento di grande successo negli ultimi anni - al centro del dibattito. Ciò con riferimento ai più svariati aspetti: alle tecnologie utilizzate per tracciare gli spostamenti dei cittadini[2], all’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale quale strumento di ausilio al contrasto del virus[3], ancora, con riferimento al trattamento dei dati personali dei lavoratori[4].
Si cerca di testare l’adeguatezza del tessuto normativo italiano con riguardo a tale ultimo aspetto. Va sottolineato che il trattamento dei dati personali riguardanti informazioni legate al Covid-19 non ha ad oggetto “semplici” dati personali, ma dati “sensibili” in quanto riguardanti la salute dei cittadini, che rientrano nell’ambito dell’art 9 GDPR, rubricato “Categorie particolari di dati”[5].
1. Le previsioni del DL 9 marzo 2020 in materia di trattamento dei dati personali
Sul tema va senza dubbio richiamato il Decreto Legge n. 14 del 9 marzo 2020[6], che dedica l’art. 14, rubricato “Disposizioni sul trattamento dei dati personali nel contesto emergenziale”, a questo specifico profilo.
Nel DL è consentito chiaramente il trattamento dei dati personali, anche ove rientrassero nelle categorie particolari di dati ex art. 9 del GDPR, da parte dei soggetti operanti nel Servizio nazionale di protezione civile e dei “soggetti attuatori” del servizio stesso, degli Uffici del Ministero della salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, delle strutture pubbliche e private che operano nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e dei soggetti deputati a monitorare e a garantire le misure adottate. La comunicazione dei dati tra questi soggetti è permessa “per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica e, in particolare, per garantire la protezione dell’emergenza sanitaria a carattere transfrontaliero determinata dalla diffusione del Covid-19 […]”. Mentre, la comunicazione dei dati a soggetti pubblici e privati diversi da quelli appena nominati, nonché la diffusione di dati non rientranti nelle categorie di cui agli artt. 9 e 10 del GDPR, è consentita dal Decreto solo “[…] nei casi in cui risulti indispensabile ai fini dello svolgimento delle attività connesse alla gestione dell’emergenza sanitaria in atto”.
L’art. 14 del Decreto prevede, altresì, che tali dati vengano trattati nel rispetto dei principi base previsti all’art. 5 del GDPR. Pertanto, le misure devono rispettare il criterio di proporzionalità in relazione alla necessità rispetto alla situazione emergenziale in corso.
È interessante notare che l’ultimo comma del Decreto prevede che al termine dello stato di emergenza “i soggetti di cui al comma 1 debbano adottare misure idonee al fine di ricondurre i trattamenti di dati personali, effettuati nel contesto dell’emergenza, all’ambito delle ordinarie competenze e delle regole che disciplinano i trattamenti dei dati personali”[7]. Le deroghe, dunque, hanno durata limitata all’emergenza.
Per quanto ad un primo sguardo sembrano emergere alcune discrepanze, si comprende come le deroghe siano state adottate in relazione alla situazione emergenziale in atto e, chiaramente, ogni Stato membro sta applicando le misure che ritiene più “consone” per il contrasto al Covid-19, ognuno con le proprie peculiarità.
2. Lo specifico problema del trattamento dei dati personali dei lavoratori: il Protocollo condiviso e la conformità al Comunicato del Garante
Con riguardo al trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, va evidenziata la delicatezza del tema: non solo si tratta di una categoria particolare di dati ai sensi dell’art. 9 del GDPR perché legati all’ambito del lavoro, ma tali dati, considerati in relazione al virus Covid-19, riguardano la salute e quindi rientrano nel novero dei casi previsti all’art. 9 cit. anche in quanto ‘dati sensibili’. Ciò sembra quasi invocare l’esigenza di un doppio grado di tutela.
Su invito del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri competenti, il 14 marzo è stato sottoscritto il Protocollo condiviso di regolazione delle misure e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Il Protocollo nasce in attuazione della misura, contenuta all’art. 1, comma 1, n. 9, del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell’11 marzo 2020, che, in relazione alle attività professionali e alle attività produttive, raccomanda intese tra organizzazioni datoriali e sindacati.
Vi sono diversi riferimenti al diritto alla protezione dei dati personali nell’ambito dei rapporti di lavoro, un diritto fondamentale.
Il Protocollo prevede che al momento dell’accesso i lavoratori potranno essere sottoposti in tempo reale al controllo della temperatura corporea[8]. Come specificato in nota al Protocollo, “la rilevanza della temperatura corporea costituisce un trattamento di dati personali e, pertanto, deve avvenire ai sensi della disciplina privacy vigente”. Viene dunque suggerita la modalità con cui svolgere l’operazione: il dato va registrato solo se ciò risulti necessario a documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali.
Nel Protocollo viene altresì esplicitato di fornire l’informativa sul trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 13 del GDPR, precisando che la stessa può omettere le informazioni di cui l’interessato è già in possesso e può essere fornita anche oralmente, come prevede lo stesso GDPR all’art. 12, par. 1.
Quanto ai contenuti dell’informativa, il Protocollo specifica che con riferimento alla finalità del trattamento potrà essere indicata la prevenzione dal contagio da Covid-19 e che la base giuridica del trattamento sarà l’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM cit., nonché l’art. 9, lett. b) del GDPR.
Con riferimento alla durata dell’eventuale conservazione dei dati va fatto riferimento al termine dello stato d’emergenza; mentre nel definire le misure di sicurezza tecniche e organizzative, adeguate a proteggere i dati, il Protocollo non fa specificazioni e si considera richiamato l’art. 32 del GDPR.
In relazione ai tempi di conservazione dei dati, in conformità con l’art. 13, par. 2, lett. a) del GDPR, viene fatto esplicito riferimento al “termine dello stato di emergenza”[9]. A tal proposito, si ricorda che, nel rispetto del principio di finalità ex art. 5, par. 1, lett. b), del GDPR, i dati possono essere trattati esclusivamente per prevenzione dal contagio da Covid-19 e non devono essere diffusi o comunicati a terzi al di fuori delle specifiche previsioni normative.
Su questo profilo non ci si può esimere dal richiamare il Considerando n. 46 del GDPR: “Alcuni tipi di trattamento dei dati personali possono rispondere sia a rilevanti motivi di interesse pubblico sia agli interessi vitali dell’interessato, per esempio se il trattamento è necessario a fini umanitari, tra l’altro per tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione o in casi di emergenze umanitarie, in particolare in casi di catastrofi di origine naturale o umana”.
Ebbene, risulta piuttosto chiaro che il trattamento dei dati personali per la finalità sopra evidenziata rappresenta un’esplicita deroga al divieto di trattare le categorie particolari di dati, ex art. 9, par. 1, del GDPR, riconducibile all’ipotesi prevista al par. 2, lett. b) dello stesso articolo.
Tale ultimo disposto normativo prevede che non si applicano le limitazioni di cui al par. 1 se “il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi e esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza e protezione sociale”. Ciò, nella misura in cui “sia autorizzato dal diritto dell’UE o degli Stati Membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati Membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”.
Alla nota 2 del Protocollo, ancora, si specifica che qualora si richieda il rilascio di una dichiarazione attestante la non provenienza dalle zone a rischio epidemologico e l’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati positivi al Covid-19, va prestata attenzione alla disciplina sul trattamento dei dati personali, poiché l’acquisizione della dichiarazione costituisce un trattamento di dati. A tal fine si applicano tutte le indicazioni sopra riportate[10].
Si suggerisce, in ogni caso, di raccogliere solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19: il tutto nel rispetto dei principi base del GDPR.
Si torna, dunque, a ribadire quanto aveva già affermato il Garante per la protezione dei dati personali il 2 marzo ultimo scorso con un comunicato stampa in cui affermava il divieto per iniziative “fai da te” in relazione alla raccolta dei dati personali nell’emergenza Covid-19, richiamando il rispetto dei principi del GDPR e il carattere emergenziale del momento attuale[11].
3. La dichiarazione dello European Data Protection Board
Le attuali norme europee in tema di privacy e data protection, come è emerso, già consentono eccezioni in tema di sicurezza nazionale, salute pubblica inclusa. Si pensi, a titolo esemplificativo, al Considerando n. 16, agli artt. 6 e 9, al Considerando n. 46: le disposizioni consentono misure emergenziali.
I Governi, in base a tali norme sono autorizzati a prendere misure eccezionali che permettano alle autorità nazionali di avere accesso a dati sensibili come quelli inerenti alla salute.
È chiaro che tali misure debbano essere: necessarie, appropriate e proporzionate al contesto di una società democratica, limitate allo scopo e soprattutto provvisorie.
A confermare quanto detto è intervenuto il 16 marzo lo European Data Protection Board (EDPB)[12], dichiarando con chiarezza: “le norme sulla protezione dei dati (come il GDPR) non ostacolano le misure nazionali adottate nella lotta contro la pandemia di coronavirus”.
A titolo esemplificativo il GDPR, difatti, già prevedeva criteri giuridici che consentono ai datori di lavoro e alle autorità sanitarie competenti di trattare i dati personali nel contesto di epidemie, senza la necessità di ottenere il consenso dell’interessato.
Il documento richiama altresì l’art. 15 dell’e-privacy Directive[13], che permette agli Stati membri di introdurre misure legislative che limitano i diritti e gli obblighi di cui agli artt. 5 e 6 della stessa[14], se volte a garantire la salvaguardia della difesa, della sicurezza nazionale e di quella pubblica. Ebbene, certamente la tutela della salute pubblica rientra nell’accezione di sicurezza nazionale e, o, di pubblica sicurezza.
Conclusioni
Ci si trova in uno stato di “economia emergenziale”, come affermato più volte dal nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Ciò che rileva è che la legislazione di emergenza vada attuata a condizione che costituisca una misura necessaria, appropriata e proporzionata, anche nel tempo, all’interno di una società democratica.
Deve essere chiaro che una lotta efficace alla pandemia attuale non richiede alcun definitivo sacrificio in termini di protezione della privacy e dei dati personali. Tale sacrificio, difatti, come hanno dichiarato le Autorità, è limitato alla durata dell’emergenza e non può essere in alcun modo abusato dallo Stato.
A corroborare quanto detto si richiamano, da ultimo, le parole del Presidente del Garante Antonello Soro in un’intervista con l’ANSA: “i diritti possono, in contesti emergenziali, subire limitazioni anche incisive, ma queste devono essere proporzionali alle esigenze specifiche e temporalmente limitate. La forza della democrazia è anche nella sua resilienza: nella sua capacità cioè di modulare le deroghe alle regole ordinarie, in ragione delle necessità, inscrivendole in un quadro di garanzie certe e senza cedere a improvvisazioni. Il limite dell'emergenza è insomma nel suo non essere autonoma fonte del diritto ma una circostanza che il diritto deve normare, pur con eccezioni e regole duttili, per distinguersi tanto dalla forza, quanto dall'arbitrio”[15].
Si tenga presente, in un simile scenario, che “il diritto alla salute, ormai unanimemente riconosciuto anche dal punto di vista sostanziale oltre che formale, è l’unico fondamentale, essendo evidente a chiunque che soltanto la sua tutela può consentire il godimento degli altri”[16].
In conclusione, si ritiene che non vi siano, al momento attuale, particolari problematiche nel rapporto tra privacy e Covid-2019. I dati normativi, i Protocolli e i Decreti di questi giorni sono chiari e solidi sul punto e non bisogna far altro che attenervisi per il tempo necessario e compatibilmente con i principi democratici.
[1] Si segnala che il presente contributo è stato pubblicato il giorno 19 marzo 2020 sulla rivista online Ius in Itinere.
[2] A titolo esemplificativo, è quanto accade oggi in Israele. Sul punto si v. l’articolo del Sole 24 ore, nella rubrica “tecnologia e privacy” e intitolato Dall’antiterrorismo al coronavirus: così un’azienda israeliana traccia l’epidemia. L’articolo è stato visionato al link https://www.ilsole24ore.com/art/dall-antiterrorismo-coronavirus-cosi-un-azienda-israeliana-traccia-l-epidemia-ADFT74D in data 18.3.2020.
[3] È quanto successo in Cina nel periodo emergenziale, in sui tra le tante misure adottate si pensi a quella secondo cui sul posto di lavoro i dipendenti possono essere sottoposti a particolari controlli e a test sanitari in qualsiasi momento, oppure gli può essere richiesto di consegnare un travel verification report ovvero un registro degli spostamenti recenti da richiedere direttamente alla propria compagnia telefonica, che lo ricaverà dai dati GPS e WiFi e lo invierà al cliente per la presentazione in azienda. Si v., tra i tanti, In Coronavirus Fight, China Gives Citizens a Color Code, With Red Flag, in New York Times, visionato al link https://www.nytimes.com/2020/03/01/business/china-coronavirus-surveillance.html in data 18.3.2020.
