ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La corruzione “funzionale” e il contrastato rapporto con la corruzione propria*
di Giorgio Fidelbo
Sommario: 1. L’incremento sanzionatorio previsto per il reato di corruzione “funzionale”. – 2. I reati di corruzione nella giurisprudenza precedente alla riforma del 2012: il passaggio dall’atto alla funzione. – 3. L’introduzione del reato di corruzione per l’esercizio della funzione. – 4. La figura di corruzione per asservimento della funzione e le interpretazioni della giurisprudenza dopo la riforma del 2012. – 5. Nuovi confini tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione. – 6. Esercizio della funzione e discrezionalità. – 7. Limiti dell’attuale assetto normativo.
1. L’incremento sanzionatorio previsto per il reato di corruzione “funzionale”
La legge n. 3 del 2019, più nota come legge “spazza corrotti”, in realtà dedica poco spazio ai reati di corruzione, concentrando gli interventi davvero innovativi verso i nuovi istituti della causa di non punibilità e delle operazioni sotto copertura, nonché sulla materia delle pene accessorie. [1]
Le modifiche che interessano direttamente le fattispecie penali riguardano una impegnativa riscrittura della nuova ipotesi di traffico di influenza e un semplice ritocco della pena detentiva per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Quest’ultimo, introdotto, come noto, solo nel 2012, con la legge n. 190, ha già conosciuto nei pochi anni di applicazione un progressivo incremento sanzionatorio: la pena iniziale da uno a cinque anni di reclusione è stata portata, nel massimo, a sei anni nel 2015 (con la legge 27 maggio 2015, n. 69) e oggi, con la citata legge n. 3/2019, è stata ulteriormente aumentata, sia nel minimo che nel massimo, prevedendo la reclusione da tre a otto anni.
Invero, la tendenza all’innalzamento delle sanzioni penali è una costante degli interventi normativi in materia di delitti contro la pubblica amministrazione degli ultimi anni, ritenuta dal legislatore funzionale ad offrire una risposta efficace ai fenomeni corruttivi, soprattutto a seguito delle vicende legate a “tangentopoli” e alla consapevolezza della pervasività della corruzione c.d. sistemica.[2]
La progressione sanzionatoria che ha interessato l’art. 318 c.p. è stata giustificata anche per consentire il ricorso alla custodia cautelare nonché per evitare tentazioni circa l’applicabilità della causa di non punibilità dell’art. 131-bis c.p.
Questo accresciuto peso sanzionatorio viene spiegato in relazione all’esigenza di una maggiore repressione del fenomeno corruttivo, in un’ottica general preventiva, scommettendo, ancora una volta, sulla capacità deterrente della pena detentiva. Si tratta di una tendenza che si inserisce in un piano di interventi legislativi caratterizzato da una lettura semplicistica e riduttiva del fenomeno corruttivo, impostazione questa che però ha subito una svolta proprio a partire dalla legge del 2012, che ha introdotto, accanto a misure repressive, misure dirette alla prevenzione della corruzione sul piano della stessa organizzazione della pubblica amministrazione, utilizzando strumenti amministrativi e organizzativi, che presuppongono una nozione di corruzione più ampia, che non si limiti a considerare il fenomeno solo in chiave criminale [3].
Questa stessa strada è percorsa, almeno in parte, anche dall’ultima riforma. Infatti, l’incremento della forbice edittale della corruzione per l’esercizio della funzione, intervenuta con la legge n. 3 del 2019, è accompagnata dall’aggravamento delle sanzioni accessorie del codice penale, in particolare quelle dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, e delle sanzioni interdittive che il d.lgs. n. 231 del 2001 prevede a carico delle persone giuridiche. Il legislatore del 2019 è consapevole del fatto che l’effettività della risposta ai fenomeni corruttivi non dipende solo dall’entità della pena edittale ed infatti, come si è accennato, ha messo in campo una serie di interventi innovativi, di natura sostanziale, come l’introduzione della causa di non punibilità di alcuni reati nel caso di collaborazione, e di natura processuale, ad esempio estendendo la tecnica investigativa delle operazioni sotto copertura anche alle indagini dei reati contro la pubblica amministrazione. La Relazione di accompagnamento al disegno di legge è chiara nel sottolineare che il potenziamento degli strumenti di contrasto ai fenomeni corruttivi «non può esaurirsi nell’inasprimento sanzionatorio, destinato a rimanere privo di effettività se non accompagnato da efficaci strumenti di prevenzione e di accertamento dei reati» ed è proprio per assicurare effettività concreta al sistema di repressione, anche di tali reati, che è stata modificata in modo radicale la disciplina della prescrizione, prevedendone la sospensione “sine die” dopo la sentenza di primo grado.
Sembra esservi piena consapevolezza che l’aggravamento delle pene principali non costituisce uno “strumento strategicamente vincente”, ciononostante si è previsto comunque un aumento della pena per il delitto di cui all’art. 318 c.p. e tale incremento viene giustificato per la ritenuta esigenza di armonizzare il livello sanzionatorio di questo reato con le altre fattispecie contigue di corruzione, quella “propria” di cui all’art. 319 c.p. e quella in atti giudiziari prevista dall’art. 319-ter c.p. [4] L’originaria pena edittale del reato di corruzione funzionale viene considerata una risposta punitiva inadeguata, soprattutto considerando che in esso possono essere ricomprese condotte dotate di un’ampia e diversa gamma di gravità, da quelle tradizionali e meno gravi di corruzioni per un atto conforme ai doveri d’ufficio, rientranti nella vecchia ipotesi di corruzione impropria, a quelle più insidiose in cui il mercimonio ha ad oggetto la stessa funzione, come ad esempio la messa a libro paga del pubblico funzionario.
Resta tuttavia invariato l’assetto derivante dalla riforma del 2012, nel senso che risulta confermato il rapporto tra le due fattispecie previste dagli artt. 318 e 319, essendo anche oggi la corruzione per l’esercizio della funzione punita meno gravemente rispetto alla corruzione propria. Peraltro, nella citata Relazione al disegno di legge n. 1189, si dà atto di una giurisprudenza che, proprio in relazione ai casi di corruzione della funzione più gravi, tende a ridimensionare lo spazio applicativo dell’art. 318 c.p. a vantaggio della fattispecie prevista dall’art. 319 c.p. Tuttavia, aumentando la pena del reato di corruzione per l’esercizio della funzione il legislatore del 2019, forse senza una piena consapevolezza, ha ottenuto l’effetto indiretto di contribuire a chiarire i termini del rapporto tra le due fattispecie.
2. I reati di corruzione nella giurisprudenza prima della riforma del 2012: il passaggio dall’atto alla funzione
La tendenza della giurisprudenza a valorizzare comunque la fattispecie di corruzione propria si è manifestata ancor prima della riforma dell’art. 318 c.p. introdotta dalla legge n. 190 del 2012.
Il percorso della giurisprudenza in questa materia è noto e può essere sintetizzato in quella che è stata efficacemente definita una progressiva “smaterializzazione dell’elemento dell’atto di ufficio” [5], un percorso che ha determinato il legislatore del 2012 ad intervenire sull’art. 318 c.p.
In entrambe le originarie figure di corruzione, così come descritte nel codice, l’atto d’ufficio svolgeva un ruolo centrale, conferendo ai reati un’impronta tipicamente mercantile in cui l’atto rappresentava il fulcro, impronta che la giurisprudenza ha via via ridimensionato nella misura in cui la corruzione da fenomeno episodico è divenuto fenomeno sistemico.[6]
In particolare, la giurisprudenza ha offerto una lettura estensiva della nozione di atto di ufficio con riferimento al reato di corruzione propria, proponendo un tendenziale superamento del patto corruttivo riferito ad un atto determinato. Questo allontanamento dall’atto ha riguardato, da un lato, il tema della “competenza”, dall’altro, quello della “contrarietà ai doveri d’ufficio”.
Si è infatti sostenuto che non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto, precisando che l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo. [7]
Con riferimento alla nozione di contrarietà ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che essa può riguardare la condotta complessiva del funzionario, che anche tramite l’emanazione di atti formalmente regolari può venir meno ai suoi compiti istituzionali, nella misura in cui tali atti si inseriscano in un contesto avente finalità diverse da quella di pubblica utilità: in questo caso la valutazione sulla contrarietà o meno della condotta del pubblico ufficiale ai suoi doveri, deve incentrarsi non sui singoli atti, ma sull’insieme del servizio reso al privato, per cui, anche se ogni atto separatamente considerato corrisponda ai requisiti di legge, l’asservimento costante della funzione, per denaro, agli interessi privati, concreta il reato di cui all’art. 319 cod. pen. [8] In questo modo la contrarietà ai doveri d’ufficio finisce per essere desunta dalla violazione dei doveri cui è tenuto il pubblico funzionario, riferiti non al singolo atto, bensì alla funzione esercitata, con la conseguenza che il bene oggetto della norma incriminatrice coincide con la tutela dell’imparzialità e della fedeltà, a cui sono vincolati tutti i pubblici funzionari. Il distacco dalla necessità di dover individuare lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio viene temperato ritenendo necessario che dal comportamento dell’agente pubblico emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli, poiché solo in tal modo può ritenersi integrata la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono. [9]
In sostanza, prima della riforma del 2012 ha avuto luogo un «processo di progressiva rarefazione dell’atto di ufficio» [10]: secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione per la sussistenza del reato di corruzione propria non è necessario sempre e comunque l’individuazione dell’atto, in quanto è sufficiente che al momento dell’accordo sia individuato nel genere, consentendo la determinazione di atti che il funzionario pubblico si impegna a compiere.
Questo allargamento del concetto di atto ha comportato che il reato in questione è stato ravvisato anche in presenza di condotte dirette a dare o promettere denaro e utilità ad agenti pubblici in vista di atti futuri, imprecisati ed eventuali, finalizzati a realizzare una sorta di fidelizzazione del soggetto corrotto agli interessi privati di cui il corruttore era portatore.
È evidente come, in questo modo, il diritto vivente abbia operato il passaggio dall’atto alla funzione. La corruzione propria sussiste là dove si realizza un asservimento delle funzioni pubbliche al soddisfacimento di interessi privati e in questa rilettura del reato, adeguata alla complessità e alla evoluzione dei modelli corruttivi, si prescinde dall’atto: l’art. 319 c.p. viene esteso alle ipotesi in cui il privato promette ovvero consegna al funzionario pubblico utilità o denaro per assicurarsene i favori in futuro, assumendo, così, il pubblico agente “a libro paga”. Il pactum sceleris non si concentra sull’atto, ma ha ad oggetto l’asservimento della funzione, che può consistere in comportamenti e interventi non specificamente previsti, anche se prevedibili. [11] Le sentenze non indugiano nell’individuazione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ma ricercano condotte che evidenzino la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di cura degli interessi pubblici che incombono sul pubblico agente. [12] L’estensione del concetto di contrarietà ai doveri d’ufficio ha consentito alla giurisprudenza di considerare mercimonio della pubblica funzione anche la violazione dei doveri generici che disciplinano l’attività amministrativa qualora tali condotte siano inserite in un contesto di asservimento. Peraltro, anche atti non contrari ai doveri d’ufficio potrebbero dar luogo al reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p., nella misura in cui sono espressione dell’asservimento della funzione, desunta dalla violazione dei doveri di fedeltà e imparzialità che devono guidare l’attività dei soggetti pubblici.
Questa giurisprudenza ha ricevuto forti critiche dalla dottrina, che ha posto in rilievo come la sostanziale irrilevanza dell’atto, cui invece fa riferimento la norma incriminatrice, finisca per legittimare un’applicazione analogica della legge penale. [13] È stato rilevato come il delitto di corruzione previsto dal codice penale si basi ancora sull’atto conforme o contrario ai doveri di ufficio, che costituisce l’oggetto dell’accordo, con la conseguenza che tale oggetto deve essere necessariamente individuato: l’estensione operata dalla giurisprudenza in direzione della funzione ha avuto l’effetto di spostare l’asse del reato intorno al dovere di fedeltà, peraltro operando la trasformazione della corruzione in un reato di pericolo, «costituito dal sospetto che, dietro l’asservimento della funzione, conclamato dalla dazione di denaro, si celi un atto, o una serie di atti, rimasti semplicemente non identificati». [14]
In sostanza, si è sostenuto che ritenere che la fattispecie configurata dall’art. 319 c.p. possa riferirsi anche a casi in cui tra il privato e il pubblico funzionario vi sia stato un accordo avente ad oggetto la promessa o la dazione di denaro o di altre utilità, senza l’individuazione di alcun atto specifico, ma in funzione di realizzare un assetto di rapporti futuri favorevoli per gli interessi privati, non trovi riscontro nella definizione codicistica della corruzione dal punto di vita dell’interpretazione letterale e, inoltre, finisce per modificare l’oggetto stesso della tutela, sostituendo il buon andamento della pubblica amministrazione con il riferimento alla fiducia e alla lealtà dei pubblici agenti.
Tuttavia, le critiche della dottrina non hanno scosso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e la ragione di tale atteggiamento coriaceo va ricercata nella trasformazione del fenomeno corruttivo in Italia e nella consapevolezza, da parte della magistratura, dell’inidoneità delle fattispecie penali contenute nel codice a fungere da deterrente e, in particolare, dell’inadeguatezza dell’art. 318 c.p.
Da tempo, infatti, la corruzione ha assunto caratteristiche nuove, che possono essere individuate nel coinvolgimento dei livelli politici e dell’alta amministrazione, nonché della criminalità organizzata; nell’ingresso sulla scena della figura dell’intermediario; in un patto corruttivo intercorrente non solo tra due persone, ma tra più centri di potere; nella prestazione fornita dal privato corruttore costituita non più dalla “tangente”, ma dalla garanzia di sostegno politico, elettorale o finanziario; infine, nella trasformazione del patto illecito che non ha ad oggetto l’atto di ufficio, ma riguarda sempre più spesso la funzione. [15]
In presenza di questo fenomeno complesso, la giurisprudenza ha reagito ad un sistema penale inadeguato a fronteggiare queste forme insidiose di malaffare, muovendosi in due direzioni: da un lato, ha valorizzato l’ambito applicativo del reato di concussione – c.d. concussione ambientale –, nella misura in cui consentiva di preservare una fonte di accusa (il concusso); dall’altro – come si è visto – ha operato una dequotazione del ruolo dell’atto di ufficio nei reati di corruzione. [16]
3. L’introduzione del reato di corruzione per l’esercizio della funzione
Su questo assetto interpretativo, che oggettivamente tendeva ad una estensione applicativa delle norme incriminatrici in questione, forzando il tessuto normativo, è intervenuta la legge n. 190 del 2012, con due modifiche rilevanti sia in rapporto al reato di concussione, con l’introduzione tra l’altro del nuovo delitto di induzione indebita (art. 319-quater c.p.), sia nella specifica materia della corruzione, con la nuova fattispecie di cui all’art. 318 c.p., dedicata alla corruzione della funzione. [17]
In disparte i problemi connessi al rapporto tra la concussione e la nuova figura di induzione indebita, [18] va detto, rimanendo nell’ambito del tema specifico della corruzione, che l’introduzione del reato di corruzione per la funzione sembra avere recepito l’orientamento della giurisprudenza teso ad allargare l’oggetto del patto illecito, superando il riferimento all’atto di ufficio e puntando direttamente sull’esercizio delle funzioni del soggetto pubblico.
Tuttavia, come è stato prontamente rilevato, il legislatore è intervenuto sull’art. 318 c.p., modificando la struttura della corruzione c.d. impropria, laddove l’allargamento operato dalla giurisprudenza, in direzione della funzione a scapito dell’atto, era avvenuto con riferimento alla fattispecie di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p. [19]
Infatti, la figura del reato di corruzione per la funzione è stata “creata” dalla giurisprudenza precedente al 2012 per colmare un vuoto di tipicità e sanzionare i “fenomeni” corruttivi più gravi, quelli cioè in cui il pubblico funzionario vende la propria funzione e si mette a “libro paga” del privato, servendo i suoi interessi, condotta questa che quella stessa giurisprudenza riteneva sempre contraria ai doveri d’ufficio e, quindi, ricompresa nell’art. 319 c.p. La legge n. 190 del 2012, invece, ha disciplinato la nuova ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione novellando l’art. 318 c.p. dedicato alla corruzione impropria e, soprattutto, prevedendo una pena inferiore a quella prevista dall’art. 319 c.p. Questa scelta pone una serie di problemi interpretativi.
Innanzitutto, occorre verificare se la nuova fattispecie configuri una nuova ipotesi di corruzione limitata, però, all’esercizio delle funzioni in conformità ai doveri d’ufficio, tenuto conto che la novella riguarda l’art. 318 c.p.: si tratterebbe, in altre parole, di una corruzione impropria riferita non più all’atto conforme, bensì al complesso dell’esercizio conforme della funzione. [20] Tale lettura riduttiva non è stata neppure presa in considerazione dalla giurisprudenza ed è stata criticata dalla dottrina che l’ha ritenuta poco realistica, in quanto finirebbe per riferirsi a casi del tutto marginali e forse addirittura inoffensivi, laddove la riforma punta ad introdurre una fattispecie di corruzione per asservimento, prescindendo dalla conformità o contrarietà ai doveri di ufficio. [21]
Resta comunque il problema dei rapporti tra le due figure di corruzione, in quanto la modifica apportata con la legge n. 190 del 2012 potrebbe essere intesa come aperta critica all’interpretazione giurisprudenziale tendente a dequalificare l’atto amministrativo quale oggetto necessario dell’accordo corruttivo, per riaffermare così la prevalenza del principio di legalità, nel senso che la costruzione di un reato di corruzione per la funzione, che cioè prescindesse dall’atto, non sarebbe potuta avvenire per via interpretativa, ma solo attraverso un espresso intervento del legislatore.
Ebbene, la Corte di cassazione non sembra affatto voler rinnegare la precedente giurisprudenza sulla corruzione funzionale riferita all’art. 319 c.p., sicché appare necessario definire gli ambiti applicativi delle due fattispecie, con riferimento, in particolare, alle ipotesi del c.d. funzionario a “libro paga”, in cui l’accordo corruttivo si risolve in una generalizzata svendita della funzione in favore degli interessi privati, con previsione di un rapporto corruttivo protratto nel tempo in cui non sia individuabile uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio.
Se si dovesse ritenere che ogni ipotesi di corruzione funzionale rientri nell’art. 318 c.p. lo spazio applicativo della fattispecie prevista dall’art. 319 c.p. rischierebbe una restrizione; d’altra parte, una soluzione che riproponga l’interpretazione estensiva della corruzione propria, che cioè si disinteressi dell’atto amministrativo, si porrebbe in contrasto con lo scopo e la funzione della riforma, [22] con l’effetto di attribuire uno spazio marginale all’art. 318 c.p.
Come si è accennato, la giurisprudenza della cassazione si è mostrata contraria a ricomprendere, sempre e comunque, nella nuova fattispecie dell’art 318 c.p. le ipotesi di corruzione funzionale che prima della riforma del 2012 venivano fatte rientrare nell’art. 319 c.p., sulla base della considerazione secondo cui l’asservimento costante e metodico della funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati è condotta dotata di un maggior grado di offensività e di un più elevato disvalore giuridico rispetto ad una corruzione che abbia ad oggetto un singolo atto amministrativo, con la conseguenza che sarebbe irragionevole un sistema che punisce la condotta, più grave, della corruzione funzionale con una pena inferiore (da uno a sei anni di reclusione, ora da tre a otto anni) rispetto a quella prevista per la corruzione riferita ad un unico atto (da quattro ad otto anni di reclusione, ora da sei a dieci anni). [23] In sostanza, si evidenzia l’irragionevolezza di una lettura del rapporto tra le due fattispecie che giustifichi che la “vendita della funzione”, che rappresenta la figura più grave di corruzione, in cui si raggiunge il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza imposti al pubblico funzionario, venga punita meno gravemente. [24]
4. La figura di corruzione per asservimento della funzione e le interpretazioni della giurisprudenza dopo la riforma del 2012
Come si è già accennato, nella giurisprudenza prevale una certa refrattarietà a ricondurre le ipotesi di corruzione funzionale nell’ambito del nuovo art. 318 c.p.
