ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Marco Imperato
sommario: 1.Premessa. - 2.La gogna mediatica e le nostre responsabilità -3.La rete dei contatti personali: dialogo fisiologico e raccolta di informazioni… o pressioni indebite e scambi inconfessabili? 4. I principi invalicabili per tutelare il confronto istituzionale senza degenerare nel traffico di influenze. - 5.I frutti (non tutti da buttare) della discrezionalità e il falso mito del passato. - 6.La ricerca di una terza via tra rottamazione e difesa corporativa. - 7.Le incompatibilità: segno concreto di discontinuità. - 8.Conclusioni: le parole devono diventare azioni.
1.Premessa
Lo stillicidio di intercettazioni che stiamo osservando mischia situazioni e vicende di significato molto diverso tra loro.
Le chat pubblicate (chi sceglie quali…?) non sono paragonabili agli incontri notturni con politici per pilotare la scelta del Procuratore di Roma, rivelati dal noto trojan sul telefono di Palamara.
Alcune vicende non configurano condotte in alcun modo illecite, altre sono presentate in modo enfatico per colpire questo o quell'obiettivo e se contestualizzate si rivelerebbero di modesto rilievo. Altre sono inconsistenti e si colorano negativamente più per il contesto dello scandalo che per il merito. I colleghi ingiustamente danneggiati avranno modo di far valere le loro ragioni.
Non tutto quello che viene pubblicato però è privo di significato rispetto al sistema che racconta, anzi.
Credo che si debba trovare un’alternativa tra accuse qualunquiste che omologano tutto e tutti in modo superficiale e populista da una parte, ed un silenzio imbarazzato dall’altra, rotto solo da qualche comunicato dei gruppi, che finisce per essere quasi sempre auto-assolutorio.
Le vicende e le responsabilità vanno distinte e spiegate, certo. Ma soprattutto va individuato ciò che invece rappresenta una caduta rispetto ai doveri istituzionali, rispetto al codice etico dell’Anm e anche alla Carta dei Valori di cui noi magistrati di Area ci siamo riempiti la bocca in questi anni.
2. La gogna mediatica e le nostre responsabilità
Questo modo di fare cronaca ha poco o nulla a che fare con l’informazione: genera sdegno e denuncia, sì, ma senza contestualizzare, senza consentire di valutare le vicende, bensì gettando tutto in un unico calderone di fango. Peraltro dovremmo avere l’onestà intellettuale di dire che come categoria non siamo certo privi di responsabilità se nel Paese si è tollerato e diffuso (e qualche volta usato) questa barbarie di informazione, una gogna mediatica che asseconda (troppo) facili generalizzazioni e delegittimazioni. L’alternativa non è la censura o l’opacità, ma dovrebbe esserci un trasparente filtro dei dati di rilevanza processuale e una volta fatto quel filtro con le garanzie dovute alle parti del processo, i contenuti di rilevanza pubblica dovrebbero diventare ostensibili e conosciuti, non lasciati a un mercato nero nascosto che decide cosa e quando pubblicare.
Detto della necessità di distinguere e di ragionare e di comprendere meglio, non possiamo però poi eludere il merito e girarci dall’altra parte.
3. La rete dei contatti personali: dialogo fisiologico e raccolta di informazioni… o pressioni indebite e scambi inconfessabili?
Il dialogo e i contatti personali nell’ambito di un organo collegiale complesso sono per certi aspetti inevitabili e fisiologici, talvolta doverosi e indispensabili.
Sappiamo che molti contatti informali ai margini dell’organo di autogoverno sono legati dalla volontà (a volte ritenuta una necessità…) di ricercare quelle informazioni che purtroppo non finiscono nelle carte ufficiali e che però possono essere decisive e rilevanti. I magistrati sanno che questo è il problema dei problemi da anni perché nonostante le tante discussioni e riforme spesso ancora le istruttorie ufficiali non garantiscono una conoscenza effettiva della realtà: i veri problemi degli uffici non sempre risultano per iscritto, così come quasi tutti i colleghi candidati per un posto semidirettivo o direttivo sono presentati sulla carta sempre tutti eccezionali, complicando così l’individuazione delle differenti qualità e dei diversi meriti che stanno dietro queste versioni appiattite e burocratiche. Il fatto che questo nodo non sia stato sciolto dimostra a mio parere che va cambiato profondamente il paradigma con cui funzionano le nomine e non possiamo più lasciare che i buchi del sistema informativo siano riempiti da canali informali, spesso quasi soltanto correntizi.
4. I principi invalicabili per tutelare il confronto istituzionale senza degenerare nel traffico di influenze
A prescindere da questo tema dei canali informativi, se è vero che il dialogo tra i componenti degli organi eletti e dei corpi intermedi che li esprimono è comprensibile e non di per sé illecito, ci sono almeno due precisazioni fondamentali da fare:
-questo dialogo informale può portare al compromesso politico (inteso come risultato migliore possibile nell’interesse dell’autogoverno, dei colleghi, degli uffici e del servizio che offriamo), ma mai dovrebbe condurre ad uno scambio do ut des e ancor meno allo scambio secondo logiche di fazione
-l’esito del confronto deve essere fondato su ragioni ostensibili: dobbiamo poter spiegare (dentro e fuori la magistratura) le decisioni che prendiamo
Questi due limiti e principi non sono stati rispettati e non abbiamo garanzie che vengano rispettati in futuro.
I proclami e le promesse oggi lasciano davvero il tempo che trovano, in un sistema che ha perso autorevolezza e credibilità (forse anche oltre i suoi gravi demeriti? cambia poco…).
Area e le sue componenti non sono state impermeabili a questo sistema. L’impressione è che la nostra presunta diversità si è limitata talvolta solo a pretendere che lo scambio avvenisse sulla base anche della qualità.
Ma questo non è sufficiente.
Non credo lo fosse in passato e sicuramente non è sufficiente oggi, sebbene i margini di discrezionalità abbiano portato anche risultati positivi per gli uffici, con nomine illuminate che nel vecchio mondo dell’anzianità senza demerito sarebbero state inimmaginabili.
5.I frutti (non tutti da buttare) della discrezionalità e il falso mito del passato
Permettetemi un esempio: quando lavorai in Procura a Marsala tra il 2004 e il 2008 gli uffici erano in grave sofferenza e senza una strategia organizzativa reale da parte dei direttivi. Dodici anni dopo il Tribunale e la Procura hanno svoltato completamente, con numeri e tempi che garantiscono davvero un servizio giustizia degno di questo nome. Il merito va a tutti i magistrati che si sono sacrificati in questi anni ma indubbiamente anche a una serie di direttivi e semidirettivi che hanno dimostrato capacità organizzative importanti.
Il passato non era un’età dell’oro a cui tornare per uscire dai mali del correntismo e del carrierismo.
Tuttavia, dire che la discrezionalità del CSM nelle nomine abbia condotto anche a scelte molto positive e innovative non può bastare; non possiamo accontentarci di stare al tavolo cercando solo di giocare in modo più corretto.
6. La ricerca di una terza via tra rottamazione e difesa corporativa
Dobbiamo pretendere che il gioco cambi radicalmente e che si scardini quella rete che è stata utilizzata per fini personali e lottizzazioni più o meno mascherate.
Oggi la magistratura è in crisi di autorevolezza; l’associazionismo e l’autogoverno sono guardati con sfiducia e amarezza da tanti di noi, specialmente i più giovani. Per questo è diventato indispensabile chiedere conto di ogni scelta con trasparenza e pretendere coerenza.
Non accetto che non ci sia alternativa al “così fan tutti” o al “fa tutto schifo”, perché quella strada di delegittimazione qualunquista porta all’anzianità senza demerito e a pessimi direttivi. Quella strada porta al sorteggio nel Csm e alla fine dell’autogoverno e quindi dell’indipendenza della magistratura… perché quella strada porta al chiuderci nei nostri uffici, conduce al cinismo e alla disillusione. Come pretendere di esercitare la giurisdizione, giudicando i comportamenti delle persone, se ci ammettessimo di essere incapaci di eleggere i responsabili del nostro governo e di guarire le derive di malaffare del nostro sistema?!
Non sono ancora abbastanza stanco per accettare questa deriva.
Cosa fare allora? Cosa può darci la fiducia che le cose cambino?
7. Le incompatibilità: segno concreto di discontinuità
Ritengo che il punto di partenza possano e anzi debbano essere delle nuove rigorose incompatibilità tra incarichi di autogoverno, ruoli associativi, direttivi e fuori ruolo.
Non mi illudo: i comportamenti non mutano improvvisamente con delle regole ed è necessario che queste siano precedute e accompagnate da un percorso di cambiamento culturale. Tuttavia mettere dei paletti chiari è il primo segnale di voler fare sul serio, di voler spezzare il circuito di carrierismo autoreferenziale che sta avvelenando il sistema e che ha gravemente deturpato l’azione delle correnti.
Le proposte sulle incompatibilità sono tante e qui mi limito a richiamarne alcune, frutto di un gruppo di lavoro trasversale creato dalla giunta Anm dell’Emilia Romagna:
per le candidature al C.S.M.
-la preclusione in capo al Presidente e Segretario della A.N.M. nel corso del loro mandato e per due anni dalla cessazione del mandato [...];
-la preclusione per tutti i componenti del C.d.c. nel corso del loro mandato [...];
-la preclusione per Segretari e Presidenti dei gruppi associativi durante il mandato e per due anni dalla cessazione del mandato [...];
-una preclusione per tutti i componenti del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura nel corso del loro mandato [...]
Sui componenti del CSM
- si chiede che venga rivisto il trattamento economico attualmente in vigore tenendo conto della fascia di professionalità acquisita, integrata con diarie e con tutti i rimborsi necessari allo svolgimento delle funzioni.
-Il limite minimo di anzianità di servizio per potersi candidare al C.S.M. [deve] essere di 12 anni di svolgimento effettivo delle funzioni giudiziarie, di cui gli ultimi quattro trascorsi nelle funzioni per cui ci si candida (requirenti o giudicanti).
- si ritiene necessario un periodo di rientro nelle funzioni giudiziarie e pertanto, al termine dell’incarico, l’Assemblea a maggioranza ritiene che per due anni, decorrenti dall’effettiva ripresa delle funzioni giudiziarie, non potranno avanzare domanda per un posto semidirettivo o direttivo, accettare o richiedere incarichi “fuori ruolo” per qualsiasi incarico di collaborazione diretta con gli uffici ministeriali.
Sui colleghi c.d. “fuori ruolo”
-si suggerisce di verificare l’opportunità di diversificare all’interno di quest’ultima categoria, gli incarichi svolti presso organi giudiziari quali la Corte Costituzionale, la Corte di Giustizia Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
- I colleghi c.d. “fuori ruolo”, per un termine di quattro anni dal rientro in servizio, non potranno candidarsi al C.S.M. richiedere incarichi direttivi e semidirettivi;
-proporre domanda, in ogni caso, se non abbiano effettivamente svolto funzioni giudiziarie per un numero di anni pari alla legittimazione richiesta per il posto messo a concorso.
Sui magistrati che abbiano assunto cariche politiche ed incarichi presso organi politici
-cessato l’incarico politico, il magistrato non potrà più candidarsi al CSM e non sarà legittimato a chiedere un ruolo direttivo o semidirettivo per 5 anni dalla ripresa delle funzioni giudiziarie;
-cessato l’incarico politico, il magistrato potrà rientrare solo nelle funzioni giudiziarie collegiali giudicanti.
Sui magistrati candidati ma non eletti alle predette cariche. Ferma restando l’incompatibilità con il distretto nel quale hanno presentato una propria candidatura, essi non potranno fare istanza per posti direttivi o semidirettivi prima di 5 anni dalla ripresa del servizio.
A questa serie di proposte mi permetto di aggiungere almeno altri due temi fermi sul tavolo da troppo tempo:
-rendere i posti semi-direttivi tabellari (almeno alcuni di questi)
-audizione diretta di tutti i candidati ai posti direttivi di maggiore peso specifico (proprio per evitare la ricerca di canali informali)
Certamente alcune di queste proposte richiederebbero interventi legislativi ma nulla impedisce che Area o l’Anm intera le pongano come condizioni ai propri aderenti, consentendo così ai colleghi di misurare in modo oggettivo e concreto la coerenza dei comportamenti.
8.Conclusioni: le parole devono diventare azioni
Da anni il mio impegno è dentro il Movimento e soprattutto dentro Area. Qui ho trovato colleghi affini per valori e per modo di interpretare il mestiere, con passione e spirito di servizio.
Però Area non può accontentarsi di gestire un sistema sperando che il sistema non cambi anche noi: se balli col diavolo è lui a cambiare e te e non il contrario.
Dobbiamo avere il coraggio di segnare la differenza, di dimostrare che non ci basta giocare (forse… più…) correttamente degli altri, ma che vogliamo cambiare gioco, che vogliamo spezzare il circolo vizioso e uscire dal girone delle telefonate e dei “grazie” più o meno estorti o detti per cortesia ma che possono finire per imbrigliarci nella rete.
Dimostriamo di voler davvero che tutti i magistrati si distinguano solo per funzioni e che la giurisdizione sia al centro.
Le proposte sulle incompatibilità credo siano la cartina tornasole che ci farà capire se veramente vogliamo cambiare sistema.
Per ritrovare fiducia nel nostro impegno.
Per ridare credibilità e autorevolezza all’associazionismo e all’autogoverno della magistratura.
Covid e mascherine
di Alberto Rizzo
Sommario: 1. Premessa - 2. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica - 3. La normativa di carattere penale attualmente vigente - 4. Il problema del burqua - 5. Le attuali problematiche di carattere penale - 6. Obbligatorietà dell’azione penale.
1.Premessa
Sono trascorsi diversi mesi dall’inizio dell’emergenza scatenata dal Covid-2019, eppure il virus non cessa di essere il protagonista indiscusso dei nostri pensieri e diuturni discorsi.
Di cose se ne sono dette tante - anche troppe - e si continua a dirne. Certamente, uno degli argomenti su cui tutti hanno espresso il proprio parere è la dibattutissima questione delle mascherine: quali usare, quando usarle, a chi farle indossare, a chi no e così via.
Ebbene, senza voler scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi, la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche, proviamo a concentrare l’attenzione su uno scenario che è rimasto in secondo piano, ma che ha comunque notevole rilevanza: i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?
Procediamo con ordine.
2. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica
Inizialmente, l’obbligo di indossare le mascherine non si è articolato in modo uniforme sul territorio. Tale obbligatorietà è stata per lo più prevista in modo “trasversale”, ossia solo per determinate fasce di popolazione (i sanitari, gli esercenti commerciali dei beni di prima necessità come alimentari, farmacie etc.) e – in ogni caso – solo a livello regionale.
Quindi, obbligatorie solo per alcuni e, comunque, non dappertutto.
A causa dell’alto numero di contagi, la Lombardia è stata la prima ad emettere un’ordinanza locale con cui ha imposto l’obbligo a chiunque esca di casa di coprire naso e bocca, possibilmente con una mascherina o, in mancanza, impiegando una sciarpa o un foulard (Ordinanza n. 521 del 4/4/2020).
Sempre a inizio aprile, la Valle d’Aosta ha stabilito l’obbligo di indossare mascherina e guanti non solo per gli esercenti commerciali, ma anche per chi va a fare la spesa. Stessa cosa ha disposto il Veneto, mentre il Piemonte e la Toscana hanno comunicato che avrebbero reso obbligatorio l’uso della mascherina per tutti, ma solo dopo aver provveduto a distribuirne una gran quantità alla popolazione.
Infine, con il DPCM del 26 aprile, finalizzato ad accompagnare l’Italia nella fatidica “FASE 2”, l’obbligo è stato introdotto e regolamentato sull’intero territorio nazionale.
Ad oggi, l’utilizzo in Piemonte è previsto dal Decreto 2 maggio 2020, n. 50, il quale prevede l’obbligo per tutti i cittadini di utilizzare protezioni delle vie respiratorie nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto, e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuamente il mantenimento della distanza di sicurezza, escludendo da tale obbligo “i bambini al di sotto dei sei anni, nonché i soggetti con forme di disabilità non compatibili con l’uso continuativo delle mascherine ovvero i soggetti che interagiscono con i predetti”.
Questa la situazione attuale.
3. La normativa di carattere penale attualmente vigente
Eppure, in questo contesto di “iper-legificazione” c’è un elemento che pare essere stato completamente dimenticato: il precetto penale.
Infatti, nell’ordinamento italiano esistono ancora delle norme, di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico.
In particolare, sono due le norme fondamentali che impongono tali restrizioni:
- l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931), che così recita: “E’ vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000. È vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto. Il contravventore e chi, invitato, non si tolga la maschera, è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000.”
- l’altra, un po’più dettagliata, è l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975: “E' vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. ((Nei casi di cui al primo periodo del comma precedente, il)) contravventore è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro. ((Qualora il fatto è commesso in occasione delle manifestazioni previste dal primo comma, il contravventore è punito con l'arresto da due a tre anni e con l'ammenda da 2.000 a 6.000 euro.)) Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza.”
Dalla lettura di queste disposizioni sorgono due interrogativi principali: cosa vuol dire “mascherati” e quali sono questi “giustificati motivi”?
La difficile interpretazione di tali norme, invero, ha già comportato non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla dibattutissima questione dell’abbigliamento religioso.
In particolare, ci si riferisce a determinati abbigliamenti “occultanti”, ossia quelli imposti dalla fede musulmana (burqa o hijab).
Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?
Ovviamente il problema non si pone fintanto che la donna in questione non acceda a luoghi pubblici o affollati, ovvero nei quali è necessario provvedere al suo riconoscimento, come i Tribunali o gli aeroporti.
Sono, questi, interrogativi cui la giurisprudenza ha provato a dare risposte, giungendo a conclusioni anche diametralmente opposte. La questione si era fatta tanto spinosa che, nel 2010, una parte politica aveva tentato di riformare il dettato normativo dell’art. 5 L. 152/1975, al fine di rendere più chiara la sua portata interpretativa. Infatti, il nodo gordiano della questione risiede nel fatto che la norma parla espressamente solo di “caschi protettivi”, facendo in seguito riferimento, in via residuale ed assai genericamente, a “qualunque altro mezzo” atto a rendere difficoltoso il riconoscimento.
4. Il problema del burqua
Ebbene, è proprio da questa indeterminatezza che sorge il problema del burqa.
Infatti, che tale indumento renda del tutto impossibile l’attività di riconoscimento, è fuor dubbio.
La proposta di modificare la norma era finalizzata a far rientrare il burqa nel novero dei “mezzi” volti a impedire il riconoscimento, ed era fondata sulla concezione secondo cui i motivi che stanno alla base del velo integrale non siano in realtà di carattere religioso, bensì solo etnico-culturale: non si tratterebbe, quindi, di un precetto imposto dalla fede religiosa, ma solo di un’usanza adottata dalle comunità islamiche più integraliste e, pertanto, non sarebbe da ricomprendere tra i “giustificati motivi” che fondano l’eccezione al precetto penale ex art. 5 L 152/75.
Tuttavia, tale prima proposta di riforma non ha trovato il seguito sperato.
Per quanto concerne la giurisprudenza, ad oggi la pronuncia più importante in materia è quella emessa nel 2008 dal Consiglio di Stato (n. 3076/2008), nella quale viene chiarito che “il burqa non contrasta né con l’art. 85 del R.D. 1931, né con l’art. 5 l. 152/75 poiché, in primo luogo, il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’articolo 85 del R.D. n. 773/193 non può sussistere, dal momento che il velo islamico non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa”.
Nemmeno sarebbe pertinente, a parere del Consiglio di Stato, il richiamo all’articolo 5 della legge n. 152/1975, che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
La ratio della norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento.
Un divieto assoluto, quindi, vi è solo in occasione di manifestazioni che avvengano in luogo aperto al pubblico, ad eccezione di quelle di carattere sportivo che impongano tali usi, altrimenti l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento rimane vietato solo se avviene "senza giustificato motivo".
Infine, il Consiglio di Stato ha messo un punto sulla questione, affermando che quello del burqa è “utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. (…) Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.”