[4] Da ultimo si v. il Protocollo emanato il 14 marzo 2020.
[5] Sul punto si v. lo specifico contributo di A. Cataleta, Categorie particolari di dati: le regole generali e i trattamenti specifici, in G. Finocchiaro (a cura di) La protezione dei dati personali in Italia: Regolamento UE n. 679/2016 e d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, Zanichelli, 2019.
[6] Si tratta del d.l. n. 14 del 9 marzo 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e vigente al 10 marzo 2020, recante Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza Covid-19. Le sue disposizioni si applicano a soggetti pubblici e privati che operano nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), fino al 3 aprile 2020.
[7] In tal senso l’ultimo comma dell’art. 14 d.l. 9 marzo cit.
[8] Punto 2 del Protocollo, rubricato “Modalità di ingresso in azienda”.
[9] Si v. la nota 1, punto 3 del Protocollo.
[10] Si v. la nota 1 del Protocollo.
[11] Il Comunicato stampa è consultabile sul sito del Garante al seguente link: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9282117.
[12] Statement of the EDPB Chair on the processing of personal data in context of the COVD-19 outbreak, consultabile sul sito ufficiale dello European Data Protection Board al link https://edpb.europa.eu/news/news/2020/statement-edpb-chair-processing-personal-data-context-covid-19-outbreak_it.
[13] Il riferimento è alla Direttiva 2002/58/CE del 12 luglio 2002, il cui testo è disponibile sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee al seguente link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002L0058&from=EN.
[14] Rispettivamente rubricati “Riservatezza delle comunicazioni” e “Dati sul traffico”.
[15] La dichiarazione del Presidente del Garante è consultabile sul sito ufficiale al seguente link: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9292565.
[16] G. Villanacci, Il diritto alla salute e il principio di precauzione, al link: https://www.corriere.it/opinioni/20_marzo_17/diritto-salute-824fdea6-687c-11ea-9725-c592292e4a85.shtml, visitato in data 18.3.2020.
CEDU e cultura giuridica italiana
10) Cedu e processualpenalisti
Roberto Giovanni Conti intervista
Roberto E. Kostoris, ord. dir. proc. penale, Univ. Padova
Stefano Ruggeri, ord. di giustizia penale italiana, europea e comparata, Univ. Messina
1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le repliche. 5.Le conclusioni
1. Le domande.
1.Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro con particolare riguardo ai temi che ruotano attorno alle garanzie dell’imputato nel processo penale e, fra queste, al divieto di bis in idem?
2. Quali sono i principali nodi problematici sul tema dei rapporti fra le garanzie offerte dalla Carta UE dei diritti fondamentali e quelli derivanti dalla CEDU?
3. Quali sono i principi guida sul tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte edu in materia penale a livello interno e nei confronti di soggetti diversi da quelli che hanno agito a Strasburgo?
2. La scelta del tema.
R.G. Conti
Le garanzie processuali offerte all’indagato imputato rappresentano un ottimo banco di prova dello stato di salute della CEDU nel diritto vivente che la Corte edu produce.
A riflettere sul tema, gravido di punti problematici, Giustizia Insieme ha invitato di processualpenalisti di fama, Roberto E. Kostoris e Stefano Ruggeri.
3. Le risposte.
1.Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro con particolare riguardo ai temi che ruotano attorno alle garanzie dell’imputato nel processo penale e, fra queste, al divieto di bis in idem?
Roberto E. Kostoris
Sono molte le sfide che attendono la Corte edu, e sono soprattutto sfide che toccano una complessiva dimensione culturale.
E’ anzitutto una sfida culturale quella di riuscire a sviluppare un dialogo sempre più stretto e armonico con le altre Corti (Corte di giustizia, Corti costituzionali, giudici interni), nella prospettiva di sviluppare una comune cultura europea di tutela dei diritti umani. E’ una sfida culturale far penetrare questa cultura in tutti gli Stati aderenti alla Cedu, alcuni dei quali, non dimentichiamolo, si sono solo di recente affacciati alla democrazia, e dimostrano una certa refrattarietà verso i principi convenzionali, mentre altri vivono oggi involuzioni autoritarie (pensiamo alle condizioni in cui si trova la magistratura in Polonia, che, per la Corte edu impedirebbero addirittura l’applicazione delle regole dell’equo processo). In quest’ottica, è una sfida anche l’entrata in vigore del Protocollo 16 della Cedu, che consente ai giudici nazionali presentare un interpello preventivo alla Corte per ottenere da essa un advisory opinion non vincolante sull’interpretazione da dare a una norma Cedu rilevante per la decisione di un caso giudiziario pendente di fronte a loro: una risorsa preziosa che può evitare il successivo ricorso a Strasburgo, con risparmio di tempo ed energie, che può contribuire a deflazionare il carico della Corte e che può servire a diffondere ancor più una cultura europea delle garanzie, ma che alcuni vedono invece con sospetto, ritenendo che possa tradursi in un meccanismo di indebolimento della sovranità punitiva nazionale, esposta a intromissioni esterne mentre essa è ancora in funzione.
E soprattutto, sotto un profilo molto più generale, che coinvolge in modo diretto e profondo per primi noi italiani, è e continua ad essere una grande sfida culturale quella di innestare un’idea delle garanzie processuali, considerate nella loro dimensione concreta e fattuale, secondo un approccio tributario della logica di common law, di cui la Corte e la Cedu si fanno portatrici, in ordinamenti giuridici di civil law, come quelli dell’Europa continentale, strutturati in sistemi codificati retti da previsioni legislative astratte che hanno, invece, una visione formale delle garanzie. E’ questo un aspetto cruciale dell’incontro/scontro tra il diritto europeo e il diritto nazionale. Un incontro/scontro tra due visioni antitetiche del modo di concepire il diritto: quella ereditata dalla modernità giuridica, cioè dall’epoca delle codificazioni, che trova le sue ascendenze nel pensiero illuministico e che vede nel rispetto delle forme processuali che si inverano in ‘regole’ (le fattispecie normative) applicabili secondo la secca dicotomia della logica binaria (legittimo/illegittimo, valido/invalido) una garanzia dell’individuo contro l’arbitrio del giudice e quella, che potremmo definire pos-moderna, prepotentemente veicolata dal diritto europeo, che invece è governata da princìpi e si alimenta di una logica graduata (più adeguato, meno adeguato) nella prospettiva di non appagarsi di un astratto rispetto della norma, ma di porre in tensione quella norma con le peculiarità del caso. Entrambe queste concezioni presentano punti di forza e punti di debolezza: le garanzie codicistiche, oltre a tutelare, come si diceva, da una gestione arbitraria del potere repressivo, assicurano un maggiore rispetto della certezza del diritto, del principio di sottoposizione del giudice alla legge e del principio di uguaglianza, ma la loro rigidità non consente loro di adattarsi sempre alle peculiarità delle situazioni concrete sulle quali vanno ad incidere; caratteristiche simmetricamente opposte connotano invece le garanzie europee, la cui duttilità non può prescindere dall’ affidare ampi poteri creativi al giudice. La grossa sfida che resta aperta – e che, da questo punto di vista, coinvolge tutti gli attori attraverso il dialogo a cui prima facevo cenno – è dunque quella di riuscire a far convivere nel modo meno conflittuale e più produttivo queste due culture giuridiche e questi due differenti approcci applicativi, che, piaccia o no, sono e sempre più saranno destinati a intrecciarsi per effetto dell’osmosi sempre più forte tra diritto interno e diritto europeo (vorremmo precisarlo: non solo di quello di matrice convenzionale, ma anche di quello di matrice eurounitaria, che, da questo punto di vista, presenta caratteristiche morfologiche non molto dissimili).
A questa intrinseca difficoltà che caratterizza l’epoca di transizione giuridica in cui viviamo, si devono aggiungere almeno due considerazioni sulla tipologia delle garanzie Cedu che riguardano la posizione dell’imputato.
La prima è che si tratta comunque di garanzie “minime”.
E’ ovvio che non potrebbe essere diversamente per un sistema che si rivolge a una grande pluralità di ordinamenti giuridici diversi. Ma significa anche che quel dialogo e quel linguaggio comune in tema di garanzie europee di cui si auspica la diffusione, soprattutto attraverso lo strumento unificante dell’interpretazione convenzionalmente conforme, si potrà sviluppare solo con riferimento a quel plafond di base. Occorre allora essere consapevoli del fatto che, se la circolazione di una cultura delle garanzie convenzionali potrà portare certamente a un complessivo innalzamento degli standard medi di tutela sul continente europeo, con indubbi vantaggi per gli Stati che presentano ancora sistemi troppo carenti sul punto, gli ordinamenti che, come il nostro, conoscono invece garanzie di grado più elevato non avranno molto da guadagnare – e avranno invece forse qualcosa da perdere – in un ‘club’dove si comunica e si dialoga solo con riferimento a livelli minimali di garanzia. Nonostante la Cedu sia chiara nel far comunque salva l’applicazione delle tutele interne di grado più elevato (art.53), vi è il rischio che, a lungo andare, la circolazione dei modelli ‘deboli’ di garanzia possa portare anche al nostro stesso interno a una graduale svalutazione di quelli ‘forti’, che potrebbero essere vissuti come orpelli o come lussi eccessivi, in una paradossale convergenza di atteggiamento, sia dai detrattori della cultura europea delle garanzie, che propugnano nuove visioni della giustizia in chiave autoritaria, sia dai suoi sostenitori.
Si potrebbe dire allora che non è sempre tutt’oro quello che luccica nel cielo delle garanzie convenzionali.
A questa considerazione generale se ne lega un’altra che riguarda l’anatomia di una garanzia centrale nel sistema Cedu, come quella della fairness, cioè dall’equità processuale.
Per un verso, si tratta di un prezioso recupero per l’Europa continentale di un principio antico, passato dal mondo classico a quello medievale come strumento espressivo di un ordine giuridico valoriale, approdato poi, per il tramite dell’aequitas canonica, al diritto inglese (un passaggio cruciale che spesso si dimentica), divenuto lì un tratto caratteristico della common law e, infine, riapprodato nel continente europeo attraverso la Cedu in una declinazione specificamente processuale. Recupero prezioso perché l’equità processuale può rappresentare una“valvola respiratoria” del processo. Ma anche recupero problematico, perchè l’equità processuale rappresenta un parametro difficile da metabolizzare per noi giuristi di civil law, abituati a confrontarci con il quadro di garanzie formali a cui prima facevamo cenno, estremamente difficile da coordinare con un princìpio di questo genere. Anche perché la Corte edu rapporta la sua valutazione di equità a una specifica vicenda processuale, considerata nella sua concretezza, non prendendo in esame singoli atti processuali, secondo la logica frazionata che regola le nostre garanzie interne, ma l’intera vicenda considerata nel suo complesso, come un tutto unico (as a whole): in quest’ottica, la Corte valuta ai fini del giudizio di equità anche la presenza di eventuali “garanzie compensative” che abbiano potuto ‘controbilanciare’ la mancanza o la carenza di altre garanzie. Basta però questa semplice messa a fuoco per comprendere come un simile modus procedendi determini anche una completa relativizzazione del concetto stesso di equità. Un’impressione che si rafforza ancor più alla luce di certi disinvolti impieghi del concetto di garanzie compensative da parte della Corte edu, che ha ritenuto “compensate” garanzie processuali mancanti, per effetto della semplice applicazione di altre garanzie, comunque previste, con un chiaro saldo in passivo sul fronte delle tutele (Grande Camera, 13/9/2019, Ibrahim c. Regno Unito). Una logica riduttiva che trasforma quello che potrebbe presentarsi come un polmone respiratorio del sistema in una possibile causa di defict di garanzie. E una logica che sembra contagiare di recente anche la nostra Corte costituzionale (sent. 132/2019) quando, proprio prendendo spunto dalla giurisprudenza di Strasburgo, ha invitato il legislatore a introdurre eccezioni al principio della rinnovazione dell’escussione probatoria in dibattimento nel caso di sostituzione di un membro del collegio, prevedendo ‘meccanismi compensativi’, come la possibilità per il giudice (ma non il diritto per la difesa) di riconvocare il testimone davanti a sé per la richiesta di ulteriori chiarimenti.
Che non sia tutt’oro quello che luccica a Strasburgo possiamo constatarlo, infine, anche rispondendo all’ultima parte della domanda, dedicata al ne bis in idem convenzionale previsto dall’art.4 Prot. 7 Cedu.
Il problema su cui occorre focalizzarsi riguarda chiaramente la configurabilità di questa garanzia nei rapporti tra un procedimento penale e un procedimento amministrativo attivati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona.