Si sostiene che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, anche se non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l’omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all’art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l’oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell’ufficio. [25]
Viene ritenuto per lo meno discutibile che la fattispecie criminosa dell’asservimento della funzione, disegnata dall’evoluzione giurisprudenziale e pacificamente sussunta nell’ipotesi di corruzione propria (antecedente o successiva) ex art. 319 c.p., dopo la riforma del 2012 possa essere oggi ricondotta nella previsione del novellato art. 318 c.p., in quanto appare singolare che una disciplina normativa tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili censure in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi non privi di spessore allorché si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità ("venda") un solo suo atto contrario all’ufficio sia punito con una pena assai più grave, rispetto alla pena prevista per un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato. [26]
Si è quindi sostenuto che, perché sia integrato il reato di cui all’art. 319 c.p., non è necessario che sia individuato uno specifico atto contrario, in relazione al cui compimento l’agente pubblico abbia ricevuto denaro ovvero utilità non dovute, purché il suo comportamento evidenzi un atteggiamento volto a vanificare, concretamente, la pubblica funzione, violando i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici. [27]
Questa giurisprudenza finisce per giungere alle stesse conclusioni cui era pervenuta prima della riforma del 2012, quando, operando una dequotazione dell’atto nell’art. 319 c.p., valorizzava le condotte del pubblico funzionario sintomatiche di un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono.
Peraltro, anche la conformità ai doveri di ufficio, nel caso di attività discrezionale, viene fatta rientrare nella fattispecie di cui all’art. 319 c.p.: infatti, si assume la sussistenza del reato di corruzione propria nell’ipotesi in cui l’asservimento ad interessi personali di terzi si traduca in atti che, sebbene siano formalmente legittimi, in quanto assunti nell’ambito di un’attività discrezionale, realizzino comunque l’interesse del privato, inserendosi, così, in una condotta complessiva orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali. [28]
L’effetto principale di tale orientamento interpretativo è quello di legittimare una significativa amputazione della portata applicativa del nuovo art. 318 c.p. fino ad una sua sostanziale abrogazione, ridotto cioè a coprire le corruzioni funzionali conformi ai doveri d’ufficio, a favore di una lettura sempre estensiva dell’art. 319 c.p., così come accadeva prima della riforma del 2012. [29]
Tuttavia, alcune decisioni vanno in controtendenza e individuano un diverso campo applicativo per il nuovo art. 318 c.p.
Si tratta di un indirizzo – considerato minoritario, ma che in realtà si sta affermando ultimamente – secondo cui lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 c.p. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poiché, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente. [30] In sostanza, il rapporto tra le due figure di corruzione viene risolto nel senso di riconoscere comunque uno spazio all’art. 319 c.p., che trova applicazione «quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnate da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente», mentre l’art. 318 c.p. riguarderebbe quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del mercimonio della funzione ovvero in cui l’oggetto del patto riguardi un atto d’ufficio conforme.
Per giustificare il diverso trattamento sanzionatorio delle due figure, si è sottolineato che nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione la dazione indebita pone in pericolo il corretto svolgimento dei pubblici poteri, mentre ove la dazione è sinallagmaticamente connessa al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio si realizza la concreta lesione del bene giuridico protetto, sicché in quest’ultimo caso può trovare giustificazione la previsione di una sanzione più grave. [31]
5. Nuovi confini tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione
Quello che appare come un contrasto più o meno consapevole della giurisprudenza di legittimità potrebbe essere superato o, almeno, sdrammatizzato dalla modifica operata sull’art. 318 c.p. dalla legge n. 3 del 2019.
Come si è anticipato, si tratta di un intervento limitato ad un semplice incremento sanzionatorio, al quale però può essere attribuita una valenza significativa nel delineare i confini con la corruzione propria: oggi le pene previste per le due figure di corruzione non sono così distanti come in origine, ma può dirsi che appartengono a livelli sanzionatori omogenei. Insomma, gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza che, anche dopo la riforma del 2012, riconduceva tutte le figure di corruzione funzionale all’art. 319 c.p., evidenziando come non fosse concepibile che la più grave forma di corruzione fosse punita con le sanzioni più lievi previste dall’art. 318 c.p., non appaiono più irresistibili. Il riavvicinamento del livello sanzionatorio tra i due reati finisce per rendere meno problematico il rapporto tra le figure di corruzione e consente di stabilire confini più razionali. La modifica apportata all’art. 318 c.p., che oggi prevede una pena da tre a otto anni di reclusione, viene giustificata nella Relazione al disegno di legge in ragione della necessità di «consentire l’adeguamento della risposta repressiva alla concreta portata offensiva delle condotte riconducibili a tale fattispecie di reato», realizzando una armonizzazione con il trattamento sanzionatorio previsto per i reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di corruzione in atti giudiziari di cui agli artt. 319 e 319-ter c.p., [32] tuttavia il legislatore del 2019, consapevole di quella giurisprudenza che anche dopo la riforma del 2012 riportava i fenomeni di corruzione della funzione nell’ambito dell’art. 319 c.p., non la “rinnega”, valorizzando nella fattispecie di cui all’art. 318 c.p. la capacità di alleggerire l’onere probatorio del reato in sede processuale in tutti i casi in cui non appare riconoscibile il rapporto sinallagmatico con un determinato atto di ufficio. [33]
Invero, può dirsi che l’incremento sanzionatorio apportato consente anche di individuare un più corretto rapporto tra le due figure di corruzione e potrebbe evitare il rischio di applicazioni che realizzino, di fatto, un vero e proprio svuotamento del contenuto dell’art. 318 c.p., talvolta relegato a colpire solo corruzioni riferibili a specifici atti conformi ai doveri di ufficio.
Con la riforma del 2012, il rapporto tra le due figure di corruzione disciplinate negli artt. 318 e 319 c.p. è mutato, in quanto da un rapporto di alterità, basato sulla distinzione tra la natura conforme o contraria dell’atto ai doveri di ufficio, si è passati ad una relazione di genere a specie, in cui la corruzione funzionale riveste il ruolo di norma generale, mentre la corruzione propria assume i connotati di norma speciale e tale specialità viene ad essa conferita dall’oggetto dell’accordo corruttivo, che deve riguardare necessariamente un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero un’omissione o un ritardo di un atto dovuto. [34]
Questa centralità che il sistema attribuisce al nuovo art. 318 c.p. appare oggi più giustificata dopo l’incremento sanzionatorio operato dalla legge n. 3 del 2019: prima di questa riforma troppo forte era lo scarto tra la pena prevista per la corruzione per l’esercizio della funzione e quella stabilita per la corruzione propria e tale distanza tra livelli sanzionatori ha provocato una “reazione” della giurisprudenza, che è rimasta ferma nel considerare tutte le forme sistemiche di corruzioni funzionali come rientranti nell’art. 319 c.p., con il rischio di una emarginazione dell’art. 318 c.p. per l’irragionevolezza di ricondurre ad esso tutti, indistintamente, i fatti di corruzione c.d. funzionale. Il riallineamento sanzionatorio è un riconoscimento, da parte del legislatore, della reale portata offensiva delle condotte riconducibili al fenomeno della corruzione per l’esercizio della funzione e, nello stesso tempo, una legittimazione della centralità di tale figura, pur nella consapevolezza che l’art. 318 c.p. non può coprire l’intera area della vendita della funzione, desumibile dal fatto, oggettivo, che la corruzione propria resta ancora punita più gravemente.
Deve allora ritenersi che quel fenomeno corruttivo che viene descritto come asservimento o vendita della funzione trova riscontro in entrambe le figure disciplinate negli artt. 318 e 319 c.p. a seconda del grado di determinatezza dell’accordo corruttivo. Invero, i concetti di asservimento (o vendita) della funzione fanno parte di un lessico che non trova riscontro nel testo delle norme: un lessico funzionale a descrivere un fenomeno esistente in natura e che può manifestarsi in modi diversi e che, a seconda delle modalità concrete, rientra nella corruzione per l’esercizio della funzione o nella corruzione propria.
In questo senso diventa significativa quella giurisprudenza, ritenuta minoritaria, che ha individuato la linea di demarcazione tra le due fattispecie proprio nel grado di determinatezza del pactum sceleris, riconoscendo che l’art. 318 c.p. non occupa l’intera area della vendita della funzione, ma solo quella relativa a situazioni in cui «il finalismo del suo mercimonio» non sia – ancora – stabilito, attribuendo all’art. 319 c.p. un campo di applicazione nei casi in cui la «vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri di ufficio». [35]
Sebbene nella concreta applicazione delle due norme l’actio finum regundorum non appaia di agevole individuazione, tuttavia la differenza evidente tra le due fattispecie è data dall’oggetto dell’accordo, più precisamente dal grado di determinatezza dell’atto di ufficio oggetto del patto. Del resto, l’avvenuta “rarefazione” dell’atto nell’art. 318 c.p. non ha determinato il venir meno della concezione mercantilistica della corruzione, dal momento che persiste il rapporto tra prestazione del privato e controprestazione del pubblico agente: nella corruzione di cui all’art. 318 c.p. deve comunque esserci un nesso sinallagmatico con l’esercizio di funzioni o poteri. E allora è sulla determinazione dell’atto di ufficio che deve essere colta la differenza tra i due tipi di corruzione: se il privato corrisponde denaro o altra utilità per assicurarsi l’asservimento della funzione pubblica agli interessi privati, senza che la condotta del pubblico agente sia riferita nell’accordo a specifici atti, troverà applicazione l’art. 318 c.p.; qualora, invece, il patto tra privato e agente pubblico prevede l’asservimento della funzione attraverso l’individuazione, anche solo nel genere, di atti contrari, vi sarà spazio per l’art. 319 c.p. [36]
Nell’art. 318 c.p. la previsione di una pena meno grave rispetto a quella stabilita per la corruzione propria, si giustifica perché il patto riguarda atti non determinati né determinabili, ma ha ad oggetto futuri favori, in altri termini il denaro ovvero l’utilità versata dal privato è in funzione di «precostituire condizioni favorevoli nei rapporti con il soggetto pubblico»; nella corruzione propria, come si è detto, l’accordo riguarda futuri atti contrari ai doveri di ufficio, sicché in questa ipotesi non c’è solo asservimento della funzione, ma l’agente pubblico si impegna a realizzare uno specifico abuso della sua funzione individuato attraverso un atto determinato o determinabile.
È quindi con riferimento al grado di determinatezza degli atti presi in considerazione nel pactum che la distinzione tra le due tipologie di corruzione ritrova una sua razionalità: le obiezioni che evidenziavano una irragionevolezza del sistema che prevedeva per la corruzione funzionale una pena notevolmente inferiore rispetto alla corruzione propria, avente ad oggetto un singolo e specifico atto, sono destinate ad essere ridimensionate non solo perché le due fattispecie oggi contemplano livelli sanzionatori più omogenei, ma soprattutto perché la corruzione di cui all’art. 318 c.p., per quanto possa riferirsi a forme di corruzione per asservimento della funzione, è comunque destinata a punire quegli accordi funzionali a realizzare future condotte favorevoli con i soggetti interni alla pubblica amministrazione, senza che siano individuati specifici abusi collegati ad atti contrari ai doveri di ufficio. Si tratta, in altri termini, di un reato di pericolo, funzionale a prevenire la realizzazione di atti lesivi dell’imparzialità della pubblica amministrazione, che punisce (anche) condotte definibili di asservimento della funzione, prodromiche al compimento di specifici atti diretti a favorire in futuro il privato e gli interessi egoistici di cui è portatore. [37]
Diversamente, nella corruzione propria, anche il compimento di quel solo e specifico atto contrario ai doveri di ufficio realizza una concreta lesione del bene giuridico tutelato – l’imparzialità dell’amministrazione pubblica – sicché è del tutto giustificata una pena più severa. L’art. 319 c.p. è qualificabile come reato di danno e lo è anche nell’ipotesi in cui l’atto contrario non sia individuato, ma sia comunque concretamente determinabile, trattandosi di situazioni omogenee dal punto di vista del disvalore.
Al contrario, sempre considerando il tema dell’asservimento, appare disomogeneo il disvalore delle situazioni contemplate nei due articoli in esame: nell’art. 318 il denaro o l’utilità sono destinati a precostituire condizioni future e favorevoli nei rapporti con l’amministrazione, mentre nell’art. 319 l’accordo è rivolto a futuri atti contrai ai doveri d’ufficio, che possono essere individuati anche in modo generico.
Se la linea di confine tra le due fattispecie di corruzione passa attraverso il grado di determinatezza dell’oggetto del pactum sceleris, il problema pratico che si pone riguarda non tanto l’ipotesi in cui l’atto sia determinato ovvero non sia inserito nell’accordo, quanto il caso in cui l’atto sia determinabile.
È evidente che un tale accertamento andrà fatto caso per caso. Tuttavia, ai fini di tale verifica occorrerà far riferimento al patto, che andrà interpretato in funzione dell’individuazione di un atto che sia contrario ai doveri di ufficio e dallo stesso esame dell’accordo corruttivo potrà accertarsi il grado di determinatezza dell’atto, con la conseguenza che, concretamente individuato, anche nel genere, potrà configurarsi il più grave reato di corruzione propria. In sostanza, la “determinabilità” dell’atto emergerà dalla “determinatezza” stessa dell’accordo e dalla concreta condotta posta in essere dal pubblico agente nell’ambito dell’esercizio della sua funzione o del suo servizio. I problemi applicativi più delicati sorgono qualora dall’accordo non risultino determinabili i contenuti, con la conseguenza che l’accertamento dovrà fondarsi sulla funzione esercitata, sulla ricostruzione della procedura ex post e della situazione che si presentava al tempo dell’accordo, tenendo conto anche dell’atto che sia stato eventualmente posto in essere, al fine di verificare la considerazione che l’interesse privato ha avuto nella decisione del funzionario pubblico, soprattutto nel caso di attività discrezionale. [38]
6. Esercizio della funzione e discrezionalità
Nell’art. 318 c.p. il riferimento all’esercizio delle funzioni o dei poteri consente di poter ricomprendere anche quegli accordi che, nella preesistente figura di corruzione impropria, avevano ad oggetto atti conformi ai doveri di ufficio; solo l’individuazione nel patto di un atto contrario ai doveri di ufficio determina la configurabilità della corruzione propria di cui all’art. 319 c.p.
Uno degli aspetti più problematici – a cui in realtà va ricollegato il contrasto rilevato nella giurisprudenza di legittimità – riguarda la possibilità di ritenere conforme ai doveri anche l’atto discrezionale.[39]
Secondo un orientamento, che allo stato appare maggioritario, si tende a ricomprendere nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 319 c.p. tutte le corruzioni aventi ad oggetto atti discrezionali, soprattutto nel caso in cui vi sia l’asservimento della funzione. Si assume che lo stabile asservimento del pubblico agente a interessi personali di terzi, che si traduca in atti discrezionali e non rigorosamente predeterminati, finalizzati a privilegiare l’interesse del privato, configuri il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione. [40] Tale indirizzo considera che il denaro o l’utilità non dovuta provoca in ogni caso un inquinamento nella decisione del funzionario pubblico a favore dell’interesse del privato, con la conseguenza che l’atto dell’amministrazione, in quanto viziato da eccesso di potere, va considerato “contrario ai doveri di ufficio” e per questo ricompreso nella corruzione propria. In altri termini, in presenza di forme di asservimento della funzione, anche la presenza di atti formalmente legittimi, ma discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, vengono fatti rientrare nell’ambito dell’art. 319 in quanto si reputano comunque conformi all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali. [41] Nella misura in cui l’attività discrezionale non è “libera e spontanea”, in quanto sollecitata dal privato, la giurisprudenza tende automaticamente a considerare che il funzionario pubblico non abbia effettuato una comparazione imparziale degli interessi in gioco.
Indubbiamente, individuare la linea di confine tra gli artt. 318 e 319 c.p. è sicuramente più semplice nel caso di atti vincolati, dovendosi verificare la contrarietà ai doveri di ufficio in rapporto all’inosservanza dei presupposti normativi dell’atto stesso. Più difficoltoso quando si tratta di atti discrezionali, in cui il parametro normativo è meno significativo: tuttavia, ciò non può giustificare l’orientamento sopra citato, che finisce per riconoscere spazio applicativo al solo reato di corruzione propria, ritenendo che la decisione del pubblico agente è sempre inquinata dalla ricezione del denaro o dell’utilità non dovuta, così qualificando l’atto come contrario ai doveri d’ufficio. Allo stesso modo, non convince la tesi che sostiene che in tali casi dovrebbe trovare applicazione solo l’art. 318 c.p., sul presupposto, non corretto, che l’atto discrezionale è sempre legittimo, non considerando che anche l’attività discrezionale dell’amministrazione è soggetta all’osservanza di parametri normativi e presupposti applicativi.
Se l’essenza della discrezionalità amministrativa consiste nella “ponderazione comparativa” dei vari interessi secondari per la realizzazione dell’interesse pubblico al fine di assumere la decisione concreta, l’accertamento diretto a conoscere se tale attività sia stata inquinata da una corruzione propria o impropria deve riferirsi a come l’intera funzione è stata esercitata.[42] La discrezionalità attiene alla funzione, cioè al farsi dell’atto amministrativo e quindi al procedimento: considerato che nell’esercizio della discrezionalità pura non vi sono norme predefinite che l’agente pubblico deve osservare, dal momento che le prescrizioni esistenti lasciano ampi margini di scelta all’amministrazione, ne deriva che le regole che sovrintendono l’attività discrezionale emergono “alla fine”, ovvero quando vengono alla luce eventuali violazione che possono dar luogo al vizio di eccesso di potere, che è il “risvolto patologico della discrezionalità” e che sussiste nei casi in cui la decisione discrezionale spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’accertamento che compie il giudice amministrativo attraverso il sindacato dell’eccesso di potere consiste in un giudizio di logicità e congruità che, nel valutare la violazione delle prescrizioni che l’attività discrezionale deve comunque osservare, prende in esame l’interesse primario da perseguire confrontandolo con gli interessi secondari coinvolti per arrivare a verificare come la funzione è stata esercitata in concreto.
È fin troppo agevole osservare che l’accertamento riservato al giudice penale in relazione alla sussistenza delle fattispecie di corruzione non coincide con la verifica compiuta dal giudice amministrativo circa l’esistenza del vizio di eccesso di potere; tuttavia anche nel sindacato penale il giudice è chiamato ad accertare se la discrezionalità sia stata o meno bene esercitata. Si tratta di un accertamento che ha un quadro di riferimento diverso, in quanto limitato a verificare unicamente se l’interesse pubblico sia stato condizionato e in che misura dal privilegio accordato all’interesse del privato corruttore, ma anche in questo caso l’oggetto dell’accertamento sarà costituito dallo svolgimento della funzione, da come si è svolto il procedimento, dalla completezza dell’istruttoria, fino alla motivazione dell’atto amministrativo. È attraverso il procedimento che l’amministrazione si rende conto della situazione di fatto su cui deve agire e, di conseguenza, accerta e valuta i presupposti di fatto della decisione, adottando la soluzione più opportuna alla realizzazione dell’interesse pubblico: se tale attività viene svolta violando i principi dell’azione amministrativa, contravvenendo cioè ai canoni di razionalità, ragionevolezza, proporzionalità, imparzialità può configurarsi il vizio di eccesso di potere. Ebbene, la verifica del procedimento, forma della funzione amministrativa, e del rispetto dei principi dell’azione amministrativa può rivelarsi indispensabile anche per l’accertamento del giudice penale ai fini dell’individuazione del condizionamento dell’interesse pubblico in favore dell’interesse privato.[43]
Va quindi riconosciuto che, così come può aversi un accordo corruttivo che abbia ad oggetto un atto che preveda un uso distorto del potere discrezionale, con conseguente applicazione dell’art. 319 c.p., non può escludersi che il medesimo accordo corruttivo possa riferirsi all’esercizio corretto del potere discrezionale, in cui l’atto da compiere non realizzi alcuna interferenza o inquinamento dell’interesse privato sulla scelta ponderata di competenza del pubblico funzionario: in tal caso l’interesse pubblico viene realizzato e non vi è spazio per qualificare l’atto come contrario ai doveri d’ufficio, sicché si rientra nella fattispecie di cui all’art. 318 c.p.