Nel 2017, al riguardo, è stata avanzata un’ulteriore proposta di riforma dell’art. 5 L. 152/75, anch’essa rimasta tale, e fondata nuovamente sulla necessità di chiarire la portata troppo generica dei “mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento”. Tale ulteriore proposta poneva l’accento sulla ratio dell’art. 5, ossia quella di scongiurare atti di terrorismo con misure atte a evitare occultamenti o travisamenti di identità.
5. Le attuali problematiche di carattere penale
Ebbene, tornando all’argomento principale, ossia all’obbligo recentemente imposto di indossare le mascherine protettive in luoghi aperti al pubblico, appare una certa similitudine con il discorso sviluppato in riferimento all’abbigliamento occultante, se non altro per quanto concerne i problemi interpretativi che possono sorgere.
Partendo dal presupposto che vi sono due norme di rilevanza penale che impongono di non comparire in luogo pubblico mascherati, o con altri mezzi che rendano difficile il riconoscimento dei connotati - se non per giustificato motivo -, pare opportuno chiedersi se effettivamente le ragioni che stanno alla base dell’obbligo imposto siano valutabili come un “giusto motivo”, tale da scriminare quel comportamento che, altrimenti, avrebbe indubbiamente rilevanza penale.
A tal proposito, è ormai pacifico che il virus si trasmetta tramite un contatto stretto con una persona infetta. È lo stesso Ministero della Salute che, nella pagina Web appositamente dedicata a fornire chiarimenti sulla natura del Covid-19, scrive: “Il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata. La via primaria sono le goccioline del respiro delle persone infette”.
Non si tratta, quindi, di un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio.
Parrebbe, quindi, che indossare la mascherina in luoghi aperti non possa essere in alcun modo un “giustificato motivo”.
Volendo, quindi, ragionare in questi termini, si apre uno scenario alquanto sconcertante.
Appurato che indossare le mascherine per prevenire o limitare la diffusione del virus non costituisce un giustificato motivo ai sensi di legge, va da sé che tale comportamento sia penalmente rilevante ai sensi degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931.
Ebbene, basta dare uno sguardo alle strade di qualunque città d’Italia per rendersi conto di quanti cittadini, certamente convinti di fare una cosa buona e giusta, circolano indossando una mascherina.
A questo punto, dovremmo chiederci per quale motivo tutti i pubblici ufficiali in servizio, che constatano la presenza di persone dotate di mascherine in luogo pubblico, non abbiano segnalato all’Autorità Giudiziaria tali notizie di reato, rendendosi a loro volta passibili del reato di cui all’art. 361 c.p.
Oppure potrebbe essere che, in quanto le nuove norme (che impongono di indossare la mascherina in luogo pubblico) sono completamente contrastanti con le precedenti che vietano espressamente tale comportamento, si sia verificata un’abrogazione implicita di queste ultime, secondo quanto disposto dall’art. 15 delle Preleggi.
Se non fosse così, non ci si spiega come nessuno sia intervenuto a sanzionare tali comportamenti.
Ma non è tutto. Sempre partendo dall’assunto che tale comportamento sia penalmente rilevante - e che non vi sia stata un’abrogazione implicita dei precetti penali che lo sanzionano - si potrebbe affermare come le norme regolamentari, che impongono di andare in giro indossando la mascherina, di fatto stiano invitando la popolazione a tenere un comportamento contra legem.
Infatti, l’art. 414, comma primo, Codice penale, recita: “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione”.
Parrebbe, effettivamente, che sussistano tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie: indubbiamente i regolamenti sono divulgati “in forma pubblica” e, abbiamo appurato, impongono ai consociati di tenere un comportamento che va contro le disposizioni di cui agli artt. 5, L. 152/75, e 85, R.D. 773/1931.
6. Obbligatorietà dell’azione penale
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione – che risulta ancora costituzionalmente previsto – è quindi scomparso? Ai Lettori e ai Magistrati il compito di rispondere.
Vi è, peraltro, un’ultima questione che può fornire alcuni spunti di riflessione.
Posto che in molti riterrebbero l’utilizzo delle mascherine un “giustificato motivo”, idoneo a scongiurare un eventuale contrasto con i precetti penali sopra riportati, ciò non toglie che gli obblighi imposti alla popolazione siano stati precettati esclusivamente da ordinanze e decreti regionali, ovvero decreti ministeriali.
Tuttavia, uno dei principi cardine del nostro Ordinamento è quello della gerarchia tra le fonti del diritto: esse non sono tutte di pari grado, bensì assumono importanza differente.
La legge costituzionale è all’apice della gerarchia, seguita dalle leggi statali ordinarie e, solo in seguito, da quelle regolamentari (sia di origine governativa, sia regionale).
La fonte superiore, chiaramente, prevale su quella inferiore e quest’ultima non può in alcun modo contraddire le fonti di grado superiore.
Ciò comporta, quindi, che giammai un regolamento potrebbe imporre un precetto che sia in contrasto con quello di una legge ordinaria (quale è quella penale); in tal caso, ben lungi dall’essere rispettato, sarebbe proprio il regolamento a dover essere disapplicato.
In definitiva, le vie percorribili sono due: o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore.
In ogni caso, il contesto legislativo in cui ci troviamo è, a dir poco, confusionario, e sarebbe auspicabile che, nonostante il periodo di emergenza e la necessità di farvi fronte velocemente, non si perdano di vista altri valori altrettanto importanti, quali quelli sanciti nella nostra Costituzione.
Sliding doors per la “doppia pregiudizialità” (traendo spunto da Corte App. Napoli, I Unità Sez. lav., 18 settembre 2019, in causa n. 2784 del 2018, XY c. Balga)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Conviene davvero far luogo alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali, così come ha fatto nel caso odierno il giudice partenopeo? – 2. Primo scenario: si pronunzia per prima la Corte costituzionale. – 3. Secondo scenario: si pronunzia per prima la Corte dell’Unione. – 4. I benefici che possono attendersi dall’adozione di un protocollo d’intesa che disciplini i rapporti tra le Corti in vista della ottimale soluzione da apprestare alle questioni di “doppia pregiudizialità” (con specifico riguardo proprio ai casi in cui siano simultaneamente prospettate).
1. Conviene davvero far luogo alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali, così come ha fatto nel caso odierno il giudice partenopeo?
Due ordinanze della Corte di Appello di Napoli, adottate lo stesso giorno e rispettivamente indirizzate alla Corte costituzionale ed alla Corte dell’Unione europea, ripropongono la questione, come si sa assai vessata, della “doppia pregiudizialità” con riguardo ai casi in cui si tratti di stabilire se si abbia violazione della Carta di Nizza-Strasburgo (e, dopo la 20 del 2019, anche di discipline eurounitarie a queste quodammodo “connesse”[1]), in ispecie per l’aspetto dell’ordine temporale riguardante la chiamata in campo delle due Corti da parte dei giudici comuni, da cui poi – com’è chiaro – discendono rilevanti conseguenze, ampiamente studiate da una nutrita schiera di studiosi ed alle quali, solo per taluni aspetti, si farà ora nuovamente richiamo.
Nulla – avverto subito – qui si dirà per i profili di merito (concernente una vicenda di illegittimo licenziamento dal lavoro[2]), limitandomi a trattare del solo punto sopra indicato[3].
L’autorità remittente, come si diceva, opta per il simultaneo interpello delle due Corti, facendo propria una soluzione tecnica patrocinata da una sensibile dottrina[4], tenendosi dunque distante da entrambi i corni opposti dell’alternativa che vede prospettate in ordine consecutivo prima questa ovvero quella questione pregiudiziale[5]; ed è interessante notare l’argomento sul quale principalmente fa leva il giudice partenopeo a sostegno della opzione prescelta, con il riferimento al bisogno di parare il rischio che possa essere “esautorato” o “emarginato” il ruolo del giudice di merito per il caso che il rinvio alla Corte di giustizia si abbia “a valle” del sindacato di costituzionalità[6].
Come si vede, si prendono, dunque, le distanze dalla soluzione volta ad accordare priorità temporale alla questione di costituzionalità: una soluzione che – come si sa –, a giudizio di molti commentatori, sarebbe stata imposta dalla Consulta con la 269 del 2017 e fatta nondimeno oggetto di sostanziale temperamento con le pronunzie del 2019[7], con le quali pur tuttavia il giudice delle leggi non cela di preferire che gli sia data comunque la precedenza rispetto al giudice eurounitario[8]. Stranamente, però, nella ordinanza di rimessione alla Consulta nulla si dice a riguardo della opposta soluzione, che veda chiamata per prima la Corte dell’Unione, malgrado il giudice di merito sia ben consapevole del fatto che quest’ultima opzione non gli è più preclusa alla luce dell’attuale orientamento della Corte nazionale. Una soluzione che – come si è tentato di argomentare in altri luoghi – resta, a mia opinione, quella più vantaggiosa, se non pure di necessità imposta, per plurime ragioni delle quali non è ora il caso di fare parola[9]. Talvolta, anzi, è appunto una soluzione obbligata, non foss’altro che per il fatto che il giudice di merito può nutrire dubbi circa il retto significato del parametro sovranazionale e non può, pertanto, stabilire se si abbia, o no, la violazione anche della Carta dell’Unione, oltre che della Costituzione, e, insomma, nulla di sicuro è in grado di dire a riguardo della Carta stessa (o di altra fonte che vi dia attuazione) sì da determinarsi poi a rivolgersi al giudice costituzionale, per lesione indiretta dei parametri costituzionali che vi danno “copertura”, in applicazione dello schema usuale della fonte interposta.
Si aggiunga, poi, che non di rado, proprio grazie al previo interpello della Corte dell’Unione, il giudice nazionale è messo in condizioni di impostare nel modo ancora più efficace e corretto la questione di costituzionalità (ad es., laddove riceva indicazioni non soltanto in merito al giusto significato da attribuire al disposto eurounitario ma anche con riguardo alla sua attitudine, che potrebbe non aversi, ad essere portato ad immediata applicazione, sì da richiedersene la protezione nei riguardi di norma interna con esso incompatibile a mezzo del sindacato di costituzionalità) o, addirittura, a prospettare una questione di costituzionalità che altrimenti non avrebbe presentato, secondo quanto si preciserà meglio più avanti.
In generale, dubito che giovi al giudice comune (e, di riflesso, all’amministrazione della giustizia) prospettare allo stesso tempo un dubbio di costituzionalità “bifronte”, per un verso volto verso il parametro costituzionale e per un altro verso volto verso il parametro eurounitario, coperto però – qui è il punto – dal velo della ignoranza circa il modo con cui quest’ultimo potrebbe essere illuminato e messo opportunamente a fuoco dal suo giudice naturale, la Corte dell’Unione.
Mutatis mutandis – anche se la questione non è ora di specifico interesse per questo studio – ugualmente possono andare le cose sul versante dei rapporti tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo; e non è un caso – a me pare – che proprio di recente sia stata sollevata una questione di costituzionalità, che ha subito attratto l’attenzione dei commentatori, in tema di gestazione per conto di terzi, a seguito e dietro sollecitazione di un noto (e discusso) parere emesso dalla Corte suddetta in applicazione del prot. 16[10]; la qual cosa, a mio modo di vedere, rende conferma per tabulas dei non pochi benefici che da quest’ultimo possono aversene e, dunque, della opportunità (e, anzi, della necessità) di far luogo senza ulteriore indugio alla sua ricezione anche nel nostro ordinamento[11].
Ad ogni buon conto, l’effetto di maggior rilievo che consegue alla presentazione congiunta delle due questioni è dato dal carattere del tutto casuale della tecnica decisoria a mezzo della quale possono essere ripianate le antinomie tra norme interne e norme eurounitarie, a seconda che si pronunzi per prima questa o quella Corte potendosene avere ora la “non applicazione” diretta di quella interna accompagnata dall’applicazione di quella sovranazionale (sempre che, ovviamente, self executing[12]) ed ora invece l’annullamento della prima (laddove ne sia acclarata la invalidità) con effetti erga omnes. L’una e l’altra soluzione – è doveroso riconoscere – presentano vantaggi e svantaggi, ampiamente rilevati in altre sedi, dei quali non giova ora tornare a dire.
Sia chiaro. Malgrado le accese discussioni che si sono avute in merito all’ordine cronologico in cui le due pregiudizialità si dispongono (o dovrebbero disporsi), un punto è nondimeno da tener fermo; ed è che anche la soluzione della presentazione congiunta, oggi fatta propria dal giudice napoletano, non esclude affatto (ed anzi implica) che poi esse siano definite in tempi diversi dalle Corti per ciascuna di esse competenti, con la conseguenza che la simultaneità è solo “in entrata”, non pure “in uscita”. E tuttavia – come si viene ora dicendo – altro è che la tecnica decisoria buona per il caso sia demandata alla sorte, come si fa con le lotterie sperando che poi venga estratto il numero vincente, ed altra cosa che sia invece precostituito dal giudice comune il binario sul quale incanalare la questione, prefigurandosene quindi i possibili esiti.
Ora, ad una prima impressione parrebbe che l’opzione favorevole all’esercizio congiunto delle due pregiudizialità presenti l’innegabile vantaggio (non da poco) di accelerare i tempi di chiusura della vicenda processuale, già per il fatto stesso di mettere contemporaneamente in moto e di avviare le due macchine processuali; come si dirà però a momenti, in realtà, si tratta – perlomeno in molti casi – di un effetto ottico, di una mera apparenza appunto, ed anzi potrebbe aversene una non lieve complicazione del quadro della quale è bene avere avvertenza.
Va, al riguardo, prestata la massima attenzione alla circostanza per cui il carattere “pregiudiziale” di entrambe le questioni presentate alle Corti potrebbe indurre il giudice remittente ad attendere che entrambe si siano pronunziate prima di riprendere il processo, che, poi, per vero, talora potrebbe chiudersi rapidamente, talaltra invece avvolgersi in se stesso e richiedere tempi lunghi prima di pervenire a maturazione, secondo quanto si dirà meglio a momenti.
Altra cosa, poi, è stabilire se a ciascuna Corte convenga giocare sul tempo, d’anticipo, anche al fine di condizionare variamente l’operato dell’altra, ovvero se sia maggiormente vantaggioso il gioco di rimessa, attendendo la pronunzia dell’altra, magari al fine di potervi replicare a modo[13]: un nodo, questo, che, ad ogni buon conto, ciascuna Corte dovrà sciogliere da sola, alla luce delle proprie complessive esigenze, anche tenendo presenti altre istanze davanti ad essa pendenti, salvo che non si metta in atto al riguardo un raccordo informale tra le stesse, nei termini che si preciseranno in chiusura di questa riflessione.
2. Primo scenario: si pronunzia per prima la Corte costituzionale
Supponiamo, dunque, che, in caso di simultanea presentazione delle due questioni, si pronunzi per prima la Corte costituzionale. Ovviamente, lo svolgimento della vicenda processuale può poi avere andamenti diversi. Ad es., potrebbe darsi il caso che, considerato il modo con cui la questione è prospettata non soltanto davanti a sé ma anche (e soprattutto) al giudice lussemburghese, la Consulta si determini ad avvalersi a sua volta del potere di rinvio pregiudiziale, specie per il caso che tema il possibile insorgere di un conflitto con la Corte dell’Unione e punti dunque ad indurre quest’ultima ad un ripensamento del proprio punto di vista, quale in precedenti occasioni già manifestato (come, in buona sostanza, si è avuto con Taricco). Si avrebbe, pertanto, la sovrapposizione di due rinvii, che potrebbero convergere come pure divergere per impostazione e connotati complessivi, suscettibili di essere trattati dalla Corte dell’Unione separatamente ovvero, verosimilmente, congiuntamente.
Potrebbe altresì darsi il caso – a mia opinione, con ogni probabilità, di più frequente riscontro, anche alla luce di talune esperienze già maturate – che il giudice costituzionale focalizzi l’attenzione sui profili di stretto diritto interno, pronunziandosi specificamente sulla violazione del parametro costituzionale che, una volta acclarata, potrebbe portare alla messa in atto dello strumento dell’assorbimento dei vizi, e trattenendosi perciò dall’esame della sospetta lesione altresì del parametro eurounitario. La qual cosa presenta l’innegabile vantaggio di parare sul nascere il rischio di orientamenti divergenti tra le Corti interpellate. Di contro, è verosimile attendersi riferimenti al diritto eurounitario vivente, così come peraltro si ha nei riguardi della giurisprudenza della Corte EDU, fatti a rinforzo della soluzione prescelta, una volta constatata la convergenza del proprio orientamento con quello invalso a Lussemburgo (o a Strasburgo)[14].
L’invalidazione della norma interna, poi, potrebbe concretarsi in un annullamento “secco” ovvero in uno di tipo manipolativo e, segnatamente, additivo (di principio ovvero di regola). Quest’ultima evenienza presenta uno speciale interesse, dal momento che preclude poi ai giudici in genere di esercitare eventuali rinvii alla Corte dell’Unione aventi per specifico oggetto il testo di legge così come riscritto dalla Consulta (e, dunque, in buona sostanza, la norma da questa aggiunta o, come che sia, variamente corretta), ostandovi l’impenetrabile scudo protettivo a sua difesa eretto dall’art. 137, ult. c., cost.[15].
Ora, non è chiaro se, una volta avutosi il riscontro della incostituzionalità della norma interna, il processo pendente davanti al giudice comune possa subito riprendere: non dovrebbe essere così – e quest’esito, come si è sopra rilevato, ha pur sempre un suo innegabile costo –, venendo altrimenti contraddetto ex post il carattere pregiudiziale che sta a base del rinvio alla Corte dell’Unione, la cui pronunzia – quale che ne sia il segno – non potrebbe, ad ogni buon conto, portare all’applicazione della norma interna ormai espunta dall’ordinamento. Di certo, la Corte stessa si trova comunque il terreno spianato nell’emettere il proprio verdetto, consapevole di non entrare comunque in rotta di collisione con il giudice delle leggi, quanto meno appunto per il caso che la causa invalidante sia esclusivamente data dal contrasto con il parametro costituzionale.
Il conflitto tra le Corti, invece, aversi per il caso che la questione di costituzionalità dovesse essere definita nel senso dell’accoglimento anche per lesione del parametro eurounitario, lesione che potrebbe risultare esclusa in un secondo momento dal giudice lussemburghese. Un autentico nodo insolubile verrebbe, in una congiuntura siffatta, a legarsi attorno alla questione considerata nel suo complesso, dal momento che il giudice comune sarebbe poi tenuto a dare lineare e fedele seguito ad entrambi i verdetti ricevuti. Ma il vero è che il vizio è a monte, perché altro è – come si è venuti dicendo – che l’annullamento della norma interna si abbia in relazione al solo parametro costituzionale, la cui interpretazione e salvaguardia competono in ultima istanza alla Consulta, ed altra cosa che esso si abbia anche (e persino esclusivamente) in relazione al parametro eurounitario, senza però tener conto della interpretazione e salvaguardia datane dal suo giudice naturale, la Corte di giustizia. Non ho dunque dubbio alcuno a riguardo del fatto che la Consulta non possa esprimersi in merito a quest’ultimo punto se non dopo aver a sua volta interpellato la Corte dell’Unione o, comunque, aver atteso la pronunzia sollecitata dal giudice comune.
Altra questione ancora, che peraltro – come si sa – ogni volta si pone in presenza di decisioni che acclarino la esistenza di una violazione di un parametro, è quale norma debba trovare applicazione al posto di quella invalidata. L’ordinamento, infatti, come si sa, si ricuce subito da se medesimo, spettando poi al giudice di merito rinvenire la norma giusta da far valere per il caso, interna o sovranazionale che sia[16].
Diverso scenario, invece, si ha in caso di rigetto della questione da parte della Consulta. È chiaro che quest’esito presuppone che la questione sia stata esaminata in ogni suo profilo, dunque anche per l’aspetto della denunziata lesione del parametro eurounitario: un nodo, quest’ultimo, che tuttavia ancora una volta – come più d’uno ha fatto notare – non può essere verosimilmente sciolto se non dopo l’obbligatorio passaggio da Lussemburgo[17].