Dopo aver giustamente applicato al tema il concetto sostanziale di “materia penale” e di “sanzione penale” che essa ha elaborato, la Corte edu aveva in un primo tempo (sent. 4/3/2014, Grande Stevens c. Italia) enunciato una tesi che valorizzava la garanzia del divieto di doppio processo, facendo scattare il ne bis in idem di fronte all’irrogazione in via definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale, per i suoi contenuti particolarmente afflittivi, da determinare secondo i c.d. criteri Engel. Era una tesi che non escludeva in sé la possibilità per gli Stati di adottare il c.d. sistema del doppio binario (prevedere per uno stesso comportamento una doppia risposta sanzionatoria amministrativa e penale) ma che indubbiamente ne limitava in parte la concreta operatività. L’intervento in un nuovo giudizio (Grande Camera, 15/11/2016 A e B contro Norvegia) di ben sei Stati vincolati dal Prot. 7, preoccupati di incontrare restrizioni nel gestire le loro doppie risposte sanzionatorie, aveva indotto la Corte a mutare orientamento, escludendo come si sa il ne bis in idem quando i due processi penale amministrativo presentino una “sufficiente connessione nella sostanza e nel tempo”. Parametro però molto vago, indefinito e sostanzialmente arbitrario – come rilevava anche il giudice Pinto de Albuquerque nella sua corposa opinione dissenziente – che indebolisce e limita fortemente la garanzia del ne bis in idem. Il criterio della sufficiente connessione temporale sembra oltretutto ben poco pertinente: il ne bis in idem scatterebbe solo a condizione che il secondo processo – di regola quello penale – si sia concluso a eccessiva distanza da quello amministrativo. Una circostanza che, da un punto di vista logico, nulla ha a che spartire con il divieto di un doppio giudizio, il quale dovrebbe operare indipendentemente da valutazioni temporali (ciò che conta, infatti, è solo non sanzionare due volte la stessa condotta). Il parametro cronologico sembra qui utilizzato quasi come uno strumento improprio per sanzionare invece l’eccessiva durata del processo penale. Il criterio del legame sostanziale, anche per come poi è stato inteso dalla nostra giurisprudenza, consisterebbe invece, oltre che nella prevedibilità ex ante dei due procedimenti, nella proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata rispetto ai fatti che intende punire. Un requisito, se si vuole, equitativo, ma del tutto indeterminato, e, pure esso, a ben vedere, estraneo al divieto di un doppio giudizio, per il quale conta che non venga applicata una doppia sanzione di carattere ‘penale’ e non venga svolto un doppio procedimento per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona. E’ evidente che, mentre nella Grande Stevens il focus cadeva sulla garanzia dell’imputato a non essere processato e sanzionato due volte per lo stesso fatto, in A e B contro Norvegia il focus cade invece sull’interesse/diritto dello Stato a irrogare la doppia sanzione, che viene qui restaurato e rinsaldato, ponendovi il solo limite della sproporzione globale della pena e dell’eccessivo distacco temporale tra i due procedimenti. E ciò proprio mentre la cugina Corte di giustizia (Grande sez., 26/2/2013, Fransson) manifestava un orientamento antitetico nel sancire l’illegittimità dell’inflizione di una sanzione penale per un fatto già colpito da una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale. Con buona pace di quell’aspirazione a una uniforme interpretazione delle garanzie fondamentali in ambito europeo a cui prima si faceva cenna.
La Corte europea ha ritenuto di giustificare del sistema del doppio binario sulla base di un fragile distinguo: mentre la sanzione amministrativa avrebbe una finalità deterrente, quella penale ne avrebbe invece una retributiva. Ciò però non corrisponde al vero, perché, a ben vedere, entrambe le sanzioni perseguono entrambe le finalità. Così stando le cose, se non si vuole eliminare del tutto il sistema del doppio binario (cosa che mai gli Stati saranno disposti a fare) il ne bis in idem in una sua accezione forte e decisa diventa la sola garanzia a disposizione per governare secondo giustizia il sistema.
Stefano Ruggeri
Si tratta di un interrogativo dalla portata pressoché abissale, il cui approfondimento richiede competenze ben superiori a quelle del solo studioso di giustizia penale, e certamente superiori alle mie personali conoscenze. Un primo piano d’indagine guarda all’immenso lavoro svolto dalla giurisprudenza di Strasburgo per rafforzare la tutela della persona accusata in materia penale, specie quando questa si trovi esposta a restrizioni di libertà fondamentali proprio per esser coinvolta in un’indagine penale, che di esse diviene spesso l’unica fonte di giustificazione. E penso alle difficilissime sfide che attendono la Corte europea con riferimento a nuove e particolarmente invasive forme d’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, e ancor più al diritto alla (tele)comunicazione, per non parlare di diritti di più recente conio, ormai peraltro ampiamente riconosciuti, quale il diritto alla riservatezza informatica. Diritti, questi, tutti oggi esposti a ‘interferenze’ (per usare un’espressione certo atecnica ma che rimanda alla pregnante nozione anglosassone di interference with fundamental rights) nel processo penale e per il fatto che un procedimento penale esista e sia portato avanti.
Ma una simile prospettiva rivela, se non vado errato, un secondo e ancor più fecondo livello di approfondimento, che rivela l’enorme potenziale del quesito posto. In effetti, proprio la giurisprudenza europea dell’ultimo quarto di secolo ha contribuito, forse come nessun altro organo giurisdizionale in Europa, a un radicale cambio di concezione del modo d’intendere il fair trial, quale risultante persino dallo statutory ECHR law. Una concezione, quella evolutasi nella giurisprudenza di Strasburgo, fondata su un approccio globale alla fairness processuale, che fa di una simile nozione un formidabile prisma per guardare non solo alle dinamiche relative ai rapporti tra le fasi e i gradi del medesimo procedimento ma anche e soprattutto ai complessi nessi relazionali che s’instaurano tra le situazioni soggettive concernenti tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale. Del resto, il confronto con le versioni linguistiche di altre Carte internazionali dei diritti evidenzia come l’international human rights law riconosca finanche alla persona accusata non tanto il diritto a un fair hearing, inteso quale diritto all’udienza e a un processo equo nei suoi confronti, quanto, e in maniera più significativa, il diritto a un procedimento complessivamente fair: il quale può considerarsi tale solo se è in grado di porsi quale luogo di bilanciamento degli interessi e diritti fondamentali – e con ciò autenticamente luogo di ascolto della voce – di tutte le persone in esso coinvolte. Se il processo penale può reputarsi, come efficacemente si sostiene, il barometro forse più eloquente del grado di civiltà di un popolo in un determinato contesto culturale ed epoca storica, la complessità dell’accertamento penale riflette oggi le nuove problematiche che la società moderna deve affrontare specie in un Paese, come il nostro, inserito in un’area fisiologicamente interculturale, quale quella dell’Unione: problematiche connesse precipuamente alla elevatissima mobilità delle persone e alla globalizzazione delle comunicazioni e delle attività economiche, facilitate dalla galoppante evoluzione della tecnologia e della scienza.
Ciò posto, l’esigenza di tutela delle garanzie dell’imputato nel procedimento penale si converte nel più generale problema della pozione di una parte all’interno di un fenomeno giuridico, qual è appunto il processo, che deve faticosamente cercare di preservare un equilibrio tra le situazioni giuridiche di tutti coloro che vi partecipino per scelta propria, o siano costretti a prendervi parte. Non c’è dubbio che l’accusato è, e continua ad essere, il primo a subire (per riprendere l’antica intuizione carneluttiana) la pena del processo, la sua forza sanzionatoria attuale: dalla quale deve quindi esser tutelato in relazione a tutte le misure e attività investigative che hanno un’immediata incidenza sui suoi diritti individuali. Ma non è il solo, anzi oggi la carica afflittiva del processo penale si manifesta in forma sempre più evidente e pervasiva nei confronti di una cerchia esponenzialmente crescente di destinatari. Basti pensare all’uso dei malwares per una serie di eterogenee attività investigative, che vengono ad oggi in larga misura ricondotte alla nebulosa e multiforme figura della perquisizione online; e oggi al delicatissimo tema delle intercettazioni mediante captatore informatico inoculato in un dispositivo mobile, che appunto per ciò riesce a captare un numero di conversazioni per definizione non preventivabile a priori. Eppure proprio la Corte europea – trattando delle condizioni qualitative che il fondamentale requisito della lawfulness deve rispettare anche e soprattutto nell’ambito delle intercettazioni di comunicazioni – ha rimarcato la necessità di definire la cerchia dei soggetti il cui diritto alla sfera privata può venir compromesso mediante tali attività d’indagine (Kruslin c. Francia).
Un’attenta analisi dell’evoluzione delle tecniche investigative, attraverso il prisma della giurisprudenza europea, potrebbe anzi portarci a riflettere sul senso della tradizionale distinzione tra parte e terzo in un contesto giuridico così complesso, come il processo penale, che mette oggi in crisi la linea di confine tra le due figure, quale risulta da altre esperienze processuali. Fino a quale soglia può oggi spingersi l’indagine penale nella sua capacità d’incidere su diritti individuali? Quali differenze possono apprezzarsi tra l’impatto che il procedimento penale ha sulla parte, e anzitutto sull’imputato, e la sua incidenza sul terzo? Proprio il crescente (in alcuni casi massivo) uso di nuovi mezzi d’indagine mette in luce forme sempre più invasive e occulte d’ingerenza su diritti individuali: forme che difficilmente inquadreremmo nelle classiche coazioni o restrizioni di diritti fondamentali (la dottrina tedesca parla di Grundrechtsseingriffe, esprimendo in modo altrettanto significativo il senso della interference with fundamental rights) e che, laddove dirette contro soggetti non gravati da alcun fumus delicti, risultano ancor più perniciose, e perciò bisognose di contenimento. Del resto, chi può oggi considerarsi autenticamente terzo in un sistema di giustizia penale così invasivo e pervasivo? Chi può ritenersi non partecipare alla sofferenza e ai rischi che l’accertamento penale comporta, pur non rivestendo la qualifica formale di parte e quand’anche non sia direttamente coinvolto da misure o attività processuali?
Anche in questo la giurisprudenza europea mi sembra possa insegnarci molto e molto possa ancora dire. Il pensiero corre all’attenta considerazione che la Corte di Strasburgo ha da decenni rivolto alla tutela del familiare (il next of kin) di particolari categorie di dichiaranti, quale ad esempio l’agente sottocopertura. Ed è significativo che proprio la necessità di ridurre i rischi di ripercussioni su diritti fondamentali di terzi abbiano condotto i giudici europei a ridefinire il volto di un diritto fondamentale ancora formalmente riconosciuto alla persona accusata in materia penale, quale il diritto al confronto tra accusato e accusatore. Dall’evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo emerge così il poderoso sforzo finalizzato alla ricostruzione di un diritto fondamentale, riconosciuto non solo dal diritto internazionale ma anche dal diritto costituzionale di vari Paesi (non a caso, oltre che in Italia, il right to confrontation è consacrato dal Sesto Emendamento della Costituzione statunitense), nell’ottica di una complessiva considerazione di tutti gli interessi in gioco, e in particolare dei beni primari che possono essere compromessi da una cross-examination dibattimentale. Emblematica la virata giurisprudenziale realizzatasi a partire dalla storica sentenza della Grande Camera nei casi riuniti Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito: una virata giunta a conclusione di un braccio di ferro con la Corte suprema britannica, la quale diede un contributo decisivo a un cambio giurisprudenziale che, comunque lo si voglia leggere, ha condotto a un’ulteriore e ancor più significativa valorizzazione della voce della vittima e di tutti quei soggetti portatori di conoscenze non replicabili a giudizio. È peraltro significativo notare che il filone giurisprudenziale che da quella sentenza prese avvio, e che avrebbe avuto un’incidenza enorme su diversi sistemi di giustizia penale (quale l’italiano, coi casi Ben Moumen e Cafagna), non ha però portato la Corte europea a rinnegare la sole and decisive evidence doctrine, eretta per anni e in una varietà di situazioni a baluardo della delicata decisione concernente la responsabilità penale dell’accusato. Ma il lavoro della giurisprudenza europea in un ambito così complesso è tutt’altro che concluso: e così, nonostante l’estensione della Al-Khawaja doctrine al non meno impervio terreno della testimonianza anonima e nonostante un nuovo intervento della Grande Camera (nella sentenza Schatschaschwili c. Germania), non mi sembra ci sia ancora sufficiente chiarezza su ciò che debba intendersi per quei meccanismi compensativi del deficit di contraddittorio (counterbalancing factors) che possono consentire un temperamento del divieto di uso escluso o prevalente della untested evidence e assicurare la parità di armi tra le parti processuali, preservando la complessiva equità del procedimento penale. Un parametro, quello dei meccanismi compensativi, che può portare (e in diversi casi mi sembra abbia chiaramente portato) a pericolosi fenomeni d’indebolimento della tutela di diritti fondamentali, specie in casi aventi dimensione transnazionale.