Lo stesso approccio vale in caso di discrezionalità tecnica, in cui la decisione dell’amministrazione non ha un contenuto propriamente volitivo, ma prevale una valutazione tecnica, che talvolta si riduce ad una attività di giudizio a contenuto scientifico, rimessa a soggetti in possesso di specifiche competenze: anche in tali ipotesi il giudice penale dovrà operare un accertamento sulla contrarietà o meno della decisione ai doveri di ufficio al fine di distinguere le due fattispecie corruttive. Allo stesso modo non sarà sufficiente, ai fini di ritenere la sussistenza della corruzione propria antecedente, che il funzionario pubblico abbia ricevuto del denaro nell’ambito di un procedimento amministrativo destinato a valutare il presupposto di una situazione di pericolo ovvero a giudicare la natura di pregio artistico di un bene o, ancora, a valutare la preparazione di un candidato, dovendosi accertare che nell’esercizio della discrezionalità tecnica e, quindi, nel corso del procedimento amministrativo che ha portato ad una certa decisione, i parametri tecnici che dovevano essere utilizzati nella ponderazione degli interessi siano stati correttamente impiegati ovvero piegati per favorire l’interesse del privato corruttore.
La giurisprudenza di legittimità meno recente ha chiarito che nella corruzione impropria l’accordo corruttivo realizza una violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza però che la parzialità si trasferisca nell’atto, che resta l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici, mentre nella corruzione propria la parzialità si rileva nell’atto, marcandolo di connotazioni privatistiche, perché formato nell’interesse esclusivo del privato corruttore, e rendendolo pertanto illecito e contrario ai doveri di ufficio [44]; da qui la sussistenza del reato di cui all’art. 319 c.p. in tutti i casi in cui la scelta discrezionale era determinata non dalla convenienza ed opportunità della pubblica amministrazione per il raggiungimento dei suoi fini istituzionali, ma solo dall’interesse del privato corruttore.
Ebbene, quella giurisprudenza escludeva che l’atto, sol perché discrezionale, potesse essere considerato, sempre e comunque, contrario ai doveri d’ufficio e pertanto idoneo a realizzare il reato di corruzione propria, ritenendo invece decisivo accertare ai fini della contrarietà o meno dell’atto discrezionale ai doveri di ufficio se nella sua emanazione fossero state rispettate le regole di esercizio del potere discrezionale da parte del pubblico ufficiale. [45]
Si tratta un approccio che può essere ribadito anche in relazione alla normativa attuale, potendo sostenersi violato il dovere d’ufficio di agire con imparzialità nella ricerca dell’interesse pubblico quando, a fronte della possibilità di adottare più soluzioni, il pubblico ufficiale operi la sua scelta in modo da assicurare il maggior beneficio al privato a seguito del compenso promesso o ricevuto, poiché in tal caso l’atto trova il suo fondamento prevalentemente nell’interesse del privato. L’art. 319 c.p. deve ritenersi applicabile solo se il funzionario viola le regole che disciplinano il potere che gli è attribuito in funzione di una non corretta ponderazione degli interessi in campo, facendo cioè prevalere l’interesse privato di cui è portatore l’extraneus che gli ha corrisposto il denaro e svalutando l’interesse pubblico generale; ma se il potere discrezionale viene esercitato correttamente, l’esistenza dell’accordo corruttivo non è di per sé sufficiente a far scattare l’ipotesi più grave di corruzione, potendo trovare applicazione l’art. 318 c.p. [46]
7. Limiti dell’attuale assetto normativo
Il reato di corruzione per l’esercizio della funzione racchiude al suo interno condotte dotate di gradi di offensività profondamente diversi, che vanno da corruzioni di natura quasi bagatellare, come ad esempio quelle riconducibili alla ipotesi di corruzione impropria susseguente, a comportamenti ben più gravi, rientranti nella figura della corruzione per asservimento della funzione. Da questo punto di vista, l’avere previsto anche l’innalzamento della pena minima (da uno a tre anni) non è apparsa scelta opportuna, in quanto sarebbe stata più funzionale una forbice edittale dotata di maggiore ampiezza, al fine di consentire al giudice di adeguare la pena alla concreta rilevanza del fatto, proprio in considerazione della scelta effettuata dal legislatore di contenere nella stessa fattispecie condotte dotate di così differente offensività.
Di contro, va anche detto che la stessa scelta di ricomprendere all’interno della stessa fattispecie dell’art. 318 realtà criminologiche così diverse rischia di rivelarsi inopportuna. [47] Proprio considerando la diversità di disvalore tra i fatti delittuosi che possono essere ricompresi nella corruzione funzionale tornano di attualità quelle proposte che, già prima della riforma del 2012, auspicavano la depenalizzazione della corruzione impropria susseguente. [48]
In effetti, la portata applicativa dell’art. 318 può risultare talmente ampia, ricomprendendo fatti caratterizzati da un disvalore eccessivamente differente, sicché resta affidato alla potere discrezionale del giudice, attraverso un attenta e saggia commisurazione della pena, assicurare «ragionevoli dosimetrie sanzionatorie» [49].
Seppure l’introduzione dell’art. 318, ad opera della legge del 2012, ha colto una precisa istanza criminologica consistente nella graduale attenuazione dell’elemento della corrispettività in rapporto a individuabili “prestazioni” del soggetto pubblico, tuttavia si percepisce una certa inadeguatezza del complesso normativo nella materia della corruzione, che appare poco funzionale.
In passato è stata in più occasioni ipotizzata una fattispecie "unitaria" di corruzione. [50]
Ebbene oggi la fattispecie-base di corruzione potrebbe essere rappresentata proprio dalla corruzione per l’esercizio della funzione, riferita a condotte di indebita accettazione di utilità in relazione alle funzioni o all’attività del soggetto pubblico, [51] magari escludendo, espressamente, l’ipotesi della corruzione impropria susseguente che potrebbe, eventualmente, essere sanzionata solo in via amministrativa, prevedendo, almeno nei casi più gravi, sanzioni interdittive a carico del funzionario pubblico.
La corruzione propria, che continuerebbe ad essere collegata al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio, potrebbe configurare una circostanza aggravante, in modo da realizzare una differenziazione del tipo con le altre figure di corruzione, in questo modo raggiungendo anche l’obbiettivo di semplificare l’accertamento probatorio [52].
Il ricorso alle circostanze aggravanti si giustificherebbe anche per assicurare una repressione più grave alle condotte di corruzione tenute da soggetti che svolgono funzioni pubbliche particolarmente sensibili: l’attuale corruzione in atti giudiziari rientrerebbe in questa aggravante, che potrebbe riguardare anche altre funzioni, ad esempio quella militare o di polizia, cioè attività pubbliche la cui compromissione dell’integrità dei suoi appartenenti è in grado di provocare gravi ripercussioni sulla credibilità dello Stato.
Il ricorso alle circostanze aggravanti potrebbe essere altrettanto giustificata per gli atti di corruttela diretti ad alterare le regole della concorrenza nell’ambito del mercato nazionale. Invero, il danno prodotto dalla corruzione non riguarda le sole categorie del “buon andamento” e della “imparzialità” della pubblica amministrazione, ma, come l’esperienza ha dimostrato, può propagarsi all’integrità dell’economia nazionale. Del resto da tempo si registra nell’ambito del fenomeno corruttivo un intenso collegamento tra economia, politica e amministrazione, sicché il danno arrecato alla società assume spesso connotazioni macroeconomiche, incidendo sulla libera concorrenza e sullo stesso funzionamento delle istituzioni democratiche. In questo modo, si realizzerebbe l’esigenza di modernizzare la fisionomia del bene protetto, attraverso la valorizzazione della tutela di un piano di interessi collegato al tipo di attività svolta dalla pubblica amministrazione.
* Il presente contributo fa parte del volume collettaneo “Il contrasto alla corruzione ad un anno dalla “spazzacorrotti”, in corso di stampa presso l’Editore Giappichelli.
[1] In generale sulla legge di riforma cfr., G. Flora, La nuova riforma dei delitti di corruzione: verso la corruzione del sistema penale?, in La nuova disciplina dei delitti di corruzione. Profili penali e processuali, a cura di Flora e Marandola, Firenze, 2019, 3 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 209, 44 ss.; M. Mantovani, Il rafforzamento del contrasto alla corruzione, in Dir. pen. proc., 2019, 608 ss.; N. Pisani, Il disegno di legge “spazzacorrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, 3589; T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018, 1 ss.; D. Pulitanò, Tempeste sul penale. Spazzacorrotti ed altro, in Dir. pen. contemp. trim., 2019, 235.
[2] Anche la riforma del 2012, attuata con la legge n. 190 ha previsto un generalizzato inasprimento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione, inasprimento riproposto con la legge n. 69 del 2015: infatti, la pena per la corruzione propria è stata ulteriormente aumenta da sei a dieci anni (l’originaria pena da due a cinque anni era stata portata da quattro a otto anni dalla legge n. 190); la corruzione in atti giudiziari è punita con la reclusione da sei a dodici anni (l’originaria pena da tre a otto anni era stata portata da quattro a dieci anni dalla legge n. 190); la pena per l’induzione indebita è stata aumentata da sei a dieci anni e sei mesi rispetto alla originaria pena edittale da tre a otto anni stabilita dalla legge n. 190; inoltre, sono state rese più gravi anche le pene accessorie, in particolare l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
[3] Cfr., M. Clarich-B. Mattarella, La prevenzione della corruzione, in La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione (a cura di B. Mattarella e M. Pelissero), Giappichelli, 2013, 59 ss.; E. Dolcini-F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. contemp., 2012; F. Palazzo, Corruzione: per una disciplina “integrata” ed efficace, in Dir. pen. proc., 2011, 1177 ss.; D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., 2012, suppl. al n. 11, 3 ss.
[4] Relazione al disegno di legge n. 1189 presentato dal Ministro della giustizia il 24 settembre 2018, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.
[5] P. Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., 2013, 8.
[6] Sulla trasformazione della corruzione dal tipo “burocratico”, in cui l’atto amministrativo è l’oggetto del mercimonio, alla “corruzione affaristica”, nella quale predominano rapporti stabili che agiscono sull’intera funzione amministrativa v., F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, 3389.
[7] Così, Cass., Sez. VI, 14 luglio1993, n. 2390, Cappellari, in Cass. ced. n. 195523; Cass., Sez. VI, 16 maggio 2012, n. 30058, Di Giorgio, in Ced. cass., 253216; Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 2355, Margiotta, in Cass. pen., 2016, 3597.
[8] Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1990, n. 7259, Lapini, in Cass. pen., 1992, 944; Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2003, ivi, 2004, 2300.
[9] Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2007, n. 21192, Eliseo, in Cass. ced. n. 236624; Cass., Sez. VI, 16 gennaio 2008, n. 20046, Bevilacqua, ivi, n. 241184; Cass., Sez. VI, 15 maggio 2008, n. 34417, Leini, ivi, n. 241081.
[10] Così, M. Pelissero, I delitti di corruzione, in I reati contro la pubblica amministrazione a cura di Grosso-Pelissero (Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro), 2015, 287.
[11] Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, in Cass. pen., 2006, 3578.
[12] Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2007, in Cass. pen., 2008, 201.
[13] Cfr., V. Manes, L’atto di ufficio nelle fattispecie di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 925; Balbi, 2003, 105; D. Brunelli, La riforma dei reati di corruzione nell’epoca della precarietà, in Arch. pen., 2013, 65; R. Bartoli, Il nuovo assetto della tutela a contrasto del fenomeno corruttivo, in Dir. proc. pen., 2013, 351; F. Cingari, La concussione, i delitti di corruzione, millantato credito, delitti di indebito esercizio di funzione pubbliche e professioni, in Delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di Palazzo, Napoli, 2011, 112.
[14] T. Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e corruzione, in Arch. pen., 2012, 785.
[15] Sulla trasformazione del fenomeno “corruzione” cfr., F. Cingari, Possibilità e limiti del diritto penale nel contrasto alla corruzione, in Corruzione pubblica (a cura di F. Palazzo), Firenze, 2011, 9 ss.; P. Davigo, I limiti del controllo penale e la crescita del ricorso alla repressione penale, in Corruzione e sistema istituzionale (a cura di M. D’Alberti e R. Finocchi), Bologna, 1994, 47 ss.; P. Davigo-G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Bari, 2008, 7 ss.; D. Della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, 1992; D. Della Porta-A. Vannucci, Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori, Bologna, 1994; G. Forti, Il Volto di medusa: la tangente come prezzo della paura, in Il prezzo della tangente. La corruzione come sistema a dieci anni da “mani pulite” (a cura di G. Forti), Milano, 2003; V. Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, Napoli 2012, 23 ss.; F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, cit., 3389; A. Vannucci, La corruzione nel sistema politico italiano a dieci anni da mani pulite, in Il prezzo della tangente, cit., 23 ss.
[16] Sugli effetti della corruzione c.d. sistemica e sulla inadeguatezza della normativa v., G. Forti, L’insostenibile pesantezza della tangente ambientale: inattualità della disciplina e disagi applicativi del rapporto corruzione-concussione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 491 ss.; Id., Unicità o ripetibilità della corruzione sistematica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione sostenibile dei crimini politico-amministrativi, in Riv. trim. pen. econ., 1997, 1092 ss.; F. Palazzo, Politica e giustizia penale: verso una stagione di grandi riforme?, in Dir. proc. pen., 2010, 3 ss.; S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 951 ss.
[17] Sul complesso delle modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 v., D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., 2012, suppl. al n. 12, 3 ss.; S. Seminara, La riforma dei reati di corruzione e concussione come problema giuridico e culturale, in Dir. pen. proc., 2012, 1235 ss.
[18] Problemi affrontati, ma forse non del tutto risolti, da Cass., Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 12228, Maldera, in Cass. pen., 2014, 1992.
[19] M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 291.
[20] In questo senso, G. Amato, Corruzione: si punisce il mercimonio della funzione, in Guida dir., 2012, 48, XXI.
[21] Così, M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 292; A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p.: la corruzione per l’esercizio della funzione, in Leg. pen., 2013, 618.
[22] A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 630.
[23] Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, Terenghi, in Cass. ced. n. 258521.
[24] In questi termini, da ultimo, v., L. Furno, Riflessioni a margine di Sez. VI, n. 4486/2018, nel prisma della recente legge c.d. spazza-corrotti e delle tre metamorfosi dello spirito, in Cass. pen., 2019, 3501 ss.; nello stesso senso anche, A. Bassi, La Corruzione, in I nuovi reati contro la P.A. (AA.VV.), Milano 2019, 123, che paventa il rischio di una disparità di trattamento tra chi commette un unico atto contrario ai doveri di ufficio rispetto a chi sia stabilmente messo a “libro paga” per il compimento di atti contrari non determinati né determinabili, dal momento che il primo sarebbe punito più gravemente per una condotta a cui viene riconosciuto un grado di minor offensività.
[25] Così, Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211, Ferrante, in Cass. ced. n. 266510; Cass., Sez. VI, 23 settembre 2014, n. 6056, Staffieri, ivi, n. 262333; Cass., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 47271, Casarin, in Cass. pen., 2015, 1419.
[26] Così, Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, Terenghi, cit.
[27] In questi termini, Cass., Sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 15959, Caiazzo, in Cass. ced. n. 266735; Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211, Ferrante, ivi, n. 266510; Cass., Sez. VI, 13 luglio 2018, n. 51765, Ozzimo.
[28] Cfr., Cass., Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 3606, Bonanno, in Cass. ced n. 269347; Cass., Sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, Argenziano, ivi, n. 271383; Cass., Sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267, Baccari, ivi, n. 273448; Cass., Sez. VI, 19 aprile 2018, n. 51946, Cavazzoli, ivi, n. 274507.
[29] Secondo V. Manes, La “frontiera scomparsa”: logica della prova e distinzione tra corruzione propria e impropria, in La corruzione: profili storici, attuali, europei, e sovranazionali, a cura di Fornasari-Luisi, Padova, 2003, 244, questa lettura avrebbe portato ad una vera interpretatio abrogans dell’art. 318 c.p. precedente alla riforma del 2012.
[30] Cass., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, Chisso, in Cass. pen., 2015, 1415, che rappresenta la capofila di questo orientamento; nonché, Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, in Cass. pen., 2019, 3495; Cass. Sez. VI, 20 aprile 2019, n. 32401, Monaco, in Cass. ced. n. 276801; Cass., Sez. VI, 13 febbraio 2019, n. 13406, Carollo, ivi, n. 275428; Cass., Sez. VI, 26 aprile 2019, n. 33838, Massorbio, ivi, n. 276783; Cass. Sez. VI, 19 settembre 2019 Fanigliulo, in Guida dir., 2020, 4, 97.
[31] Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, cit.
[32] Relazione al disegno di legge n. 1189 presentato dal Ministro della Giustizia il 24 settembre 2018, cit.
[33] Relazione, cit.
[34] In questo senso, T. Padovani, La messa a “libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, 48, X; F. Viganò, La riforma dei delitti di corruzione, in Libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2013, 154; A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 628; C. Benussi, La riforma Severino e il nuovo volto della corruzione, in Corr. merito, 2013, 361; M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 284; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione (I delitti dei pubblici ufficiali), in Commentario sistematico, IV ed., Milano, 2019, 154.
[35] Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 47271, Chisso, cit.
[36] In questo senso, seppure con differenti impostazioni e accenti, sembra orientata parte della dottrina, ancor prima delle modifiche apportate all’art. 318 dalla legge n. 3 del 2019: v., M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 294; S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, in Speciale corruzione, a cura di Pisa, Dir. proc. pen., 2013, 20; cfr., inoltre, A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 629, il quale evidenzia come la presenza dell’art. 318, che si caratterizza per un «ampio e inedito alveo di tipicità con un deciso incremento della discrezionalità giudiziale», impone, di contro, un’interpretazione dell’art. 319 tassativa e restrittiva, intercorrendo tra le due disposizioni «un rapporto inverso di frammentarietà».
[37] V., in giurisprudenza, Cass. Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, cit., che qualifica la fattispecie di cui all’art. 318 c.p. come reato di pericolo. In dottrina, tra gli A. che considerano la corruzione funzionale quale reato di pericolo rispetto al bene dell’imparzialità dell’amministrazione v., Del Gaudio, Corruzione, in D. disc. pen., Agg., Torino, 2000, 122; Pagliaro-Parodi Giusino, Principi di diritto penale, Parte speciale I, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano 2008, 178; M. Catenacci, I delitti di corruzione, in Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia – Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Palazzo-Paliero, Torino, 2016, 96 ss.. secondo cui si tratta di un reato di pericolo presunto, che anticipa la tutela del medesimo bene oggetto dell’art. 319 c.p.
[38] Cfr., M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 210, secondo cui nel caso in cui «non si raggiunga la prova dell’espresso o tacito ruolo che avrebbe dovuto svolgere l’interesse privato, dovrà concludersi – in dubio pro reo – per la meno grave corruzione ex art. 318».