Si fermi, solo per un momento, l’attenzione sul punto. Se è vero, com’è vero, che l’esito del rigetto è eventualità di non raro riscontro, nel caso qui specificamente preso in esame di simultanea presentazione delle due questioni (e, ulteriormente specificando, di definizione del giudizio di costituzionalità in un tempo anteriore rispetto a quello che ha luogo in ambito sovranazionale), dovremmo assistere ad un intensificarsi dei rinvii da parte della Consulta e, di conseguenza, ad un raddoppio degli interpelli sulla medesima questione fatti alla Corte di giustizia. In realtà, le cose non stanno affatto così; e, pur dandosi talvolta rinvii effettuati dalla Consulta, quale quello di cui alla ord. 117 del 2019, è chiaro che questi non possono minimamente competere per numero (e, per ciò pure, per ambiti materiali dagli stessi coperti) con quelli che si hanno nelle sedi in cui si amministra la giustizia comune. La congiunta presentazione delle due questioni dunque (e, più ancora, ovviamente, la eventuale precedenza accordata alla pregiudizialità costituzionale) fatalmente comporta – piaccia o no – una vistosa contrazione ed un autentico impoverimento dei casi di rinvio, con ciò che – com’è chiaro – ne consegue in ordine alla implementazione della Carta di Nizza-Strasburgo in ambito interno e, in genere, all’arricchimento del patrimonio europeo dei diritti[18].
Ad ogni buon conto, in tal modo si tornerebbe – come si vede –, perlomeno in non pochi casi, all’ipotesi inizialmente affacciata, che vede comunque il giudice sovranazionale naturalmente sollecitato a pronunziarsi per primo affinché la vicenda processuale possa poi proseguire linearmente lungo il percorso per essa tracciato.
3. Secondo scenario: si pronunzia per prima la Corte dell’Unione
Passiamo, dunque, ad esaminare il diverso scenario che potrebbe delinearsi per il caso che si pronunzi per prima la Corte dell’Unione. Tornano ora ad evidenza taluni svolgimenti della vicenda processuale sopra rappresentati ma, naturalmente, a parti invertite. Anche la Corte di giustizia, infatti, conoscendo il modo con cui è presentata la questione davanti alla Consulta, ne terrà verosimilmente conto.
Qui pure la circostanza per cui si è avuta la simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali qualche problema, per vero, lo pone per i successivi sviluppi della vicenda che invece – mi preme, ancora una volta, rimarcare – non si avrebbero per il caso di questioni presentate in tempi diversi (e, in particolare, in quello di precedenza accordata al rinvio pregiudiziale, ex art. 267 TFUE).
Se, infatti, la pronunzia della Corte lussemburghese dovesse dare indicazioni nel senso della incompatibilità della norma interna rispetto a quella eurounitaria, il giudice del rinvio non potrebbe denunziare il superamento da parte di quest’ultima dei “controlimiti” davanti alla Consulta, avendo ormai consumato il proprio potere di investire quest’ultima, mentre potrebbe chiaramente farvi luogo in caso di prioritario interpello della Corte suddetta. Insomma, come si vede, cambierebbe nella sostanza il modo stesso con cui verrebbe presentato il dubbio di costituzionalità.
È bensì vero che si tratterebbe ora di una nuova questione, diversa dalla precedente, ma l’avvenuta trasmissione la prima volta degli atti di causa al giudice delle leggi si porrebbe quale un ostacolo dal giudice non superabile. È, poi, evidente che la “esposizione” dei “controlimiti” – come si diceva – potrebbe aversi motu proprio dal giudice costituzionale ma, appunto, non è detto che si abbia. E, sempre in via di mera ipotesi, qualora la Corte costituzionale non li dovesse far valere, nulla vieterebbe che quindi provveda, dopo la eventuale pronunzia di quest’ultima di rigetto, nuovamente il giudice comune, proprio perché – come si diceva – la questione è comunque diversa da quella originariamente presentata. La palla passerebbe, in tal modo, ancora una volta alla Consulta, la quale poi potrebbe – perché no? – mutare avviso e determinarsi per la presentazione del rinvio pregiudiziale che pure avrebbe potuto già porre in essere in precedenza: con un defatigante ping pong – come si vede – comunque pregiudizievole per lo svolgimento della vicenda processuale (se non altro, appunto, per l’aspetto della sua durata temporale), pur laddove questa dovesse poi concludersi nel migliore dei modi.
L’ipotesi che il giudice comune sospetti la violazione dei “controlimiti” da parte della risposta ricevuta da Lussemburgo dovrebbe, ad ogni buon conto, considerarsi remota, dal momento che, verosimilmente, l’obiettivo dallo stesso avuto di mira con l’esperimento del rinvio è, il più delle volte, proprio quello di essere incoraggiato e sostenuto nel perseguimento dell’obiettivo di rilevare l’incompatibilità della norma interna rispetto al parametro eurounitario. E ciò, proprio in considerazione del fatto che quest’ultimo è dato da norma o da norme, in caso di congiunto richiamo a plurimi parametri, in cui si ha il riconoscimento di diritti fondamentali ovvero da norme anche di altre fonti nei riguardi di quella o di quelle serventi (“connesse”). Ben diverso è, invece, lo scenario che si ha laddove il rinvio verta su parametri che nulla hanno a che vedere con la salvaguardia dei diritti, nel qual caso nulla esclude che il vero obiettivo del rinvio sia quello di sgombrare il campo dalla presenza di un disposto normativo sovranazionale suscettibile di far da impedimento all’applicazione di uno interno, sollecitandosi pertanto la Corte dell’Unione ad avallare una interpretazione del primo conciliante con quella data dell’enunciato nazionale. Tutto ciò, nondimeno, è qui privo d’interesse e non giova, pertanto, soffermarvisi ulteriormente.
Voltiamo nuovamente pagina e prendiamo adesso in esame il caso – come si diceva, di più frequente riscontro – che le indicazioni date dal giudice sovranazionale nel senso della sussistenza dell’antinomia tra le norme dei due ordinamenti non creino problema alcuno di un possibile superamento dei “controlimiti”. Ebbene, la “non applicazione” immediata della legge nazionale non potrebbe – a quanto pare – aver sollecitamente luogo, stante la pendenza del giudizio costituzionale. Già solo per ciò – come si vede – non è affatto detto che si abbia poi nei fatti l’atteso beneficio dell’accelerazione dei tempi processuali conseguente alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali.
La conclusione lineare, naturale, del giudizio di costituzionalità dovrebbe poi essere nel segno della conferma anche da parte della Consulta della sussistenza dell’antinomia stessa (se non altro, appunto, in relazione al parametro eurounitario)[19]. Ricorrendo siffatta ipotesi, è chiaro che alla ripresa del processo nel quale sono state prospettate le questioni pregiudiziali l’effetto della “non applicazione” della norma interna, accompagnata dall’applicazione diretta di quella sovranazionale, scivola e si converte in quello della “disapplicazione” conseguente all’annullamento della norma stessa per mano del giudice costituzionale, o – il che è praticamente lo stesso – è da questo per intero assorbito e in esso ricompreso[20].
Se, di contro, dovesse ritenersi che il giudice possa ugualmente riprendere subito il processo rimasto pendente, in quest’ultimo si avrà – come di consueto – la “non applicazione” della norma interna, che poi sarà verosimilmente caducata con effetti erga omnes, a beneficio dell’intera collettività, sempre che ovviamente si ritenga che il giudizio davanti alla Consulta possa ugualmente proseguire una volta chiusosi anzitempo quello principale (la qual cosa – come si sa – da molte esperienze della giustizia costituzionale non dovrebbe dar luogo ad alcun problema).
Se, di contro, il giudice costituzionale non dovesse allinearsi alle indicazioni date dal giudice eurounitario (cosa che – come si è già ad altro riguardo rilevato – potrebbe aversi solo facendo valere una incisione dei “controlimiti”), allora verrebbe a realizzarsi un autentico “cortocircuito”, come sempre d’altronde si ha ogniqualvolta si assista a conflitti tra Corti nazionali e Corti europee, il cui superamento può aversi unicamente facendo appello al comune senso di responsabilità ed attingendo a tutte le risorse apprestate dal principium cooperationis, le sole che possano consentire alla vicenda processuale di uscire dal tunnel nel quale è venuta a trovarsi.
Sta di fatto che, quand’anche la Corte costituzionale dovesse emettere un verdetto di rigetto, specie poi se non preceduto dall’esperimento di un rinvio pregiudiziale per mano della stessa Corte, ugualmente alla ripresa del processo rimasto sospeso non potrebbe comunque farsi applicazione della norma interna uscita indenne dal sindacato di costituzionalità a motivo della acclarata violazione del parametro eurounitario da parte del giudice naturale preposto a garanzia dello stesso.
Si prenda adesso in considerazione il caso che la Corte dell’Unione non rilevi la sussistenza di un’antinomia tra le norme in campo. Ebbene, ancora una volta, il giudice comune non potrà riprendere il processo, stante la pendenza del giudizio davanti alla Consulta, il quale poi, per il profilo del (supposto ma insussistente) contrasto con il parametro sovranazionale non potrà comunque concludersi nel senso dell’accoglimento, restando poi la partita ovviamente aperta, per ciò che concerne la denunziata lesione del parametro interno, ad ogni possibile esito.
4. I benefici che possono attendersi dall’adozione di un protocollo d’intesa che disciplini i rapporti tra le Corti in vista della ottimale soluzione da apprestare alle questioni di “doppia pregiudizialità” (con specifico riguardo proprio ai casi in cui siano simultaneamente prospettate)
Una succinta notazione finale. Si sarà notato l’utilizzo ricorrente, praticamente esteso a tappeto per l’intera riflessione svolta, della forma verbale condizionale, peraltro non inusuale nei miei pensieri in genere che il più delle volte rivelano personali, diffuse insicurezze, di gran lunga maggiori delle poche certezze che credo di aver raggiunto dentro di me attorno a questioni di diritto costituzionale (e non solo). Qui, però, la forma verbale suddetta rinviene giustificazione nel fatto che al rinvio pregiudiziale perfettamente si attaglia la nota definizione data da S. Romano della Carta costituzionale del suo tempo, che ai suoi occhi appariva composta dai meri titoli dei capitoli di un libro che avrebbe dovuto quindi essere pressoché per intero scritto dall’esperienza, nelle sue non di rado oscillanti e discontinue movenze. Insomma, quella dell’art. 267 TFUE è – come si sa – una mera norma definitoria di una competenza che nella sua messa in atto può trovarsi chiamata ad un lungo, alle volte tortuoso, cammino lungo un percorso gravato da ombre ancora più che illuminato da luci.
I casi di “doppia pregiudizialità”[21] presentano non pochi problemi la cui opportuna soluzione non conviene – a me pare – che resti esclusivamente rimessa alla improvvisazione del momento, foriera – come si è veduto – di incertezze, dissapori, veri e propri aperti conflitti. Questi ultimi – com’è chiaro – sono pur sempre da mettere in conto, ma – perlomeno fin dove possibile – conviene, a mia opinione, a tutte le Corti che si appresti, per loro iniziativa, un pugno di regole essenziali, dotate perciò della necessaria flessibilità e comunque rispettose della indisponibile autodeterminazione, nelle singole vicende processuali, di ciascun operatore di giustizia: regole con le quali, dunque, si traccino i percorsi che possono essere utilmente intrapresi in vista della ottimale soluzione dei casi.
Il metodo della definizione pattizia delle relazioni tra i massimi operatori di giustizia è già stato sperimentato – com’è noto – con molta soddisfazione da parte di tutti e – ciò che più importa – con non pochi benefici per l’amministrazione della giustizia e, per ciò pure, per le aspettative nutrite da quanti ad essa si rivolgono[22]. Si tratta ora di estenderlo e portarlo a frutto con specifico riguardo alla questione qui nuovamente studiata, in ispecie proprio ai casi di simultanea presentazione delle questioni pregiudiziali, laddove – come si è veduto – possono aversi i maggiori problemi che poi finiranno, a conti fatti, con lo scaricarsi sulle spalle dei giudici comuni, vale a dire di coloro da cui partono le domande di giustizia costituzionale (nell’accezione materiale del termine, quale riferita ai casi di rivendica di protezione per i diritti fondamentali) ed ai quali tornano poi risposte talora reciprocamente contrastanti. I giudici – sia chiaro – non potranno comunque essere sgravati del peso, alle volte schiacciante, delle responsabilità, morali prima ancora che giuridiche, connesse al munus di cui sono titolari. Se, tuttavia, si riuscirà a renderlo maggiormente sopportabile, credo che sia cosa senza dubbio da tutti auspicata. D’altronde, gli stessi giudici europei e i giudici costituzionali hanno, ciascuno per la propria parte, tutto l’interesse ad evitare – fin dove possibile – di trovarsi infilati in un labirinto dal quale potrebbero faticare non poco ad uscire, in mancanza di “cartelli” che indichino appunto la via breve e sicura conducente alla meta.
[1] Ad oggi restano largamente indefiniti i connotati della “connessione” in parola, con specifico riferimento al terreno su cui maturano le esperienze di tutela dei diritti al piano dei rapporti interordinamentali, mentre di altre specie di “connessioni”, di cui si ha riscontro in ambiti materiali diversi (ad es. per ciò che concerne la insindacabilità dei parlamentari), si sa molto dalla nutrita giurisprudenza al riguardo formatasi. Ad ogni buon conto, la più sensibile dottrina si mostra avvertita [v., part., R.G. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 4 marzo 2019, spec. § 6, e, in ultimo, G. Scaccia, Corte costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale oltre la Carta dei diritti?, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 2/2020, 12 maggio 2020, 316 ss., spec. 325 ss.] del rischio che, nel campo qui osservato, possa farsi della “connessione” in parola un utilizzo non adeguatamente vigilato, sì da pervenire, al tirar delle somme, alla sostanziale devitalizzazione della tecnica decisoria dell’applicazione diretta a beneficio di quella dell’annullamento: un rischio da me già paventato in sede di primo commento della 269 del 2017, quindi rilevato in una nota alla 20 del 2019, dal titolo La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2019, 25 febbraio 2019, 113 ss., e del quale peraltro si è avuto, ancora di recente, riscontro [nel caso, di cui a Corte cost. n. 44 del 2020, con nota favorevole sul punto, di C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 30 marzo 2020, spec. 177 ss.].
[2] Può vedersi illustrata da M. Mazzetti, La legittimità della disciplina italiana contro il licenziamento collettivo, in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 12 febbraio 2020, dove sono pure le due ordinanze che hanno dato lo spunto per la succinta riflessione che mi accingo a svolgere.
[3] Mi si consenta, tuttavia, solo di passaggio di osservare l’improprio riferimento all’art. 10 cost. che figura ai punti 81 e 93 della ordinanza di rimessione degli atti alla Consulta, di sicuro frutto di un refuso (seppur reiterato…), dal momento che – come si sa – la “copertura” al diritto dell’Unione è per ius receptum offerta dagli artt. 117, I c., e, soprattutto, 11 della Carta costituzionale, nel mentre l’ulteriore richiamo all’art. 10 potrebbe giustificarsi unicamente nel caso, obiettivamente di remoto riscontro, che con norma sovranazionale si abbia la “razionalizzazione” di norme generalmente riconosciute della Comunità internazionale, secondo quanto, peraltro, ha ripetutamente precisato la giurisprudenza costituzionale già a partire dalla svolta sulla CEDU inaugurata nel 2007 (sul punto, part. nella 349).
[4] È stata dapprima affacciata da F. Sorrentino, È veramente inammissibile il “doppio rinvio”?, in Giur. cost., 2/2002, 781 ss., e quindi ripresa, con particolare vigore argomentativo, spec. da R. Conti, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è ‘in gioco’ la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in Giudice donna (www.giudicedonna.it), 4/2017, spec. § 6, e, dello stesso, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, cit., spec. § 4. Variamente sul punto, v., inoltre, C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 2/2019, spec. 25 ss.; nella stessa Rivista, M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, 20 ss.; G. Martinico, Conflitti interpretativi e concorrenza fra corti nel diritto costituzionale europeo, in Dir. soc., 4/2019, 691 ss., spec. 702 ss.; I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020, 8 gennaio 2020, 77 e nt. 41, dove si precisa che la soluzione in parola, seppur non preclusa, sia comunque da non preferire “alla luce del principio di leale collaborazione, per evitare di causare conflitti e cortocircuiti tra le Corti” (con cit. conf. di N. Lupo).
[5] Non disponiamo purtroppo di dati sicuri a riguardo delle preferenze maggiormente invalse in seno alla magistratura comune sul punto cruciale qui nuovamente discusso; solo occasionalmente, in ispecie attraverso i commenti a questa o quella iniziativa processuale che si leggono nelle riviste specialistiche, si ha qualche notizia al riguardo: troppo poco, però, di tutta evidenza [ad es., segnala R.G. Conti, Il contenzioso sul risarcimento dello Stato alle vittime di reato: Cass. n. 2964/2019 alla ricerca dell’eguaglianza europea, in Riv. dir. comp. (www.diritticomparati.it), 1/2019, 125 ss., una vicenda in materia civile in cui si è assistito all’utilizzo dello strumento del rinvio pregiudiziale non accompagnato dalla simultanea prospettazione di una questione di legittimità costituzionale; in tema, v., ora, il comunicato della Corte di giustizia n. 61 del 14 maggio 2020 che riferisce delle Conclusioni dell’avv. gen. Bobek, in causa C-129/2019, a cui opinione tutte le vittime di reato intenzionale violento dovrebbero avere diritto al risarcimento indipendentemente dal luogo nel quale risiedano].
Ora, è un vero peccato che non si riesca a saperne di più; e francamente mi sfugge la ragione per cui non si possano sollecitare tutti gli uffici giudiziari a trasmettere ad un centro di raccolta on line, di libero accesso a studiosi ed operatori, tutte gli atti adottati in merito a questioni di doppia pregiudizialità, sì da potersene avere indicazioni preziose sia per la teoria che per la pratica giuridica.
[6] V., part., p. 29, ord. cit.
[7] Di una “flessibilizzazione dei rapporti” tra i giudici ha, ancora non molto tempo addietro, discorso G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 25 ottobre 2019, 7 (ma similmente, con varietà di linguaggio e di toni, molti altri).
[8] Sul punto, ex plurimis, v. G. VITALE, I recenti approdi della Consulta sui rapporti tra Carte e Corti. Brevi considerazioni sulle sentenze nn. 20 e 63 del 2019 della Corte costituzionale, in www.federalismi.it, 10/2019, 22 maggio 2019; nella stessa Rivista, S. Catalano, Doppia pregiudizialità: una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, e N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, 13/2019, 10 luglio 2019, part. § 6; A.M. Nico, La costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia al banco di prova dei controlimiti, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2019, 16 luglio 2019; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, cit., 25 ss.; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, cit.; G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Oss. AIC (www.osservatorioaic.it), 6/2019, 5 novembre 2019. Un animato confronto si è, poi, al riguardo avuto in occasione del Seminario del Gruppo di Pisa su Il sistema “accentrato” di costituzionalità, Pisa 25 ottobre 2019, e ivi part., per i profili ora specificamente in rilievo, la Relazione introduttiva di R. Romboli, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2020, spec. § 3, nonché i contributi di I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, cit., 66 ss., spec. 78 ss., e gli altri di A.M. Nico, L’accesso e l’incidentalità, Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020, 22 gennaio 2020, 163 ss., spec. 173 s., e, nella stessa Rivista, già, il mio La Consulta e il tiro alla fune con gli altri giudici, 3/2019, 29 ottobre 2019, 1 ss. Si è poi fatto, non molto tempo addietro, il punto da diversi angoli visuali e pervenendo ad esiti ricostruttivi parimenti diversi in R. Romboli, Caro Antonio ti scrivo (così mi distraggo un po’) in dialogo con il Ruggeripensiero sul tema della “doppia pregiudizialità”, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2019, 26 novembre 2019, 644 ss. e, nella stessa Rivista, nel mio Caro Roberto, provo a risponderti sulla “doppia pregiudizialità” (così mi distraggo un po’ anch’io…), 3/2019, 9 dicembre 2019, 678 ss., nonché, più di recente, in G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, cit., 1 ss., dove, tra l’altro, si fa notare che, a motivo della acclarata preferenza manifestata dalla Consulta perché le sia data la precedenza rispetto alla Corte dell’Unione, si richiede “al giudice comune un adeguato onere di giustificazione che indichi le ragioni del mancato, preventivo, sollevamento dell’incidente di costituzionalità” (11); D. Tega, Il superamento del “modello Granital”. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 27 gennaio 2020; C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 18 febbraio 2020, 296 ss.; A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta OnLine, 13 marzo 2020 e in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 1/2020, 13 ss.; E. Cavasino, Diritti e principi nello spazio giuridico europeo dei diritti fondamentali: un aspetto dell’esperienza costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 21 marzo 2020, 561 ss., spec. 571 ss. e 582 ss. V., inoltre, i contributi all’incontro di studio su Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, svoltosi a Bologna il 7 febbraio 2020, in corso di stampa, tra i quali G. Scaccia, Corte costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale oltre la Carta dei diritti?, cit.