Del resto sfide non meno difficili – e anch’esse legate alla necessità di una considerazione complessiva delle singole vicende processuali alla luce di interessi di tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale – attendono la Corte europea pure con riguardo a un diritto fondamentale, quale quello espresso dal divieto di bis in idem, che pur sembrerebbe riflettere un’esigenza di tutela del solo accusato (significativamente nella sistematica del codice Rocco tale garanzia essenziale si trovava annoverata tra le previsioni concernenti l’imputato). Né l’esigenza di superare una visione accusato-centrica, per così dire, del diritto a non essere esposto a multiple persecuzioni penali risulta essere attenuata dalla concezione sostanzialistica di tale garanzia abbracciata dalla Corte europea: la quale concezione, pur con le aperture di recenti pronunce (da A e B c. Norvegia a Nodet c. Francia) mira ad assicurare un coordinamento delle risposte sanzionatorie provenienti da procedimenti di natura diversa, evitando così di far gravare sulla stessa persona una pluralità di soluzioni afflittive tra loro sconnesse ed eccessivamente onerose. In questo quadro – e al di là di tutte le perplessità che l’impostazione adottata da tale decisione solleva – un aspetto di grande importanza, che certo meriterà ulteriore approfondimento in futuri interventi giurisprudenziali, concerne la considerazione della capacità del procedimento non penale di tutelare adeguatamente e dar voce così a tutti quei soggetti coinvolti, i cui interessi e diritti fondamentali devono essere preservati in un processo penale che voglia dirsi autenticamente equo: a cominciare dalla persona offesa, sulla scia dell’attenzione rivolta anche dalla giurisprudenza di Lussemburgo alla vittima e al testimone proprio in alcune vicende giudiziarie riguardanti il ne bis in idem transnazionale (ad es., nella sentenza Kossowski). Forse la tesi della internationale Arbeitsteilung, elaborata dalla dottrina tedesca (Schomburg & Lagodny) per irrobustire la posizione della persona coinvolta nelle procedure di cooperazione giudiziaria internazionale, può fornire un interessante modello metodologico per una virtuosa divisione dei compiti e delle responsabilità tra le autorità competenti per procedimenti di natura diversa sulla eadem res, al fine di realizzare un coordinamento sempre orientato alla massima tutela di tutti coloro che a tali procedimenti sono chiamati a partecipare.
Roberto E. Kostoris
Come noto, la Cedu è più volte richiamata dal diritto dell’Unione europea.
Anzitutto attraverso la Carta dei diritti fondamentali (Carta di Nizza), che è fonte di diritto primario UE, l’Unione europea si è dotata di un testo dai contenuti pressoché equivalenti alla Cedu. Dal canto suo, l’art.6 TUE dispone che “i diritti fondamentali garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Da ciò si era tratta la conclusione che in tal modo la Cedu si fosse ‘comunitarizzata’: una conclusione tecnicamente errata, perché l’area applicativa sia dell’art.6, sia della Carta dei diritti fondamentali resta circoscritta al solo diritto dell’Unione. La Cedu come atto in sé, almeno fintanto che l’Unione non vi avrà aderito (se mai vi aderirà), non può dirsi conseguentemente ‘comunitarizzata’ e quindi non si vede attribuite le caratteristiche di primazia del diritto UE, tra le quali, in primis, l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare le norme interne incompatibili. Indubbiamente però i contenuti dei diritti Cedu rientrano nel diritto dell’Unione. Ciò significa che le stesse garanzie sono riconosciute da due sistemi giuridici diversi: il diritto Cedu e il diritto dell’Unione, per quanto più specificamente ci interssa per il tramite della Carta di Nizza e sono conseguentemente gestite da due diversi sistemi di tutela, quello che fa capo alla Corte edu e quello che fa capo alla Corte di giustizia.
Qui sta un primo nodo problematico. Queste due diverse Corti non solo impiegano strumenti e procedure differenti per assicurare il rispetto dei diritti umani, ma, prima ancora, hanno esse stesse funzioni e obiettivi diversi. La Corte edu è infatti una Corte dei diritti umani: la sua funzione è quella di verificare il loro rispetto effettivo da parte dei vari Stati parte nell’ambito dei rispettivi ordinamenti. Il suo controllo è dunque di tipo “esterno” e presenta una naturale vocazione accertativa, il chè ha favorito la tendenza al riscontro di un alto numero di violazioni convenzionali. La Corte di giustizia si presenta invece come una Corte di integrazione europea; per questo tende a proteggere le posizioni giuridiche non in quanto tali, ma in funzione della realizzazione degli obiettivi comunitari, come l’effettività, la primazia e l’autonomia dell’ordinamento comunitario. Il suo è un controllo “interno” al sistema, e, dunque, a vocazione più conservativa.
Questa doppia giurisdizione sui diritti Cedu ha inevitabilmente sviluppato diverse declinazioni interpretative di una stessa materia, funzionali a sistemi giuridici diversi, che ha generato anche problemi di interferenza tra le giurisdizioni delle due Corti. Questi ultimi hanno alla fine trovato una soluzione di componimento con la “dottrina Bosphorus” (C. edu 30/6/2005 Bosphorus c. Irlanda), dove la Corte edu, pur ritenendosi astrattamente competente a giudicare la violazione dei diritti umani anche in materie di diritto dell’Unione, ha elaborato la tesi c.d. dell’”equivalenza”, secondo la quale “se l’organizzazione internazionale accorda ai diritti fondamentali una protezione sostanziale e processuale almeno equivalente a quella offerta dalla Cedu, ciò la esime dall’esercitare il suo sindacato”, concludendo, su quella base, che il sistema eurounitario di protezione dei diritti umani garantisse complessivamente tale condizione: una presunzione determinata certo dalla scelta politica di non voler intralciare il percorso di integrazione europea, non abdicando, al contempo, alle proprie prerogative istituzionali, che apriva comunque la via a un rapporto di crescente dialogo e interazione tra le due Corti europee e gli auspici di un “interpretazione parallela” da parte delle stesse dei diritti Cedu e dei diritti “corrispondenti”contenuti nella Carta di Nizza.
Per quanto riguarda invece il problema di fondo rappresentato dalla diversità di contesti in cui quei medesimi diritti si trovano ad operare, va ricordato che lo stesso art. 52.1 Carta di Nizza, per evitare che il principio di equivalenza tra diritti assicurati dalla Carta e diritti assicurati dalla Cedu possa in certi casi portare a vanificare gli obiettivi dell’Unione, consente al legislatore eurounitario di prevedere “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta”, sia pure nel rigoroso rispetto del principio di proporzionalità.
Ancora più significativa si è rivelata in proposito la gestione da parte della Corte di giustizia del principio c.d. della maggior tutela, secondo il quale nessuna disposizione della Carta può essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti riconosciuti, non solo dall’Unione e dalla Cedu, ma anche dalle Costituzioni degli Stati membri (art. 53). Tale principio, che è presente pure nella Cedu (art.53), e che, in quel contesto, sembra operare in sostanziale consonanza con gli obiettivi convenzionali, nell’ordinamento dell’Unione presenta sicuramente una maggior problematicità di attuazione, perché si deve coordinare con il principio del primato, dell’unità e dell’effettività del diritto eurounitario. Problematicità che è emersa con evidenza nel noto caso Melloni (C.giust. 26/2/2013, C-399/11 Melloni), dove si è affermato che il principio della prevalenza dello standard più elevato di tutela non autorizza a far prevalere in modo generalizzato le maggiori garanzie previste dalle Costituzioni nazionali quando ciò permetterebbe ad uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di atti giuridici dell’Unione conformi alla Carta: una situazione questa che si può verificare con una certa frequenza. Al fondo di una simile impostazione sembra esserci l’idea che conta di più l’uniformizzazione (inevitabilmente attestata – anche qui – sui livelli più bassi di tutela) perché risponde all’esigenza di rendere più facilmente conseguibile un obiettivo primario dell’Unione come l’efficienza della cooperazione giudiziaria e del mutuo riconoscimento, che il grado e l’intensità delle tutele. In questa prospettiva, garanzie più elevate rischiano, nonostante il principio di maggior tutela, di diventare inopponibili quando venga in gioco una parallela garanzia europea di livello inferiore. Un trend che può rischiare di mettere in crisi la stessa possibilità di riconoscere uno spazio operativo ai c.d. contro-limiti nazionali. Un rischio che proprio da noi si è cominciato a toccare direttamente con mano nel notissimo caso Taricco e che è stato disinnescato solo dalla pronta reazione della nostra Corte costituzionale.
Tutto ciò insegna che il confine tra la prevalenza del principio della maggior tutela (fosse anche quella dei principi nucleari di un ordinamento nazionale, come i contro-limiti) e la prevalenza del principio del primato, dell’unità e dell’effettività del diritto dell’Unione è comunque mobile e flessibile, essendo spesso determinato da scelte di bilanciamento delle Corti di vertice dettate da ragioni politiche. Il diritto dell’Unione – e quindi le garanzie della Carta – si trovano insomma di fronte a un problema ignoto al diritto Cedu e alle sue garanzie: far coesistere le diversità degli ordinamenti degli Stati aderenti con l’unità e la primazia dell’ordinamento eurounitario al quale quegli stessi Stati hanno conferito porzioni della loro sovranità.
Stefano Ruggeri
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea notoriamente attinge a piene mani all’eredità culturale della Convenzione europea; e uno sguardo alla normativa secondaria, a partire da quella che ha dato attuazione al Programma di Stoccolma, basta a confermare largamente questa conclusione. L’ECHR law è costantemente richiamato nella definizione a livello sovrannazionale di garanzie essenziali (dalla nozione di accusa in materia penale al diritto d’informazione, al diritto dell’imputato di esser presente a processo): e con esso, in particolare lo ius (che qui forse come mai è da intendere come estratto) sedimentato dall’esperienza giurisprudenziale di Strasburgo.
Ma l’EU law non ha semplicemente travasato in testi normativi, né la Carta UE dei diritti fondamentali si è limitata a recepire ed elevare al rango di diritto primario, un novero consistente di garanzie convenzionali della CEDU. Anche lì dove è più visibilmente apprezzabile una linea di continuità culturale tra i due ordinamenti, il risultato è ben più complesso di quel che appare a primo acchito. Per la sua stessa natura e vocazione, la Carta di Nizza-Strasburgo, in particolare, proietta i diritti fondamentali in una dimensione fisiologicamente transnazionale e in larga misura addirittura a-frontaliera, conferendo loro una portata pressoché paneuropea che non sempre è possibile apprezzare nel sistema CEDU, specie quando sono in gioco diritti inerenti all’equità procedimentale. In effetti, nonostante l’esiguità delle decisioni concernenti situazioni aventi dimensione transnazionale, l’evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo, fin dai primi casi trattati dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo, mostra le difficoltà che essa ha dovuto affrontare per superare una concezione territoriale e ancorata a singole giurisdizioni nazionali delle garanzie convenzionali. Il self-restraint che emerge dalla scelta di adottare un parametro in sé discutibile, quale quello del flagrant denial of justice (Drozd & Janousek c. Francia e Spagna, in linea con la sentenza Soering c. Regno Unito), evidenzia chiaramente quelle difficoltà, e lo sforzo vòlto a responsabilizzare gli Stati parte nell’assicurare il rispetto di fair trial rights in relazione a procedimenti complessi nei quali condotte idonee a ledere garanzie convenzionali sono state messe in atto o rischiano di essere messe in atto da autorità estere. Uno sforzo accentuatosi in più recenti pronunce, nelle quali i giudici di Strasburgo hanno rafforzato l’obbligo di ogni Paese contraente di realizzare una disamina preventiva del diritto straniero al fine di prevenire violazioni convenzionali extra limina (ad es., in Ilaşcu et al. c. Moldova e Russia). E sebbene la Corte europea non sia finora arrivata a sanzionare alcuno Stato per il fatto di non aver evitato violazioni di giusto processo da parte di un altro Paese, in Mamatkulov e Abdrurasulovic c. Turchia essa ha ipotizzato chiaramente questo scenario, spianando così la strada per futuri sviluppi in questa direzione.