[39] Sul tema del rapporto giudice penale e discrezionalità amministrativa v. F. Palazzo, Il giudice penale tra esigenze di tutela sociale e dinamica dei poteri pubblici, in Cass. pen., 2012, 1617; con riferimento ai reati di corruzione cfr., da ultimo, C. Cudia, L’atto discrezionale nel reato di corruzione propria tra diritto penale e diritto amministrativo, in Dir. pen. proc., 2019, 833 ss., nonché, L’atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio nel reato di corruzione propria: verso una legalità comune al diritto penale e al diritto amministrativo, in Diritto pubblico, 2017, 682 ss. In generale, sul sindacato della giurisdizione penale nei confronti dell’amministrazione pubblica, si rinvia all’analisi, ancora attuale, di M. Nigro, Giudice ordinario (civile e penale) e pubblica amministrazione, in Foro amm., 1983, 2035.
[40] Cfr., Cass., Sez. VI, 19 aprile 2018, n. 51946, Cavazzoli, in Cass. pen., 2019, 3640 ss.; Cass. Sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267, ivi, 2019, 230 ss.; Cass. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 6677, Maggiore, in Cass. ced. n. 267187;
[41] Così, Cass. Sez. VI, 20 ottobre 2016, n. 3606, Bonanno, in Cass. ced. n. 269347.
[42] Sulla discrezionalità amministrativa si rinvia alla vasta letteratura in materia, tra cui v., soprattutto, M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1937, 52 ss., nonché Id., Diritto amministrativo, Milano, 1988, 483 ss.; C. Marzuoli, Discrezionalità amministrativa e sindacato giurisdizionale: profili generali, in Dir. pubb., 1998, 164; A. Piras, Discrezionalità, in Enc. dir., IV, Milano 1964, 65.
[43] Sull’eccesso di potere v., ex plurimis, F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubb., 1950, 4; E. Cardi – S. Cognetti, Eccesso di potere (atto amministrativo), in Dig. disc. pubb., V, Torino, 1990, 342; M.S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., 750 ss.; F. Modugno – M. Manetti, Eccesso di potere amministrativo, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1; A. Sandulli, Eccesso di potere e controllo di proporzionalità, in Riv. trim. dir. pubbl., 1995, 329; G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali, Napoli, 2012, 102; F.G. Scoca, La crisi del concetto di eccesso di potere, in Prospettive del processo amministrativo (a cura di L. Mazzarolli), Padova, 1990, 171; Id., Diritto amministrativo, Torino, 2011, 267.
[44] Cass., Sez. VI, 10 luglio 1995, n. 9927, Caliciuri, in Cass. ced. n. 202877; Cass., Sez. VI, 12 giugno 1997, n, 11462, Albini, ivi, n. 209699; Cass. Sez. VI, 28 novembre 1997, n. 1319, Gilardino, ivi, n. 210442; Cass. Sez. VI, 15 febbraio 1999, n. 3945, Di Pinto, ivi, n. 213885.
[45] Così, Cass., Sez. VI, 12 giugno 1997, n, 11462, Albini, cit.
[46] In dottrina cfr., M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 313 ss. che, a proposito di atti discrezionali e corruzione, nel ritenere necessario l’accertamento della discrasia tra l’atto realizzato e quello che il soggetto pubblico avrebbe verosimilmente posto in essere ove non vi fosse stato l’accordo, ricorda che in tali termini si è pronunciata anche la Corte costituzionale nel noto procedimento Lockheed (Corte cost., n. 221 del 1979, in Foro it., 1979, I, 2193); M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 209 ss., secondo cui negare in tali casi l’applicazione dell’art. 318 «significherebbe postulare un disvalore ulteriore rispetto a quello della mera dazione/ricezione indebita, così respingendo la scelta del diritto positivo di distinguere nettamente tra corruzioni di differente gravità». Sulla corruzione in caso di attività discrezionale v., inoltre, C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di dritto penale – Parte speciale, diretto da Dolcini – Marinucci, Padova, 2013, 733 ss.; C. Cudia, L’atto discrezionale nel reato di corruzione propria tra diritto penale e diritto amministrativo, cit.,845 ss.
[47] Critiche su tale scelta sono state mosse da, F. Palazzo, Gli effetti “preterintenzionali” della nuova norma penale contro la corruzione, in La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013, 19; nonché da M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 198 ss. e S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, cit., 20.
[48] F. Bricola, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 578; S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 981; R. Rampioni, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1984, 313. Cfr, inoltre G. Balbi, I delitti di corruzione. Un’indagine strutturale e sistematica, Napoli, 2003, 52, secondo cui solo la corruzione propria antecedente è caratterizzata da un contenuto offensivo che giustifica la previsione di una norma incriminatrice.
[49] È l’auspicio di M. Pelissero, op. cit., 299.
[50] Ad esempio, in questo senso era la proposta contenuta nel c.d. progetto di Cernobbio, elaborato negli anni novanta da un gruppo di studiosi e di magistrati: v., G. Colombo-P. Davigo-A. Di Pietro-F. Greco-O. Dominioni-D. Pulitanò-F. Stella-M. Dinoia, Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1025.
[51] In tempi recenti la dottrina si è espressa a favore di un intervento di semplificazione e di unificazione delle fattispecie in questa materia: cfr., A. Alessandri, I reati di riciclaggio e corruzione nell’ordinamento italiano: linee generali di riforma, in Dir. pen. contemp. trim., 2013; L. Furno, Riflessioni a margine, cit., 3516 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova legge spazzacorrotti: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 61 ss.; T. Padovani, Lo spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, cit., 1 ss.; F. Viganò, I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: qualche considerazione sulle riforme già fatte e su quel che resta da fare, in Dir. pen. contemp. trim., 2014, 3.
[52] Per non depotenziare l’efficacia generalpreventiva andrebbe valutata la possibilità di limitare il bilanciamento con alcune attenuanti, scelta che si giustificherebbe con la convinzione che si sia in presenza di condotte provviste di un diverso e più grave spessore lesivo.
Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236)
di Giuseppe Tropea – Annalaura Giannelli
Sommario: 1. Il caso. 2. Gli snodi argomentativi principali. 3. Osservazioni critiche. 4. Conclusioni
1. Il caso.
Nel giugno 2012 una società presenta un progetto di massima per la realizzazione di un grande complesso alberghiero. Sorge una intensa interlocuzione col comune di Lignano Sabbiadoro. Nell’ottobre 2012 tale società presenta, su richiesta del comune, un PAC (piano attuativo comunale), poi modificato su indicazione dell’ente. Nel giugno 2014 il comune informa la società che la commissione urbanistica ha, nel frattempo, espresso parere favorevole sul progetto. Nell’ottobre 2014 la società, d’intesa col comune, richiede quindi l’archiviazione del PAC e presenta richiesta di rilascio di permesso di costruire in deroga. Nel novembre 2014 il comune richiede documentazione integrativa, interrompendo i termini del procedimento ex legge regionale n. 19/2009. Nel 2015 si succedono una serie di ulteriori interlocuzioni. In particolare, nell’ottobre 2015 il comune chiede alla regione un parere sulla compatibilità del progetto con il PAIR (Piano per l’Assetto Idrogeologico Regionale). Dopo ulteriori contatti il comune, con delibera dell’aprile 2016, varia in senso restrittivo il regime edilizio del territorio interessato. Nel settembre 2016 l’amministrazione rappresenta, con due mail, prima la non applicabilità delle deroghe all’erigenda struttura alberghiera, poi la necessità di attendere il parere regionale.
Fiaccata da queste defatiganti e contraddittorie indicazioni, la società cita il comune dinanzi al giudice ordinario, lamentando che il comportamento ondivago dell’amministrazione. Il comune solleva questione di giurisdizione e, quindi, propone regolamento preventivo di giurisdizione, insistendo per la giurisdizione del giudice amministrativo.
Si tratta di un caso emblematico di come la distinzione fra “suddito” e “cittadino” non sia ancora – nonostante tutto – superata, senza qui indulgere sull’intenso dibattito in tema di semplificazione amministrativa che l’emergenza epidemiologica ha riacceso.
E lo è, non a caso, sul versante dell’affidamento del cittadino nei confronti dell’amministrazione.
La sentenza che qui si commenta prende una serie di posizioni radicali sul punto: in tema di riparto di giurisdizione e di tipologia di responsabilità dell’amministrazione. Porta così “a compimento” una linea giurisprudenziale che si afferma a partire da una serie di note ordinanze delle Sezioni unite, le nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, anche se finisce per distinguersene per alcuni profili non irrilevanti: l’applicabilità del principio di diritto in esse contenuto anche in caso di assenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato (poi annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale) e la qualificazione di tale responsabilità come contrattuale (ergo: da contatto sociale qualificato), riprendendo l’importante precedente rappresentato da Cass. n. 157/2003, e non come extracontrattuale.
2. Gli snodi argomentativi principali
La Cassazione, come accennato, compie un denso excursus sul tema, a partire da taluni precedenti, su tutti sez. un., ordd. nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011.
In particolare, con tale pronunce la Suprema Corte ha puntualizzato che:
- l’affidamento serbato su un provvedimento favorevole rivelatosi illegittimo è risarcibile secondo lo schema della responsabilità aquiliana;
- la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste solo a fronte della illegittimità di atti ad effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario, mentre quella del giudice ordinario sussiste nei casi di annullamento di un precedente provvedimento favorevole, rientrando nelle ipotesi di mero comportamento.
Si richiama, quindi, anche la successiva giurisprudenza maggioritaria della Cassazione, che si è conformata sul punto, pur ammettendosi che, da ultimo, in Cassazione, Sez. un., n. 13194/2018 si è ritenuto che i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non fossero applicabili qualora difettasse il presupposto della sussistenza di un “provvedimento ampliativo” della sfera giuridica del privato.
Con la presente decisione, quindi, la Cassazione compie un ulteriore passo in avanti, estendendo la propria giurisprudenza in tema di tutela dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario ai casi di mancanza di un provvedimento ampliativo.
Come in alcuni precedenti del 2015, considera anche i rilievi dottrinali effettuati all’indomani delle pronunce antesignane del 2011. Si menziona quella dottrina che ritiene che l’interesse legittimo dovrebbe ritenersi leso, in quanto posizione tipicamente relazionale, sia quando la p.a. neghi illegittimamente il provvedimento favorevole, sia quando tale provvedimento venga illegittimamente rilasciato. Secondo Cassazione, invece, la fattispecie causativa del danno non consiste nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita.
Non si ritiene persuasivo l’argomento in base al quale, poiché il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico, la lesione che esso arreca dovrebbe essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo. A detta della Cassazione, la lesione di cui si discute non è causata dal provvedimento favorevole (illegittimo - e, perciò, giustamente annullato - ma non dannoso per il suo destinatario), bensì dalla “fattispecie complessa” costituita dall’emanazione dell'atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell'atto stesso. La lesione, cioè, discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell'amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità; come perspicuamente evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2018.
Osserva, inoltre, che non rileverebbero né l’art. 7 c.p.a. né l’art. 30, co. 2. Nel caso in cui il comportamento della pubblica amministrazione abbia leso l’affidamento del privato, perché non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non sussisterebbe alcun collegamento, nemmeno mediato, tra il comportamento dell’amministrazione e l’esercizio del potere. Il comportamento dell’amministrazione rilevante ai fini dell'affidamento del privato, infatti, si porrebbe - e andrebbe valutato - su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere amministrativo.
Distingue, poi, l’affidamento qui considerato dall’affidamento legittimo di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/90. Si tratta di una situazione autonoma, tutelata in sé, non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica: un’aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buone fede.
Critica altresì la tesi del “diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio”, ritenendola priva di consistenza autonoma, risolvendosi questa in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto. Viene invece ribadito che la situazione soggettiva lesa a cui si riferiscono i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi si identifica nell’affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione.
Sebbene ritenga che gli artt. 21-quinquies, 21-nonies, 2-bis legge n. 241/1990 non rilevino direttamente ai fini del discorso, che concerne le diverse ipotesi in cui il danno derivi non dalla violazione di regole del diritto pubblico ma di regole di correttezza e buona fede di diritto privato, tuttavia ammette che tali riferimenti interessino per il loro rilievo “sistematico”, alla luce dell’evocata nota immagine del “diritto amministrativo paritario”[1]. A tale modello di p.a. si attagliano anche i doveri di correttezza e buona fede di matrice civilistica: la responsabilità da lesione dell’affidamento, però, prescinde dalla valutazione di legittimità/illegittimità, ed anche dalla stessa esistenza di un atto amministrativo.
Quanto alla natura della responsabilità la Cassazione ritiene che, manifestandosi la buona fede come clausola che trova il suo fondamento nell’art. 2 Cost., anche alla luce di Ad. plen. n. 5/2018 si tratta di responsabilità da “contatto sociale qualificato”, che rientra, come in precedenza affermato da Cass. civ. 157/2003, nella responsabilità contrattuale della p.a., con applicazione dell’art. 1218 c.c.
Conclude, quindi ritenendo che principi enunciati dalle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 valgano non soltanto nel caso di domande di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento derivante dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell’amministrazione. In questo caso, infatti, questi principi varrebbero addirittura con maggior forza, perché, l’amministrazione non ha posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo.
3. Osservazioni critiche
La densità delle argomentazioni costringe ad uno sforzo di sintesi nella formulazione di osservazioni critiche rispetto alla pronuncia in analisi.
Quest’ultima, occorre riconoscerlo, contribuisce a rafforzare la consapevolezza, finalmente condivisa anche dal giudice amministrativo[2], circa l’attitudine della lesione dell’affidamento ad essere fonte di una puntuale obbligazione a carico dell’amministrazione. In questo senso si conferma quella linea di pensiero della dottrina civilista secondo cui l’affidamento è una situazione costitutiva di un’obbligazione[3], a fronte di una giurisprudenza amministrativa tradizionalmente restia ad andare oltre l’idea dell’affidamento osservato come modalità di esercizio del potere amministrativo[4].
Questa importante acquisizione non può, tuttavia, indurre a sottovalutare i profili inerenti al riparto di giurisdizione, i quali, naturalmente, sono indifferenti agli obiettivi di sistema perseguiti nelle singole pronunce, dovendo trovare puntuale riscontro nelle norme di diritto positivo, essenzialmente negli artt. 7 e 30 c.p.a. e nelle loro evidenti premesse costituzionali.
Come si è accennato, la dottrina ha da tempo mosso severe critiche[5] alla costruzione della Cassazione che risale quanto meno al 2011, e che con la presente decisione fa un ulteriore passo avanti.
L’obiezione più radicale è relativa alla qualificazione delle situazioni soggettive: si è osservato, infatti, che la lettura della Cassazione sarebbe stata contraddistinta da una grave fallacia, consistente nell’idea per cui l’interesse legittimo sarebbe rintracciabile solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non già nell’illegittimo (e in quanto tale intrinsecamente instabile) riconoscimento del bene medesimo[6]. Ciò, tuttavia, appare non coerente con il criterio di riparto sancito dalla Costituzione che, come noto, non condiziona la natura delle situazioni soggettive, e per essa il “funzionamento” del criterio di riparto, al carattere satisfattivo o meno dell’azione amministrativa. E ancora, da un punto di vista sistematico non pare neppure trascurabile il fatto che il legislatore abbia assegnato al giudice amministrativo la tutela del danno da ritardo, il quale – almeno per quanti riconoscano la tutelabilità del danno da mero ritardo[7] – è indifferente rispetto al tema della “direzione” favorevole o sfavorevole del potere tardivamente esercitato.
In quest’ottica il dato da cui prendere le mosse esaminando l’ordinanza in commento consiste nella individuazione nella domanda di tutela in concreto azionata, ossia la causa petendi. Di quale danno precisamente si chiede il ristoro? È un danno la cui genesi sia anche mediatamente collegabile all’esercizio del potere? Sono queste le domande le fondamentali con cui la Suprema Corte ha dovuto confrontarsi.
Quanto all’identificazione del danno esso si indentifica con il “disorientamento” ingenerato dalla sequenza di interazioni tra l’attore e la p.a. nel corso delle quali quest’ultima aveva manifestato, anche attraverso l’adozione di atti prodromici all’accoglimento dell’istanza del privato, l’intento di voler rilasciare il provvedimento favorevole. Ebbene, meno semplice è indagare il profilo della rintracciabilità, nella condotta lesiva dell’amministrazione, del potere.
La Cassazione sul punto è netta e di segno negativo: ad aver danneggiato l’attore sarebbe un mero comportamento, fonte di una obbligazione risarcitoria inquadrata nel paradigma della responsabilità contrattuale. Rispetto ad entrambe queste asserzioni si può avanzare qualche riserva.
Quanto all’(in)esistenza del potere, non sembra che meriti di essere trascurato il fatto che il danno patito consiste proprio nella delusione di un’aspettativa (ingenerata da precise e significative iniziative interlocutorie della p.a.) che per l’appunto aveva ad oggetto l’esercizio favorevole di un potere pubblicistico. Non si può, dunque, equiparare colui che abbia subito gli effetti una condotta fuorviante e contraddittoria da parte di una p.a. in precedenza sollecitata all’esercizio favorevole di un potere con il danno del cittadino che, ad esempio, abbia riportato una frattura in conseguenza della omessa manutenzione di una strada comunale. È questo, infatti, il risultato cui conducono le affermazioni della Suprema Corte: la forzata riconduzione nell’angusto spazio dei meri comportamenti di fattispecie in cui si sia instaurata, nei binari del procedimento, una relazione tra cittadino e p.a. finalizzata ad ottenere l’emanazione di un provvedimento favorevole. Non si vuole in questa sede negare che sia il provvedimento il frangente in cui il potere si esprime determinando una serie di puntuali effetti giuridici. Più semplicemente si intende evidenziare come l’iter prodromico all’esercizio (o al non esercizio) di un potere non possa essere privato della sua materia prima pubblicistica, e dunque derubricato alla stregua di un comportamento materiale. Ciò in ragione del fatto che l’iter in questione non avrebbe ragion d’essere se non collocato nell’ambito di una direttrice orientata all’emanazione del provvedimento finale quale punto di emersione del potere di volta in volta oggetto dell’istanza[8].
Quanto precede consente di soffermarsi anche sul secondo polo argomentativo della sentenza in commento, quello relativo all’inquadramento contrattuale della responsabilità oggetto della controversia. Questo inquadramento sarebbe persuasivo se non fosse abbinato all’idea, sopra criticata, della condotta dannosa come mero comportamento. Se, invece, si parte da questo discutibile abbrivio, si dovrebbe coerentemente optare per una ricostruzione che prescinda da qualsivoglia significativo rapporto giuridico tra danneggiato e danneggiante. Il che concretamente significa optare per il modello aquiliano.
Rimodulando le premesse argomentative in funzione della riscontrabilità del collegamento (pur mediato) tra il comportamento della p.a. e l’esercizio del potere risulta più semplice affermare che la relazione instauratasi nel procedimento – quale sede di emersione degli interessi in vista dell’esercizio legittimo del potere – determina la qualificazione della responsabilità in termini genuinamente contrattuali. Ciò per il semplice fatto che il modello ex art. 1218 c.c. si caratterizza proprio in funzione della preesistente relazione giuridicamente rilevante tra colui che lamenta il danno e il presunto autore dello stesso.
Non è un caso che la Suprema Corte, pur allontanando in più punti delle sue argomentazioni il modello privatistico dalla disciplina pubblicistica della tutela dell’affidamento contenuta nella legge n. 241/90 finisca per ammettere che proprio quella disciplina realizzi l’agognato “diritto amministrativo paritario” di benvenutiana memoria. Questa locuzione, ricorrente soprattutto nella dottrina di qualche decennio fa, non avrebbe alcuna ragion d’essere se non collocata in uno scenario in cui l’azione delle pubbliche amministrazioni è contraddistinta dall’uso del potere, di cui si intendono mitigare per l’appunto i tratti autoritativi.