[9] Di questa idea mi sono, ancora di recente, dichiarato nel mio Tecniche decisorie dei giudici e “forza normativa” della Carta di Nizza-Strasburgo, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 8 aprile 2020, 521 ss., spec. 527 ss., dove altresì possono vedersi alcuni rilievi in relazione alla tesi, patrocinata di recente da una sensibile dottrina (A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità, cit.), secondo cui la precedenza dovrebbe accordarsi alla pregiudiziale costituzionale per il caso che la norma interna sia frutto di una opzione discrezionale del legislatore, mentre laddove risulti vincolata alla luce del disposto sovranazionale cui strumentalmente si leghi dovrebbe darsi la preferenza alla pregiudiziale eurounitaria. Carattere, questo della norma interna, che ovviamente presuppone la previa interpretazione del parametro sovranazionale, che molte volte solo a Lussemburgo può aversi, secondo quanto qui pure si viene dicendo.
[10] Sulla vicenda, v., tra gli altri, A.M. Lecis, Una nuova frontiera del dialogo tra giurisdizioni: la Cassazione rimette alla Corte costituzionale una q.l.c. fondata sul parere consultivo della Corte EDU in materia di GPA, in Riv. dir. comp. (www.diritticomparati.it), 21 maggio 2020; G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 22 maggio 2020, e G. Armone, La gestazione per altri: nuovo appuntamento davanti alla Corte costituzionale, in Quest. giust. (www.questionegiusitizia.it), 22 maggio 2020.
[11] Sul punto il confronto è – come si sa – assai animato, non pochi (anche accreditati) studiosi avendo avanzato riserve e perplessità e persino aperto dissenso in merito alla ricezione in parola, tuttavia con non minore decisione contestati da altri studiosi e, soprattutto, operatori [nel primo senso, v., part., M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 novembre 2019 e, quindi, G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi (www.federalismi.it), 5/2019, 6 marzo 2019; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 13 novembre 2019; pure ivi, M. Esposito, I d.d.l. di ratifica del Protocollo 16 della CEDU: un altro caso di revisione costituzionale per legge ordinaria?, 2/2019, 30 dicembre 2019; G. Zampetti, Ordinamento costituzionale e Protocollo n. 16 alla CEDU: un quadro problematico, in Federalismi (www.federalismi.it), Focus Human Rights, 3/2020, 5 febbraio 2020, 157 ss. Nel secondo senso, molti degli intervistati da R. Conti sul tema CEDU e cultura giuridica italiana, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it); in particolare, v. l’intervista a M. Castellaneta, A. Di Stasi e A. Tancredi, su La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista, 23 gennaio 2020, e quella a P. Biavati, G. Costantino ed E. D’Alessandro su La CEDU e i processualcivilisti, 6 febbraio 2020, nonché lo stesso R. Conti, in più scritti, tra i quali Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 30 gennaio 2019, e Chi ha paura del protocollo 16 – e perché?, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 dicembre 2019, ed E. Spatafora, Il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 5 febbraio 2020, 369 ss.; volendo, può poi vedersi anche il mio Protocollo 16 e identità costituzionale, in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), 1/2020, 5 gennaio 2020, 213 ss. Infine, delle implicazioni di ordine istituzionale connesse allo strumento di cooperazione in parola tratta, ora, anche C. Masciotta, Il Protocollo n. 16 alla CEDU alla prova dell’applicazione concreta e le possibili ripercussioni sull’ordinamento italiano, in Dir. pubbl. comp. eur., 1/2020, 183 ss.].
[12] … quanto meno così dovrebbe essere per la tesi ormai stabilmente affermatasi nell’esperienza, una tesi nei riguardi della quale tuttavia si sono manifestate in altri luoghi alcune riserve, segnatamente con riferimento alla supposta necessità che, per i casi di antinomie riguardanti norme dell’Unione prive dell’attitudine alla diretta applicazione, si debba comunque investire della loro cognizione la Consulta (questione, nondimeno, diversa da quella ora in esame che – come si è veduto – presuppone l’esercizio congiunto delle due pregiudizialità). Basti solo pensare al fatto che, caducata la norma interna incompatibile con norma sovranazionale non self executing, il giudice non può far altro che desumere da quest’ultima la regola buona per il caso ovvero estrarla da altra fonte nazionale che possa a ciò prestarsi, cosa che avrebbe potuto (e potrebbe) fare ab initio, “non applicando” il diritto interno contrario al diritto dell’Unione. Certo, non si avrebbe il beneficio della rimozione con effetti erga omnes della norma invalida; ma l’argomento, peraltro – come si sa – ricorrente a giustificazione della svolta segnata dalla 269, finisce con il provare troppo, ponendosi in via generale in contestazione di quel meccanismo dell’applicazione diretta che è uno dei tratti maggiormente qualificanti ed espressivi della primauté del diritto sovranazionale, il cuore pulsante – come lo si è altrove qualificato – della costituzione materiale dell’Unione.
[13] Così, ad es., per quanto concerne la nostra Corte, si potrebbe assistere alla “esposizione” dei “controlimiti”, come si è avuto con Taricco (ma, su ciò, subito infra).
[14] Merita di essere qui pure rimarcato l’animus che traspare da molte pronunzie del giudice delle leggi nelle quali le relazioni tra la Costituzione e le altre Carte, ovverosia in buona sostanza tra le Corti che ne sono istituzionalmente garanti, sono impostate dalla Consulta in applicazione di una “logica” – si è detto in altri luoghi – ancillare, vedendosi nelle seconde esclusivamente una conferma di quanto già è detto e salvaguardato dalla nostra legge fondamentale. Nessun caso, invero, si conosce – salvo mio errore – in cui il giudice costituzionale abbia riconosciuto la esistenza nella nostra Carta di una lacuna in ordine alla salvaguardia di un diritto fondamentale, in altre Carte invece insussistente, sì da fare a queste ultime richiamo ad integrazione del dettato costituzionale, vale a dire da annullare una norma di legge perché incompatibile esclusivamente e direttamente con altro documento materialmente costituzionale, quale appunto la Carta dell’Unione o la CEDU. Ha sì ammesso, anche di recente, che talvolta ab extra viene una tutela più “ampia” di quella offerta in ambito interno, mai appunto una mancanza della stessa cui far rimedio attingendo altrove la protezione di cui i diritti, in ispecie quelli non espressamente nominati, hanno bisogno.
[15] Si rammenti, al riguardo, la vicenda di cui a Cons. St., sez. V, n. 4207 del 2005, sulla quale può, volendo, vedersi, la mia nota Le pronunzie della Corte costituzionale come “controlimiti” alle cessioni di sovranità a favore dell’ordinamento comunitario? (A margine di Cons. St., sez. V, n. 4207 del 2005), in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it).
[16] Non si dimentichi, al riguardo, che potrebbe assistersi altresì all’applicazione diretta della Costituzione, oltre che – naturalmente – di norma sovranazionale, a “copertura” del vuoto determinatosi per effetto della caducazione della norma di legge, tanto più poi – aggiungo – laddove dovesse aversi una sostanziale coincidenza o, come che sia, una effettiva convergenza tra norme, rispettivamente, della Costituzione e della Carta di Nizza-Strasburgo che danno il riconoscimento di diritti fondamentali.
[17] Non è di quest’avviso I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, cit., 74 ss. e 77, a cui opinione il giudice costituzionale non sarebbe tenuto ad interpellare la Corte di giustizia. Di qui, poi, il sempre possibile conflitto per il caso che in un momento successivo quest’ultima accerti la sussistenza dell’antinomia; ciò che obbligherebbe il giudice a tornare ad investire la Consulta della questione, la quale naturalmente potrebbe, a sua volta, avvalersi a questo punto dell’arma del rinvio, magari a finalità di “persuasione” nei riguardi del giudice eurounitario, come si è avuto con Taricco. Come si vede, una complicazione inutile, un autentico gioco dell’oca, in cui è sempre incombente il rischio del ritorno alla casella di partenza, quando il percorso potrebbe invece risultare assai più lineare, nel senso qui caldeggiato.
[18] Ho ripetutamente avvertito di questo rischio sul quale, nondimeno, mi parrebbe urgente fermare specificamente l’attenzione [v., ad es., il mio La Consulta e il tiro alla fune con gli altri giudici, cit., spec. § 3].
[19] Per l’ipotesi ora ragionata, potrebbe dunque assistersi alla messa in atto della tecnica dell’assorbimento dei vizi nel senso inverso a quello dapprima preso in esame, giudicandosi non più necessaria la verifica della violazione del parametro costituzionale, una volta ormai acquisita quella del parametro eurounitario.
[20] Come si vede, lo scenario ora descritto è diverso da quello da me preso in considerazione in altri studi [spec. in Dopo la sent. n. 269 del 2017 della Consulta sarà il legislatore a far da paciere tra le Corti?, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2018, 23 marzo 2018, 155 ss.], nei quali mi sono interrogato circa il modo più adeguato per centrare l’obiettivo del cumulo dei rimedi, pervenendosi all’effetto sia della “non applicazione” della norma interna e sia pure della sua “disapplicazione” conseguente ad annullamento. Lì, infatti, si immagina che la presentazione della questione pregiudiziale davanti alla Corte dell’Unione preceda quella davanti alla Consulta; ed è chiaro che, una volta che la prima abbia dato conferma della sussistenza dell’antinomia, la norma interna dev’essere senza indugio messa da canto nel giudizio in cui è stato attivato lo strumento di cui all’art. 267 TFUE, richiedendosi quindi per il suo annullamento il superamento dei canoni concernenti la rilevanza e la incidentalità, a mia opinione possibile solo dopo che una legge vi avrà derogato. Qui, di contro, si immagina il caso di simultanea presentazione delle due questioni, con le conseguenze che si vanno ora illustrando.
[21] … alla quale potrebbe, poi, un domani aggiungersi, dopo l’auspicata ricezione del prot. 16 già richiamato, anche una terza, nella forma sia pure peculiare, soft, della richiesta di parere alla Corte di Strasburgo, con conseguente ulteriore complicazione del quadro, viepiù aggravata poi dall’eventuale, essa pure auspicabile, adesione dell’Unione alla CEDU; ma, di tutto ciò nulla può ora dirsi.
[22] Ragguagli al riguardo possono aversi da R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, e Chi ha paura del protocollo 16 – e perché?, citt.
Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione
Nota a Corte d’appello di Roma 27.4.2020, n. 1453
di Rita Russo
Sommario: 1.- Il caso: una donna si dichiara madre intenzionale della bambina partorita dalla compagna 2.- La controversia sul riconoscimento 3.- I precedenti di legittimità e la soluzione della Corte d’appello 4.- Lo status del figlio nato con ricorso a pratiche vietate.
1.- Il caso: una donna si dichiara madre intenzionale della bambina partorita dalla compagna.
Due donne italiane, residenti in Italia e conviventi da lungo tempo, ricorrono alla procreazione medicalmente assistita (PMA), spostandosi temporaneamente, a tal fine, in Danimarca. Nell’ordinamento italiano la PMA è riservata alle coppie, anche non coniugate, di sesso diverso: nulla da fare per coppie omosessuali e per aspiranti genitori single, pur se non si tratta di un comportamento penalmente sanzionato, come nel caso della gestazione per altri, definita dalla legge 19.2.2004 n. 40 “surrogazione di maternità” (art. 12 comma 6), pratica che costituisce delitto ed è equiparata, quoad poenam, alla commercializzazione di gameti e di embrioni, mentre la “applicazione” di tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso comporta una sanzione amministrativa (art. 12 comma 2)[1].
Le due donne scelgono quindi di praticare la PMA in un altro paese europeo, e, tornate in Italia, una delle due partorisce una bambina, alla quale è attributo il cognome materno. Nessun problema per il riconoscimento del legame genitoriale tra la bambina e la donna che l’ha data alla luce (che abbia o meno fornito il materiale genetico) atteso che nell’ordinamento nazionale madre è colei che partorisce il bambino; non così per la madre intenzionale e cioè colei che ha condiviso il progetto di genitorialità con l’altra e ha dato il consenso alla PMA[2]. L’ufficiale di stato civile, al quale è stata presentata una dichiarazione di riconoscimento, ex artt. 250 e 254 c.c., rifiuta di annotare il riconoscimento; il ricorso ex art. 95 DPR 396/2000, con il quale si chiede la rettificazione dell’atto di nascita con l’annotazione del riconoscimento, è rigettato dal Tribunale di Roma, per la ragione che la nozione di filiazione è indefettibilmente legata al presupposto che la discendenza derivi da persone di sesso diverso e che non è consentita la formazione di un atto di nascita nel quale siano indicate come genitori due persone dello stesso genere. Il giudice di prima istanza conclude nel senso che la posizione della minore potrà essere tutelata mediante l’adozione speciale ai sensi dell’art. 44 lett. d) della legge 184/1983. Immediato è l’appello, nel quale si fa osservare che è pacifica in giurisprudenza la trascrivibilità dell’atto di nascita, formato all’estero, in cui due donne sono indicate come madri dello stesso bambino[3]. Inoltre si osserva che, quanto alla legislazione nazionale, accanto alle norme in materia di filiazione dettate dal codice civile vi è anche un diverso sistema di filiazione, dato dalla legge n. 40/2004 e in particolare dagli artt. 8 e 9. Nella prospettazione delle ricorrenti, queste norme fondano un sistema di costituzione del rapporto di filiazione diverso e autonomo da quello fondato sul dato biologico, regolato dal codice civile, e che valorizza il consenso prestato dalla coppia.
2.- La controversia sul riconoscimento
Questo, in effetti, è il cuore del problema.
La disciplina codicistica della filiazione considera la procreazione un fatto biologico, dal quale discende il dovere di assumersi le responsabilità genitoriali, prescindendo dal consenso del procreante[4]. Vero è che il riconoscimento è un atto volontario, ma il figlio ha azione imprescrittibile per fare dichiarare giudizialmente la paternità e la maternità, dando la prova del fatto naturale (il parto della madre, salvo che abbia esercitato il diritto all’anonimato, e la discendenza biologica dal padre). Si tratta una compagine normativa nata in un contesto in cui erano sconosciute le possibilità date dalla PMA. Nel momento in cui la scienza rivela questa possibilità il legislatore interviene, stabilendo con la legge n. 40/2004 cosa è permesso e cosa è vietato: inizialmente la scelta è rigorosa, perché la PMA lecita è solo quella che non scinde l’identità giuridica del nato dalla sua identità biologica. Tuttavia il legislatore, consapevole che le pratiche di PMA eterologa sono comunque diffuse all’estero e – prima della entrata in vigore della legge- anche in Italia, si preoccupa di tutelare i nati da pratiche illegali, conferendo loro uno status indiscutibile e, nel quadro rassicurante della genitorialità fondata sul legame biologico, insinua come un cuneo l’art. 9 il quale prevede che facendo ricorso alle tecniche di PMA eterologa sia pure in violazione (dell’allora) divieto di cui all’art. 4, il marito o convivente della partoriente e che ha dato il consenso alla fecondazione con seme altrui non può esercitare l’azione di disconoscimento, né l’impugnazione ex art. 263 c.c., la madre non può chiedere di partorire in anonimato ed il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi.
Il divieto di PMA eterologa è caduto nel 2014, per effetto di una dichiarazione di illegittimità costituzionale[5], ma la disposizione dell’art. 9 resta valida ed efficace: il genitore biologico non può avanzare pretese ed il genitore giuridico non può cambiare idea e dismettere le sue responsabilità solo per la mancanza di legame genetico. Si deve qui ricordare che la Corte Costituzionale, nella sentenza di cui sopra, ha osservato come detto divieto fosse lesivo della libertà fondamentale della coppia, di formare una famiglia con dei figli, senza che la sua assolutezza fosse giustificata dalle esigenze di tutela del nato, le quali devono ritenersi “congruamente garantite” dalle norme già vigenti, e in particolare dall’art. 8 della legge n. 40. Si osserva che il testo della norma (I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli [legittimi o di figli riconosciuti] della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime) contiene un ampio riferimento ai «nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», e in considerazione della genericità di quest’ultima locuzione e dell’essere la PMA di tipo eterologo una species del genus, rende chiaro che, in virtù di tale norma, anche i nati da quest’ultima tecnica «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».
Date queste permesse, può dirsi che gli art. 8 e 9 della legge n.40 sono fonte di principii di carattere generale in materia di filiazione? Esiste una genitorialità fondata solo sul consenso? E se questo consenso è prestato da una coppia dello stesso sesso? Si può essere madre intenzionale di un bambino che ha già un madre che lo ha partorito?
3.- I precedenti di legittimità e la soluzione della Corte d’appello
Sono questi i quesiti posti alla Corte d’appello di Roma, che deve fare i conti con un precedente di legittimità recentissimo, ove si si nega la rettificazione dell'atto di nascita di un minore, nato in Italia, mediante l'inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, poiché nell'ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva[6]. In questa sentenza della Cassazione, così come in una altra, di poco successiva e fondata su analoghe considerazioni, ma ancor più analiticamente sviluppate[7], si precisa che in questo caso non vengono in applicazione i principii affermati dalle sezioni unite nel 2019, in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero; le sezioni unite, come è noto, hanno operato una distinzione tra il caso dell’atto di nascita formato all’estero a seguito di ricorso alle pratiche di maternità surrogata, la cui trascrizione in Italia è da ritenersi incompatibile con l’ordine pubblico internazionale e l’atto di nascita, sempre formato all’estero, del figlio di due madri, partorito da una delle due, che invece è trascrivibile [8]. Nelle citate sentenze del 2020 si afferma che, nel caso in cui il minore sia di cittadinanza italiana, e nato in Italia, queste regole non si applicano, in quanto valevoli solo per la trascrizione di un atto di nascita formato all’estero secondo la legge straniera, che incontra l’unico limite della non contrarietà all’ordine pubblico internazionale. Il caso del minore nato in Italia, di cittadinanza italiana, è invece assoggettato interamente alla disciplina dell'ordinamento italiano, che, secondo queste recenti sentenze, non consente il riconoscimento della genitorialità da parte di due madri. In sintesi, si afferma che, salvo i casi espressamente contemplati dalla legge, la genitorialità resta un fatto biologico, legato imprescindibilmente alla unione tra due persone di sesso diverso.
La Corte di merito supera però queste argomentazioni, osservando come la circostanza che alcune pratiche di PMA siano vietate per legge non comporta che il trattamento riservato al minore debba essere deteriore rispetto a quello nato da pratiche lecite. Si pensi ad esempio alla fecondazione post mortem, caso nel quale la stessa Corte di legittimità ha riconosciuto che alla bambina così nata possa essere attribuito lo status di figlia del marito deceduto[9]. Ma il ragionamento della Corte d’appello non si ferma qui, perché si osserva come in realtà la legge nazionale, attraverso i citati artt. 8 e 9, introduce un principio di tutela del minore che ha diritto a conseguire lo status, anche se ottenuto con l’aggiramento dei divieti in tema di PMA. La legge n. 40/2004 può classificarsi come una lex minus quam perfecta in quanto il divieto del precetto comporta una sanzione, ma non la rimozione degli effetti del comportamento vietato, anzi essa riconosce la più ampia tutela a colui che nasce da pratiche vietate, poiché dalla prestazione del consenso alla fecondazione dell’ovulo, che è irretrattabile, discende la assunzione di responsabilità genitoriali con tutti i doveri ad essa connessi, in applicazione del principio che la violazione delle prescrizioni e divieti posti dalla legge non possono ricadere su chi è nato[10]. Non è qui in gioco il diritto della coppia omosessuale di essere genitori bensì il diritto del figlio, anche se nato da partiche vietate in Italia, ad ottenere lo status, ed il rispetto del suo miglior interesse, secondo i principi dati dalle convenzioni intenzionali che l’Italia ha sottoscritto [11]. L’altro argomento utilizzato dalla Corte di merito è quello del trattamento discriminatorio che riceverebbero i bambini nati in Italia rispetto ai bambini nati all’estero, il cui atto di nascita è invece, come si è detto, trascrivibile, salvo il caso del ricorso a pratiche di gestazione per conto terzi. Tale trattamento sarebbe discriminatorio quando applicato non già a minori di cittadinanza non italiana, o nati all’estero perché i genitori erano ivi abitualmente residenti, ma a bambini i cui genitori, pur italiani e residenti in Italia, hanno abbastanza denaro per restare all’estero non solo il tempo necessario alla fecondazione, ma fino al parto e alla conseguente formazione dell’atto di nascita.