Un simile risultato però non sempre è conseguibile, per via di limiti tracciati dallo stesso ECHR law. Così proprio nel delicato ambito del divieto di bis in idem già la Commissione europea aveva sottolineato in un caso riguardante l’Italia (Gestra c. Italia) come la formulazione dell’art. 4 del Protocollo VII non lasciasse spazio per interpretazioni di questa fondamentale garanzia in prospettiva transnazionale. Impostazione confermata dalla Corte in successive pronunce, in particolare nella decisione Krombach c. Francia, nella quale, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, essa ha peraltro rimarcato la necessità di non arrestare la soglia di garanzia a quanto previsto dal solo diritto CEDU, che non esime gli Stati contraenti dagli obblighi che per essi derivano dal diritto dell’Unione o da strumenti di diritto internazionale, vòlti a rafforzare la tutela degli stessi diritti e delle libertà garantite dalla Convenzione. Il che, se non vado errato, dà prova dell’attenzione che i giudici di Strasburgo ancora una volta hanno rivolto all’esigenza di un’interpretazione sistematica delle garanzie convenzionali, e in fondo alla loro vocazione espansiva, persino lì dove, come nella fattispecie, il diritto scritto pone chiari limiti applicativi.
Sennonché sul fronte eurounitario la portata naturalmente transnazionale delle garanzie processuali non necessariamente comporta una “wider legal protection”, e in ogni caso pone le autorità nazionali e soprattutto la Corte di Lussemburgo di fronte a problemi ricostruttivi di difficile risoluzione. Il terreno del ne bis in idem fornisce nuovamente un significativo banco di prova: se indubbio è il contributo che anche i giudici di Lussemburgo hanno dato negli ultimi anni al riconoscimento della legittimità del doppio binario sanzionatorio, perimetrandone al contempo i confini, le difficoltà aumentano esponenzialmente in prospettiva transnazionale in relazione alla definizione della natura dei provvedimenti cui sia da riconoscere forza preclusiva nei confronti di ulteriori iniziative processuali in altri Stati membri. Qualunque approccio restrittivo rischia infatti di frustrare il principio del riconoscimento reciproco che, anche nella sua più recente versione temperata, rimane la cornerstone della cooperazione giudiziaria tra gli Stati UE, e la cui capacità precettiva si rafforza proprio lì dove un dato provvedimento decisorio (e il relativo procedimento) non esiste, o non esiste negli stessi termini, nel diritto dello Stato di esecuzione. Nella sua essenza il principio del mutuo riconoscimento riflette insomma una chiara aspirazione alla tolleranza, all’accettazione della diversità della cultura giuridica di un altro Paese dell’Unione, purché ovviamente ciò non importi un abbassamento degli standard di garanzie i quali soli possono fare dell’area UE un autentico spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ma quest’accettazione non può tradursi in una blind trust, e richiede anzitutto una compiuta conoscenza di ciò che merita riconoscimento. La difficoltà sta proprio nella comprensione della cultura giuridica altrui, e ad essa non è estranea la stessa Corte di Lussemburgo che ha dovuto affrontare complesse indagini ricostruttive per definire se e in che misura un dato provvedimento all’interno del procedimento penale (ad es. una conclusione archiviativa del procedimento, specie se di competenza del pubblico ministero) o addirittura in un procedimento dalla diversa natura (ad es., una conclusione negoziata davanti a un’autorità non giurisdizionale, come la transactie in Belgio o Paesi Bassi) sia da intendere come dotata di portata decisoria tale da potere precludere successive persecuzioni penali in altri Stati membri: valutando la posizione ordinamentale dell’organo competente (specie se si tratta un organo non rientrante nella magistratura e non dotato della funzione di ius dicere), se l’accertamento si sia esteso ai merits of the case, e così via (cfr. Gözütok e Brügge, Miraglia, Gasparini, ecc.).
È verosimile che le soluzioni che emergono dalla giurisprudenza di Lussemburgo siano da aggiornare in ragione dell’evoluzione dei sistemi europei di giustizia penale. Ma un approccio orientato alle specificità dei casi concreti, se oculatamente condotto, è la risposta più sapiente per affinare ed estendere le soglie di tutela di diritti individuali, la cui definizione è illusorio poter affidare una volta per tutte alla legge scritta. E lo conferma il fatto che il poderoso sforzo di armonizzazione normativa compiuto negli ultimi anni dalle istituzioni dell’Unione per rafforzare alcune garanzie processuali essenziali, pur lì dove è stato chiaramente ispirato dall’intento di dare attuazione a previsioni fondamentali consacrate dalla Carta di Nizza-Strasburgo, non sempre ha prodotto un effettivo irrobustimento della tutela individuale rispetto agli standard raggiunti dall’ECHR law. Emblematico il problema delle procedure in absentia. Uno sguardo all’evoluzione della disciplina UE dalla Decisione-quadro 2009/299/GAI alla Direttiva 2016/343/UE, e in particolare alla genesi di quest’ultimo provvedimento normativo, rivela una chiara tendenza a prosciugare, se così può dirsi, garanzie fondamentali sedimentate nella giurisprudenza europea in decenni, sclerotizzandole in formule che annidano considerevoli rischi per la persona imputata. Così, per esempio, prevedere che basti a salvare la fairness di un procedimento in absentia la presenza di un legale, quantunque non nominato dall’imputato, una volta che questi sia stato informato del procedimento personalmente o mediante altro mezzo stabilito dalla legge: insomma, prevedere che la presenza dell’imputato possa essere surrogata dalla comparizione di un difensore sfornito di qualunque nomina fiduciaria può finire per legittimare il mantenimento o la reintroduzione di procedure contumaciali, nella loro versione più illiberale. Del resto, lo sforzo di armonizzazione prodotto dalla Direttiva 2016/343/UE in questa delicatissima problematica ha condotto a un approccio minimalista che risulta deludente anche con riguardo ai requisiti che per il legislatore eurounitario dovrebbero garantire la conoscenza del procedimento e, con esso, dell’accusa in materia penale, requisiti che comprendono anche un’adeguata informazione circa le conseguenze della scelta per l’imputato di rimanere assente dalla scena processuale. E l’assenza di qualsivoglia indicazione normativa al riguardo sembra così allontanare la disciplina attuale non solo da quelle condizioni qualitative più volte sottolineate dalla Corte di Strasburgo (ad es., in Jones c. Regno Unito) ma anche dall’esigenza di una conoscenza ufficiale, soluzione ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di Lussemburgo con riguardo alle ipotesi in cui il problema dell’assenza dell’imputato s’iscriva all’interno di un procedimento di consegna internazionale (Dworzecki).
3. Quali sono i principi guida sul tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte edu in materia penale a livello interno e nei confronti di soggetti diversi da quelli che hanno agito a Strasburgo?
Roberto E. Kostoris
Nel prevedere che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti”, l’art. 46 Cedu pone un preciso obbligo dello Stato di dare esecuzione alle decisioni di condanna della Corte edu che abbiano riconosciuto la violazione da parte sua di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione. Si tratta dell’unico obbligo esplicitamente menzionato nel testo della Cedu. Esso può riguardare il caso deciso in senso stretto, perché la Corte ha censurato il comportamento dello Stato e dei suoi organi limitatamente a una specifica e isolata vicenda giudiziaria, o può interessare in senso più ampio le carenze strutturali di un ordinamento statale, delle quali la concreta vicenda giudiziaria portata all’attenzione della Corte non rappresenta che una diretta conseguenza.
Mentre in quest’ultimo caso, attraverso una sentenza (o meglio, una procedura) “pilota” è la stessa Corte edu a indicare allo Stato condannato le “concrete misure di carattere generale” (inclusa se del caso la modifica di una certa prassi interpretativa) da adottare per porre rimedio al difetto sistemico denunciato e per impedire così il futuro reiterarsi della violazione, nel primo caso, come ha precisato la stessa Corte edu (13/7/2000, Scozzari e Giunta c. Italia), allo Stato condannato incombe solo un “obbligo di risultato”, nel senso che egli è libero – sotto il controllo del Comitato dei Ministri, a cui spetta la supervisione dell’ottemperanze alle sentenze di Strasburgo (art. 46 Cedu e Prot. 14 par. 2 e 3) – di scegliere all’interno del proprio ordinamento i mezzi da utilizzare per farvi fronte. Quanto al contenuto di quell’obbligo, l’art. 41 Cedu prevede in via prioritaria che vengano “riparate le conseguenze derivanti dalla violazione”, e, solo se il diritto dello Stato non lo consenta, o lo consenta solo in modo imperfetto, sia accordata dalla Corte edu (ma, per noi, a livello interno in prima battuta dalle Corti d’appello a seguito della “legge Pinto”) un’”equa soddisfazione” economica alla vittima della violazione, “equa soddisfazione” che può anche concorrere con la riparazione.
Concentrando l’attenzione su quest’ultima, a partire dalla Raccomandazione R( 2000) 2 del Comitato dei Ministri, gli Stati sono stati sollecitati a prevedere possibilità appropriate di “riesame del caso, compresa la riapertura del processo”, adottabili quando siano state violate garanzie Cedu sia di tipo penale sostanziale, sia di tipo processuale. E rispetto a queste ultime e, in particolare, rispetto alle violazioni riguardanti l’equità processuale, la Corte edu (sent. 11/12/2007, Cat Berro c. Italia) ha tendenzialmente individuato nella riapertura del processo la forma elettiva di ristoro.
La particolare delicatezza dell’operazione è dovuta al fatto che per riesaminare il caso e riaprire il processo occorre superare un giudicato penale interno. La sostanziale latitanza del nostro legislatore – tuttora perdurante - aveva indotto in un primo tempo la nostra giurisprudenza di legittimità a farsi meritoriamente carico del problema, elaborando soluzioni pretorie fortemente creative, ma non immuni da palesi forzature sistematiche; poi, come noto, è intervenuta la Corte cost. (sent. 113/2011) con una pronuncia additiva, che ha ‘aggiunto’ alla revisione ordinaria prevista dall’art. 630 c.p.p. una nuova – e del tutto atipica -forma di revisione ‘europea’, (che della revisione classica conserva, per la verità, ben poco), volta a consentire la riapertura del processo per conformarsi a una sentenza di condanna della Corte edu che abbia accertato una violazione dell’equità processuale. Una revisione ovviamente non orientata, come quella ordinaria, a ottenere un esito proscioglitivo, ma solamente la restitutio in integrum a favore della vittima, consistente – per usare le parole della stessa Corte edu - nel porre quest’ultima “in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovata se la violazione non fosse intervenuta” (sent. 17/9/2009, Scoppola c.Italia). E, soprattutto, una revisione capace di estrinsecarsi nelle forme applicative più diverse, quindi dotata della massima flessibilità, per adattarsi alle peculiarità del caso, cioè al tipo di violazione riscontrata, lasciando al giudice – a cui è affidata la gestione concreta di questo rimedio - il compito di valutare, di volta in volta, quale soluzione applicare. In questa prospettiva, la riapertura del processo, che, oltretutto, può essere finalizzata anche solo al compimento di singoli atti, non costituisce un esito obbligato, ma va impiegata solo quando appaia necessaria per sanare le conseguenze della violazione (Corte cost. sent. 113/2011). Ciò non accadrebbe quando il risultato della restitutio in integrum possa essere garantito in altro modo: si pensi al caso dell’immediata liberazione di chi risulti ingiustamente detenuto.
Dal canto suo, la riapertura del processo pone il problema – lasciato aperto dall’affermazione della Consulta che quest’ipotesi di revisione “comporta una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali- al principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato” - di verificare in quali termini le violazioni convenzionali di iniquità processuale – che implicano una valutazione concreta del caso considerato nella sua globalità – possano ridondare in violazioni processuali secondo le regole interne, che presuppongono invece la mancata integrazione di specifiche fattispecie nel quadro di un sistema chiuso di invalidità.
A questo proposito, potrebbe essere opportuno distinguere tra violazioni probatorie e violazioni difensive. Quanto alle prime, il pensiero può correre al caso di dichiarazioni non ripetibili rese fuori del contraddittorio con la difesa: pienamente utilizzabili secondo la nostra disciplina interna; utilizzabili solo se abbiano avuto un peso non “determinante” secondo la giurisprudenza europea. Una condanna per iniquità processuale a tale riguardo dovrebbe comportare solo il ripristino del canone violato, convertendosi sul piano interno in una regola di valutazione della prova: il giudice sarebbe cioè vincolato solo a non basare il suo convincimento in modo decisivo su quegli elementi.