4. Conclusioni
Il tema di fondo di tutta questa vicenda è di carattere più generale e di sistema.
Prima di tutto ha inciso su tali fattispecie l’idea, che risale a Corte cost. n. 204/2004, di poter giustificare l’estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie risarcitorie non tramite il riconoscimento di un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma “fingendo” che non si usciva dalla tutela dell’interesse legittimo originario. Tutto ciò ha finito per ritorcersi contro tale impostazione, consentendo alla Cassazione di tentare di riappropriarsi della giurisdizione su questioni risarcitorie collegate all’esercizio del potere[9].
Inoltre, attribuendosi al giudice amministrativo controversie identiche a quelle pertinenti al giudice ordinario il limite del ricorso in Cassazione ex art. 111 ha messo in pericolo l’applicazione uniforme della legge; sennonché, la soluzione trovata nella giurisprudenza della Cassazione degli ultimi anni non ha risolto il problema, ma paradossalmente lo ha acuito.
Ciò si verifica a maggior ragione in materia di responsabilità civile, nella quale si fa evidente il rischio di «due costruzioni del sistema tra loro divergenti, dovute rispettivamente alla Cassazione e al Consiglio di Stato, a seconda che il danno lamentato sia o meno riconducibile all’esercizio di un potere, rischio aggravato dalla criticabilissima individuazione delle ipotesi di comportamenti riconducibili mediatamente al potere medesimo, che impedisce di distinguere nettamente responsabilità da provvedimento e responsabilità da comportamento»[10].
E tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che non sono possibili forzature del dato costituzionale e legislativo operate dalla Cassazione[11], come è avvenuto, per il tema della cd. pregiudiziale di annullamento nel 2008, con una forzata interpretazione della nozione di “questioni inerenti alla giurisdizione”, poi seccamente smentita, a dieci anni di distanza da Corte cost. n. 6/2018.
D’altra parte, è pur vero che oggi forse non vi è più la necessità di tali forzature processuali, che hanno negli anni consentito alla Cassazione di estendere commendevolmente, sul piano sostanziale, l’area dell’affidamento come fonte di obbligazione[12]. Come si è precedentemente detto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, da ultimo con la n. 5/2018, ha detto parole chiare sulla teoria del “contatto sociale qualificato”, sul contenuto dei doveri di protezione e correttezza anche in capo alla p.a., sul grado di intensità del momento relazionale e sul conseguente affidamento da questo ingenerato. Il punto è che questa sentenza non ritiene incompatibili i doveri di correttezza e lealtà con l’esercizio di poteri lato sensu autoritativi dell’amministrazione, sottoposti al procedimento amministrativo.
Ma, se questo è vero, allora non sembra una forzatura ritenere che in fattispecie come quella in esame l’azione dell’amministrazione rimanga, sia pur mediatamente, nell’area dell’esercizio del potere pubblico, anche in ossequio del principio di concentrazione, corollario dell’effettività della tutela giurisdizionale.
L’art. 7 c.p.a., nella misura in cui codifica espressamente questi due profili, dovrebbe quindi tornare al centro della scena, una volta ricondotta l’area dell’affidamento, come fonte di obbligazione, alla nozione di comportamento immediatamente o mediatamente riconducibile all’esercizio del potere.
[1] Scontato il riferimento a F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 807 ss.
[2] Cfr. Ad. plen. n. 5/2018.
[3] C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 470 ss.
[4] A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 2018, 138.
[5] Sono soprattutto i civilisti ad aver espresso, invece, posizioni favorevoli rispetto a tale giurisprudenza. Cfr. A. di Majo, L’affidamento nei rapporti con a P.A., in Il Corriere giuridico, 2011, 940 ss.; A. Lamorgese, Stop della Cassazione alla concentrazione della giurisdizione a senso unico, in Giust. civ., 2011, 1218 ss.; C. Scognamiglio, Lesione dell’affidamento e responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Responsabilità civ. e prev., 2011, 1749 ss..
[6] A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro it., 2011, 2398; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 564 ss.
[7] Contra: Cons. St., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 2035; id., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 472.
[8] Per l’idea secondo cui ciò che conta è che l’azione dell’amministrazione, non importa se qualificata come atto o comportamento, rimanga pur sempre da collegare, immediatamente o mediatamente, all’esercizio del potere, v. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 899.
[9] R. Villata, Spigolature “stravaganti” sul nuovo codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 123
[10] R. Villata, Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 285 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, cit., 536.
[11] A. Travi, La Corte regolatrice della giurisdizione e la tutela del cittadino, in Corr. giur., 2006, 1049; più di recente, nel medesimo senso, Id., Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in www.giustamm.it.
[12] Una recente ricerca comparata ha rilevato come la tutela riservata all’affidamento qualificato da parte della Cassazione italiana abbia una portata più ampia rispetto ad altri ordinamenti (su tutti quello francese e tedesco), nei quali un affidamento viene riconosciuto quando vi siano informazioni false o erronee della p.a., o quando i suoi agenti abbiano operato dolosamente o con trascuratezza particolarmente grave. Cfr. S. Pellizzari, L’illecito dell’amministrazione. Questioni attuali e spunti ricostruttivi alla luce dell’indagine comparata, Napoli, 2017, 246.
“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo...” (lettera di Aldo Moro alla moglie)
di Francesco Messina
Sono passati 42 anni dalla morte di Aldo Moro.
Anche questo anniversario rischia di allontanarsi fra parole ripetute e usurate, oppure nella riproposizione dei dubbi irrisolti che riguardano i protagonisti della vicenda giudiziaria.
Non sembra, invece, essere avvertita come esigenza comune l'analisi più profonda dei contenuti dell'esperienza morotea, dei suoi effetti sulla società italiana e, separata da ciò che è oramai contingenza storica, della sua utilità anche per il tempo attuale.
A chi per storia personale o per studi universitari ha l'opportunità di rileggere o di riascoltare Moro, giurista e politico, spesso viene chiesto il motivo per cui, oltre alla tendenza puramente celebrativa, vi sia un sostanziale “silenzio” politico-culturale intorno ai tratti qualificanti del suo pensiero.
E' un interrogativo che merita qualche risposta. Non tanto per compensare il senso di vuoto, di incompiutezza, di sottile rimorso che accompagna chi ha vissuto quella stagione politica e ha conosciuto direttamente il valore dello Statista, quanto, invece, perché è opportuno stimolare e soddisfare la ricerca di coloro che per età non hanno potuto apprezzare la finezza del pensiero moroteo, il suo costante impegno etico, le prospettive del suo agire politico.
E' questo un aiuto proficuo per chiunque oggi vive il paradosso di avere grandi possibilità per acquisire informazioni storiche e culturali, ma che, contemporaneamente, sconta carenze di metodo, di educazione, d’indirizzo che impediscono il trasformarsi di quella potenzialità in conoscenza effettiva.
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Spesso si usa dire che i cittadini sono invitati a diventare artefici diretti della politica.
E' un auspicio condivisibile, ma che non può prescindere da una necessità ancora più urgente: una classe dirigente deve saper fare formazione (che è anche studio rigoroso e critico del proprio passato). E, quindi, deve creare le premesse perché ogni cittadino consideri importante dare e, aggiungo, pretendere dagli altri, giudizi informati e coerenti con la storia della propria comunità.
Il senso diffuso di separatezza fra corpo sociale e rappresentanti delle Istituzioni nasce proprio da questo vuoto cognitivo, dall'idea che l'azione politica sia un’improvvisazione estetica o, con effetti peggiori, coincida con la semplice ricerca di un risultato demoscopico.
Sono interpretazioni che spesso si accompagnano a un’altra convinzione, quella per cui la coerenza sui principi sia concetto superato, e non, invece, indispensabile chiave di lettura per il presente e il futuro. In base a tali considerazioni si dovrebbe allora concludere -e sarebbe esercizio di onestà intellettuale- per l'inattualità del pensiero e della figura di Moro sul piano dell’etica e del metodo.
D’altra parte, l'intento di “santificare” l'Uomo, che fu immediato dopo la sua tragica fine; la scelta di preferire approcci puramente agiografici sono stati funzionali a raggiungere due scopi.
Il primo è stato quello di semplificare, sino al punto di banalizzarla, una delle vicende più tragiche e complesse della storia dello Stato italiano, caratterizzata da ciniche convergenze di poteri nazionali e internazionali che, le indagini giudiziarie e storiche hanno reso, nel corso degli anni, meno incomprendibili, pur rimanendo ampi gli spazi dell’oscuro e dell’indicibile.
Il secondo effetto è stato quello di depotenziare l'essenza della prospettiva morotea, vale a dire il suo essere elemento di “contraddizione” e di rottura rispetto agli schemi del sistema ideologico e culturale della sua epoca. Per capire, quindi, il valore propositivo della scelta dialettica di Moro si deve ricordare quale fosse il contesto sociale e politico in cui si inerpicò la sua azione politica.
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Tutti gli storici concordano sul fatto che il valore “sacrale” della Costituzione sta nella straordinaria opera di sintesi realizzatasi fra umanesimo cristiano e pensiero socialista.
Non sfuggiva ai rappresentanti di quelle distinte, ma non ancora confliggenti, visioni del mondo anche il valore della “esperienza”, e cioè il sapere acquisito attraverso la “pratica” delle cose che viene fatta da noi o da altri. Ma questa idea della “prova”, del saper farsi carico del dato concreto, senza il quale non si raggiungono conoscenza e risultati utili per la propria comunità, non è stata sempre perseguita (o adeguatamente sviluppata) nelle vicende storiche successive alla Costituzione.
Tra le cause di quelle promesse mancate vi fu il fatto che la classe dirigente e intellettuale che si era formata prima sotto il fascismo e, poi, nella lotta di Resistenza, non riuscì a opporsi alle forze ideologiche e separatrici conseguenti alle vicende “post” belliche.
Mi pare, quindi, corretta l’idea secondo la quale nelle fratture che si crearono nel nuovo sistema di equilibri e contrapposizioni internazionali precipitarono anche coloro che, in precedenza, erano pur riusciti a dare, con la Costituzione, forma e coerenza normativa a complementari visioni dell’uomo e della comunità.
Pochi uomini, e fra essi Moro, ebbero avuto le capacità e, soprattutto, il coraggio di continuare a percorrere la strada dell'elaborazione politica che, rimanendo sempre attenta alla realtà, mirasse a far convergere visioni differenti verso sintesi di alto profilo (che sono ben diverse dai compromessi al ribasso). Quegli sforzi e quelle scelte sono avvenute in un’atmosfera difficile, complessa, in cui, per dirla con Tullio De Mauro, aleggiava un generalizzato “spirito di scissione tra un'Italia che ingoiava tutto pur di non essere comunista e un'altra Italia che ingoiava tutto pur di esserlo”.
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Orbene, a distanza di oltre 40 anni dal maggio 1978, volendo indicare uno spunto di riflessione non rituale, è interessante soffermarsi su una parte dell'ultimo discorso di Moro (28 febbraio 1978) per il carattere paradigmatico di alcune sue riflessioni politico-istituzionali.
In quegli anni di emergenze economiche e caratterizzati da inquietanti forme di “impazienza e di rabbia” pronte a scatenarsi, Moro comprende lucidamente che la politica dove offrire un programma che risponda alle esigenze reali della società. Avverte anche la necessità di un “tempo di correzione” affinché i forti contrasti presenti nella comunità siano ricondotti nell'alveo delle azioni costruttive e istituzionalmente corrette. Malgrado vi siano – sempre per dirla con Moro - alcune “punte acute” di disagio sociale, e anche nell'immediato particolarmente “pungenti”, egli invita a volgere lo sguardo oltre. E cioè verso quelle forme endemiche di anarchismo, di rifiuto dell'autorità e del vincolo, di deformazione dell'idea della libertà che, all'epoca, non sembrano più in grado di accettare l'idea della solidarietà sociale come valore condiviso e imprescindibile.
L’intelligenza politica di Moro sta, quindi, non solo nel non sfuggire ai segnali provenienti dalla comunità, ma nel saperli mettere in relazione con la particolarità dell'Italia che egli descrive, e non a caso, un Paese dalla “passionalità continua e dalle strutture fragili”. Questa condizione peculiare della società italiana (da mettere in relazione al più ampio contesto internazionale, cristallizzato nelle contrapposizioni) non impedisce a Moro di agire sulla base di una intuizione strategica e fortemente innovativa per quegli anni: nell'esperienza democratica e istituzionale, “opposizione” e “maggioranza” sono da ritenersi entrambe “sacre” perché “intercambiabili”, pur sulla base della diversità delle proposte. Da ciò consegue che la dialettica e la responsabilizzazione governativa diventano strumenti non solo per affinare la capacità di risposta delle differenti forze politiche alle esigenze dei cittadini, ma per contrastare ogni forma di potere che si mantiene e si avvantaggia proprio grazie alla contrapposizione ideologica.
Come metodo, Moro rigetta l'idea dell'azione politica condizionata ad avere “certezze” sia per l'oggi che per il domani, a una convenienza valida sia per l'immediato che per il futuro.
E così conclude: “se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo a questo domani, tutti accetterebbero, ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso; si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”.
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Rileggendo le parole di Moro, si avverte come, al di là di quegli aspetti della sua esperienza politica oramai storicizzatisi, vi siano contenuti metodologici a cui guardare anche per il tempo attuale.
Penso alla straordinaria importanza del concetto di “radicalità” morale e politica, intesa come presupposto per ogni attività progettuale a favore della comunità.
Da Moro, come da tutti coloro che hanno partecipato positivamente al ribollire culturale degli anni '60-'70, ci viene consegnata una definizione molto coinvolgente di ciò che significa essere davvero "radicali" nei propri principi. Significa, anche sotto il profilo etimologico del termine, avere “radici” profonde; che permeano terreni culturali diversi e che sanno coglierne il meglio per un obiettivo comune; radici che permettono di trasmettere significati oltre il tempo che è dato vivere.
Essere "radicali" significa connotarsi per un atteggiamento culturale che comprende l’intransigenza verso se stessi prima ancora che verso gli altri. Significa, soprattutto, essere diversi dai “settari”, da coloro, cioè, che sentono di doversi affidare ai dogmi perché sono incapaci di leggere la complessità dell’esistente, e di offrire prospettive comprensibili e accettabili ai propri simili.
D’altra parte, recenti studi storico-politici sul periodo storico drammatico vissuto dall’Italia tra la fine degli anni 60 e gli anni 70, evidenziano come quella che venne definita “strategia della tensione” dopo il tragico 12 dicembre 1969 fu successiva alla strategia “dell’attenzione” che proprio Moro inaugurò con un suo intervento alla riunione della Direzione della Democrazia Cristiana, il 21 febbraio 1969, per poi riprendere il concetto il 15 giugno successivo Bari (congresso regionale) e poi, il 29 giugno a Roma, in Consiglio Nazionale.
Quell’attenzione strategica poneva il tema del rapporto corretto con il partito comunista sulla base della “reciproca considerazione» e della “dialettica democratica”.
Ho voluto citare quell’esempio di storia anche lessicale perché certe espressioni svelano non solo un certo tipo di percorso politico, ma anche un moto dell’animo, una predisposizione etica.
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Mi paiono elementi di riflessione molto interessanti anche per l’oggi oscuro, malgrado le molte luminosità artificiose, se, sul piano umano e politico, si afferma di ridare centralità ai valori della persona, del ragionamento, della qualità relazionale. Senza che questo progetto esistenziale venga comodamente interpretato come una manifestazione di ingenuità o d’ignoranza rispetto alle ineluttabili “regole” della vita politica.
In questo senso, le durissime parole che Moro rivolge al suo partito in una delle sue ultime lettere (“…io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa..” 24.4.1978) non sono lo sfogo amaro di un uomo morente, ma un monito esistenziale che va oltre la sua storia.
Hanno in sé la forza del tratto profetico. Segnano un modo di essere, di pensare, di agire.
Indicano le radici della responsabilizzazione critica, del desiderio di attingere a un sapere "altro". Significano che acquisire conoscenza e duttilità intellettuale sono strumenti per rispondere alle domande di “senso” che, spesso con fatica o tra contraddizioni, provengono da generazioni di giovani, da ampi strati sociali orfani di riferimenti morali.
In uno dei passaggi più umanamente intensi, Moro scrive alla moglie: “tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta”, e sembra una metafora del possibile rapportarsi di ognuno con la storia personale e collettiva. Di certo, tanto il ricordare con cupezza la perdita enorme dello Statista, quanto il celebrarla con la freddezza del rito significa tener ancora chiusa quella “porta”.
Significa contribuire a limitare, tenendolo nella ristrettezza temporale e fisica in cui lo costrinsero per 55 giorni i carcerieri, a più e diversi livelli, la forza e le potenzialità di un metodo di pensiero.
Significa ridurre ad un’ unica dimensione di spavento e di dolore questa che è stata una vita densa, coraggiosa, in cui l’intuizione politica non ha mai rinunciato al dovere dell’equilibrio.
Mi ritrovo, quindi, nell’idea che occorra “liberare” Moro perché significa riappropriarsi di una parte di se stessi, quella che, pur nella sua irrimediabile incompiutezza della storia spezzata, chiama comunque all’impegno perché altri non subiscano la stessa mancanza.
Significa dare spazio e respiro a una nuova forma di “Resistenza” civile in cui la scelta a favore dell’attenzione pensosa, sensibile per la persona umana non sia oggetto d'irrisione, ma un motivo d’incontro e di condivisione delle coscienze democratiche.
Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto.
di Vincenzo Antonio Poso
Sommario: 1. 20 giugno 1969: la decisione del governo è presa! – 2. Il contributo di Giuseppe Di Vittorio e della “sua” CGIL – 3. La svolta con i governi di centrosinistra – 4. L’iter parlamentare per l’approvazione della legge n. 300/1970 e il dibattito dottrinale e sindacale – 5. Cosa resta, oggi, dello “Statuto”.
Allegati:
1.CGLI Documentario sullo Statuto dei Lavoratori a 46 anni dall'approvazione
2.Intervista a Gino Giugni pubblicata sull’Avanti! del 24 giugno 1970
3.estratto della Gazzetta Ufficiale storica nella quale fu pubblicata la legge n. 300/70
4. G. Di Vittorio, Lo Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori, in Lavoro, 25.10.1952,
1. 20 giugno 1969: la decisione del governo è presa!
<< Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, Sen. Brodolini, uno schema di disegno di legge recante norme sulla tutela della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il provvedimento, nel titolo primo, sancisce la piena libertà dei lavoratori di manifestare il proprio pensiero e disciplina talune pratiche aziendali che possono risolversi in una limitazione della libertà e della dignità del lavoratore: le ispezioni personali del lavoratore, l’uso di certi tipi di controllo, quali l’affidamento della vigilanza a guardie giurate e i circuiti televisivi, i controlli medici sulle assenze per malattia e le sanzioni disciplinari. Nel titolo secondo, riguardante la garanzia delle libertà sindacali, viene sancita la nullità di qualsiasi atto o patto diretto sia a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non ad un sindacato, sia a licenziare il lavoratore per motivi sindacali o per aver partecipato a scioperi. Viene vietata la concessione di trattamenti economici di favore aventi carattere discriminatorio. Il provvedimento colpisce inoltre le discriminazioni per motivi sindacali, politici o religiosi, garantendo, mediante un adeguato sistema sanzionatorio, la riassunzione, in caso di licenziamento. Con il titolo terzo viene promossa l’attività del sindacato nell’impresa, conferendo alle associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché alle associazioni sindacali o provinciali di lavoro applicate nell’impresa, la libertà di costituire rappresentanze sindacali aziendali. A tutela dei dirigenti di questa rappresentanza sono riconosciuti garanzie e diritti particolari. Alle rappresentanze sindacali aziendali sono assicurati il diritto di affissione, il diritto di riscuotere contributi sindacali, la possibilità di usufruire di locali messi a disposizione dal datore di lavoro. Particolare disciplina viene data al diritto di assemblea ed al potere di indire referendum fra i lavoratori. Nel titolo quarto sono previste procedure per la repressione della condotta antisindacale. Il titolo quinto, infine, sanziona penalmente l’inosservanza di talune disposizioni poste a garanzia della personalità del lavoratore>> (1).