4.- Lo status del figlio nato con ricorso a pratiche vietate.
L’argomento della disparità di trattamento è suggestivo, e forse meriterebbe di essere sviluppato anche con riferimento alla disparità di trattamento tra i minori nati da PMA eterologa ed eterosessuale e quelli nati da PMA praticata da coppia omosessuale. La soluzione del caso dipende però principalmente dalla individuazione del significato e della effettiva e (attuale) portata degli art. 8 e 9 della legge n. 40/2004, in relazione all’art. 250 c.c..
Si discute invero se la assunzione di responsabilità genitoriali discenda, nel caso di PMA, direttamente dal consenso prestato alla fecondazione, ovvero il consenso abbia soltanto l’effetto di rendere “riconoscibile” il genitore. La questione riguarda le coppie non sposate perché invece per le coppie unite in matrimonio il percorso è molto più agevole: la madre è colei che partorisce ed il padre (ex art 231 c.c.) è il coniuge della partoriente. Se la coppia non è sposata e ricorre (legittimamente o meno) alla PMA, secondo una certa tesi vi sarebbe attribuzione ex lege dello status di figlio nato fuori dal matrimonio, dovendosi qualificare il riconoscimento quale “conseguenza ineluttabile” della già espressa volontà al trattamento. Secondo altri, il consenso prestato avrebbe l’effetto di un “prericonoscimento del nascituro” e la dichiarazione di volontà di accedere alle tecniche di fecondazione assistita potrebbe essere qualificata se non come accertamento anticipato del rapporto di filiazione, almeno quale volontà irrevocabile di riconoscimento che, peraltro, è irretrattabile[12]. Secondo altra tesi ancora è comunque necessario un successivo espresso riconoscimento ex artt. 250 e 254 del codice civile [13].
E qui viene in rilievo la interpretazione dell’art. 250 c.c. quale stabilisce che “il figlio nato fuori dal matrimonio può essere riconosciuto dal padre e dalla madre”. Alla luce del quesito che oggi ci poniamo, la parola “può” acquista non tanto il significato di una scelta discrezionale, questione su cui a lungo si è dibattuto, ma indica la titolarità di un diritto e la possibilità legale di esercitarlo[14]. E’ da chiedersi allora chi sono i titolari di questo diritto e quale è il significato delle parole “padre” e “madre” alla luce della legge n. 40/2004. Il significato non può limitarsi ad indicare il padre e la madre biologici, perché è pacifico che in virtù del disposto dell’art. 8 della legge n. 40 il figlio può essere riconosciuto anche da chi non è a lui geneticamente legato. Ma, ancora, significa non più di due persone? La risposta è affermativa, perché la legge n. 40 non lascia spazio a legami giuridici con il donatore di gameti, salva la ricerca della identità personale[15]. E infine, significa necessariamente un maschio e una femmina? E qui sorge il problema. Proviamo allora a spostare il focus dalla titolarità del diritto alla assunzione dei doveri, o meglio delle responsabilità genitoriali.
E’ stato acutamente osservato che in caso di procreazione attraverso l’assistenza medica la “fonte” della genitorialità è il principio di responsabilità che emerge in positivo dall’art. 8 della legge n. 40/2004 dal successivo art. 9 che esclude la sussistenza di una relazione giuridica tra il procreato il donatore e quindi impedisce la costituzione di uno status fondato sulla coincidenza tra verità biologica e la verità legale[16]. Di recente anche la Corte di Cassazione si è espressa, con la già citata sentenza in tema di fecondazione post mortem, la cui motivazione è in più punti richiamata nella sentenza in esame, nel senso che l’art. 8 esprime “l'assoluta centralità del consenso” come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di PMA [17].
Si può pertanto affermare che pur se il consenso prestato alla PMA eterologa non comporta di per sé la immediata acquisizione dello status, ha però valore primario in quanto comporta degli effetti preclusivi, e protettivi per il minore, vincolando chi vi ha fatto ricorso alla assunzione di responsabilità nei confronti del nato pur in assenza di legame biologico. In questo sembra potersi individuare la ratio dell’art. 9 della legge, anche nella sua formulazione originaria, e cioè nella esigenza di proteggere il minore privo di legame biologico con i genitori committenti da eventuali ripensamenti. Questo meccanismo di tutela è in definitiva ciò che salva la legge dall’essere uno strumento servente alle esigenze dei soli adulti. Se la regola iuris tutelasse solo l’interesse gli adulti a diventare genitori, anche quando madre natura è di diverso avviso, si degraderebbe il rapporto di filiazione da relazione umana profonda -forse la più profonda che l’individuo possa sperimentare- a un mero scambio ove il minore è solo strumento di “autorealizzazione del committente” un oggetto che serve solo per soddisfare il desiderio di genitorialità dell’adulto[18]. Nel momento in cui nell’ordinamento - e prima ancora nella realtà dei fatti- fanno ingresso modalità di procreazione non legate all’atto (necessariamente etero) sessuale, una legge rispettosa dei diritti umani deve prevedere adeguate forme di protezione per i figli nati da tali pratiche anche imponendo a coloro che hanno causato la loro nascita di assumerne la responsabilità. Si tratta di un misura di protezione del minore, conforme alle regole poste dalla Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia, in particolare dagli artt. 7, 8 e 9.
Vero è che l’interesse del minore, per quanto da tenersi in primaria considerazione, non è assoluto e può venire in bilanciamento con altri interessi e potrebbe, in taluni casi, anche essere considerato recessivo, o meglio da realizzare con una tutela diversa dal riconoscimento dello status. Si vedano ad esempio, in tema di ricorso alla maternità surrogata, le affermazioni rese dalla Corte Costituzionale nel 2017 [19] laddove si precisa che “il quadro europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano” e che in “in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest'ultimo interesse” salvo però i casi in cui l’interesse alla verità ha natura pubblica, come avviene quando si è fatto ricorso alla maternità surrogata, pratica considerata contraria alla dignità umana; anche in questi casi tuttavia l’interesse del minore non è cancellato, data la “presenza di strumenti legali” che consentono la costituzione di un legame giuridico col “genitore contestato”, quale è l’adozione in casi particolari.
In termini coerenti con questa pronuncia, sempre in tema di maternità surrogata, in data 10 aprile 2019 la Corte EDU si è espressa con un Advisory Opinion nel caso Mennesson, osservando che il diritto al rispetto della vita privata del minore, ai sensi dell’articolo 8 CEDU, non richiede necessariamente che il riconoscimento della relazione con la madre intenzionale avvenga attraverso la trascrizione del certificato di nascita estero nei registri dello stato civile, in quanto la costituzione del rapporto filiale può risultare conforme alla Convenzione anche con il ricorso ad altri istituti, quali l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano la rapidità e l’effettività dell’attuazione del diritto del minore, conformemente al suo superiore interesse[20].
Qui però non di maternità surrogata si tratta, ma di genitorialità omosessuale: su un piatto della bilancia l’interesse del minore alla sua protezione, sull’altro il riconoscimento della genitorialità non biologica e non fondata sull’imitatio naturae.
Se il bambino nato da PMA eterologa ha diritto ad essere protetto, assumendo lo status di figlio, e tale diritto aveva -per scelta del legislatore- anche quando la pratica era illecita, perché non assicurare lo stesso trattamento al bambino nato da PMA praticata da coppia omosessuale?
Questa non è, come si potrebbe pensare, una domanda retorica, perché più risposte sono possibili, atteso che esiste un divieto legislativo di accesso alla genitorialità omosessuale con il quale fare i conti e, nel sistema nazionale, anche il divieto di accesso per queste coppie alla genitorialità giuridica della adozione (non in casi particolari) di minorenni : il giudice deve quindi attribuire un peso al disvalore della condotta vietata e confrontarlo con il peso del miglior interesse del minore. E, in termini di peso, certamente rilevante è una recente affermazione della Corte Costituzionale, la quale, nel respingere la questione di legittimità costituzionale del divieto di accesso alla PMA per le coppie omosessuali, ha affermato che la diversità di sesso dei componenti della coppia è “condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia”[21].
Una pluralità di risposte, quindi: la prima, netta, è l’affermazione che la genitorialità richiede, anche nell’interesse del minore, l’imitatio naturae e non può quindi riconoscersi se non vi sono un uomo e una donna; la seconda, altrettanto netta, l’affermazione che è indifferente l’orientamento sessuale dei genitori perché non è provato che vivere in una “famiglia arcobaleno” sia di per sé pregiudizievole per il minore e ogni altra soluzione sarebbe discriminatoria non solo per i genitori ma anche per il bambino; la terza, che si potrebbe definire di mediazione, è ritenere che la condizione di coppia omossessuale non precluda in senso assoluto la genitorialità, ma subordini il riconoscimento della relazione familiare non biologica ad un ulteriore passaggio e cioè la valutazione in concreto di idoneità alla adozione ex art. 44 lett. d) della legge 184/1983[22].
Nel dirimere l’incertezza non sembra decisivo il sopra citato intervento della Corte Costituzionale la quale, pur affermando che il legislatore si preoccupa di garantire al bambino non ancora nato le condizioni che “appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza" (e cioè genitori eterosessuali), distingue però le tutele da assicurare al nascituro da quelle per il bambino già nato (pur menzionando qui la sola adozione) e, d’altra parte, non può fare a meno di richiamare gli argomenti già spesi dal giudice di legittimità[23] sulla assenza di divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli e sull’assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l'inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore. Né lo stesso intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione garantisce sempre l’individuazione di un punto fermo, come dimostra la vicenda della trascrizione dell’atto di nascita del “figlio di due padri”, con ricorso alla maternità surrogata, posto che malgrado il recente intervento delle sezioni unite la questione è oggi rimessa alla Corte Costituzionale[24].
[1] Per un approfondimento v. STEFANELLI, Procreazione e diritti fondamentali, in Trattato di diritto civile, Milano 2018, 134; CASABURI, Maternità surrogata, Treccani, libro dell’anno 2016; D’AVACK, La maternità surrogata: un divieto “inefficace”, in Diritto di famiglia e delle persone, 2017, I, 139; GATTUSO, Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40, in Questione Giustizia, 2018.
[2] Secondo il documento diffuso dal Parlamento Europeo il termine “madre intenzionale” indica il soggetto che ha intenzione di crescere il minore: Il regime di maternità surrogata negli Stati Membri dell’Ue, sintesi 2013 in http://www.europarl.europa.eu
[3] Cass. civ. 30/09/2016, n.19599 in Diritto & Giustizia 2016, 3 ottobre; Cass. civ. 5/06/2017, n.14878 in Diritto & Giustizia 2017, 16 giugno.
[4] Cass. civ. 15/03/2002, n.3793 in Vita not. 2002, 332.
[5] Corte Cost. 10/06/2014 n. 162 in www.cortecostituzionale.it
[6] Cass. Civ. 03/04/2020, n.7668 in Diritto & Giustizia 2020, 6 aprile.
[7] Cass. Civ. 22/04/2020, n.8029 in Diritto & Giustizia 2020, 23 aprile.
[8] Cass. s.u. 08/05/2019, n.12193 in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2019, 3, I, 1062. La questione è oggi rimessa alla Corte Costituzionale da Cass. 8325/2020; si veda per un approfondimento LUCCIOLI: Il parere preventivo della Corte edu in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla corte di cassazione? In questa Rivista, 22.5.2020.
[9] Cass. civ. 15/05/2019, n.13000 in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2019, 3, I, 1117.
[10] Cass. civ. 30/09/2016, n.19599 cit.
[11] Convenzione sui diritti del fanciullo, New York, 20.11.1989 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, Strasburgo 25.1.1996 .
[12] Si veda anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici: GIUNCHEDI: La procreazione assistita post mortem tra responsabilità procreativa e favor stabilitatis , in Famiglia e Diritto 2020, 1, 39.
[13]GATTUSO, Il problema del riconoscimento ab origine della genitorialità omosessuale, in G. Buffone, M. Gattuso, M. M. Winkler, Unione civile e convivenza, Milano 2017.
[14] FERRANDO, Filiazione legittima e naturale, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, 315. Secondo una tesi diffusa in dottrina, il riconoscimento è da qualificare un negozio di accertamento avente causa nella rimozione dell’incertezza di una situazione giuridica, spontaneo e irrevocabile, espressivo del diritto soggettivo del genitore; si veda STEFANELLI: Stato giuridico dei figli, in Trattato cit., 255. Nel senso che il riconoscimento è diritto soggettivo primario del genitore v. anche Cass. civ. 10/05/2001 n. 6470, in NGCC, 2002, 3.
[15] Corte Cost. 162/2014, cit. e Corte Cost. 22/11/2013 n. 278 in www.cortecostituzionale.it
[16] STEFANELLI Procreazione e diritti fondamentali, cit., 135.
[17] Cass. civ. 15/05/2019, n.13000 cit.
[18] LUCCIOLI: Il parere preventivo della Corte edu in materia di maternità surrogata cit.
[19] Corte Cost. 18.12.2017 n. 272 in www.cortecostituzionale.it
[20] Sia consentito il rinvio a RUSSO: Il caso Mennesson vent’anni dopo: divieto di maternità surrogata e interesse del minore, in questa Rivista, 20.11.2019.
[21] Corte Cost. 23/10/2019, n. 221 in www.cortecostituzionale.it
[22] Soluzione quest’ultima cui la stessa Corte Costituzionale non sembra contraria, si vedano le già citate Corte Cost. n. 221/2019 e n. 272/2017.
[23] Cass. 19599/2016 cit.
[24] Cass. civ. 29/04/2020, n.8325 in Diritto & Giustizia 2020, 30 aprile.
Magistratura società civile impegno per la costituzione, Movimento per la giustizia e Giovanni Falcone
Intervista di Armando Spataro a Giustizia Insieme a cura di Paola Filippi e Roberto Conti[1]
Giustizia Insieme offre ai suoi lettori, nel giorno dell’anniversario dell’eccidio di Capaci, le riflessioni di Armando Spataro e la sua esperienza di uomo, di magistrato e di pensatore che ha segnato la storia della magistratura italiana nell’ultimo quarantennio. Gliene siamo grati e dedichiamo la sua intervista ai “nostri morti” ed alle nuove generazioni dei magistrati.
1. Hai sempre svolto il mestiere del giudice con spirito di servizio senza mai sottrarti alla responsabilità delle scelte sia nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, che in quelle di governo autonomo della magistratura, quando fosti componente del CSM nel quadriennio 1998-2002, e infine nell’ambito della società civile. Quando è stato necessario denunciare iniziative politiche lesive del potere giurisdizionale e della democrazia lo hai sempre fatto senza esitazione. La partecipazione alla cosa pubblica anche solo in forma di manifestazione del dissenso e divulgazione del pensiero l’hai sempre vissuta come un dovere del cittadino e del magistrato.
Quali sono stati, nel corso della tua carriera, i momenti in cui è stato particolarmente importante dare voce alla società civile?
Quali sono stati, nel corso della tua carriera, i momenti in cui è stato particolarmente importante dare voce alla magistratura?
Ringrazio per i generosi apprezzamenti inclusi nella domanda e perché vi si afferma che la mia partecipazione alla cosa pubblica è stata da me vissuta “come un dovere del cittadino e del magistrato”. Sì è proprio così, perché in ogni intervento pubblico non sono mai riuscito a scindere i doveri del cittadino da quelli del magistrato, pur con i limiti che soprattutto i secondi impongono. Credo fortemente, cioè, nel diritto, anzi nel dovere, del magistrato-cittadino di intervenire nel dibattito pubblico quale portatore di conoscenze ed esperienze nei settori d’interesse. Penso, prima di ogni altro tema, a quello dei diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione. Possono intervenire, insomma, per le stesse ragioni per cui lo fanno i medici in questo drammatico periodo di pandemia o gli ecologisti se si discute di ambiente o i professori se si discute di educazione e cultura. Potrei andare avanti con gli esempi, ma mi fermo.
Tengo a dire, però, che il mio impegno nella “società civile” è iniziato molto tardi, quando ero magistrato già da vari anni. Durante la mia giovinezza a Taranto, infatti, il mio impegno assorbente, quasi maniacale, era quello dello sport. Tra l’altro, oltre che per sostenere esami, frequentavo saltuariamente l’ambiente universitario e dunque rimasi anche lontano dai movimenti studenteschi di quegli anni. Per rendere la mia confessione completa, aggiungo, come dico sempre, che il ’68 l’ho conosciuto solo nel ’78 a Milano! Peraltro, anche nel primo decennio di mia attività professionale a Milano, cioè tra il ’76 e l’85, non ho avuto il tempo per seguire i dibattiti politici o per impegnarmi socialmente, assorbito com’ero nelle indagini sul terrorismo di cui mi occupavo a tempo pieno con il mio amico e maestro Enrico Pomarici. Certo lo studio dei folli documenti di Brigate Rosse e Prima Linea mi fu utile per iniziare a conoscere un mondo fino a quel momento ignoto. Devo dire, con il senno di poi, che la mia “ignoranza” in materia mi fu utile: da “tabula rasa”, quale sostanzialmente mi sentivo, studiavo e leggevo quei documenti senza pregiudizi!
Ma proprio nel pieno degli “anni di piombo” si manifestò per la prima volta un mio impegno civile che era insieme un impegno da magistrato e da cittadino: ciò avvenne quando, con tutti i colleghi che si occupavano di quella materia (non più di 25/30), sentimmo il dovere di uscire dai palazzi di giustizia per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali, di pensionati ed ovunque fosse possibile: allora per diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica, negli anni seguenti – ed ancora oggi – contro la logica mafiosa, la corruzione, nonché a difesa dei principi costituzionali e del principio di solidarietà. Fu quella una scelta necessaria ed utile per contrastare con fermezza non solo il verbo di quanti (persino alcuni noti intellettuali) teorizzavano una improponibile neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»), ma anche per fronteggiare le campagne propagandistiche dei gruppi terroristici di destra e di sinistra che diffondevano “risoluzioni strategiche” ed altri documenti per rivendicare gli attentati commessi ed illustrare la loro folle ideologia.
Fino alla metà degli anni Ottanta, comunque, non ebbi il tempo e la possibilità di riflettere approfonditamente sui rapporti tra società e mafia: iniziai a farlo in “Società civile”, un circolo nato grazie alla spinta di Nando dalla Chiesa: Nando non era allora un politico e, anzi, era una spina nel fianco di molti politici. La sua idea era quella di dare voce e presenza nella società, attraverso un’aggregazione trasversale aperta, a chiunque fosse disposto a battersi, in nome dell’etica, contro ogni tipo di degradazione morale e culturale, innanzitutto contro mafia e corruzione. Accettai con entusiasmo di partecipare a quell’avventura. Mi piaceva la trasversalità della iniziativa, un po’ simile a quella che, sia pur nel più ristretto ambito dei magistrati, fu poi alla base della nascita – nel 1988– del Movimento per la Giustizia. Ho sempre pensato, infatti, che sui principi, sull’etica, sui valori della Costituzione ci si possa trovare agevolmente insieme: progressisti e conservatori, così come laici e credenti. Fui allora socio fondatore di “Società civile”, nel dicembre del 1985, insieme a tante persone di qualità, con cui trascorsi anni i primi anni ricchi di speranze del mio impegno extraprofessionale: ricordo Corrado Stajano, Alberto Cavallari, Paolo Murialdi, Saveria Antiochia, Silvio Novembre, Guido Martinotti, Giampaolo Pansa, ed anche colleghi come Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Giuliano Turone. In molti, sia da destra che da sinistra, partirono all’attacco di quello strano circolo milanese che escludeva statutariamente i politici. Ci caddero addosso accuse di qualunquismo e venimmo bollati come «comunisti» dalla destra e come «anticomunisti» dalla sinistra. Per entrambi, «manichei»: sostenitori dell’opposizione netta tra «politica cattiva» e «società civile buona». Così ricostruì quegli anni anche Gianni Barbacetto. Rifiutavamo con una scrollata di spalle quelle polemiche, ben sapendo che la politica non è sempre «cattiva», che la società civile non è tutta «buona». Semplicemente, volevamo offrire ai cittadini uno spazio autonomo fuori dai partiti, che di spazi ne avevano occupati tanti, molti legittimi, alcuni illegittimi. “Società civile” fu da quel momento anche la denominazione di quella parte della società italiana che voleva far sentire la sua voce al di fuori dei partiti, ma non necessariamente contro di essi. Era il 1985, ed entrai anche, con Gherardo Colombo, a far parte del primo direttivo del circolo di Nando: un deciso e visibile passo verso la futura collocazione nel novero delle pericolose «toghe rosse».