Assai più complessa, invece, la soluzione per le violazioni difensive, posto che è proprio a tale proposito che si registrano le maggiori frizioni ‘strutturali’ tra regole interne e regole convenzionali: da un lato ci troviamo, infatti, di fronte alla violazione di “diritti” lesi ‘in concreto’ secondo l’approccio sostanziale/fattuale ricordato, dall’altro di fronte a invalidità corrispondenti alla mancata integrazione di una fattispecie, cioè di un modello legislativo astratto, non dimenticando che, in questo contesto, le violazioni difensive o ridondano in cause di nullità, o non presentano alcuna rilevanza invalidante e che, dal canto loro, le nullità, che formano un sistema chiuso e sono tradizionalmente insensibili al concetto di lesività concreta. La situazione all’evidenza più complessa si potrebbe verificare quando l’iniquità rilevata dalla Corte edu non trovi rispondenza in vizi processuali secondo la legge interna: il giudice nazionale ha proceduto ritualmente, ma cionondimeno si è consumata una situazione ‘concretamente’ lesiva dei diritti della difesa secondo la Corte edu. Qualcuno ritiene che, facendo parte la Cedu del nostro ordinamento a seguito delle leggi di ratifica ed esecuzione, occorrerebbe ritenere le norme interne integrate dai precetti europei, giungendo a sostenere su questa base che la forza precettiva dell’art. 187 c.p.p. si completerebbe alla luce dell’art.6 Cedu, ‘così come interpretato’ da Strasburgo. Tesi suggestiva, ma difficilmente governabile, perché estendere l’ambito delle nullità a situazioni non tipiche purchè concretamente lesive colpirebbe al cuore il principio di tassatività, aprendo la porta alla più assoluta incertezza applicativa. Né si potrebbe pensare che il rimedio consista nella semplice somministrazione in via equitativa da parte del giudice della riapertura della provvidenza negata, senza eliminare le conseguenze negative che la sua mancanza ha riverberato sul processo e che sono caducabili secondo le regole interne solo attraverso il meccanismo dell’invalidità (principale o derivata). Il rimedio, comunque complesso e oneroso, resterebbe quello di sollevare di volta in volta questione di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost. della norma considerata nella parte in cui per mancanza di una previsione di nullità impedisca un pieno ripristino dell’equità violata. Il chè dà un saggio delle difficoltà applicative a cui può dar luogo la revisione europea.
Quando invece venga in gioco la violazione di garanzie penali sostanziali, non occorrerebbe procedere attraverso un simile strumento, essendo sufficiente, se la legge già consenta di ottenere l’effetto sperato, come nel caso in cui vada solo modificato il trattamento sanzionatorio, intervenire sul titolo esecutivo con incidente di esecuzione.
In questa cornice di riferimento si può, infine, esaminare la possibilità di dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea anche nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente vittorioso a Strasburgo che si trovino però nella sua identica situazione (quelli che vengono chiamati i suoi “fratelli minori”).
Sul punto la nostra giurisprudenza è stata altalenante, anche negli interventi delle Sezioni Unite.
Credo però che convenga non tanto inoltrarsi nei meandri dei casi affrontati, quanto piuttosto ragionare per problemi generali.
a) Anzitutto occorre porre in evidenza che anche a questo proposito ci ritroviamo di fronte a un problema di incontro/scontro tra logiche e valori di diversa matrice: da una parte, la fissità del giudicato unita ad un’interpretazione restrittiva dell’obbligo dello Stato condannato di ottemperare alle sentenze della Corte edu: entrambi aspetti che tutelano il valore della sovranità statuale; dall’altro, una concezione sostanziale dell’ “ingiustizia” che deriverebbe dal fatto di non estendere il dictum europeo a posizioni identiche, formalmente diverse solo per il fatto di non riguardare soggetti che sono ricorsi davanti alla Corte edu: obiettivo quest’ultimo in linea invece con i valori della tutela effettiva delle garanzie propria della giurisprudenza di Strasburgo, e di cui si coglie anche una traccia normativa nell’art. 61 reg. Cedu.
In questo caso la particolarità sta nel fatto che il bilanciamento tra questi valori sfugge alla Corte edu, che si pronuncia solo di fronte a ricorsi individuali e, quindi, si trova di fronte solo soggetti ricorrenti, ma compete invece ai nostri giudici interni, davanti ai quali soltanto hanno possibilità di dolersi i c.d. “fratelli minori”. Questi giudici sono tenuti però, nel dare soluzione al problema, che è un problema di ambito di ottemperanza a un giudicato di Strasburgo, ad adottare criteri interpretativi convenzionalmente orientati.
b) In tale prospettiva, la logica sostanziale a cui si informa il diritto Cedu impone di ritenere che, di fronte alla palese ingiustizia che deriverebbe da un diverso trattamento in presenza di un’assoluta identità di situazioni, il giudicato interno diventi recessivo anche rispetto ai titolari delle medesime, cioè ai “fratelli minori”. E’ un passaggio importante, perché estende a tali situazioni l’obbligo dello Stato di conformarsi alle sentenze di condanna della Corte edu (art. 46 Cedu).
c) Resta però da chiarire quali siano le condizioni richieste per una simile operazione e quali strumenti operativi siano utilizzabili per realizzarla.
Sotto il primo aspetto, si faceva cenno a un’ identità di posizioni, posto che, diversamente, sarebbe necessario un nuovo ricorso a Strasburgo. Come misurare però tale identità’? La premessa – che esprime un’evidente tautologia, ma che è utile come spesso lo sono le tautologie – è che si tratti di una situazione che non sia esclusiva del ricorrente, ma che dipenda, dunque, da un problema più generale/strutturale di più o meno ampia portata dell’ordinamento. Di qui il quesito se la estensibilità ai “fratelli minori” degli effetti della sentenza europea presupponga che quest’ultima presenti i caratteri di una sentenza pilota e sia stata emessa in esito alla relativa procedura, o se essa, pur non assumendo formalmente questa veste, abbia comunque segnalato il carattere generale della violazione riscontrata (cfr. l’art. 61 reg. Cedu. e, da ultima, Cass. Sez.Unite, 24/10/2019 n. 1168 sul caso Contrada). Indubbiamente, tali condizioni ‘certificherebbero’ ufficialmente la presenza del problema strutturale, semplificando il compito del giudice interno. Ma non è detto che la Corte edu possa avere sempre una precisa percezione del carattere più generale del problema, il quale potrebbe emergere nelle sue reali dimensioni anche in tempi successivi alla sua pronuncia. Quest’ultima prospettiva non è presa in considerazione dalla giurisprudenza, che, nelle sue posizioni di maggior apertura sul tema (Cass. Sez.Unite 19/4/2012, Ercolano), richiede comunque che la sentenza sia qualificata come pilota per estendere il giudicato europeo ai “fratelli minori”. E’ una scelta che certamente privilegia il valore dell’intangibilità del giudicato interno, ma che può pregiudicare le esigenze di giustizia sostanziale che si vogliono tutelare.
La giurisprudenza favorevole all’estensione dell’efficacia del dictum europeo ai “fratelli minori” tende a richiedere anche che esso sia espressione di un “orientamento consolidato”. E’ comprensibile che non si voglia rischiare di travolgere un numero indefinito di giudicati interni sulla base di decisioni della Corte edu prive di precedenti ed esposte a mutamenti di giurisprudenza. Ma va rilevato che il requisito del consolidamento giurisprudenziale – che comunque non è mai stato definito in modo sufficientemente appagante (la Corte costituzionale ne ha fornito solo delle esemplificazioni nella sent. 49/2015) – non è richiesto per eseguire una singola sentenza di condanna della Corte edu; diventa allora arbitrario pretenderlo per ottemperare a un obbligo che – come quello di cui stiamo discutendo - si ponga in diretta dipendenza da essa. Per di più, quel requisito sembra quasi confliggere con l’altro requisito richiesto, costituito dal carattere pilota della sentenza. Le sentenze pilota implicano un obbligo per lo Stato di eliminare il difetto strutturale rilevato, obbligo la cui esecuzione viene strettamente monitorata. Non di rado è sufficiente, dunque, una sola sentenza pilota per ottenere il risultato voluto, senza la necessità di farvi seguire altre condanne tali da poter dar luogo a un ‘orientamento consolidato’. Anzi, va rilevato che le sentenze pilota mirano proprio a evitare il ripetersi di violazioni seriali; esse sono dunque funzionalmente vocate ad escludere il formarsi di un ‘consolidamento giurisprudenziale’. Non sembra casuale, del resto, che i due requisiti del consolidamento giurisprudenziale e del carattere pilota di una decisione della Corte edu siano stati indicati come alternativi e non come cumulativi dalla Corte costituzionale ( sent. 49/2015) al fine di far assurgere alla giurisprudenza di Strasburgo il valore di parametro interposto di costituzionalità o per generare un obbligo di interpretazione conforme.
d) Veniamo infine a qualche considerazione conclusiva sul requisito dell’identità di posizione dei “fratelli minori” rispetto a quella del “fratello maggiore”, ricorrente vittorioso. E’ una situazione che, teoricamente, è riferibile ad ogni violazione dei diritti Cedu. E’ ovvio, però, che, mentre essa è molto più facile da misurare e accertare rispetto a violazioni in materia penale sostanziale (anche se pure su questo versante, come insegna la vicenda Contrada, possono registrarsi pareri assai discordi) , lo è molto meno, se non per nulla, rispetto a quelle processuali che riguardino l’equità del procedere. Simili violazioni, lo si è detto più volte, pur inerendo a princìpi che la Corte non manca di inserire a premessa del suo ragionamento, dipendono in larga misura da valutazioni eminentemente legate alle caratteristiche della concreta vicenda giudiziaria, valutata nel suo complesso anche alla luce di eventuali ‘garanzie compensative’. Tale insieme di circostanze rende pressochè impossibile operare un raffronto tra posizioni che consenta di verificarne l’assoluta ‘identità’. Su questo si deve convenire con il costante orientamento della giurisprudenza.
Alla luce di questi rilievi, occorre dunque concludere che lo strumento tecnico elettivo per superare il giudicato interno rispetto ai “fratelli minori” diventa essenzialmente l’incidente di esecuzione, attraverso il quale si può rimuovere un vizio di natura sostanziale, purchè si tratti, come ha precisato la Cassazione (Sez. Unite, 19/4/2012, Ercolano) di un’ operazione “a rime obbligate”, e non la riapertura del processo mediante ‘revisione europea’, utilizzabile quando siano in gioco violazioni processuali.
Stefano Ruggeri
A fronte di un acclarato contrasto tra una decisione penale e il sistema delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, il principale rimedio è notoriamente costituito dalla c.d. “revisione europea”, istituto innestato nel corpo normativo concernente la revisione dalla sent. 113/2011 della Corte costituzionale. Esso non è certamente l’unico rimedio, dato che ad es. la strada della rescissione del giudicato può essere battuta anche nelle ipotesi di violazioni convenzionali, sia pur nello specifico ambito applicativo di questa peculiare impugnazione. Ma, a parte tali rimedi impugnatori, manca ad oggi una disciplina organica che in sede di cognizione contempli uno strumento, o un sistema di strumenti, flessibilmente orientato a soddisfare le molteplici istanze che scaturiscono dalle diverse violazioni convenzionali accertate a Strasburgo.
In effetti, uno sguardo all’attuale assetto normativo rivela l’intrinseca frammentarietà del nostro sistema di giustizia penale e la sua incapacità di ricomporre sempre e in modo compiuto la legalità convenzionale a livello interno, e addirittura colmare la distanza, che talora pare crescere irrimediabilmente, tra legalità convenzionale e legalità costituzionale. Finanche la soluzione introdotta dalla Consulta conserva un ambito applicativo delimitato, mirando a porre rimedio ai soli vizi concernenti l’equità del procedimento: e persino in quest’ambito, quantunque amplissimo, la Corte costituzionale, come si sa, ha demandato alle autorità procedenti la verifica circa l’adeguatezza della riapertura del procedimento, prevista per la revisione ordinaria, instaurando così un meccanismo che richiede la cooperazione costante delle autorità procedenti per l’individuazione della soluzione più idonea a soddisfare i parametri di legalità convenzionale e costituzionale. Un’attenta disamina delle caratteristiche del caso che ha determinato la condanna di Strasburgo costituisce pertanto un momento di fondamentale importanza all’interno del rimedio previsto dalla Corte costituzionale, che esalta il ruolo del giudice gravandolo a un tempo di un difficile onere cognitivo e del compito di ricercare il miglior bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. Un compito oggi divenuto ancor più complesso in quanto esteso alla delicata valutazione riguardante la necessità di estendere le soluzioni adottate dalla Corte europea alle vicende processuali di coloro che versino in una situazione identica a quella oggetto di scrutinio dei giudici di Strasburgo. Come opportunamente rileva il prof. Kostoris, l’individuazione dell’identità della vicenda implica, pur a fronte di indirizzi giurisprudenziali consolidati, un’attenta disamina delle dinamiche che hanno condotto la Corte europea a una data declaratoria di responsabilità rispetto a una specifica vicenda processuale, che coinvolge specifici soggetti, e che in sé rappresenta dunque un unicum.