Il comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del 20 giugno 1969 pone le fondamenta di quella che sarà la Legge 20 maggio 1970, n. 300, voluta dal Governo di centrosinistra presieduto da Mariano Rumor e dal suo Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Giacomo Brodolini, già Vice Segretario nazionale della Cgil, un socialista riformista a vocazione interna, formatosi nel Partito d’Azione, in sintonia con Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, che aveva chiamato come Capo del suo Ufficio Legislativo Gino Giugni,un giovane Professore di diritto del lavoro, socialista a vocazione internazionale, con il compito specifico di predisporre il testo non di una comune legge ordinaria, ma di una “Carta” dei diritti dei lavoratori, quale è diventato lo “Statuto”, approvato sotto il dicastero di Carlo Donat-Cattin (nel frattempo succeduto al Ministro Brodolini, prematuramente scomparso),democristiano e leader della sinistra sociale di Forze Nuove, che amava definirsi Ministro non del lavoro, ma dei lavoratori.
La storia è fatta anche dalle vicende personali e politiche dei suoi protagonisti.
Giacomo Brodolini la notte di Capodanno del 1968 la trascorse nell’azienda tipografica romana Apollon, occupata dagli operai per scongiurare la sua chiusura; in quella occasione si era dichiarato “da una sola parte, dalla parte dei lavoratori”. Qualche giorno dopo, il 4 gennaio 1969, Brodolini si recò ad Avola per commemorare Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, i due braccianti uccisi il 2 dicembre 1968 negli scontri con le forze dell’ordine nel corso di una manifestazione per ottenere l’eliminazione delle gabbie salariali e del caporalato e l’istituzione di una Commissione sindacale per il controllo del collocamento della manodopera (non a caso lo “Statuto” si occuperà anche di questi temi).
In quella occasione il Ministro Brodolini lanciò la proposta di uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, in un discorso al Municipio di Avola che rimarrà scolpito nella storia del nostro paese (2).
Brodolini morirà a Zurigo, l’11 luglio 1969, poco dopo quello storico CdM, alla fine di una lunga malattia che aveva tenuto nascosta, per non compromettere il suo progetto riformatore.
2. Il contributo di Giuseppe Di Vittorio e della “sua” CGIL.
Con queste parole Gino Giugni ha ricordato la sua esperienza ministeriale:<<Fu un momento eccezionale, forse l'unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di "segretari del Principe", da tecnici al servizio dell'istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto>> (3).
Questa proposta, però, nasce molti anni prima, nel 1952, quando Giuseppe Di Vittorio, al III Congresso di Napoli della CGIL (26 novembre-3 dicembre) propose uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, riassunto nello slogan «La Costituzione nelle fabbriche!», pronunciando, sul punto queste parole: <<Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro; abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica […] Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne>> ( 4).
Si trattava di una piattaforma politica, non solo sindacale, per mobilitare l’intero movimento dei lavoratori, come si evince dal testo della risoluzione generale presentata al Congresso dal titolo significativo “Per uno Statuto dei diritti del cittadino – lavoratore nell’azienda”: <<Il III Congresso della Cgil chiama i lavoratori italiani di tutte le professioni a lottare per la più energica difesa dei propri diritti costituzionali che debbono essere riconosciuti ai lavoratori anche nell’ambito delle aziende e degli uffici. Il Congresso decide pertanto di proporre alle altre organizzazioni sindacali un progetto di Statuto dei diritti dei lavoratori nelle aziende, al fine di svolgere l’azione comune e necessaria per ottenerne l’applicazione>> (5).
Questa proposta era stata anticipata da Di Vittorio un mese prima, nel corso dei lavori del Congresso del Sindacato dei Chimici: << I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano […]. Nell’ interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche […]. o voglio proporre a questo Congresso una idea che avevo deciso di presentare al prossimo Congresso della Cgil […]. facciamo lo statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda […] >> (6).
E ancora, è sempre Di Vittorio che parla: << La proposta da me annunciata al recente Congresso dei sindacati chimici di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende - scriverà su «Lavoro» del 25 ottobre 1952 il segretario generale - ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il Congresso della Camera del lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri soprattutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione […] La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile - e agissero in conseguenza - la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere [...] >> (7).
La proposta della Cgil di Giuseppe Di Vittorio, dai contorni, solo giuridicamente, non ben definiti, deve essere contestualizzata nel periodo di qualche anno successivo alla promulgazione della Costituzione e immediatamente dopo la scissione sindacale.
La Costituzione, fatta di norme di principio prive di un adeguato apparato sanzionatorio, non era sufficiente per realizzare i diritti dei lavoratori. E non aiutava nemmeno il Codice Civile, frutto di una epoca diversa e di una diversa cultura giuridica, non democratica, che non affermava diritti, ma costruiva un tessuto di regole sull’attuazione del rapporto di lavoro, alla stregua di un qualsiasi rapporto obbligatorio, contrattuale, in chiave assolutamente paritaria tra datore di lavoro e prestatore di lavoro
Lo ha scritto, molto bene, in occasione del quarantesimo anniversario, Mario Giovanni Garofalo: << Il testo costituzionale, infatti, pur proclamando importanti princìpi di libertà, non aveva innovato l’assetto giuridico effettivo dei rapporti individuali e collettivi di lavoro in modo tale da costituire una trincea sufficientemente solida per difendere i lavoratori nella difficilissima situazione che si era venuta a creare negli anni 50 del XX secolo. E infatti la regolamentazione giuridica utilizzata da giudici e giuristi era essenzialmente quella del codice civile del 1942 depurata dalla giurisprudenza da ogni riferimento ai sindacati fascisti, e che attribuiva all’imprenditore, tra l’altro e in primo luogo, piena libertà di licenziamento. In questo quadro, la pur generosa lotta portata avanti da alcuni giuristi dell’epoca (Calamandrei, Crisafulli, Natoli) per porre un argine ai poteri imprenditoriali invocando il rispetto del patto costituzionale s’infrangeva contro il muro di gomma di un intero ceto di giuristi che rifiutava di applicare i princìpi costituzionali o affermando la loro non immediata applicabilità in attesa di improbabili leggi attuative ovvero, più spesso, semplicemente ignorandoli nei ragionamenti che portavano alle decisioni concrete>>.
È la tutela nelle fabbriche del lavoratore-cittadino oggetto della proposta della Cgil, bene espressa dalle parole del suo leader Di Vittorio sopra riportate. Al Convegno di Milano del 1954, promosso dalla Società Umanitaria, in quattro, semplici, articoli Giuseppe Di Vittorio presenta lo “Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori nell’azienda”, la prima proposta organica, anche a livello giuridico, seppure a livello embrionale, di quello che poi diverrà lo “Statuto” del 20 maggio 1970 (8).
3. La svolta dei governi di centrosinistra.
Il passaggio dalle politiche fallimentari del centrismo (anche per le diverse proposte di legge sindacale abortite sul nascere) a quella di centrosinistra, con il coinvolgimento del Partito Socialista Italiano (il P.C.I. era vittima dell’ostracismo parlamentare per la sua posizione filosovietica a livello internazionale) rappresenta il punto di svolta che porterà alle importanti riforme in materia di lavoro degli anni ’60.
La politica, però, non era sufficiente; anche e soprattutto il sindacato era chiamato ad una grande prova di responsabilità: gestire il conflitto nelle imprese in una mutata situazione di rapporti con i datori di lavoro e in una dialettica costruttiva con questi. In questa prospettiva si rafforza l’idea che sia la legge, e non la contrattazione collettiva, a porre le basi per realizzare e tutelare i diritti dei lavoratori nel tessuto produttivo, così coltivando la proposta di uno “Statuto dei Lavoratori”, che diventava necessario anche per superare le tensioni create nella seconda metà degli anni ‘60 dai grandi movimenti della contestazione politica e operaia di quello da tutti chiamato “ autunno caldo”.
Queste proposte, sebbene discusse ampiamente a livello sindacale e politico, nell’immediato non ebbero seguito, nonostante l’impegno della Cgil e del suo leader.
Avanti negli anni, dopo le proteste popolari e antifasciste contro il Governo di Fernando Tambroni culminate nei noti fatti di Genova del 30 giugno 1960 (città decorata con la Medaglia d’oro della Resistenza, da cui era partita l’insurrezione del 25 aprile, provocatoriamente scelta dal MSI come sede del suo VI Congresso nazionale) il nostro paese riscontra un miglioramento del quadro generale socio-economico e cambiano anche gli equilibri politici, con la nascita dei governi di centrosinistra a partire dal 1962, prima in maniera timida, poi con un timbro riformista maggiormente riconoscibile. Il 4 dicembre del 1963, in occasione della formazione del suo primo governo il Presidente del Consiglio Aldo Moro (Vice Presidente era Pietro Nenni),nel discorso alle Camere, dichiara il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno “Statuto dei diritti dei lavoratori” al fine di garantire libertà, dignità e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Prende piede, a livello politico-legislativo, il progetto riformista, quando il 9 gennaio 1963 era stata già approvata la legge n. 7 sul divieto di licenziamento per causa di matrimonio, durante il IV Governo di Amintore Fanfani(Vice Presidente il democristiano Attilio Piccioni) con Ministro del lavoro e della previdenza sociale Virginio Bertinelli del PSDI.
Nel febbraio del 1964 la Segreteria della Cgil con una lettera indirizzata a Pietro Nenni manifesta il proprio giudizio positivo sullo “Statuto” e chiede formalmente che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori, la giusta causa nei licenziamenti e il ruolo delle commissioni interne. Incaricato, insieme a Giuseppe Tamburano, direttamente da Nenni di predisporre tre disegni di legge su commissioni interne, giusta causa e diritti sindacali, Gino Giugni inizia la sua collaborazione con il Governo ed entra a far parte della Commissione nominata dal democristiano Ministro del lavoro e della previdenza sociale Giacinto Bosco per predisporre un progetto di legge sui licenziamenti. Nel secondo Governo Moro (Vice Presidente sempre Pietro Nenni) il nuovo Ministro del lavoro e della previdenza sociale Umberto Delle Fave, democristiano, consegnerà alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali un questionario di lavoro sugli stessi temi, che non troverà consenso da parte della CISL, ancorata su una posizione che vedeva nel contratto il loro Statuto.Nel frattempo viene approvata, il 15 luglio 1966, la legge n. 604 sui licenziamenti individuali che prevede la tutela debole, solo risarcitoria, in caso di licenziamento ingiustificato. È il secondo passo legislativo verso lo “Statuto”.
Nel Programma economico nazionale per il quinquennio 1966/1970, approvato con la legge n. 685 del 27 luglio 1967 il governo ribadisce l’impegno per uno Statuto dei lavoratori. Il punto 41 del Programma recita: << Nel campo del lavoro, la definizione di uno statuto dei diritti dei lavoratori - di cui la legge sulla giusta causa già approvata dal Parlamento è la prima realizzazione - introdurrà nell'ordinamento giuridico norme atte a garantire dignità, sicurezza e libertà nei luoghi di lavoro, in conformità alle norme della Costituzione. In particolare, tale statuto dovrà disciplinare giuridicamente i licenziamenti individuali e collettivi e le Commissioni interne, e garantire il libero esercizio dell' attività sindacale nei luoghi di lavoro. Per quanto riguarda i lavoratori italiani all'estero, sarà perseguita ogni opportuna tutela dei loro diritti relativi al rapporto di lavoro e al trattamento previdenziale e sociale, attraverso l'azione comunitaria nello ambito della C.E.E. e con accordi e convenzioni bilaterali con i Paesi interessati>>.
Il ‘68 accese nel paese un clima di mobilitazione collettiva, politica e sindacale, ma anche culturale, che alimentò, rendendolo ancor più fecondo,il dibattito sullo “Statuto”.
4. L’iter parlamentare per l’approvazione della legge n. 300/1970 e il dibattito dottrinale e sindacale.
Come abbiamo già detto, il 20 giugno 1969 il Consiglio dei Ministri approvò il disegno di legge che fu presentato in Senato con il n. 738; il testo base di Brodolini e Giugni fu integrato con alcuni articoli ripresi dalle proposte di legge presentate dai partiti di sinistra all’opposizione, tra i quali l’art. 18 che prevedeva l’obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, ma anche il divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori. Anche il PCI e il PSIUP, infatti, presentarono alla Camera due proposte di legge parallele, sulle stesse materie che poi saranno oggetto dello Statuto del 1970 che ponevano l’obiettivo di limitare i poteri imprenditoriali per consentire ai lavoratori di riacquistare la piena condizione di cittadinanza anche all’interno dei luoghi di lavoro, mentre il disegno di legge governativo era tutto proiettato sulla linea promozionale del sindacato.
Lo Statuto fu elaborato sulla base di una Relazione redatta da una Commissione presieduta da Gino Giugni, che era a capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero del lavoro, composta da alcuni tra i più noti giuslavoristi dell’epoca ( Federico Mancini, Ubaldo Prosperetti, Luciano Spagnuolo Vigorita, Giuseppe Pera, Luciano Ventura, Antonino Freni) e da Giuseppe De Rita e Giuseppe Tamburrano.
Il disegno di legge fu approvato in prima lettura dal Senato l’11 dicembre 1969, con il voto favorevole dei partiti di centrosinistra e del P.L.I. (che non faceva parte della maggioranza parlamentare), mentre, con opposte motivazioni, si astennero il P.C.I., il P.S.I.U.P. e la Sinistra Indipendente, da una parte, e il M.S.I. dall’altra.
Il giorno dopo,12 dicembre, con l’esplosione della bomba alla Banca della Agricoltura a Milano, la strage di Piazza Fontana il paese fu avvolto da una cortina di fumo che segnerà pesantemente gli anni a venire.
Intanto il 21 dicembre 1969 fu raggiunto, con la mediazione del Ministro del lavoro Carlo Donat-Cattin, l’accordo per il rinnovo del Contratto Collettivo dei metalmeccanici, firmato formalmente l’8 gennaio 1970, così giungendo a compimento la vertenza pilota dell’autunno caldo dei tre mesi precedenti.
Il 14 maggio 1970 la Camera dei Deputati, con 217 voti favorevoli e 125 astenuti, immutate le posizioni politiche espresse nel voto precedente (con l’eccezione di 10 voti contrari) approvò definitivamente la legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del Ministro del lavoro Donat-Cattin, tutti gli emendamenti (tranne quelli del P.L.I.) furono ritirati.
Il dibattito parlamentare fu serrato, ma costruttivo (9). Non potevano, i partiti di sinistra dell’opposizione, non riconoscere l’importanza di alcune norme di tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, che rimangono scolpiti nel decalogo dei diritti fondamentali. L’opposizione di sinistra certamente contribuì a migliorare e correggere il testo, anche se poi, al termine del suo iter, decise di astenersi. La motivazione addotta per l’astensione, la mancata adozione di un qualche status a favore dei partiti nel dibattito interno ai luoghi di lavoro, ai più attenti commentatori non è apparsa convincente, mentre si può convenire con le valutazioni di Bruno Trentin secondo il quale lo Statuto dei diritti del lavoro nel 1970 dava corpo alla grande idea di Giuseppe Di Vittorio di vent’anni prima, ma una parte della sinistra, che faceva riferimento al P.C.I. e al P.S.I.U.P., si astenne al momento della sua approvazione, sol perché in quel momento non faceva parte del Governo.
Il 27 maggio 1970 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 131 il testo della Legge 20 maggio 1970, n. 300 << Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e delle attività sindacali nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento>>.
Quello in carica è il I Governo di Mariano Rumor, con Vice Presidenti Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani e Ministro del lavoro e della previdenza sociale Carlo Donat-Cattin. Presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat.
Dirà Luciano Lama, Segretario Generale della Cgil: << Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata>>.
Il fondamento sindacale della legge è riconosciuto da tutti gli studiosi. Per Massimo D’Antona << Lo Statuto è la legge del sindacato in azienda >>. E questo è il giudizio di Umberto Romagnoli, le cui parole richiamano quelle di Giuseppe Di Vittorio:<< Lo statuto regola l’esercizio di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino e ne sancisce la non espropriabilità anche nel luogo di lavoro. Per questo è la legge delle due cittadinanze. Del sindacato e, al tempo stesso, del lavoratore in quanto cittadino di uno Stato di diritto>>.
Nel contesto dei lavori parlamentari assumono una importanza fondamentale gli studi sull’autonomia sindacale sviluppati soprattutto da Gino Giugni (10), che comunque ha trovato valido supporto e interlocuzione in altri studiosi ( tra questi sicuramente Giuseppe Federico Mancini), privilegiando, sotto molti aspetti la legislazione di sostegno all’azione del sindacato, a tutti i livelli, conservando, comunque, l’impianto originario della libertà anche di organizzazione sindacale disciplinata dall’art. 39 Cost. e privilegiando la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro. Significativo, in questo quadro, è l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori nel testo che sarà approvato: la titolarità dei diritti sindacali spetta alle rappresentanze sindacali aziendali su iniziativa dei lavoratori che facciano riferimento alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale e alle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nelle unità produttive.
In questa sede non è possibile dare conto della minuta regolamentazione della legge, se non per brevi cenni, in nota, tenuto conto che le norme sul collocamento sono definitivamente superate (11).
Il giudizio, storico e politico, su questa legge non può che essere positivo (12). Lo dimostrano anche gli studi, non solo meramente rievocativi, dei diversi anniversari che sono stati celebrati (13).
Innanzitutto per la politica di diritto del lavoro realizzata dal Legislatore dell’epoca, che aveva una visione e perseguiva un progetto, anche di attuazione, concreta, dei principi e valori costituzionale (14) Una missione colpevolmente abbandonata negli ultimi venti anni: basti pensare alla normativa frammentata, molto spesso involuta e contraddittoria di tante leggi, davvero “malfatte” che si sono succedute nel tempo, che rispondono (quasi sempre) ad esigenze contingenti e sono comunque prive di una prospettiva sistematica.
Il dibattito dottrinale, talvolta anche aspro, che si è svolto nel periodo immediatamente precedente e successivo dell’approvazione di questa legge non rende pienamente conto anche del suo effettivo valore giuridico, spesso privilegiandosi aspetti di puro formalismo e di tecnica (facilmente superati e superabili), rispetto a quelli contenutistici, comunque prevalenti.
Mi limito, per questo aspetto, alla polemica degli anni ’70, aspra - anche se non ha compromesso, allora, la loro amicizia – innescata da Giuseppe Pera nei confronti della legge “ malfatta” e del suo principale autore, Gino Giugni (15).
La Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, allora diretta da Ugo Natoli (16) si intestava la polemica privilegiando la dottrina<> contrapposta alla dottrina<< sindacale>>, rappresentata soprattutto da Gino Giugni e Federico Mancini, che riteneva necessaria una legislazione promozionale e di sostegno del contropotere sindacale nelle fabbriche (17).
Le contrapposte posizioni, anche dottrinali (con il fuoco incrociato della sinistra ortodossa, della estrema sinistra e dell’ala conservatrice) si resero evidenti anche in occasione delle Giornate di Studio dell’A.I.D.La.S.S. di Perugia del 22 maggio 1970 (18) .