Sulla spinta di quell’impegno e sostanzialmente per ragioni omogenee, contribuii nell’aprile del 1988 a fondare, nell’ambito dell’Associazione magistrati anche il Movimento per la Giustizia. Quella del gruppo fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti. L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti depositavano i propri deliberati interni. E il fatto che «ci si contava» veniva scambiato per esercizio di democrazia.
Ma credo che ci sarà spazio più avanti per parlare delle correnti dell’ANM anche alla luce di fatti recenti che ancora sono oggetto di grande interesse giornalistico.
Vorrei riprendere, invece, il discorso sull’impegno personale fuori dai palazzi di giustizia, ma vicino a ciò che essi rappresentano.
Mi ritornano in mente le manifestazioni contro le cosiddette “leggi vergogna”.
Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente del Movimento per la Giustizia e dell’Associazione nazionale magistrati. Alcune, ovviamente, sono rimaste impresse con maggior nitidezza nella mia memoria.
Il 14 settembre del 2002, ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimenticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Giovanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite le «leggi vergogna», sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le reazioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra presenza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana. Non è possibile per molti comprendere e credere che un magistrato possa ben testimoniare in quel tipo di eventi, con la sua presenza e le sue parole, l’adesione al modello astratto di figura indipendente e imparziale previsto dalla nostra Costituzione. Ma se quelle polemiche mi lasciarono indifferente tanto da averle dimenticate, ricordo invece la ricchezza degli sguardi e dei sorrisi che capitava di scambiarsi tra persone che si incontravano per caso tra la folla in piazza San Giovanni e che si riconoscevano. Mentre a tarda sera stavo andando via e Fiorella Mannoia stava cantando dal palco, un gruppo di napoletani del circolo Millepiedi mi riconobbe: le mie mani furono prese e fui quasi costretto a fare un girotondo con loro.
Era anche entrata nel vivo, sin dal 2003, l’azione di governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, ma personalmente ero più preoccupato per la annunciata riforma della Parte II della Costituzione. Secondo chi ci governava, quella riforma sarebbe servita a rinnovare il paese, a renderlo moderno e a tutelare più efficacemente i diritti dei cittadini. Ma bastava qualche sommaria considerazione per smascherarne il vero assunto di partenza: la concezione dell’esercizio del potere di governo quale funzione che non tollera bilanciamenti e che caratterizzava altre leggi e riforme intervenute nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Fu per questa ragione che organizzai a Milano, nel gennaio del 2004, insieme ad Articolo 21, Libertà e Giustizia e pochi colleghi del Movimento per la Giustizia, un convegno pluritematico su Controriforme e diritti dei cittadini: nella sala affollatissima della Provincia, in via Corridoni a Milano, con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che intervennero sulle sofferenze del settore pubblico: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sanità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Alessandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Sergio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Stato». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzionale che con quella manifestazione intendevamo difendere. Proprio per questo, in quel convegno, noi magistrati scegliemmo di discutere non solo dei problemi della giustizia ma dei problemi dell’intero settore pubblico.
Del resto, fu per la stessa ragione che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo dell’epoca. Ed ancora non sapevamo che, per le stesse ragioni, ci saremmo allo stesso modo comportati nell’identica cerimonia del gennaio del 2010 e che, anzi, indossando la toga, avremmo abbandonato l’aula magna al momento del discorso del rappresentante del ministero della Giustizia.
Alla fine di gennaio del 2006, non ero più segretario del Movimento per la Giustizia, ma ero ancora dirigente dell’Associazione nzionale magistrati e le elezioni politiche erano ormai imminenti . Ebbene, insieme a due amici avvocati di Milano, pensammo fosse giusto – come cittadini elettori – sollecitare chi si candidava a guidare il paese a manifestare le proprie posizioni sui temi della giustizia. Grazie anche all’aiuto di alcuni professori universitari, scrivemmo un sintetico appello rivolto indistintamente ad entrambi gli schieramenti politici, aperto alla sottoscrizione di quanti ne condividevano il contenuto. La richiesta era quella di impegnarsi per l’abrogazione delle leggi che, negli anni precedenti, avevano devastato il sistema giustizia e per l’approvazione di una seria e complessiva riforma del settore, anche sul piano organizzativo: lo lanciammo attraverso le mailing list di magistrati, avvocati, ed associazioni varie. Il documento fu chiamato “Un impegno per la giustizia” e il suo incipit era: «Giustizia: abrogare le leggi-vergogna, bloccare la riforma dell’ordinamento giudiziario» La risposta all’appello fu straordinaria ed in molti si adoperarono per la sua diffusione. Raggiungemmo più di ottocento autorevoli adesioni in un paio di giorni. Sottoscrissero l’appello centinaia di insigni accademici, avvocati, magistrati e, quando l’appello fu aperto a cittadini ed associazioni, diventò impossibile tenere il conto delle firme. Il 20 febbraio2006 vi aderì anche Oscar Luigi Scalfaro. Inviammo il documento a vari esponenti politici, compresa la segreteria di Prodi. Inizialmente pervenne una tiepida disponibilità di qualcuno a un pubblico dibattito in cui discutere il documento, ma nessun politico diede corso a tale intenzione.
A proposito di appelli, ne rammento un altro rilevante, quello del 21 ottobre 2009, che inviai al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: era stato un appello sottoscritto da oltre mille magistrati di ogni estrazione e da circa duecento avvocati e accademici di varie discipline giuridiche e scientifiche. Le firme erano state raccolte in pochissimi giorni insieme ai colleghi Rita Sanlorenzo, Valerio Fracassi, Livio Pepino e ai professori Sergio Chiarloni e Silvia Buzzelli. I sottoscrittori esprimevano le loro preoccupazioni al capo dello Stato per le offese arrecate alla magistratura, per la conseguente erosione della sua autorevolezza, per lo stato della democrazia italiana, per le riforme della giustizia annunciate in chiave punitiva nei confronti di giudici e pubblici ministeri. Un clima conseguente, in particolare, alla sentenza del 7 ottobre precedente della Corte Costituzionale (duramente attaccata a sua volta) con cui era stato bocciato senz’appello il lodo Alfano, cioè la legge che rendeva immuni i titolari delle alte cariche dello Stato per la durata del loro mandato, persino per reati commessi anteriormente all’assunzione di questo, «Signor presidente, – concludeva l’appello – nell’assoluta abnormità della situazione che stiamo vivendo, sentiamo forte il bisogno di confidare nella Sua opera attenta ed autorevole a difesa delle Istituzioni del Paese, perché possa arrestarsi la pericolosa deriva in atto che rischia di vanificare nei fatti il principio della separazione dei poteri». Conservo gelosamente la lettera di risposta del capo dello Stato, a me indirizzata quale tramite dei sottoscrittori. Vi si afferma la comprensione dei motivi delle preoccupazioni esposte nell’appello e la riaffermazione dell’alto ruolo del presidente della Repubblica quale riferimento sicuro a difesa dell’indipendenza della giurisdizione.
Ma forse ciò di cui sono più orgoglioso – e che comunque meglio ricordo – è il duplice impegno civile a sostegno del “NO” contro due orride riforme della Costituzione, quella berlusconiana del 2006, approvata da una maggioranza di centrodestra, e quella renziana del 2016, approvata da una maggioranza di centrosinistra, entrambe caratterizzate dall’aspirazione dei due leaders politici che le avevano sostenute ad assumere il ruolo e la funzione dell’ “uomo solo al comando”: aspirazioni che ciclicamente ritornano nella storia del mondo intero.
Nel 2006, partecipai attivamente, insieme a moltissimi colleghi, ad ogni iniziativa promossa dalle associazioni Astrid, Libertà e Giustizia, Comitati Dossetti, dalle confederazioni sindacali, dall’Anpi e da chiunque altro. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica (non le altre correnti) aderirono anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potessero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo della riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. Sentivo necessario, in vista del referendum raggiungere soprattutto i cittadini più giovani e gli studenti, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche attraverso gli strumenti informatici e le moderne tecnologie, né poteva essere trascurato il coinvolgimento della rete delle istituzioni locali nella campagna per rendere consapevoli i cittadini dei rischi che correva il nostro assetto costituzionale. La riforma costituzionale si proponeva, tra gli obiettivi declamati, quello dell’incremento dei poteri dell’esecutivo: il premier sarebbe diventato padrone assoluto della politica, del Parlamento, con contestuale svuotamento di competenze e poteri delle istituzioni di controllo e garanzia: presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Parlamento, da un lato, Consiglio superiore della magistratura dall’altro.
Fino al giugno del 2006 fu per me tutto un susseguirsi frenetico di manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi sempre in difesa della Costituzione. Il 25 e 26 di quel mese, però, non riuscii a votare: ero a New York per lavoro e per un incontro di studio sul terrorismo internazionale. Spesi una considerevole somma per i continui aggiornamenti telefonici sull’esito del referendum: il «No» vinse con il 61,3%. Ripensai finalmente rilassato al tanto affannarci del periodo precedente: ne era valsa la pena! Sarei stato disperato, invece, se il “NO” avesse perso per un voto!
Battute a parte, non avrei mai immaginato che esattamente dieci anni dopo sarebbe stato necessario un impegno anche maggiore contro una indicibile riforma costituzionale approvata da una maggioranza di centro sinistra che, guidata da Matteo Renzi, si proponeva sostanzialmente gli stessi obiettivi della riforma berlusconiana del 2006. I fatti sono recenti e non ho bisogno di approfondire i contenuti della riforma renziana, mentre è giusto ricordare che il leader fiorentino investì tutta la sua potenza di fuoco nella campagna referendaria, affermando che, in caso di vittoria del “NO”, avrebbe abbandonato la politica. Non ha però mantenuto la promessa. Ricordo che, come promotore del Comitato per il No (a cui questa volte il Movimento per la Giustizia decise di non aderire!), partecipai a 56 dibattiti in ogni parte d’Italia, sfruttando weekend, giorni di ferie non goduti ed orari serali. In Tv ebbi anche un bel confronto con il Ministro della Giustizia Orlando, ma rammento anche, in altre occasioni, comportamenti e parole arroganti e provocatorie di alcuni personaggi politici che nei dibattiti parlavano a sostegno del “SI”. Alcuni quotidiani mi accusarono di essere un magistrato politicizzato: il ritornello rimesso in campo ogni volta che fa comodo, ma che non mi ha mai sfiorato. Inutile spiegare a chi non lo vuole comprendere la differenza che c’è tra “politicizzazione” e difesa della Costituzione. Il 4 dicembre del 2016, il “NO” trionfò: 60% vs. 40% !
Che dire ancora? Mi viene in mente – e tengo a citarlo anche in questa sede – l’impegno da cittadino e magistrato sui temi della immigrazione, contro i “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009 e contro i “decreti sicurezza” del 2018 e del 2019 !
La storia recente della risposta del nostro Paese a questo tema è stata infatti caratterizzata da una successione normativa di provvedimenti che le diverse maggioranze politiche di turno hanno approvato in nome della declamata tutela della sicurezza, ormai un vero brand pubblicitario: Di qui la definizione di “pacchetti-sicurezza” o “decreti-sicurezza”.
In Italia, in particolare, i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 favorirono l’estendersi di una xenofobia incontrollata. Tacendo d’altro, basti ricordare che il 23 maggio 2008, il governo aveva varato un decreto legge intitolato «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», poi convertito in legge, la cui filosofia appariva evidente sin dalla nuova denominazione dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari, che da allora e fino al 2017 si chiamarono «Centri di identificazione ed espulsione», luoghi di una lunga detenzione amministrativa, senza colpa e reati, come se lo scopo della identificazione fosse solo quella della successiva espulsione. Con il decreto, veniva anche introdotta nel codice penale una nuova aggravante, dichiarata incostituzionale due anni dopo, per i reati commessi da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio nazionale, pur in assenza di qualsiasi nesso tra questa condizione e il reato commesso. Ma anche il più recente “Decreto Sicurezza” n. 113/2018, di cui tanto si vantò il governo italiano allora in carica, contiene molte inaccettabili previsioni tra cui, solo a titolo di esempio, l’ abrogazione della “protezione umanitaria” e l’ampliamento dei criteri di diniego e revoca della protezione internazionale. E con l’altrettanto criticabile cd.“Decreto sicurezza bis”, n. 53/2019, è stata rafforzata la “politica dei porti chiusi” ed è stata anche prevista l’ irrogazione di una pesantissima sanzione amministrativa (fino ad un milione di euro e la confisca obbligatoria del natante) a carico del comandante della nave, e con responsabilità solidale dell’armatore, il quale non osservi le limitazioni e i divieti eventualmente disposti dal Ministro dell’Interno in base a nuovi poteri attribuitigli.
Non mi pare che auspicare, come sempre faccio in questo periodo, che il governo in carica mantenga la promessa di modificare quei due provvedimenti sia prova del mio essere un “pensionato politicizzato” !
Tuttora, infatti, il mio perdurante impegno è quello di contribuire a far comprendere ai cittadini non informati che la solidarietà – come disse Rodotà – non è un sentimento, ma un diritto, ed – aggiungo io - anche un dovere che impone a tutti di non voltarsi dall’altra parte. Ricordo che a fine giugno 2009, alla vigilia della definitiva approvazione del secondo ddl sicurezza, insieme a giuristi come Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona, Stefano Rodotà, Oreste Dominioni, Elena Paciotti, Luigi Ferrajoli, Livio Pepino ed altri, sottoscrissi un appello per denunciare i profili di incostituzionalità del reato di immigrazione clandestina: una norma irragionevole che si andava a sovrapporre a quelle già esistenti sulle espulsioni e a criminalizzare la mera condizione di irregolarità di uno straniero che, come la Corte Costituzionale aveva già affermato nel 2007, non è in sé sintomatica di pericolosità sociale.
Nel settembre del 2009, poi, partecipai a Lampedusa ad uno dei più coinvolgenti convegni della mia vita: lo avevo organizzato insieme ad altri magistrati del Movimento per la Giustizia-Articolo 3, di Magistratura democratica e di Medel. Lo avevamo voluto intitolare: Le frontiere del diritto, il diritto della frontiera, invitando a prendervi la parola giuristi anche stranieri (ovviamente inclusi insigni costituzionalisti), rappresentanti di organizzazioni umanitarie, giornalisti ed esponenti del mondo cattolico. Era ovviamente simbolica la scelta di tenere il convegno proprio a Lampedusa, porto d’approdo sognato dai migranti africani. Il convegno voleva essere espressione dell’attenzione che i magistrati italiani ed europei riservano da decenni all’evoluzione sociale nei rispettivi paesi, ai rapporti internazionali tra Stati e persone ed alle conseguenti scelte legislative dei governi. Addirittura, con una certa dose di presunzione «buona», chi aveva organizzato il convegno a Lampedusa si augurava che esso potesse concorrere ad alimentare ripensamenti del legislatore, spingendolo verso mutamenti, anche radicali, di una normativa in cui era facile individuare aspetti davvero impresentabili. E dieci anni dopo, il 9 e 10 settembre 2019, lanciai l’idea di organizzare sempre a Lampedusa un altro convegno sullo stesso tema. Area Democratica per la Giustizia e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (A.S.G.I), composta da Avvocati ed Accademici di alto livello professionale, ne assunsero la paternità. Ed il titolo (“La frontiera dei diritti ed il diritto della frontiera: dieci anni dopo di nuovo insieme a Lampedusa”) richiamava l’analogo evento del 2009. Anche in questo caso, la partecipazione di avvocati, magistrati, accademici, giornalisti, scrittori, ufficiali della Guardia Costiera e la ricchezza degli interventi hanno segnato il grande successo, anche internazionale, del Convegno che aveva come fini la diffusione di conoscenze sulla tutela dei diritti fondamentali (anche a livello internazionale), nonché sulla storia dell’immigrazione e delle leggi del mare, illustrando il ruolo delle Istituzioni.
Mi fermo qui, anche se altro potrebbe essere raccontato, in particolare circa altri interventi pubblici quale componente del CSM e poi del Comitato Direttivo Centrale della ANM. Dal racconto degli eventi vissuti mi sembra chiaro che nei miei ricordi, nella mia mente e nell’anima tutto si lega e non riesco proprio a distinguere l’impegno da magistrato per i cittadini e quello – sempre da magistrato – per i magistrati, come forse la domanda mi richiedeva. Ed aggiungo che non ho mai voluto dar voce agli uni ed agli altri: non ho questa presunzione e non ne ho titolo! Al massimo ho voluto unirmi ad altre voci, a quelle di chi, ovunque ed in qualsiasi ruolo, si impegna per i diritti fondamentali di tutti.
2. Dalla fine degli anni settanta al 2000, e poi in quest’ultimo ventennio, abbiamo assistito a un graduale e inesorabile allontanamento della nuove generazioni dalla partecipazione alla “res publica”. Il dibattito collettivo, il confronto delle idee. il desiderio di “cambiare il modo” è stato sterilizzato dall’individualismo solipsistico e dal qualunquismo; l’atteggiamento che si è sviluppato è quello personalistico del rifiuto della politica in tutte le articolazioni del sociale e le espressioni della solidarietà collettiva, come se la discussione su temi sociali fosse qualcosa da lasciar trattare in via esclusiva ai “professionisti” della politica.
In conseguenza dell’ingresso massivo del qualunquismo come è cambiata la magistratura?
La domanda è importante e richiama mutamenti genetici di tutti, soprattutto di tanti giovani, non solo magistrati.
Ho in mente una immagine che fotografa i mutamenti di cui mi chiedi. Nel 2013 feci un viaggio con mio figlio Andrea in Belgio e la prima sera cenammo in uno stupendo e storico ristorante nel cuore pulsante di Bruxelles. In realtà, non pulsava niente. Tutti i tavoli, incisa una tavolata da 14 persone, erano occupati da giovani che per tutta la durata della cena non scambiarono una parola perché occupati a leggere e chattare sui rispettivi telefonici. Fotografammo la tristissima scena.
Ebbene, questo rinchiudersi nella propria stanza ed affidarsi solo al proprio sentire, magari influenzato dalle pessime modalità della nuova comunicazione, comunque senza confrontarsi con il pensiero degli altri e con la società che vive fuori dai palazzi di giustizia, si va diffondendo anche in magistratura. Spero che questa modalità di pensiero sia sconfitta o che resti minoritaria.
Gli effetti dell’ingresso massivo del qualunquismo nel mondo della magistratura si leggono anche nelle discussioni sulle mailing list, anche negli interventi di colleghi stimati.
Che senso logico, al di là dei precetti costituzionali, ha invocare il sorteggio (variamente paludato, anche come pre-sorteggio dei candidati prima del voto finale) per designare i componenti del CSM quale strumento per contrastare le deviazioni correntizie? Un’offesa enorme all’intera magistratura !
E perché mai, per ovviare a certe oscure trattative per le nomine degli incarichi direttivi o semidirettivi, questi dovrebbero essere affidati solo ad aspiranti designati dai magistrati componenti dell’ufficio interessati o addirittura questi ultimi, per quanto riguarda le funzioni semidirettive, sarebbero gli unici a poterle svolgere con periodicità . Il CSM ne uscirebbe svilito e potenziali candidati operanti in altri uffici sarebbero inevitabilmente penalizzati.