Anche nei riguardi dei soggetti che abbiano agito a Strasburgo, comunque, mi sembra che l’individuazione della soluzione volta per volta più idonea a dare attuazione all’assetto decisorio incontrato dai giudici europei non possa essere demandata ai soli giudici nazionali ma spesso si arricchisca mediante (e talora addirittura necessiti) un nuovo confronto con la Corte europea. Così è avvenuto in una pluralità di casi, anche riguardanti il nostro Paese, come in passato il noto caso F.C.B. Anche di recente l’evoluzione del contenzioso con Strasburgo ha contribuito a perimetrare e ridefinire il volto e i confini della revisione europea, confermando che la riapertura del procedimento non realizza sempre necessariamente un’adeguata restitutio in integrum. Degni di nota mi sembrano gli sviluppi del noto caso Drassich, che hanno portato a una reinvestitura della Corte europea per un asserito contrasto con la Convenzione, ancora una volta per contrasto con l’art. 6, sul presupposto che una riqualificazione giuridica del fatto in peius nel corso del giudizio in cassazione avrebbe menomato il diritto di difesa del ricorrente, privandolo specificamente del diritto di difendersi personalmente. Nella recente sentenza Drassich c. Italia (n. 2) i giudici di Strasburgo riconoscono l’inadeguatezza della riapertura del procedimento che, se realizzata nel grado in cui si è verificata la violazione convenzionale, porterebbe a un nuovo giudizio in cassazione, strutturalmente e funzionalmente inidoneo a consentire la partecipazione personale dell’imputato.
La soluzione, per la verità, non è del tutto in linea col costante richiamo da parte della Corte europea all’effettività delle garanzie convenzionali: il diritto di difesa può certo esplicarsi in molte forme ma è discutibile che esso possa essere compiutamente tutelato attraverso un contributo puramente argomentativo, quale quello realizzato mediante memorie difensive. Questa decisione sembra anzi sollevare più di un dubbio sul fatto che la ricollocazione dell’ipotesi fattuale in una diversa casella legale, se ciò può portare a un aggravamento del regime sanzionatorio, sia un’operazione che possa essere condotta in vitro. Un confronto con la pur diversa situazione della reformatio in peius in sede impugnatoria, che si proietti verso una condanna in seconda istanza basata solo su una rivalutazione di prove già assunte e sulla cui scorta l’imputato sia stato prosciolto in primo grado, evidenzia quanto necessario sia soddisfare appieno le istanze difensive riattivando il diritto alla prova della persona accusata. E sebbene la soluzione adottata dal legislatore italiano non sia del tutto in linea con l’impostazione seguita dai giudici di Strasburgo e non importi comunque con perfetto determinismo il riesame dell’accusatore in udienza pubblica ma richieda sempre un oculato bilanciamento di tutti quegli interessi che vanno considerati in prima istanza, essa fornisce un modello metodologico che non può essere ignorato nella fattispecie della riqualificazione giuridica dell’ipotesi fattuale, sospingendo verso la ricerca di meccanismi di attuazione delle sentenze della Corte europea diversi dalla riapertura del procedimento nella fase o nel grado in cui si è prodotta la violazione convenzionale. Del resto può essere interessante notare che la stessa esigenza di dar seguito alla giurisprudenza europea che aveva stigmatizzato la possibilità che l’impugnazione contra reum potesse condurre a una condanna su base cartolare e senza rinnovazione del contraddittorio istruttorio condusse il legislatore spagnolo nel 2015 a battere una strada ben diversa da quella prescelta dalla normativa italiana. Estendendo al giudizio di secondo grado un modello elaborato dal Tribunal Supremo con riferimento alla cassazione di una sentenza di assoluzione per erronea valutazione di prove dichiarative (STS 392/2015), la Ley 41/2015 ha mantenuto la possibilità di appellare il proscioglimento contra reum, imponendo tuttavia come soluzione all’erronea valutazione non la riassunzione della prova in secondo grado ma l’annullamento della sentenza impugnata con conseguente regressione del procedimento e il rinvio del caso al giudice a quo (792 comma 2 LECrim). Tale soluzione presenta il vantaggio non solo di salvaguardare il diritto al confronto dell’accusato e il principio d’immediatezza ma anche di escludere il rischio di frammentazione dell’attività istruttoria (e con essa dello stesso accertamento penale) tra gradi diversi di giudizio, rischio cui invece dà adito il modello adottato dalla riforma italiana del 2017.
Insomma, il diverso taglio di ogni violazione della Convenzione accertata dalla Corte di Strasburgo impone una considerazione differenziata di rimedi che vadano al di là dell’indennizzo individuale: e certo il diritto comparato fornisce un prezioso strumento d’indagine, presentandoci una varietà di soluzioni che non possono essere riduttivamente ricondotte neppure alla rinnovazione del giudizio che ha dato luogo al vizio convenzionale. In effetti, se il riesame del caso rappresenta in molte situazioni una soluzione ottimale, non va dimenticato, come ha recentemente ribadito la Corte europea (Moreira Ferreira c. Portogallo), che la Convenzione non assicura, persino in materia penale, il diritto alla riapertura del processo. Né essa costituisce sempre la via migliore per ricucire lo strappo con l’ECHR law, come opportunamente sottolineò la Corte costituzionale già nella sentenza n. 113 e come essa ha più di recente rilevato anche in materia extrapenale (sent. 93/2018).
4. Le repliche
Stefano Ruggeri
La lettura delle osservazioni svolte dal prof. Kostoris mi ha fornito, come tante altre volte in passato, una preziosa occasione per apprendere, e per misurare a un tempo i limiti delle mie conoscenze: e di ciò desidero ringraziarlo pubblicamente.
Nel merito mi ritrovo in moltissime delle notazioni fatte, a cominciare dalla complessa sfida culturale che attende non tanto la giurisprudenza della Corte EDU quanto l’evoluzione del diritto vivente in Europa in generale, e del diritto giurisprudenziale specie in Paesi, come il nostro, tradizionalmente fondati sul primato della legge scritta. In effetti, il confronto con la giurisprudenza di Strasburgo ci ha insegnato – e certo ancor più saprà insegnarci in futuro – a guardare alla norma processuale non già in termini di validità o legittimità bensì in termini di effettività delle garanzie, così come consacrate da un dato parametro convenzionale o ricavabili da una lettura del sistema convenzionale nella sua interezza. Proprio in questa prospettiva la Corte di Strasburgo ha giocato un ruolo essenziale nella ricostruzione di diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione a certi soggetti processuali, precipuamente all’accusato, in nome di una considerazione sistematica delle vicende processuali sottoposte al suo scrutinio, con riguardo sia alla gestione complessiva di un processo ormai concluso con le sue dinamiche interne sia soprattutto alla tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale.
Se a quest’ultimo riguardo la strada spianata (seppur non sempre percorsa con piena coerenza) dai giudici europei appare ampiamente condivisibile e ad essa è da ascrivere il merito di aver supplito alla mancata introduzione, pur da più parti auspicata, di uno statuto generale di garanzie di soggetti diversi dall’accusato (anzitutto della vittima e di soggetti terzi, quale principalmente il testimone, nelle sue molteplici vesti e ruoli), lo stesso non può dirsi per l’adozione di una visione globale della vicenda processuale nelle dinamiche interne tra le sue diverse fasi e gradi. Opportunamente il prof. Kostoris rileva come non pochi rischi siano connessi al riconoscimento di meccanismi compensativi, rischi che si accentuano laddove si tollerino violazioni convenzionali in ragione di rimedi adottati in successivi stadi del procedimento. Ciò è avvenuto in una molteplicità di casi, nei quali la Corte ha ritenuto di salvare persino patenti violazioni di diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione laddove le autorità nazionali competenti abbiano saputo colmare tali deficit di garanzie nel successivo corso del procedimento.
Per parte mia ho pure cercato di segnalare in altre occasioni quanto pericoloso sia un simile approccio alle garanzie convenzionali. Il quale ben poco si attaglia soprattutto al delicato terreno della giustizia penale transnazionale, specie nei casi in cui sia stata attivata una procedura di cooperazione giudiziaria internazionale, che per definizione s’inserisce all’interno di un procedimento instaurato in un altro Paese (il trial country), e anzi – per riprendere la metaforica figura invocata da Wolfgang Schomburg e Otto Lagodny dell’internationales arbeitsteiliges Verfahren, figura peraltro significativamente accolta dalla giurisprudenza costituzionale tedesca – costituisce una parte di un procedimento assai più complesso, in cui una corretta divisione dei compiti rappresenta una condizione essenziale per indagare e perseguire penalmente in modo virtuoso vicende criminose aventi dimensione transnazionale. Appunto per ciò il compito assegnato a una singola autorità nazionale è un momento fondamentale e irripetibile: il che solleva più di un dubbio sul fatto che condotte dalle quali discendano violazioni procedimentali possano essere tollerate in vista dell’adozione di compensazioni future, le quali rappresentano un’eventualità non solo imprevedibile ma che in tesi sfugge al controllo dell’autorità cui è stata richiesta una certa misura di cooperazione internazionale, e persino talora dell’intero Stato in cui tale cooperazione si sia realizzata. Né il Paese nel quale si stia svolgendo il processo penale può essere ritenuto responsabile di mancanze avvenute in altro Stato, a meno che naturalmente la condotta delle proprie autorità nazionali non sia di per sé censurabile per il fatto di dar luogo a rischi di future violazioni di diritti consacrati nella CEDU, ovvero contribuisca ad aggravare il risultato di mancanze ascrivibile ad autorità estere al punto di configurare un’ulteriore violazione convenzionale: ciò che non si può escludere si realizzi anche nell’ambito della prova transnazionale, come sapientemente intuito già dalla Commissione europea nel caso P.V. e come confermato dalla Corte di Strasburgo in un numero sia pur esiguo di casi, anche riguardanti il nostro Paese (ad es., già in A.M. c. Italia).
D’altra parte mi sembra si possa ragionevolmente dubitare che la dottrina dei meccanismi compensativi, almeno se intesa in termini di compensazione riferita a uno stadio successivo del procedimento, valga ad assicurare la tenuta assiologica di garanzie convenzionali anche in procedimenti puramente nazionali. Sebbene la Corte abbia ripetutamente applicato la tesi dei fattori compensativi, adottando anzi talora un approccio funzionale (come efficacemente lo definì Stefan Trechsel) che guarda alle concrete ripercussioni di una violazione convenzionale, al punto da addossare sul ricorrente oneri dimostrativi che non gli competono, mi sembra comunque significativo segnalare che la giurisprudenza europea ha invece adottato un’impostazione ben più rigorosa in relazione ad alcune fondamentali garanzie, quale l’imparzialità della giurisdizione (ad es., in De Cubber c. Belgio) o (anche se qui non sempre con la dovuta linearità) il privilege against self-incrimination (v., ad es., Saunders c. Regno Unito). E mi domando, poi, se e come la giurisprudenza europea potrà mantenere un simile approccio globale all’equità processuale laddove sarà investita in via preventiva di questioni concernenti violazioni di fair trial rights in materia penale. In effetti, una visione diacronica del giudizio penale la Corte ha potuto adottare e sviluppare in quanto adita in via contenziosa una volta esperite le vie impugnatorie interne, ciò che le ha fornito un angolo visuale in grado di guardare, come si diceva, alla complessiva gestione di una specifica processuale, per così dire, a valle. Sennonché una simile prospettiva manca per definizione nell’esercizio della giurisdizione consultiva, non essendo per nulla agevole definire in una molteplicità di casi quali standard di tutela siano da ritenere in linea con la Convenzione: il che potrebbe anche finire per frustare quella funzione di orientamento verso i valori convenzionali che la giurisprudenza europea ha svolto, e dovrà continuare a svolgere, nei riguardi delle autorità nazionali degli Stati contraenti.
Condivido poi in buona misura le perplessità sollevate dal prof. Kostoris con riguardo all’impostazione seguita dalla Corte europea in A e B c. Norvegia e ripresa da successiva giurisprudenza della stessa Corte. Un’impostazione certo ben poco in linea con quella seguita dalla Corte di Giustizia in Fransson, ma che ha inevitabilmente condizionato l’evoluzione della giurisprudenza di Lussemburgo: la quale, se ha talora temperato il doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato alla luce della rilevanza eurounitaria del ne bis in idem (Di Puma e Zecca), talaltra ha invece temperato lo stesso divieto di bis in idem finendo così per allinearsi in buona misura ai parametri della Corte EDU (Menci, Garlsson Real Estate et al.). D’altra parte, se quest’evoluzione giurisprudenziale non ha mai scalzato la necessità di contenere gli effetti afflittivi del doppio binario sanzionatorio, quali evidenziati nella sentenza Grande Stevens, continuo a ritenere che le sfide più consistenti che la Corte EDU e, anzi più in generale, tutte le giurisdizioni chiamate a contribuire alla definizione di un European human rights criminal law (includendo sia la Corte di Giustizia sia le giurisdizioni superiori e le giurisprudenze costituzionali nazionali) dovranno affrontare nel prossimo futuro non concernono solo la considerazione della posizione dell’accusato, ma anche, e ancor più a fondo, la giustificazione di sottoporre alla pena di un nuovo processo (per riprendere ancora una volta l’impostazione carneluttiana) un novero ben più cospicuo di persone. Il che imporrà un’attenta verifica della capacità del giudizio già conclusosi in via extrapenale di esprimere non tanto una valutazione di merito (del resto, neppure richiesta sul piano interno perché una decisione possa spiegare forza preclusiva, che è infatti riconosciuta, sia pur con significative varianti, sia alla sentenza di proscioglimento per estinzione del reato sia addirittura alla pronuncia d’improcedibilità) quanto un accertamento autenticamente partecipato: una verifica resa estremamente complessa dalla proiezione transnazionale fisiologicamente conferita al divieto di bis in idem dalla Carta di Nizza-Strasburgo.