Devo riconoscere che il mio Maestro aveva torto, e credo che nel tempo se ne sia reso conto. E aveva torto anche il mio professore Ugo Natoli, che pure aveva riconosciuto, in gran parte, l’importanza dell’attuazione della Costituzione nella legge che fu approvata. La ragione era dalla parte di Gino Giugni. Anche se nelle discussioni giuridiche, di valutazione squisitamente tecnico-formale delle norme, non vi è ragione o torto, ma solo differenti opinioni. Dico che aveva ragione Gino Giugni perché, a prescindere dal dato formale della legge che lo contiene, lo “Statuto” ha profondamente innovato il diritto del lavoro, anzi ha costituito l’inizio del moderno diritto del lavoro. La cultura giuridica dello “Statuto” si è dimostrata più forte del pregiudizio politico che lo ha avversato, anche in anni più recenti (mi riferisco alle critiche strumentali, non a quelle dirette ad un superamento di alcune regole in ragione del mutato assetto produttivo e socio-economico e delle continue << trasformazioni>> del lavoro) e del mero formalismo con cui è stata affrontata la lettura e l’analisi del testo normativo negli anni’70.
L’ostilità manifestata dalla CISL (che si indebolì soprattutto in ragione delle evoluzioni che si produssero in questa organizzazione sindacale sotto la spinta dei metalmeccanici, categoria a forte vocazione unitaria) è stata nel tempo superata. Una avversione, quella della CISL, che si era manifestata sin dal primo programma organico del centrosinistra e anche con riferimento alla legge del 1966 sui licenziamenti individuali, che fu approvata con l’astensione di 16 deputati democristiani cislini. La CISL era convita che il compito di apprestare tutele a favore dei lavoratori fosse compito del contratto collettivo e non della legge, che finiva per togliere potere al sindacato, sminuendone il ruolo. La parola d’ordine era: << Il nostro Statuto è il contratto!>> (19).
Gino Giugni, che pure era molto vicino alla cultura contrattualistica della CISL, era fermamente convinto del contrario e scriveva: << L’azione del sindacato non si svolge in un vuoto istituzionale ed un accorto uso dell’azione legislativa è reso opportuno vuoi per consolidare le conquiste sindacali, vuoi per rimuovere ostacoli alla realizzazione di esse (20).
5. Cosa resta, oggi, dello “Statuto”.
Facendo mio il giudizio di Maria Vittoria Ballestrero lo “Statuto” è sicuramente una legge longeva, in un contesto di fragilità ed obsolescenza delle leggi sul lavoro, sempre più numerose e sempre meno durevoli nonostante le mutilazioni che ha subito e il superamento di alcune norme, anche per il mutato contesto socio-politico, economico e produttivo:<< In questo diritto del lavoro farraginoso e caotico resiste, rara avis, la legge n. 300/1970, che a cinquant’anni dalla sua emanazione costituisce ancora uno snodo della vicenda del diritto del lavoro del nostro paese; uno snodo dal quale non è consentito prescindere, pure nel susseguirsi di stagioni nelle quali è diventato sempre più difficile parlare il linguaggio della protezione dei lavoratori, dei diritti non negoziabili, delle norme inderogabili, che era appunto il linguaggio dello Statuto>>(21).
Senza la pretesa di formulare giudizi definitivi e non argomentati a sufficienza, in un articolo come questo, possiamo esprimere, in estrema sintesi, queste conclusioni.
Le norme a tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà sindacale che leggiamo nei titoli I e II dello Statuto mantengono viva la loro attualità, pur con le modifiche che ci sono state.
L’art. 28 rappresenta, ancora oggi, un utile strumento per rendere effettiva ( reprimendo le illecite condotte datoriali tese a limitare la libertà e l’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero) e non condizionabile l’azione sindacale nei luoghi di lavoro, anche se il procedimento non trova più estesa applicazione. Il giudice interviene dopo il fallimento della mediazione sindacale, non la comprime, anzi valorizza la tutela dei diritti sindacali.
Le critiche all’esercizio dei diritti sindacali di cui al titolo III, pure alla luce delle modifiche avvenute nel tempo, anche per l’intervento dei referendum popolari e della Corte Costituzionale, scontano la mancanza di una legge, organica, sulla rappresentanza sindacale, che oggi sembra inevitabile, no essendo sufficiente il T.U. sulla rappresentanza sindacale adottato il 10 gennaio 2014 con l’Accordo Interconfederale siglato tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria.
Il dibattito sulla permanente rilevanza giuridica ed effettività dell’art. 18 per l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, sconta le aporie di un dibattito politico, spesso con posizioni strumentali assunte da entrambe le parti in contesa, che, per molti versi, cerca di risolvere il problema dell’occupazione e della flessibilità (rectius precarietà) dei rapporti di lavoro con una normativa di diversa generazione. Che sarà pure possibile (per qualcuno auspicabile), ma che deve tenere conto delle concrete trasformazioni economiche e sociali che le riforme impongono. Prova ne sia il fatto che le modifiche introdotte nel 2012 ( L. 28 giugno 2012, n. 92) e le riforme del 2015 ( D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23) non hanno apportato positivi cambiamenti, perché da un lato hanno complicato il quadro, non solo sanzionatorio, ma anche precettivo delle ipotesi di licenziamento illegittimo, in senso lato(senza dire delle complicazioni del rito dedicato alle cause in materia di licenziamento);mentre dall’atro lato hanno creato evidenti disuguaglianze tra i lavoratori in base al tempo della loro assunzione ( per non dire dei profili di illegittimità già censurati dalla Corte Costituzionale e a livello europeo, proprio in relazione alla tutela crescente che, però, non poteva essere calibrata dal giudice secondo le caratteristiche del caso concreto e la gravità dei fatti, in un’ottica davvero dissuasiva). È vero che le relazioni industriali dalle quali è nato lo “Statuto” non sono più le stesse; da molto tempo il lavoro è frammentato e il sistema produttivo si basa sulle fabbriche diffuse, non più sulle aziende fordiste. Nonostante ciò le norme statutarie, in gran parte, rappresentano uno strumento ancora attutale per la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Riprendendo, ancora una volta, le parole di Mario Giovanni Garofalo possiamo dire che: << Lo Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico ben più forte e più ampio di quello che sia il suo pur importantissimo contenuto normativo. Così è stato prima della sua approvazione, quando era la bandiera intorno alla quale si sono radunate grandi masse di lavoratori contro l’assetto di potere esistente nei rapporti di produzione; così ha continuato a essere quando le modificazioni avvenute nei rapporti di forza interni al sistema di produzione hanno consentito agli imprenditori di riconquistare province perdute in precedenti fasi di lotta nel nome della necessità di profonde ristrutturazioni dell’apparato produttivo. E questo valore simbolico è ancora quello che era nella proposta di Di Vittorio, che i rapporti di produzione sono subordinati ai valori costituzionali, che il lavoro non è una merce, che il lavoro deve essere strumento di promozione della persona umana e di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del nostro paese>>.
Lo “Statuto” resta un esempio di semplificazione della tecnica normativa e di sinteticità delle disposizioni, come ha riconosciuto Pietro Ichino, che da anni è impegnato su questo fronte, anche nella pregressa esperienza parlamentare, giudizio parimenti condivisibile: << Lo Statuto – che pure nell’immediatezza della sua emanazione venne tacciato di essere una legge malfatta – è stato invece esemplare per semplicità, chiarezza ed aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali. Subito distribuito in milioni di esemplari in ogni luogo di lavoro, in ogni angolo del Paese, esso in pochi mesi ha saputo cambiare profondamente la cultura del lavoro nel nostro Paese, perché è stato letto e capito direttamente dai milioni dei suoi destinatari, lavoratori e imprenditori, conseguendo uno straordinario grado di effettività. Questi beni inestimabili – semplicità, chiarezza, effettività, aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali – sono però andati ben presto perduti nella nostra legislazione del lavoro. Nel momento in cui celebriamo i 40 anni di questa legge straordinaria, credo che tutti dobbiamo assumere l’impegno, un impegno possibilmente bipartisan, a recuperare questi beni ed, in particolare, a ristabilire un corretto rapporto tra sistema delle relazioni industriali e legislazione del lavoro. Consapevoli che quando – come oggi diffusamente accade – la legge viene di fatto disapplicata, è la democrazia stessa ad essere messa fuori gioco>> (22).
Verrà un altro maggio per i diritti dei lavoratori? I tempi non sono facili, non solo quelli che stiamo vivendo in questi mesi, condizionati dall’improvvisa, grave, emergenza sanitaria; le situazioni, produttive e del lavoro, profondamente mutate nel tempo, anche per la globalizzazione e la temuta recessione, impongono di declinare i diritti in una forma nuova, per tutte le categorie dei lavoratori (23).
È necessaria una nuova cultura giuridica del lavoro nel nostro paese, senza, però, dimenticare la stagione della legge n. 300 del 20 maggio 1970: la prima <<fabbrica>> dei diritti dei lavoratori e del sindacato.
(1) Il comunicato del CdM del 20 giugno 1969 è tratto dal Fondo Giugni. Archivio della Fondazione Pietro Nenni.
(2) Giacomo Brodolini, Discorso pronunciato al Municipio di Avola il 4 gennaio 1969, in Economia & Lavoro, 1970, n. 5, p. 567 ss. per una raccolta dei suoi principali interventi, v. Giacomo Brodolini, Dalla parte dei lavoratori (a cura di Aldo Forbice), Lerici, Cosenza, 1979.
(3) V., tra i tanti scritti di Gino Giugni: Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo. Intervento in Lav. Dir., 1990, p. 171 ss.; La memoria di un riformista, Il Mulino, Bologna, 2007; Lavoro legge contratti, Il Mulino, Bologna, 1989; Idee per il lavoro (a cura di Silvana Sciarra), Laterza, Bari, 2020. Per il ruolo del giuslavorista, con particolare riferimento alla Scuola di Bari, v. Roberto Voza, Gino Giugni. Il coraggio dell’innovazione, Radici Future, Bari, 2019.
(4) Il testo integrale della relazione congressuale di Giuseppe Di Vittorio si può leggere in Lavoro, 13 dicembre 1952).
(5) Il testo integrale della risoluzione congressuale si può leggere in Notiziario Cgil, 31 dicembre 1952).
(6) Giuseppe Di Vittorio, in L’Unità, 11 ottobre 1952.
(7) Giuseppe Di Vittorio, in Lavoro, 25 ottobre 1952.
(8) Giuseppe Di Vittorio, Intervento al Convegno nazionale di studio sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale, promosso dalla Società Umanitaria, tenutosi a Milano il 4, 5 e 6 giugno 1954, Giuffrè, Milano, 1954. Per altri riferimenti v. Lorenzo Gaeta, Storia (illustrata) del diritto del lavoro italiano, Giappichelli, Torino, 2020, spec. p. 115 ss.
(9) Per i lavori preparatori si rinvia ai documenti raccolti dal Senato della Repubblica, Lo Statuto dei lavoratori. Progetti di legge e discussioni parlamentari, Segretariato generale-Servizio Studi-Ufficio documentazione e ricerche, Roma, 1974. Sulla genesi della legge n. 300/1970 v. Emanuele Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei Lavoratori, con prefazione di Gino Giugni, Longanesi, Milano, 1976.
(10) V., quale primo contributo organico, Gino Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffrè, Milano, 1960. Sull’opera di rinnovamento del diritto sindacale e del lavoro degli anni ’60, v. Giovanni Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Comunità, Roma, 1967 ( I ed.) e 1972 ( II ed. ).
(11) Tra le norme più significative, oltre all’art. 19, meritano di essere segnalati: l’art. 1 sulla libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro; gli articoli relativi ai limiti di utilizzazione delle guardie giurate (2), del personale di vigilanza (3), degli impianti audiovisivi (4); l’art. 6 sulle visite personali di controllo; l’art. 5 sugli accertamenti sanitari; il potere disciplinare del datore di lavoro, adeguatamente procedimentalizzato ( art. 7); l’art. 8 che prevede il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore ; il diritto dei lavoratori di intervenire in materia di sicurezza ed ambiente di lavoro disciplinato dall’ 9; il diritto allo studio regolamentato dall’art. 10. In materia di mansioni l’art. 13 ha completamente riscritto il testo codicistico dell’art. 2103, limitando il poter datoriale di variare le mansioni del lavoratore, a tutela della sua professionalità acquisita, anche nel riconoscimento di un inquadramento superiore; e ha limitato il potere datoriale di trasferire ad nutum il lavoratore. Gli atti discriminatori, a vario titolo, sono vietati dagli artt. 15 e 16. Mentre l’art. 17 vieta la costituzione dei sindacati di comodo. L’art. 18 rende effettiva la tutela dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, prevedendo l’obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro (così superando, nelle situazioni date, per le imprese non piccole, la tutela meramente obbligatoria e risarcitoria prevista dalla L. n. 604/1966). Gli artt. 20 e 21 disciplinano l’assemblea e il referendum; mentre l’art. 22 tutela i dirigenti sindacali in caso di trasferimento. La materia dei permessi e delle aspettative, per motivi sindacali e politici, è regolamentata dagli artt. 23,24,30 e 31. L’attività sindacale, non solo nei luoghi di lavoro è garantita dalle norme sul diritto di affissione, i contributi e i locali (rispettivamente artt. 25,26 e 27). L’art. 28, sempre in chiave di effettività delle tutele apprestate, disciplina la repressione della condotta antisindacale, con la previsione di un procedimento apposito, che porta alla cognizione del giudice il conflitto sindacale irrisolto nelle ordinarie relazioni industriali. L’art. 35 è una norma che segna i confini di applicazione dello Statuto. L’art. 36 prevede l’obbligo di applicazione delle condizioni previste dai contratti collettivi di categoria e zona per le imprese beneficiarie di contributi statali e in caso di appalto; mentre l’art. 37 estende le norme dello “Statuto” ai dipendenti degli enti pubblici economici. L’art. 38, come norma di chiusura, prevede sanzioni penali per la violazione di alcuni precetti particolarmente significativi ( artt.2, 4, 5, 6, 8 e 15, c.1, lett. a).
(12) V. Gianni Arrigo (a cura di), Lo Statuto dei lavoratori: un bilancio politico. Nuove prospettive del diritto del lavoro e della democrazia industriale, De Donato Editore, Bari, 1977.
(13) Senza pretesa di completezza si segnalano, tra i tanti contributi, quelli di Tiziano Treu, Lo Statuto dei lavoratori: vent’anni dopo, in Quaderni Dir. Lav. Rel. Ind.,1989, n. 6, p. 7ss.; A quarant’anni dallo Statuto dei lavoratori, in Riv.It.Dir. Lav., 2011, I, p.7 ss. La Rivista “Lavoro e Diritto” nel 2010 ha dedicato il fascicolo n. 1 al 40° anniversario dello Statuto dei Lavori, con “Il tema” dal titolo “Buon giorno, Statuto” e contributi di Luigi Mariucci, Maria Vittoria Ballestrero, Oronzo Mazzotta, Umberto Romagnoli, Lorenzo Gaeta, Lorenzo Zoppoli, Franco Liso, Bruno Caruso, Mario Rusciano e Mario Napoli. Per i cinquant’anni si segnala la Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale che ha dedicato, nella parte I, del n. 1 del 2020 “Il Tema” dal titolo “ Lo Statuto dei lavoratori, ieri, oggi, domani”, con contributi di Marco Revelli, Maria Vittoria Ballestrero, Marzia Barbera, Roberto Voza, Marco Barbieri, Stefania Scarponi, Edoardo Ales, Antonello Zoppoli, Rita Sanlorenzo. Merita di essere segnalato il dialogo-intervista di Vincenzo Bavaro e Pietro Ichino, dal titolo "Lavoro, leggi, percato. Rifondiamo lo Statuto", a cura di Antonio Carioti, pubblicato il 15 maggio sull’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera, in occasione del 50° anniversario dello Statuto. Meritano anche di essere segnalati, in occasione del 50° anniversario dello Statuto, il dialogo-intervista di Vincenzo Bavaro e Pietro Ichino, a cura di Antonio Carioti, pubblicato il 16 maggio sull’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera, dal titolo “ Lavoro, leggi, mercato, rifondiamo lo Statuto” e l’intervista parallela pubblicata sempre il 16 maggio 2020 su Avvenire.it, a cura di Francesco Riccardi, a Pietro Ichino (Formazione e servizi le vere tutele che servono) e a Tiziano Treu ( Diritti di base uguali per tutti).
(14) Sulle vicende, anche storiche, intrecciate con la cultura giuridica del lavoro e i contributi dei giuslavoristi, v. Pietro Ichino (cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Giuffrè, Milano, 2008, ed in particolare i contributi dello stesso Pietro Ichino, I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, p.4 ss., e di Raffaele De Luca Tamajo, Gli anni’70: dai fasti del garantismo al diritto del lavoro dell’emergenza, p. 79 ss.
(15) Giuseppe Pera, Interrogativi sullo statuto dei lavoratori, in Diritto del lavoro, 1970, I, p. 188 ss.; Gino Giugni, I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, in Politica del diritto, 1970, p. 479 ss.; Giuseppe Pera, Risposta al Prof. Gino Giugni, in Bollettino dell’Istituto di Diritto del lavoro dell’Università di Trieste, 1971, n. 49, p. 15 ss. Per il dibattito di quegli anni merita anche segnalare i contributi di Gino Giugni, Lo statuto dei lavoratori: continuità di una politica, in Economia & Lavoro, 1969, n. 4, p. 377 ss.; Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1970, p. 369 ss.; Esperienza politico-economica con Giacomo Brodolini, in Economia & Lavoro, n. 5, 1970 p.521 ss.; Giuseppe Federico Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie dell’autunno del 1969, in Politica del diritto; Giovanni Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, cit., 1972 ( II ed.), in particolare l’Appendice, I, 1970, p. 57 ss.); Id., Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna, 1976.
(16) Tra i tanti scritti v. Ugo Natoli, Luci e ombre del disegno di legge n. 738 sui diritti dei lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1969, I, p. 317ss. Per l’impostazione generale e sistematica su questi temi deve essere richiamata la sua monografia: Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro. I. Introduzione, Giuffrè, Milano,1955.
(17) Gino Giugni, Le ragioni dell’intervento legislativo nei rapporti di lavoro, Relazione introduttiva alla tavola rotonda: Per una moderna legislazione sui rapporti di lavoro, in Economia & Lavoro, 1967, n. 2, p. 18 ss. Su questi temi, con diverse posizioni, v. anche Giuseppe Pera, Sullo statuto dei lavoratori nelle imprese, in Dir. Lav., 1965, I, p. 143 ss.; Id., Prospettive interne in tema di legislazione del lavoro, in Economia & Lavoro, 1967, nn. 5/5, p. 17 ss.
(18) V. gli atti del Convegno A. I. D. La. S. S. di Perugia del 22 maggio 1970, La Rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori, Giuffrè, Milano, 1971 ed in particolare la Relazione introduttiva di Giuseppe Federico Mancini. Per i primi commentari degli anni ’70 si segnalano: Antonino Freni, Gino Giugni, Lo statuto dei lavoratori. Commento alla legge 20 maggio 1970, n. 300, Giuffrè, Milano, 1971; Cecilia Assanti, Giuseppe Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Cedam, Padova,1972; Giorgio Ghezzi, Giuseppe Federico Mancini, Luigi Montuschi, Umberto Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1972.
(19) Giovanni Graziani, Il nostro statuto è il contratto. La Cisl e lo Statuto dei lavoratori (1963 - 1970), Edizioni Lavoro, Roma, 2007.
(20) Gino Giugni, Le ragioni dell’intervento legislativo nei rapporti di lavoro, cit., p.20.
(21) Maria Vittoria Ballestrero, Uno statuto lungo cinquant’anni, in Riv. Giur. Lav., 2020, I, p.20.
(22) E’ la parte finale dell’Intervento di Pietro Ichino in occasione del dibattito sul quarantennale, tratto dal resoconto stenografico della Seduta antimeridiana del 20 maggio 2010 al Senato.