Più delicato, ma non meno pertinente al tema è il discorso sull’ostracismo che sempre più spesso si manifesta nei confronti dei magistrati che svolgono funzioni fuori ruolo o per quelli che hanno fatto parte del CSM o, ancora, per quelli che hanno rivestito ruoli dirigenziali in seno alla Associazione Nazionale Magistrati: per tutti costoro dovrebbero essere inibite per un certo periodo di tempo, peraltro non marginale, domande ed assegnazioni a ruoli dirigenziali, alla Cassazione etc., come se si trattasse di appestati o di portatori del Covid 19.
Non riesco ancora a dimenticare le polemiche attorno alla nomina dell’ottimo Giovanni Melillo a Procuratore di Napoli solo perché era stato un efficace Capo di Gabinetto del Ministro Orlando o il ritardo nella nomina di Guido Raimondi (avvenuta solo nella seconda tornata) a Presidente di Sezione della Cassazione. Quale era stata la sua penalizzante attività fuori ruolo? Componente e poi Presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo!
Sto dicendo che tutti i magistrati che hanno svolto attività fuori ruolo sono meritevoli di incarichi direttivi? Certamente no, ma occorre valutare caso per caso la natura dell’incarico e la qualità del servizio svolto per altre istituzioni, senza sposare una preconcetta tesi di contiguità politica e scarsa indipendenza dei fuori ruolo, tale da impedirne persino il confronto con altre candidature. Ed altrettanto vale per i membri del CSM o degli organismi dirigenziali dell’ANM, dovendosi riconoscere che tanti, tra coloro che si mettono in gioco per tali ruoli, lo fanno correttamente per superiori interessi e non certo per lucrarne vantaggi personali.
Rinunciare a scegliere, a valutare merito e capacità significa dar luogo ad una presunzione assoluta di inaffidabilità, ad un invincibile sospetto.
Adoro Philip Roth che ha scritto, tra molti capolavori, “Il complotto contro l’America”, un romanzo in cui l’autore descrive uno scenario immaginario e terribile che colloca nel 1942. Un candidato presidente di simpatie naziste, nientemeno che il trasvolatore dell’Atlantico Charles Lindbergh, sta conquistando gli Stati Uniti e la politica antisemita prende progressivamente corpo nel paese delle libertà. Un immigrato italiano vuole aiutare una famiglia ebrea a difendersi, si reca nella loro casa di Newark e regala una pistola al capofamiglia. Ma questi la rifiuta e spiega perché. Ha fiducia, nonostante tutto, nella democrazia: «Sai qual è la mia passione, Cucuzza? Il giorno delle elezioni [...]. Io amo votare. Da quando ero abbastanza grande non ho perso un’elezione». L’ebreo racconta poi all’italiano che cosa le elezioni, negli ultimi vent’anni, hanno determinato negli Stati Uniti, nel bene e nel male, e conclude: «E così stasera tu vieni da me, Cucuzza, a casa mia, e mi offri una pistola [...] perché io possa proteggere la mia famiglia dalla teppa antisemita del signor Lindbergh. Be’, non credere che io non ti sia grato, Cucuzza. Non dimenticherò mai che ti sei preoccupato per noi. Ma io sono un cittadino degli Stati Uniti e così mia moglie e così i miei figli [...]. Niente Mussolini qui, Cucuzza [...]. Basta con i Mussolini qui!».
Noi potremmo dire: basta con il qualunquismo qui!
Ma purtroppo serpeggia nella magistratura anche una logica burocratica: tocca ai dirigenti degli uffici giudiziari curarne la organizzazione con progetti giustamente sottoposti a discussione tra i magistrati che li compongono, prima che ai pareri dei Consigli Giudiziari ed alla delibere finali del CSM. Ebbene, la logica cui mi riferisco è quella secondo cui, ormai, i piani organizzativi sembrano dover considerare soprattutto la necessità che tutti i magistrati di un ufficio – penso alle Procure, ma non solo – dovrebbero essere assegnatari del medesimo numero di procedimenti o svolgere lo stesso numero di udienze: come se i numeri fossero la stella polare dei lavoro dei magistrati o potessero sempre misurare il peso e la qualità degli affari penali, o come se la necessità di specializzazione non potesse comportare soluzioni diverse.
Mi viene da pensare ai primi vent’anni della mia attività da magistrato: questi discorsi non trovavano accesso negli uffici e la logica dei numeri non aveva molto spazio. Ciò non per ossequio silente all’autorità dei dirigenti, ma perché il senso del dovere tendenzialmente non lasciava spazio a recriminazioni burocratiche.
A proposito dell’autorità dei dirigenti, non sopporto quelli che esercitano le loro funzioni secondo una concezione rigidamente gerarchica che li trasforma in “capi” poco disponibili ad ascoltare le osservazioni dei magistrati che fanno parte degli uffici che dirigono o che sono restii ad intavolare confronto un costruttivo, pur se dialetticamente complesso, con l’Avvocatura. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
3. Qual è il suggerimento che offriresti alle nuove generazioni di magistrati con riguardo alla partecipazione ai gruppi associativi della magistratura e alla partecipazione al dibattito in tema di politica giudiziaria?
Come sono cambiati i gruppi associati della magistratura? Ha ancora un senso iscriversi alle correnti?
Per ovvie ragioni non parlerò del merito caso di cui si stanno occupando la Procura di Perugia, il CSM ed i titolari dell’azione disciplinare, ma le sue ricadute negative sull’immagine della Magistratura e della Associazione magistrati sono evidenti.
Tra i magistrati circolano sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che le conversazioni e gli incontri di cui si parla da circa un anno costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.
Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla ANM ed alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche.
Ma se ciò è effettivamente inaccettabile, non è facile comprendere come oggi sia possibile, persino per molti magistrati, dimenticare i valori ed i fini che furono alla base, nel 1909, della fondazione dell’ Associazione Generale Magistrati Italiani (come allora si chiamava), capace di autosciogliersi, alla fine del 1925, per il rifiuto di trasformarsi in sindacato fascista. L’AGMI lo annunciò sulla sua rivista con un editoriale dal titolo “L’idea che non muore”. Quei valori (a partire da indipendenza assoluta, indifferenza alle aspettative della politica, professionalità, attenzione al pubblico interesse ed ai diritti di tutti) vanno oggi posti nuovamente in primo piano: devono vincere sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di «sindacato delle toghe» è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’ANM.
Non accetto che si disconosca il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. E ciò vale anche per le attività di competenza dell’Associazione magistrati : le correnti, insomma, sono nate come luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa unitamente al tipo di deviazione prima citate.
Dunque, la soluzione dei problemi anche gravi che ciclicamente ritornano, sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, facciano le loro scelte ed esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’Associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.
Mi sembra chiaro, da quanto ho detto, che dunque non sono tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Ho già detto che ho contribuito a fondarne una – Il Movimento per la Giustizia – per cui spero che i magistrati, non solo i giovani, agiscano per ridare credibilità alle correnti ed alla ANM, cercando di conoscere, capire, chiedere, prendere posizione “contro” con lealtà e senza ambiguità. I “passi felpati” non pagano e neppure il silenzio se – come mi auguro - si voglia motivatamente scegliere di aderire ad una corrente che persegue i valori in cui si crede.
Mi sia consentito dire che ricordo con orgoglio il quadriennio passato al Csm: non per vanità o eccesso di autoconsiderazione. Ma perché, insieme agli altri componenti, ho avuto la fortuna di esercitarvi un ruolo nobile ed alto, cui altri magistrati mi avevano designato. E solo dopo, esaurita quella straordinaria stagione, e ritornato nell’unico ufficio in cui, sin dall’inizio della carriera, avevo esercitato le mie funzioni (la Procura di Milano), decisi di candidarmi per il CDC dell’ANM, entrando poi a far parte della GEC. Non me ne vergogno e lo rifarei, anche se oggi a qualcuno potrebbe sembrare scandaloso .
4. I gruppi associati della magistratura, le c.d. correnti, nel corso degli anni hanno avuto un ruolo incisivo sia in ambito collettivo che individuale con riguardo all’organizzazioni della giustizia e alla carriera dei magistrati.
Il carattere discretivo delle correnti è stato individuato nel diverso modo di concepire la funzione giurisdizionale con differenti effetti riguardo alle posizioni in ambito di politica giudiziaria e di “rivendicazioni” dei diritti dei singoli magistrati.
La funzione giurisdizionale, nell’ottica di talune correnti, è così intesa come un potere con prerogative proprie che ruota attorno al magistrato quale alto funzionario mentre in ottica opposta è intesa come servizio ai cittadini e il magistrato altri non è che un servitore dello Stato. Qual è la tua concezione a riguardo e quali, secondo te, le ragioni per cui schiere di “giovani magistrati” hanno seguito il tuo esempio?
“Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”: lo affermava l’on.le Angelino Alfano, intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione “In ½ ora”, in onda sui Rai Tre il 13 marzo 2011. Alfano, a quella data, era Ministro della Giustizia, impegnato nell’impossibile tentativo di spiegare ai cittadini italiani perché la “riforma” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura (Titolo quarto della Parte seconda, articoli da 101 a 113) sarebbe stata “epocale” ed avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggono la giustizia italiana. Lo stesso concetto (la Magistratura non è un potere costituzionale, ma un ordine) veniva ribadito poco più di un mese dopo, il 18 aprile, da un altro ex Ministro della Giustizia, il sen. Roberto Castelli, nel frattempo diventato Vice Ministro delle Attività produttive, anch’egli intervistato da Lucia Annunziata nel corso della trasmissione di Rai Tre, “Il Potere”. Castelli, peraltro, era stato da Ministro responsabile di un’altra riforma a suo tempo definita “epocale”, quella dell’ordinamento giudiziario, approvata nel luglio del 2005 e del tutto ininfluente rispetto alla soluzione dei problemi reali della giustizia.
Queste affermazioni di due ex Ministri della Giustizia sottintendono una visione della architettura costituzionale secondo cui la magistratura non costituisce uno dei poteri separati e indipendenti su cui si reggono le democrazie moderne ma è semplicemente un ordine sottoposto al potere legislativo e a quello esecutivo.
Già prima di Alfano e Castelli lo aveva sostanzialmente affermato l’on.le Silvio Berlusconi, da Presidente del Consiglio dei Ministri, allorché pose agli italiani un quesito che così può riassumersi: come è possibile che un magistrato, semplice funzionario dello Stato, vincitore di un pubblico concorso, possa incriminare ed eventualmente condannare chi, eletto dal popolo, è legittimato a governare il Paese?
La legittimazione a governare ed a legiferare derivante dal successo elettorale diventa cioè, in tale concezione, anche lo strumento che pone la classe politica su un gradino più alto rispetto alla magistratura, a sua volta legittimata al controllo di legalità “solo” attraverso un pubblico concorso e senza sottoposizione al giudizio degli elettori. Poco importa ai sostenitori di questa tesi che tale modalità d’accesso al lavoro del magistrato sia prevista dalla Costituzione a garanzia della indipendenza del potere giudiziario e della sua estraneità alle logiche ed agli interessi della politica
Resta il fatto, comunque, che molti politici, commentatori ed una informazione non sempre indipendente continuano a sostenere che le indagini delle Procure sono spesso mirate e politicamente motivate contro questo o quel leader, contro un partito, contro l’una o l’altra maggioranza di turno . Anche tra i cittadini si diffonde l’idea di una guerra tra poteri dello Stato, e ripeterlo all’infinito, ossessivamente, serve a rappresentare la magistratura come un’istituzione orientata non da obblighi costituzionali, ma – appunto – da finalità politiche. Ma scontri e guerre prevedono almeno due eserciti schierati l’uno contro l’altro, mentre l’Italia assiste da circa trent’anni solo ad un’aggressione del potere politico nei confronti della magistratura.
Persino sulla copertina del libro I Magistrati (2009) di un autorevole esponente del PD, Luciano Violante vi era un passo del filosofo Francis Bacon: “I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”.
Insomma, secondo certe teorizzazioni, i magistrati dovrebbero essere leoni sì, ma fino ad un certo punto, cioè senza intralciare i programmi ed il concreto esercizio del potere di chi sul trono siede. Leoni solo con gli agnelli, dunque, e con i disperati senza potere! In realtà, troni e leoni non dovrebbero essere citati quando si parla di rapporti tra poteri dello Stato, il cui reciproco rispetto dovrebbe essere scontato e costituire la base di ogni democrazia.
È questa una premessa che mi serve per rispondere con poche parole alla domanda postami: sbagliano profondamente le correnti o chiunque interpreti il ruolo dei magistrati come quello di un alto funzionario dello Stato attento a non intralciare il lavoro di chi svolge funzioni politiche e gestisce il potere reale.
La democrazia non prevede affatto che chi ha il compito di far rispettare le leggi e sanzionare quanti le violano debba camminare con passi felpati e prudenti. L’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale sono garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma, nello stesso tempo, i magistrati devono coltivare la propria professionalità, una dote che consentirà loro interventi corretti e puntuali in ogni settore del diritto penale, l’unico di cui ho esperienza. Con un’ulteriore precisazione: non deve essere ricercata la compatibilità dell’azione dei magistrati con gli interessi della politica, così come non devono neppure essere presi in considerazione il gradimento e le aspettative dei cittadini e delle piazze affollate.
È la concreta attuazione del principio di esclusiva soggezione dei giudici alla legge che caratterizza l’agire della magistratura da potere costituzionale nell’interesse dei cittadini.
È quello che in tanti abbiamo cercato di realizzare nel corso della nostra carriera professionale e credo che i giovani magistrati non considerino ciò un atto di eroismo (sbaglierebbero!) ma solo l’ovvio adempimento del proprio dovere quotidiano, sia che ci si occupi di reati che richiamano l’attenzione della pubblica opinione, sia che si tratti di affari di ordinaria amministrazione.
5.Tu e Giovanni Falcone. Quale sarebbe, secondo te, il giudizio di Falcone sulla magistratura progressista di ieri e di oggi?
Nessuno se ne abbia se non risponderò direttamente a questa domanda, ma credo che, da quando Giovanni non è più tra noi, sono stati tanti, forse troppi, coloro che si sono proposti al nostro Paese come custodi ed interpreti dei suoi pensieri, delle sue parole e delle sue segrete confidenze. Io non lo farò.
Conobbi Falcone nel periodo finale degli anni di piombo, cioè verso la metà degli anni ’80, quando, insieme ad un gruppo di magistrati siciliani che si occupavano di mafia, egli partecipò agli incontri dei pm e giudici istruttori che si occupavano di terrorismo: ciò non certo perché esistessero collegamenti fra Brigate Rosse e Cosa Nostra, ma per conoscere le modalità del coordinamento spontaneo che avevamo realizzato e per condividere gli orientamenti giurisprudenziali in tema di reati associativi. Proprio da tali incontri allargati scaturirono documenti ragionati, inviati ai vertici istituzionali, con cui si invocava l’adozione di una legislazione specialistica che favorisse l’efficacia delle investigazioni antimafia, settore nel quale mi “trasferii” alla fine degli anni ’80, una volta sconfitto il terrorismo interno.
Non posso dire di avere lavorato con Falcone nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992: abbiamo insieme partecipato alla fondazione del Movimento per la Giustizia, e insieme vi abbiamo intensamente lavorato fin quasi alla sua morte. Il gruppo, come ho detto, era nato nell’88 e l’evento che ne aveva determinato la fondazione era stata proprio la mancata nomina di Giovanni a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia. Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali (tra loro Vladimiro Zagrebelsky, Mario Almerighi, Pietro Calogero, Giovanni Tamburino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Ayala, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Giorgio Lattanzi, Ubaldo Nannucci, Nino Condorelli, Ernesto Lupo, Ernesto Aghina ed altri ancora). Nacque così il Movimento per la Giustizia. Giovanni Falcone vi si dedicò con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano di liberare, ma nel 1990 ebbe la prima delusione: si presentò candidato alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse impegnato nella campagna elettorale.
Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza: in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quando infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «.. .capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia e patì anche qualche critica per la sua originaria impostazione: il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente le critiche e le preoccupazioni per il forte rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sostanziale dipendenza della DNA dall’esecutivo. Proprio grazie a quelle critiche, il progetto di legge istitutivo della Dna venne modificato: nacque quindi un organismo privo di poteri investigativi propri (tranne nei casi di inerzia delle Procure distrettuali), ma con utili compiti di coordinamento.
Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli. Ma altre critiche, più personali, gli piovvero addosso quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ancora oggi ricorda l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Ho il rimpianto di non avere ulteriormente chiarito con Giovanni che le mie personali perplessità sul suo trasferimento al ministero di Martelli e sulla sua candidatura alla Dna non avevano intaccato neppure in minima parte la mia immensa stima e l’amicizia per lui. Un rimpianto acuito dalla lettura di alcune pagine di un libro di Francesco La Licata, ove l’autore rammenta l’amarezza con cui Falcone gli parlò della lettera che gli avevo scritto e della incomprensione delle sue ragioni da parte di molti tra i suoi amici. All’epoca, invece, ero certo che Giovanni avesse ben colto la natura dei nostri dubbi e che la diversità di vedute sulla sua possibile nomina a procuratore nazionale antimafia non avesse in alcun modo intaccato la ricchezza del nostro rapporto personale. Tra l’altro, avevamo anche messo in cantiere il progetto di scrivere un libro insieme: vi avremmo analizzato, in parallelo, le risposte dello Stato al terrorismo e alla mafia. Avevamo anche tracciato una scaletta possibile.
Detto questo, aggiungo di essere stato a suo tempo certo, come ancora oggi lo sono, circa il fatto che il dissenso e la critica, purchè lealmente, si possono manifestare proprio agli amici ed alle persone che si stimano. In quel caso una stima assoluta e senza riserve, che però non mi dà titolo per dire quale sarebbe oggi il giudizio di Falcone sulla magistratura progressista di ieri e di oggi. Potrei soltanto augurarmi che sarebbe stato simile al mio .
6. Giustizia insieme ha ospitato, di recente, un’intervista a Gaetano Silvestri, Davide Galliani e Vincenzo Militello (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio) sulla disobbedienza del giudice nel terzo millennio. Cos’è per un magistrato la disobbedienza alla legge? Hai mai disobbedito alla legge quando ti sei trovato davanti un imputato che il tuo cuore non riteneva responsabile penalmente di un fatto che secondo la legge andava comunque perseguito?
Questa domanda mi mette in difficoltà perché non sono mai stato un raffinato giurista, ma un “giurista pratico” come diceva Berlusconi per avvalorare l’immagine dei pm quali magistrati a cui il diritto era sconosciuto. Aggiungo che mi riesca difficile immaginare che il giudice possa disubbidire alle leggi, al di là di ciò che dialetticamente si può affermare .
Forse qualcuno ritiene che una tale disobbedienza possa essere l’adesione ad una interpretazione minoritaria della legge da applicare o non gradita da esponenti del potere politico : a tale ultimo proposito, si pensi, ad esempio, alle sentenze di vari Tribunali in ordine ad alcuni aspetti dei “decreti-sicurezza” del 2018 o 2019 ed ai diritti degli immigrati, sentenze ritenute da un ex Ministro dell’Interno (e non solo da lui) prova della indisponibilità dei magistrati ad accettare le scelte del legislatore e della maggioranza di turno. Ma io non lo penso. Al giudice spetta la interpretazione della lettera della legge ma qualunque essa sia, pur se discordante – in ipotesi – dai contenuti della relazione di accompagnamento di una legge, non può certo qualificarsi come manifestazione di disobbedienza: spetterà poi alla Corte di Cassazione dire la parola definitiva sulla sua correttezza o meno, pur se il nostro sistema non conosce il carattere cogente delle pronunce della Corte di legittimità..
Del resto, anche quando il giudice o un pm ritengano di non poter applicare una legge o di non poterla interpretare in senso “costituzionalmente orientato” (come si dice), è a loro consentito di sollevare motivatamente la questione della ritenuta incostituzionalità della norma: ed in questo caso sarà la Consulta a dire l’ultima parola.
Se il problema dovesse infine riguardare solo l’applicazione della pena, ritenuta non proporzionata ai fatti dal pm che la richiede o dal giudice che la decide, non si pone una questione di disobbedienza. Al di là del riconoscimento di eventuali attenuanti, la strada è infatti obbligata perché le pene previste per i reati, nei codici e nelle leggi, le stabilisce il legislatore, non il magistrato .