Concordo infine con le critiche mosse dal prof. Kostoris alla tesi del vincolo discendente per il giudice nazionale dall’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale consolidato a Strasburgo, quale richiesto dalla nostra giurisprudenza costituzionale. E mi è sembrato assai opportuno il richiamo alla sent. 49/2015: la quale peraltro, se non interpreto in modo erroneo il percorso motivazionale di tale pronuncia, ha menzionato le sentenze-pilota e l’orientamento consolidato in una prospettiva unitaria e non già disgiuntiva, dal momento che la pilote judgment procedure presuppone comunque l’esistenza di un contenzioso seriale e mira appunto all’emanazione di una decisione valevole per tutti i repetitive cases.
Non sono un costituzionalista e non credo che problemi così complessi possano essere affrontati da una singola prospettiva d’affaccio, per così dire, al moderno intreccio dei rapporti interordinamentali in Europa, ancor meno da quello, assai angusto, di una disciplina che è ancora in larga misura una Cenerentola. D’altra parte, per quanto animata dalla necessità (in buona parte misura dettata da ragioni essenzialmente pragmatiche) di perimetrare il vincolo della giurisprudenza europea nei confronti del giudice nazionale, l’impostazione seguita dalla nostra Corte costituzionale si espone, e anzi già ha condotto, a gravi obiezioni di ordine teorico-generale, soprattutto per il fatto di non avere fornito la benché minima giustificazione (sul piano sia logico sia soprattutto assiologico) di un simile contenimento del vincolo. E del resto mi sembra si possa legittimamente dubitare che tale fondamento sussista rispetto al nostro come ad altri sistemi costituzionali europei: poiché, se un vincolo indubbiamente dispiega l’intero ECHR law, per mezzo delle leggi di ratifica della Convenzione e dei suoi Protocolli addizionali, ed esso discende non già dallo statutory ECHR law bensì dall’ECHR case-law, come da oltre un decennio ha segnalato la stessa giurisprudenza costituzionale, è chiaro che il vincolo produce tanto la decisione seriale quanto quella isolata. Naturalmente il riconoscimento della portata e anzi dell’esistenza stessa di una norma giurisprudenziale prescrittiva presuppone una delicata e complessa opera ricostruttiva. Occorre stabilire la dimensione di un dato giurisprudenziale, che a sua volta rilegge, e spesso riscrive significativamente, un dato convenzionale, e con esso il sistema convenzionale nel suo complesso: operazione tutt’altro che agevole perché implica non solo un’attenta interpretazione dei dati normativi esaminati dalla Corte di Strasburgo ma anche l’accurata comprensione della rilevanza che le circostanze fattuali di una specifica vicenda hanno avuto sullo scrutinio della Corte stessa. Insomma, se il vincolo in astratto discende dalla CEDU nell’interpretazione fatta dal suo giudice naturale, l’individuazione della sua esistenza e della sua rilevanza in concreto coinvolge un ulteriore e non meno delicato momento interpretativo.
Il che mi pare sollevi ulteriori dubbi, oltre a quelli giustamente avanzati dal prof. Kostoris, sulla possibilità di circoscrivere l’estensione della giurisprudenza europea ai c.d. “fratelli minori” ai soli casi in cui sussista un orientamento consolidato, e, per le ragioni anzidette, alle ipotesi di decisioni-pilota, che anch’esse per definizione esprimono l’esigenza di fissare un determinato orientamento giurisprudenziale per un numero più o meno consistente di casi analoghi. A ben vedere, mi sembra costituiscano problemi distinti quello affrontato dalla sent. 49/2015 e quello dell’estensione ultra partes delle decisioni della Corte: nel primo caso, si pone (comunque lo si risolva) un problema d’interpretazione della norma che il giudice nazionale è chiamato ad applicare nella vicenda processuale in esame, nonché di risoluzione di un eventuale conflitto tra dati normativi appartenenti a ordinamenti distinti; mentre nel secondo il giudice nazionale è chiamato a verificare se e in che misura debba darsi esecuzione, come correttamente è formulato il quesito postoci dal Cons. Conti, a una pronuncia della Corte in un processo concernente altri soggetti ma in identico caso. Il primo problema, se non vado errato, pone insomma una questione di definizione del parametro normativo per risolvere una specifica vicenda processuale, mentre il secondo muove direttamente da un concreto dato giurisprudenziale e impone di verificare se ed entro che limiti esso fornisca la regola di condotta – e integri dunque la norma nel suo senso più completo – di risoluzione di un caso diverso nei soggetti ma uguale nell’oggetto. Il che mi sembra una ragione più che sufficiente per ritenere questo vincolo discendente finanche da un’isolata pronuncia di Strasburgo, a fronte della quale il giudice nazionale, specie in una materia delicatissima quale quella penale, non potrà esimersi dalla disamina della sua prescrittività rispetto ad altre persone che versino nella medesima situazione che ha condotto alla condanna da parte della Corte europea.
Roberto E. Kostoris
Non vorrei allungare ulteriormente le dimensioni di quest’intervista, avendo già occupato molto spazio nella risposta alle domande iniziali. Mi limito dunque solo a un telegrafico rilievo.
Mi sembra senz’altro da condividere l’osservazione di Stefano Ruggieri che la Corte edu, quando sia adita per un interpello preventivo ai sensi del Prot. 16, non potrà prendere in considerazione il parametro delle ‘garanzie compensative’, dato che esse sono rapportabili solo a una specifica vicenda giudiziaria valutata ‘nel suo complesso’; valutazione che ovviamente può essere effettuata solo a valle e non a monte di quella vicenda. Mi pare allora che si profili al riguardo una chiara alternativa: o si dovrà ritenere per questo motivo a priori esclusa la possibilità di un interpello preventivo avente ad oggetto l’equità processuale, ove si consideri tale garanzia come inscindibilmente legata al globale contesto fattuale di un caso giudiziario, il chè potrebbe tuttavia depotenziare in modo sensibile l’ impiego del nuovo strumento consultivo, dato che i ricorsi più frequenti a Strasburgo riguardano proprio le violazioni dell’art. 6 Cedu, oppure l’equità – almeno quando se ne discuta in un simile contesto - sarà destinata a subire una sorta di ‘irrigidimento interpretativo’ che la depuri da ogni componente ricollegabile all’ as a whole test; similmente, del resto, a quanto sembra già accadere nel diritto eurounitario, dove l’equità è insistentemente richiamata negli atti dell’Unione, ma come referente ‘normativo’ in sé, avulso da qualsiasi collegamento con altri contesti.
Va però sottolineato che questo specifico problema fa cogliere in controluce un aspetto più generale che riguarda il mutamento di fisionomia della Corte edu che l’ introduzione dell’interpello preventivo potrebbe favorire: questo strumento è, infatti, suscettibile di potenziare il suo ruolo di giudice delle leggi, il quale coesiste e si intreccia con quello di giudice dei casi concreti quando essa è chiamata ad agire in via contenziosa: intreccio di ruoli che ha sempre contrassegnato l’ ibrida e particolarissima natura della Corte di Strasburgo, rendendola un unicum nell’ambito dei modelli giurisdizionali (nonostante la Corte costituzionale non se ne sia ben avveduta nelle sentenze gemelle 348 e 349 del 2007, quando è caduta nell’equivoco di attribuire alle sue interpretazioni delle norme Cedu il valore di parametri interposti di costituzionalità, dimenticando quanto esse siano condizionate dalla concretezza dei contesti giudiziari in cui sono state rese).
L’interpello preventivo sembra, dunque, aggiungere un ulteriore elemento di problematicità alla già complessa fisionomia della Corte edu, poiché disegna una divaricazione dei suoi ruoli a seconda che essa sia chiamata a pronunciarsi in via consultiva o in via contenziosa: solo giudice delle leggi nel primo caso; giudice delle leggi e dei casi concreti nel secondo. Se questo è lo scenario che ci si pone davanti, non è escluso che, in proporzione al ‘successo’ che la via consultiva sia in grado di riscuotere e, soprattutto, in proporzione alla diminuzione del carico della via contenziosa che questa sia in grado di favorire, lo strumento dell’advisory opinion possa propiziare una sempre maggior omologazione della Corte edu alle altre Corti di vertice europee e nazionali a vocazione nomofilattica, rendendo correlativamente meno pregnante e significativo proprio quel ruolo più tipico e caratterizzante che l’ha sempre contrassegnata di giudice dei casi concreti.
5.Le conclusioni
R.G.Conti
Davvero poco resta da aggiungere a chi ha avuto l’onore di rivolgere ai due universitari alcuni interrogativi che hanno dato il là a riflessioni profonde e di straordinaria acutezza da parte dei due nostri autorevoli interlocutori, capaci di dialogare tra loro in modo fecondo anche nelle vivaci repliche.
Ne esce, indossando l’abito del pratico, una sensazione di grande fermento fra gli studiosi del processo penale, ancora una volta originata dalla indiscutibile incidenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo su un terreno, qui quello del processo penale, coltivato per anni con un concime domestico che, oggi, ci si accorge, al di là delle diversità di opinione, non essere più sufficiente a dissodare e nutrire un humus che vive di plurime contaminazioni pandemiche – oggi termine amaramente entrato nel linguaggio comune – inarrestabili.
I tentativi del diritto vivente di governare questo fenomeno continuano a prodursi e ad offrire delle tessere che andranno a comporre un mosaico allo stato ancora non ben definito.
Permane, in maniera palmare, un sentire che non può ancora dirsi comune fra i diversi decisori, a volte rivolto a sopravvalutare i parametri di riferimento per ciascuna Corte in danno di quelli “esterni”, altre a tentare una conciliazione fra i diritti “viventi e non” di diversa matrice, altre ancora a sganciarsi completamente dall’idea che l’un parametro sia diverso dall’altro e che sia invece necessario configurare in maniera unitaria un diritto che prima delle influenze dei diversi parametri risolta ancora indistinto.
Viviamo in questa prospettiva un periodo di notevole liquidità, nel quale il decisore domestico accarezza a volte l’idea di dovere o potere doppiare l’attività svolta dall’altro decisore, indossandone i panni e addirittura ipotizzando soluzioni diverse rispetto a quelle adottate dall’altro pur di legittimare il proprio operato.
Il che, a ben considerare, potrebbe essere segnale di rottura del dialogo o, tutto al contrario, dimostrazione di volere comunque attivare dei canali di confronto a distanza. Canali che, ad oggi, non sono pienamente operativi a causa della mancata attuazione del Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Impasse che l’attuale contesto storico non sembra peraltro destinato nel breve a lasciare il passo ad orizzonti capaci di rendere attivo lo strumento della richiesta di parere preventivo alla Grande Camera della Corte edu almeno in ambito interno, con tutte le gravide implicazioni che tale strumento produrrà proprio rispetto a possibili violazioni di natura processuale.
Sembra peraltro emergere, a tratti, un atteggiamento di maggiore prudenza della Corte edu su temi nevralgici quali ad esempio quelli correlati al tema dell’interpretazione del precedente della Corte edu e della portata, vincolante o meno, di quella decisione. Le vicende dei c.d. “fratelli minori” e del bis in idem sono esemplari.
Il che apre degli scenari nuovi e in parte inediti, per governare i quali l’apporto della dottrina sembra indispensabile per gestire un panorama complicato e complesso che gli operatori del diritto.
Grazie davvero a Roberto E. Kostoris e Stefano Ruggeri per il tempo dedicato alla cura di questi temi che, chiamando in causa i diritti dell’uomo, non possono essere emarginati nelle seconde linee, ma vanno sempre posti al primo posto di una società governata, anche in questo periodo, dalla cultura dei diritti. Guai a pensare che l’emergenza possa fare accettare un futuro privo dei diritti, senza i quali verrebbe meno la stessa persona umana nella sua dignità.
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