(23) In questa prospettiva di “universalizzazione” dei diritti dei lavoratori si inserisce la proposta di legge di iniziativa popolare della CGIL, Carta dei diritti universali del lavoro. Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, che si può leggere in Riv. Giur. Lav., 2016, Documentazione, p. 233 ss.
Il mestiere del giudice, Cedam, 2020.
Collana Dialoghi di Giustizia Insieme diretta da R.G.Conti e P.Filippi
PREFAZIONE
di Paolo Grossi
È, questo nostro, un tempo in cui al giurista (teorico o pratico che sia) conviene qualche sosta di riflessione cercando di cogliere, nella transizione rapidissima che stiamo vivendo, che cosa movimento e mutamento abbiano eroso di vecchie certezze e quali siano i segni del nuovo che si va lentamente costruendo. Può darsi che la sosta debba necessariamente concretizzarsi in uno scoperto e fruttuoso esame di coscienza, nella speranza – però – che si abbia anche un più fruttuoso disegno progettuale.
È lo spessore singolare e apprezzabile del libro, che ho il privilegio di presentare al lettore. Esso, infatti, incarna proprio una sosta riflessiva, con il carattere prevalente di una impostazione serenamente critica, la quale consente al Coordinatore di raggiungere una lucida consapevolezza sull’itinerario in atto per il diritto italiano, sul senso di questo itinerario, sulle forze su cui contare per edificare un futuro coerente con le esigenze affioranti.
Rilevo con soddisfazione che l’iniziativa proviene da un giudice, a conferma che la dimensione giuridica – dove scienza e prassi, in grazia della sua ‘carnalità’, non possono non integrarsi armonicamente – è costantemente nutrita da conquiste teoriche recanti il timbro di una voce giudiziale. La riflessione, stimolata e sapientemente coordinata dal Consigliere della Cassazione Roberto Giovanni Conti, intende collocarsi in un osservatorio che vuole essere aperto, sia verso il passato, sia verso il futuro, con la positiva finalità di deporre dogmatizzazioni e mitizzazioni provenienti da lontano ma ancora munite di una loro carica virulenta, misuràndole alla luce delle odierne esigenze, spesso profondamente nuove per la incidenza che eventi rilevantissimi hanno avuto sulla storia giuridica recente e recentissima della Repubblica.
Azzeccata anche l’impostazione data al momento riflessivo, che si risolve in sette interviste, ossia in colloqui dove sono protagonisti docenti universitarii e magistrati interpellati su “questioni centrali…nell’esercizio quotidiano del mestiere di giudice” (p. XIII ). È chiaro che ci si propone di essere utili a ogni giudice, ma con una dichiarata (e commendevole) attenzione per il novizio, per “i giudici ragazzini”. Commendevole è anche la scelta di personaggi fra loro diversissimi. Ciò emerge nitidamente per quanto riguarda i docenti, nei quali le diverse adesioni teoretiche sono indubbiamente più palesi. I costituzionalisti Roberto Bin e Antonio Ruggeri mostrano con limpidità la loro origine da scuole assai differenziate, e così i filosofi del diritto Baldassarre Pastore, di matrice ermeneutica, e Giorgio Pino, di matrice analitica.
Scaturisce dalla assoluta maggioranza degli interventi l’immagine intensa del tempo giuridico che si vive oggi in Italia, un tempo posmoderno, intendendo con questa aggettivazione intrinsecamente vaga il carattere di un momento storico che sempre più si allontana dalle strutturazioni di un edificio giuridico tardo-settecentesco di impronta – insieme – illuministica e giacobina, frutto allora delle strategie del vittorioso ceto borghese ma consegnato ai posteri sotto il mantello di mitizzazioni indiscutibili e, come tali, tuttora dommaticamente circolanti tra la maggioranza pigra e inerte dei giuristi.
Le pagine, che grazie alla solerzia di Conti il lettore ha ora a sua disposizione, si segnalano – come abbiam detto - per una visione decisamente critica, offrèndoci una osservazione fedele dell’attuale movimento/mutamento. Quello che mi appare come il messaggio più rassicurante verte sulla complessità dell’assetto giuridico di un’Italia certamente ancora ben inserita all’interno del pianeta di Civil Law, ma finalmente affrancata dal piattume di parecchi anni addietro. Si dirà da taluno che mi esprimo con un autentico ossimoro, collegando strettamente la conquista di un atteggiamento di sicurezza psicologica alla percezione della complessità, e, quindi, di un paesaggio storicamente complicato. Sì! Ribadisco: rassicurante, perché continuare a blaterare oggi le decrepite pseudo-verità del credo illuministico incentrato su un accanito statalismo legalistico, senza accorgersi delle novità profondamente incisive degli ultimi settanta anni, ha per me l’insensatezza di continuare a maneggiare dei mulini di preghiera tibetani privi di un loro contenuto storicamente rilevante. Quel che si deve ammettere è che l’odierno paesaggio giuridico italiano è più difficile perché più complesso, e più difficile è il mestiere del giurista teorico o pratico; ma non possiamo, come lo struzzo di un vecchio aforisma, mettere sotto la sabbia la nostra testa e, quindi, i nostri occhi per non vedere quella che è – piaccia o non piaccia – la realtà circostante.
In questo felice libro si ha, invece, il coraggio di guardare, e di guardare dopo aver deposto degli occhiali protettivi ma deformanti. Quello che la maggioranza degli intervistati consegna all’intervistatore, e che costui raccoglie con piena soddisfazione, è la oggettiva percezione della complessità dell’attuale paesaggio. In queste pagine non si continua a raccontare favole consolanti ma irreali, e si prende atto senza edulcorazioni di una civiltà giuridica in cammino, faticoso, forse colmo di inciampi, ma costruttivo.
Il primo grande scenario, entro cui si muovono eventi e soggetti, è, come or ora si diceva, la coscienza della ritrovata complessità, complessità sotto diversi profili: si fa i conti, infatti, con il pluralismo giuridico che ravviva al suo interno la Repubblica; ma si fa i conti anche con le relazioni, spesso non facili, sempre problematiche, tra la nostra dimensione costituzionale e i pianeti della tormentata realtà eurounitaria, dell’Europa dei diritti con la sua sonora voce alsaziana, della globalizzazione giuridica in perenne crescita. Sono gli stessi curatori della Collana a parlare schiettamente nella ‘Introduzione’ dei “meandri di un diritto sempre più complesso” (p. XV). Spesso affiora negli interventi, come in quello di Ernesto Lupo (“questa maggiore complessità del diritto”, p. 285). Spesso è lo stesso coordinatore Conti a concludere sul punto; così, ed esemplarmente, commentando Pastore e Pino: “lo spaccato emergente è, forse, compendiabile con il rinvio al concetto di complessità” (p. 266); così, con riguardo ai contributi dei Presidenti Luccioli e Rordorf: la loro è “una prospettiva che si collega indissolubilmente al tema della complessità” (p. 326 ).
Quel che mi sembra di segnalare e anche segnare albo lapillo è l’acquisizione di un concetto di Costituzione straordinariamente aperto, un concetto che non si esaurisce in una legge autorevole composta di 139 articoli, ma piuttosto – così com’era nel progetto e nella realizzazione dei Padri costituenti – in una dimensione costituzionale, che si articola in più livelli, che è espressa nei 139 articoli della Carta, ma che è anche inespressa (ma parimente reale), consistente – come afferma il Presidente Rordorf – in “quel deposito di valori condivisi, che costituisce la base del vivere civile” (p. 288); un deposito che vive nella vita di un popolo e che, al pari di quella, è contraddistinto da una continua dinamica, lentissima perché di valori si tratta, ma non immobile.
Si può dire che il libro si sviluppa su questo dato nodale, e lo avverte acutamente il coordinatore Conti, quando, mettendo in conclusivo raffronto le posizioni teoriche di Bin e di Ruggeri, due costituzionalisti esprimenti concezioni diverse, le mette a fuoco con lucidità: “diversità di vedute non solo e non tanto sul ruolo del giudice, ma, prima ancora, sulla funzione e portata della Costituzione” (p. 35). Si riporta, così, su questo nodo tutto il ‘segreto’ del tempo giuridico posmoderno, e dallo scioglimento di esso si ottiene una più compiuta comprensione delle sue manifestazioni essenziali, prima fra tutte il mestiere del giudice e il suo ruolo nella odierna società civile. E’, insomma, dalla spiccata tipicità della nostra dimensione costituzionale che deriva il “mutamento di ruolo della giurisdizione” (Lupo, p. 284).
La Costituzione è còlta – ripetiàmolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante – come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici sì, ma già ab origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica. Lo puntualizza bene Gaetano Silvestri: “le Costituzioni rigide…cariche di valori etici e sociali, che assumono la veste giuridica di principii” (p. 204); precisando assai opportunamente: “premessa teorica fondamentale è che i principii abbiano contemporaneamente efficacia normativa e valore ermeneutico”, senza la quale “la Costituzione rimarrebbe un cappello posto sulla sommità”. Concetti determinanti ripresi dal coordinatore Conti nelle sue conclusioni sugli interventi dei due filosofi del diritto ed efficaci per sbarazzarsi di reliquie (monistiche perché statalistiche) ancora formalmente intatte nelle ‘Disposizioni preliminari’ al vigente Codice del 1942: i principii costituzionali “non più visti come ricavabili da norme particolari, ma nella loro dimensione elastica e potenziale, direttamente proveniente dal complesso e variegato sistema che va individuato attraverso operazioni ermeneutiche ben lontane dall’angusto piano dell’articolo 12 delle Preleggi al Codice Civile” (p. 271).
Quindi: la Costituzione italiana del 1948 quale breviario giuridico del cittadino. Non una filosofia posta quale cappello sopra l’organismo giuridico della Repubblica ma estraneo ad esso, bensì una nervatura interna ad esso, con una basilare funzione identitaria. Una Repubblica – quella italiana – che non si identifica nello Stato, anche se trova nello Stato il suo centrale motore politico-giuridico; una Repubblica plurale dinamicizzata al suo interno da una pluralità di ordinamenti giuridici raccolti e armonizzati da una base unitaria di valori, ordinamenti viventi e pertanto non immobili.
È da qui che scaturisce un “giudice partecipe delle dinamiche proprie di una società pluralista” (Pastore, p. 241) e, più specificamente, il “mutamento di ruolo della giurisdizione” còlto dal Presidente Lupo nella affermazione sopra riportata e ribadito, come rapporto causa/risultato, dal coordinatore Conti quando evidenzia “il peso che ricade sulla giurisdizione per effetto della Costituzione” (p. 271).
L’ordine giuridico è percepito, ormai, in tutta la sua naturale complessità, e complessità duplice: non si può immobilizzare nell’orizzonte esclusivo dei comandi dello Stato (a meno che non si abbia a che fare con problemi di sicurezza pubblica), e neppure nell’orizzonte a-storico di comandi avulsi dalla loro efficacia nel continuo mescolarsi con l’esperienza, sempre più lontana dal potestativo momento genetico e sempre più modificata. E si può ben comprendere la parabola attuale che quell’ordine vive in un paese di Civil Law, con un sensibile spostamento della sua asse portante dal legislatore (troppo spesso impacciato se non impotente) agli interpreti, sentiti questi come i garanti della coerenza tra forme giuridiche e società in cammino. La Presidente Luccioli è particolarmente eloquente in proposito: l’attuale momento “richiede all’interprete di convertirsi ad un approccio culturale che lo liberi definitivamente dalle incrostazioni dell’esegeta e di dotarsi degli strumenti idonei a coordinare i vari ordinamenti in un sistema armonico e coerente, assumendo tutti i rischi connessi alla sua complessità” (p. 279), “tenendo ben presente il contesto storico e sociale in cui la norma è nata e quello in cui è destinata ad operare nel tempo, intercettando i grandi cambiamenti sul piano culturale e del costume” (p. 280).
Il vecchio giudice, condannato ad essere ‘bocca della legge’ dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell’esegeta, ormai del tutto inadatta, e indossare quella dell’interprete, dell’inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione. Quello che mi sentirei, invece, di rifiutare, decisamente perché fonte di più che probabili malintesi, è il sintagma ‘creazione giurisprudenziale’, che usa Pastore (pp. 240 e 241) nel suo – peraltro, meditatissimo e condivisibile – intervento. Infatti, è proprio di ‘creazione ‘ e di ‘creazionismo’ che parlano gli adepti del legalismo statalistico stracciàndosi le vesti di fronte a un ruolo, innaturale perché para-legislativo, conferito (almeno secondo loro) ai giudici dalla riflessione ermeneutica. Insisterei, come ho fatto anche di recente, su un ruolo inventivo, marcando bene che si fa esclusivo riferimento alla inventio dei latini consistente appunto in un ‘cercare per trovare’.
Mi sembra che questo volume di interviste intitolato al ‘mestiere del giudice’ corrisponda pienamente alla finalità che i curatori della Collana “Dialoghi di giustizia insieme”, Roberto Giovanni Conti e Paola Filippi, hanno perseguito varàndola. Consapevoli “delle grandi responsabilità, degli enormi poteri e della vulnerabilità individuale” del giudice nell’attuale contesto italiano (p. XIII), hanno preteso di fornire “un affresco né troppo dogmatico né artificiale ed epidermico” (p. XIII), il solo che, proprio perché volutamente realistico, poteva fungere insieme da rilevazione critica e da orientazione pròvvida. Il ricorso, che il coordinatore Conti ha fatto, sia a docenti, sia a magistrati, è circostanza che reclama il nostro plauso, perché riafferma una grande verità: la scienza giuridica trova i suoi laboratorii indubbiamente nelle Università ma non meno in quelle autentiche officine rappresentate dalle curie giudiziali massime e minime. In questa unità di lavoro, che lega teorici e pratici in una preziosa collaborazione, ho sempre creduto, e tanto più oggi ci credo quando i mutamenti rapidissimi hanno nelle trincee della prassi le prime verifiche e le prime definizioni tecniche.
Introduzione
Le Interviste di Giustizia Insieme
"Giustizia Insieme" ha lanciato nel corso dell’anno 2019, in forma sperimentale, una rubrica periodica dal titolo “Interviste”.
Si è inteso dare così voce ad accademici e giuristi che per la funzione svolta e la specializzazione raggiunta possano offrire al pubblico dei lettori – giudici, giuristi e semplici lettori interessati al tema – un affresco né troppo dogmatico né artificiale ed epidermico su questioni centrali.
La prospettiva prescelta propone il confronto sull’essere operatori del diritto, rivolgendosi in particolare a quegli operatori del diritto silenziosi che offrono il loro contributo negli ambiti di rispettiva competenza alla macchina della giustizia.
Nascendo l’iniziativa all’interno di una rivista creata da magistrati, si è poi inteso rivolgere un’attenzione particolare ai giudici ragazzini, catapultati in una realtà estremamente complessa e ormai purtroppo assai lontana da vicende ed episodi che per la loro crudezza hanno segnato, ormai alcuni lustri fa, il DNA giudiziario di una generazione di “giudici ragazzini” che oggi la rappresenta la “classe di mezzo” dell’ordine giudiziario.
In questa prospettiva, la formula prescelta è stata quella di conversazioni scritte a più voci con la formulazione di domande alle quali è seguita una nota di chiusura dell’intervistatore.
Il format delle interviste è stato pensato proprio per individuare le problematiche e le criticità nell’esercizio quotidiano del mestiere di giudice, riflettendo sul come l’aspirazione e la fatica del giudice silenzioso si articoli pure in quel quotidiano, non facile coordinare umiltà e prestigio nella consapevolezza delle grandi responsabilità, degli enormi poteri e della vulnerabilità individuale nella quale ci si viene quando si decide da soli o si è lasciati soli.
La necessità di fissare l’argomento in brevi domande nasce dunque in una prospettiva di superamento del tradizionale modulo di approfondimento di temi scientifici, troppo spesso calibrato sulla trattazione di temi generali che, a volte, non consente di focalizzare l’attenzione sul cuore delle questioni che meritano, invece, una cura e riflessione particolari.
Si è qui utilizzato il sostantivo giudici volendo con esso intendere tutti i magistrati, sia quelli giudicanti che quelli requirenti, perché anche il procuratore è giudice quando svolge le indagini, quando si determina all’esercizio dell’azione penale o chiede la condanna. Giudice in quanto partecipe del potere giurisdizionale e perciò tenuto “per Costituzione” a decidere sempre senza condizionamenti e pregiudizi di parte, ma anche di questo ne parleremo nelle nostre interviste.
Crediamo che il contatto con l’accademia e con i “giudizi” da essa espressi sul ruolo del “giudiziario” possa contribuire ad avvicinare sempre di più quel mondo ai bisogni dei giudici e dei giuristi pratici, alle loro aspettative ed alle responsabilità crescenti che su di loro continuano ad aumentare per fattori indogeni ed esogeni, in tal modo garantendo una risposta giudiziaria migliore alle istanze della collettività.
Una linea di collegamento continua, inverata da un comune spirito di cooperazione, capace di costituire un terreno fecondo per chi accetta di dialogare in una prospettiva “di servizio”.
Il passaggio dalla pubblicazione sulle pagine della Rivista on line a quella cartacea che qui prende forma per la prima volta intende “raccogliere su carta” le riflessioni sono emerse dalla prime sette interviste dedicate a diversi temi relativi al ruolo del giudice.
In esse si sono avvicendati diversi accademici, confrontandosi volta per volta su aspetti che, in questa prima pubblicazione, hanno toccato con mano le difficoltà del mestiere del giudice in quanto proiettato in una dimensione del diritto che ha perso la tradizione caratterizzazione dei confini nazionali, per assumerne prepotentemente una sovranazionale, in modo continuo e magmaticamente alimentata da “diritti e sistemi che vedono il nostro paese come parte di un complesso ordine sovranazionale.
In questo contesto si inseriscono le interviste intorno Giudice o giudici nell'Italia postmoderna (Antonio Ruggeri, Roberto Bin), La Carta UE dei diritti fondamentali e i “giudici” chiamata ad applicarla (Giuseppe Martinico, Vincenzo Sciarabba e Lara Trucco), Giudici nazionali e giudici sovranazionali. Relazioni pericolose? (Roberto Mastroianni, Paola Mori e Bruno Nascimbene).
L’intervista su Il giudice disobbediente nel terzo millennio (Davide Galliani, Vincenzo Militello e Gaetano Silvestri) e quella su La retorica dei diritti fondamentali? (Baldassarre Pastore e Giorgio Pino) hanno indagato sulla particolare posizione nella quale viene a trovarsi il giudice di fronte ad un sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali, come anche quella su Quale futuro per il fine vita dopo Corte cost.n.207/2018 (Antonio D’Aloia, Giacomo D’Amico e Giorgio Repetto), nella quale è stata messo al centro del dibattito la spinosa questione del c.d. fine vita e del ruolo giocato dal giudice in tale contesto.
L’ultimo degli approfondimenti, nel quale si sono confrontati alcune delle personalità del mondo giudiziario più importanti dell’ultimo ventennio, ha chiuso il giro di interviste sul tema Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità (Ernesto Lupo, Giovanni Canzio, Renato Rordorf, Maria Gabriella Luccioli).
È stata l’accoglienza riservata all’iniziativa apparsa sulla Rivista dai tanti giuristi che hanno apprezzato l’iniziativa a rendere quasi obbligata la pubblicazione cartacea dimostrando che c’è tanta voglia di dialogare con i giudici, ma al contempo di una magistratura particolarmente attrezzata e capace di muoversi con agilità e professionalità nei meandri di un diritto sempre più complesso.
Un grazie particolare a Lorenzo Miazzi che, silenziosamente, ha condiviso il compito di riportare il testo delle interviste, editato in una prospettiva di diffusione on line, ai canoni della pubblicazione in stampa.
I curatori della collana
Paola Filippi
Roberto Giovanni Conti
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