Nel complesso, dunque, è così che funziona il principio di legalità, caratterizzato anche dalla indipendenza ed autonomia dei magistrati.
Tutt’altra cosa rispetto alla disobbedienza è invece la critica, anche forte, che il magistrato può esprimere nei confronti di una legge in un’occasione di un pubblico dibattito, anche se non di carattere strettamente giuridico: ciò gli è consentito, salvo che si tratti di affermazioni che riguardino un procedimento da lui trattato o rese in incontri a chiara connotazione partitica. L’esternazione delle critiche, cioè, non equivale a disobbedienza alle leggi, pur se a qualcuno piace dirlo.
Comunque, non ho personalmente mai disobbedito alla legge perchè mai mi sono trovato davanti un imputato per reati punibili che io ritenevo ingiustamente perseguibili o per reati per i quali non ritenevo proporzionata ai fatti accertati la pena prevista.
La risposta – mi rendo conto – è deludente ma non saprei cos’altro dire.
7. Nel tuo “Ne valeva la pena!” la vicenda Abu Omar si conclude con la sentenza di primo grado. Molto vi è stato poi. Ti aspettavi che la Corte europea dei diritti dell’uomo adottasse la sentenza -Corte EDU, IV sezione, Nasr e Ghali c. Italia, sent. 23 febbraio 2016 (ric. n. 44883/09)- che oggi tutti conosciamo?
Mi permetto di dire che non è affatto vero che “tutti conosciamo” la sentenza della Corte Edu sul caso Abu Omar perché su di essa – e su quello che significa per la Corte Costituzionale e per il Governo, oltre che per la Presidenza della Repubblica - è calata una imbarazzante coltre di silenzio.
Sì, mi aspettavo la decisione di Strasburgo che – ricordo – è stata assunta all’unanimità.
La vicenda è diventata per me un tormentone, da cui – però – sono riuscito a prendere da tempo le opportune distanze, specie dopo avere scritto nel 2010 un libro (riguardante però anche altri temi) a scopo autoterapeutico. Permettemi, però, di ricostruirne i passaggi essenziali che qui servono.
Ben quattro governi italiani in successione (per primo quello presieduto da Prodi, poi quelli presieduti da Berlusconi, Monti e Letta) hanno opposto il segreto di Stato sulle prove raccolte dalla Procura di Milano nei confronti degli imputati italiani appartenenti al SISMi, sollevando anche conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato. Quale la conseguenza? Mentre tutti i 26 imputati americani, di cui 25 appartenenti alla CIA, sono stati condannati (caso unico al mondo) per il sequestro dell’egiziano Abu Omar in Milano, nel febbraio 2003, anche con rigetto della tesi della immunità diplomatica per alcuni di loro, gli imputati italiani l’hanno fatta franca.
La Corte Costituzionale, a seguito dei conflitti tra poteri dello Stato che sono stati sollevati, si è pronunciata due volte: la prima volta, l’11.3.2009 con una sentenza che sembrava dare ragione a tutti, pur se l’Avvocatura dello Stato esultava («abbiamo vinto sei a zero»). In realtà la Corte aveva riconosciuto sia la correttezza dell’operato della Procura che la sussistenza del segreto di Stato. La lettura delle motivazioni della sentenza mi lasciò senza fiato: i principi affermati in precedenti pronunce dalla Consulta apparivano confermati solo a parole, ma ribaltati nella sostanza con l’inibizione a usare determinate prove o parte di esse, pur se regolarmente acquisite, affidando però al Tribunale la individuazione delle prove utilizzabili. La sorpresa più grande fu forse costituita dal rigetto della tesi della Procura della Repubblica di considerare il sequestro di Abu Omar come rientrante tra i fatti-reato «eversivi dell’ordine costituzionale», con la conseguenza della inopponibilità del segreto di Stato.
Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, dunque, il giudice Oscar Magi (Tribunale Monocratico di Milano) pervenne a conclusioni sul punto non condivise dal PM, ritenendo inutilizzabili alcune delle prove acquisite al dibattimento, dichiarando in sentenza di essere stato “costretto” ad osservare “i dettami della Corte”, anche se “ne avrebbe fatto volentieri a meno se solo avesse potuto seguire i dettami della propria coscienza professionale e della propria volontà conoscitiva”. Conseguentemente, il 4 novembre del 2009, dichiarò “non doversi procedere” nei confronti dei cinque funzionari del SISMI, imputati di concorso nel sequestro di persona di Abu Omar perché “l’azione penale, per quanto legittimamente iniziata, non può essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato apposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e confermato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2009”.
Proponevo appello avverso tale decisione, con argomentazioni fatte proprie dal Procuratore generale che ne chiedeva l’accoglimento con condanna anche del Direttore del SISMi, e degli altri quattro funzionari italiani imputati.
Ma il 15 dicembre 2010, la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza di n.d.p. per i cinque imputati del Sismi che rispondevano di concorso nel sequestro in ragione del segreto di Stato sulle prove che li riguardavano.
Il Procuratore generale, però, non si “rassegnava” e proponeva ricorso per Cassazione avverso la citata pronuncia.
In data 19.9.2012, la Corte di Cassazione – V Sez. Penale, accoglieva il ricorso del P.G. disponendo nuovo giudizio d’appello nei confronti dei cinque imputati italiani del SISMi accusati di concorso nel sequestro, affermando – tra l’altro – che “la disciplina del segreto di Stato mira a tutelare l’interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza ed alla sua stessa sopravvivenza” e che “la finalità della legge e della apposizione o conferma del segreto non è quella di garantire l’immunità penale per eventuali atti illegali compiuti dagli agenti dei Servizi…che abbiano agito al di fuori delle proprie funzioni”.
Nel gennaio del 2013, pertanto, dinanzi alla Corte d’Appello di Milano – Sez. IV, iniziava il processo di rinvio a carico dei cinque funzionari del SISMi che venivano condannati il 12 febbraio del 2003 (i vertici a pene più altre di quelle inflitte agli americani della CIA)
L’ 8 febbraio 2013, comunque, il Consiglio dei Ministri del Governo Monti aveva sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Corte di Cassazione per l’annullamento della sentenza n. 46340/12 e nei confronti della Corte di appello di Milano, che durante il dibattimento aveva disposto l’acquisizione al procedimento di verbali contenenti elementi da ritenersi coperti dal segreto di Stato prima apposto e poi opposto e confermato dai precedenti Presidenti del Consiglio dei Ministri. Il 24 maggio 2013, anche il Consiglio dei Ministri presieduto da Enrico Letta deliberava di sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato avverso la sentenza di condanna del 12.2.2013 della Corte d’Appello di Milano .
Il 10 febbraio 2014 la Corte Costituzionale accoglieva i due ricorsi dei citati Presidenti del Consiglio dei Ministri, affermando, tra l’altro, che “…omissis… pare arduo negare che la copertura del segreto – il cui effettivo ambito non può, evidentemente, che essere tracciato dalla stessa autorità che lo ha apposto e confermato e che è titolare del relativo munus – si proietti su tutti i fatti, notizie e documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro di Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato.”
Il 24 febbraio 2014, conseguentemente, la Corte di Cassazione – Sez. I^ penale, pronunciando sul ricorso proposto dai cinque funzionari del SISMi avverso la sentenza del 12.2.2013 di condannava della Corte d’Appello di Milano, annullava senza rinvio la predetta sentenza poiché “per l’esistenza del segreto di Stato, l’azione penale non poteva essere proseguita”, contro i predetti cinque imputati. La motivazione contiene pesanti critiche alla decisione della Corte Costituzionale quale quella secondo cui la “pronuncia” è “decisamente innovativa…sia nel panorama generale della giurisprudenza della Consulta, in relazione ai precedenti in materia, in quanto … sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione …con compromissione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria, che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità della autorità politica -il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo-, sia nella concreta incidenza nel presente procedimento, posto che esso si era mosso finora proprio e fedelmente sulla strada tracciata dalle precedenti pronunce, di diverso segno, emesse nello specifico dalla stessa Corte Costituzionale”.
Con la citata sentenza della Cassazione poteva dirsi concluso l’iter processuale italiano della vicenda legata al sequestro di Abu Omar di oltre 11 anni addietro.
Ma non era concluso quello della procedura apertasi con il ricorso di Abu Omar e di sua moglie dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, proposto l’ 8 agosto 2009, cioè in data anteriore alla prima sentenza del Tribunale di Milano.
Le ragioni addotte dai difensori di Abu Omar e Ghali Nabile dinanzi alla Cedu, a sostegno del ricorso, era state tra l’altro condivise dai Pubblici Ministeri della Procura di Milano durante il dibattimento di primo grado, ove – anzi – avevano sostenuto che l’interpretazione e la applicazione estensiva dell’istituto del segreto di Stato (come si rilevava dal processo in corso) avrebbero potuto determinare – per effetto anche della ritenuta possibilità di tardiva sua apposizione del segreto stesso – la violazione di vari principi della Costituzione italiana. Ciò era stato precisato anche in un documento inviato al Ministro della Giustizia in risposta ad una richiesta di informazione, il cui Agente del Governo italiano davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva incredibilmente affermato la non attendibilità delle opinioni della Procura di Milano : “essendo una parte nei procedimenti, l’Ufficio del Pubblico Ministero di Milano è portatore di interessi suoi propri ed ha specifiche preoccupazioni ed aspettative circa l’esito dei procedimenti che nel presente caso corrispondono a quelle delle parti civili/ricorrenti”. MI astengo da commenti su queste parole.
Dopo avere atteso l’esaurimento degli strumenti previsti dal nostro ordinamento interno, la Cedu, in data 23 febbraio 2016, condannava del Governo italiano a versare ai due ricorrenti 85mila euro per i danni non patrimoniali e 30mila euro per le spese processuali sostenute, per gravi violazioni dell’articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti), dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’articolo 13 (diritto alla tutela giurisdizionale effettiva) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo .
Nella sentenza, divenuta definitiva il 26 maggio 2016 per mancata impugnazione da parte del Governo italiano, si legge che le autorità italiane sapevano della extraordinary rendition di Abu Omar organizzata dalla Cia e che ben quattro Governi avevano abusato del segreto di Stato impedendo di far luce sulle gravi violazioni dei diritti dell’uomo di cui Abu Omar è stato vittima. La CEDU “colpiva” duramente a tutto campo le istituzioni italiane, dal Governo che, secondo la sentenza, aveva abusato del segreto di Stato favorendo l’impunità dei responsabili, alla Corte costituzionale, passando per il Presidente della Repubblica che aveva concesso la grazia a due agenti della Cia condannati dai giudici italiani. La sentenza contiene anche molti apprezzamenti per la magistratura italiana, il cui impegno - vi si legge - è stato vanificato dal segreto di Stato riconosciuto legittimo dalla stessa Corte costituzionale, un segreto peraltro non funzionale a tenere coperti i fatti, ben noti anche grazie alla stampa, ma piuttosto a garantire l’impunità degli agenti del Sismi.
Tornando alla domanda, e confermato che non è vero che tutti conoscano la sentenza Cedu, sono convinto che ciò sia avvenuto soprattutto per il silenzio di tanti giuristi , tra cui – usando una definizione che qui invento - i “laudatores” della Corte Costituzionale in servizio permanente, che pure hanno altre volte raccolto il mio consenso. La Corte, infatti, almeno in questo caso, qualche critica la meritava sulla scorta dei rilievi della Cedu. O no? Ma nessuno lo ha scritto. E sono persino certo che se fossero ammesse nel nostro sistema le opinioni dissenzienti dei giudici della Consulta, avremmo letto cose interessanti.
Come non citare, poi, il numero di aprile 2019 di Questione Giustizia intitolato “La Corte di Strasburgo”), interessantissimo ed utilissimo, ma in cui sono assenti – salvo che in un articolo proprio di Roberto Conti che però non si riferisce alla decisione della Consulta - riferimenti al caso Abu Omar ed alla sentenza della CEDU. In particolare, non se ne parla negli interventi di chi era co-agente del governo all’epoca del giudizio celebrato a Strasburgo e di chi ha effettuato una approfondita analisi giurisprudenziale (“Le principali decisioni della Corte in materia penale verso l’Italia”) riguardante anche sentenze anteriori al 2016 . Un’omissione tuttora inspiegabile, visto il rilievo internazionale della sentenza prima citata e visto che, dopo le mie osservazioni, era stata prospettata l’ipotesi di parlarne in futuri numeri della rivista.
Insomma, meno male che la Corte europea dei diritti dell’uomo c’è!
8. La Corte edu e i diritti di matrice convenzionale: un orpello, un vezzo o una necessità? Cosa si prova a perseguire gli autori di un reato contro la persona commesso nei confronti di un terrorista islamico e quanta importanza hanno i diritti umani nel lavoro quotidiano del magistrato.
Il giudice italiano Guido Raimondi, Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo fino al 4 maggio 2019, concludendo un suo articolo sulla storia più recente della Corte di Strasburgo, affermava che la “Corte permanente è anche la ragione per cui, in tutta Europa, centinaia di milioni di persone sanno che in Strasburgo esiste un organismo che vigila costantemente sul rispetto dei loro diritti”. Vladimiro Zagrebelsky ebbe a sottolineare anni fa che la Corte di Strasburgo fa dell’Europa un modello di civiltà giuridica per tutto il resto del mondo ed Antonio Cassese scrisse che “ogni mattina, quando ci leviamo, dovremmo rallegrarci di vivere in Europa…abbiamo la fortuna di essere protetti da uno straordinario organo di giustizia, la Corte Europea dei diritti umani che vigila sui nostri diritti fondamentali… e contribuisce a tenerci lontani da arbitri e imbarbarimenti”.
Concordo totalmente con queste affermazioni e con la fiducia che esprimono nei confronti della Corte EDU di cui auspico la crescita di autorevolezza anche attraverso l’estensione di quegli orientamenti consolidati che dovrebbero essere cogenti per i giudici nazionali: ciò servirebbe anche al progresso omogeneo delle nostre democrazie.
Da queste mie parole, risulta chiaro che, essendo soggetti alla legge anche coloro che hanno l’obbligo di farla rispettare ad altri, devono essere puniti i pubblici ufficiali che, magari in nome di un’errata concezione del concetto di sicurezza, commettano reati in danno di terroristi o di mafiosi o di qualsiasi criminale.
La magistratura e le forze di polizia italiane hanno saputo rifiutare sistemi illegali di contrasto del cd. “terrorismo islamico”, come quelli propri della War on Terror (W.O.T.) americana, secondo cui, per gli atti di terrorismo realizzati in tempo ed in zone di guerra, non si devono rispettare la Convenzione di Ginevra, i suoi protocolli addizionali e, più in generale, il diritto umanitario. Nell’ambito della W.O.T., infatti, anche queste regole vengono spesso violate, a partire, ad esempio, dalla stessa creazione della categoria degli enemy combatants, cioè dei combattenti nemici illegali, che ha consentito agli Stati Uniti di sottrarre i sospetti terroristi “catturati” in ogni parte del mondo alle regole del diritto umanitario e persino alla giurisdizione dei Tribunali Militari ordinari. Seguendo questa logica, però, si corre il rischio di vanificare, attraverso atti amministrativi e politici unilaterali, decenni di elaborazione giuridica sul tema del rispetto dei diritti umani. Il fallimento di quel sistema statunitense di lotta al terrorismo è stato dimostrato, oltre che dal rapporto Feinstein approvato nel dicembre del 2014 dal Senato americano, da alcune storiche sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti che lo hanno demolito senza ambiguità alcuna. In una di tali sentenze è stato affermato il diritto dei prigionieri di Guantanamo a ricorrere alla giustizia ordinaria “…perché le leggi e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e non piegarsi in tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza possono essere riconciliate nella cornice dello Stato di diritto”.
Dunque, no alle “extraordinary renditions”; no al “waterboarding” ed alle torture di qualsiasi tipo (inclusa quella consistente nel sottoporre i detenuti, per farli impazzire e crollare, all’ascolto di musica a tutto volume, 24 ore su 24, di alcuni gruppi rock tra i miei favoriti, come Massive Attack, Metallica, R.E.M. e Pearl Jam che non a caso, insieme a Brice Springsteen, sono scesi in campo contro questa tattica del governo americano); no alle black lists come strumento di contrasto del finanziamento del terrorismo; no alla “tsunami digitale” con raccolte inutili di milioni di dati personali di ogni tipo; no alle espulsioni di stranieri che – mascherate da misure antiterrorismo – sono frutto di dilaganti politiche xenofobe; no all’utilizzo improprio ed esteso dei servizi di informazione che non hanno compiti di indagini ma solo di prevenzione dei rischi per la sicurezza nazionale e che, secondo il nostro sistema, devono comunicare immediatamente alle forze di polizia giudiziaria le notizie di reato di cui vengano in possesso.
Va detto che, fortunatamente, anche le tre principali leggi specificatamente destinate a contrastare il terrorismo internazionale rispettano tali principi pur se approvate in sede di conversione di altrettanti decreti legge, rispettivamente nel 2001, 2005 e 2015, all’indomani di immani tragedie e dunque in momenti di vera emergenza: la prima dopo l’ 11 settembre 2001, la seconda dopo gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 e l’ultima dopo la strage di Parigi del 7 gennaio 2015.
Insomma, i diritti umani devono comunque rimanere al centro della risposta istituzionale e, in particolare, dell’azione dei magistrati, qualunque sia il livello di gravità dei reati che vengono contrastati e perseguiti. E’ sbagliato pensare che interessino le «informazioni» più dei processi ed è falso che, sacrificando i diritti, sia più facile ottenerle e così prevenire i rischi per la sicurezza della collettività.
Va aggiunto, comunque, che nessun sentimento particolare diverso dalla consapevolezza della propria esclusiva sottoposizione alla legge deve caratterizzare l’azione dei magistrati che perseguano un terrorista o gli autori di reati commessi nei confronti di un terrorista islamico.
Mi concedo un ricordo del mio personale metodo di “war on terror”: alla fine di luglio del 2004 interrogai nel mio ufficio a Milano un egiziano detenuto, accusato di essere uno dei capi di un’associazione terroristica operante a Milano. Prima di essere arrestato, aveva mantenuto rapporti anche con Abu Omar. L’interrogatorio era l’ultimo atto dell’indagine e durò varie ore perché l’egiziano, pur dichiarandosi innocente, spiegava molte circostanze contestategli, finendo anche con il fare qualche significativa ammissione. A un certo punto, in tono quasi di sfida, mi disse che era arrivata l’ora di una delle sue preghiere quotidiane e chiese di interrompere l’interrogatorio. Accolsi la sua richiesta e gli fornii anche qualcosa da mettere sotto le ginocchia. Mi ringraziò e mi chiese in che direzione si trova La Mecca. Non seppi aiutarlo e me ne scusai. Attesi che finisse di pregare, riprendendo poi l’interrogatorio e concludendolo in un paio di ore. L’egiziano mi ringraziò ancora ed io lo riaffidai alla polizia penitenziaria. L’anno dopo fu condannato a dieci anni di reclusione.
9. Quanto incide il giudizio della società civile nell’esercizio delle funzioni requirenti? Mi auguro che non incida neppure in minima parte.
Vorrei in proposito ricordare gli anni delle prime inchieste di “Mani Pulite”. All’inizio la solidarietà verso i magistrati della Procura di Milano scorreva a fiumi, ed il palazzo di giustizia era quotidianamente assediato da folle plaudenti. Ma bastò poco tempo perché gli scenari mutassero. Con l’aiuto di una campagna stampa martellante, e diversamente da quanto era avvenuto in passato, i magistrati (non solo quelli di Milano) iniziarono ad essere coperti prima da critiche strumentali ed ingiustificate, poi da offese. E, manco a dirlo, la loro pubblica testimonianza contro la corruzione e l’arroganza del potere politico (ricordo la famosa intervista del febbraio del 1998, a G. D’Avanzo, di Gherardo Colombo sulla “società del ricatto”) divenne presto un’ulteriore prova della loro politicizzazione. Venne coniata in quella stagione la definizione di “toghe rosse” ad indicare il colore della parte politica in nome della quale i magistrati avrebbero scelto di militare, volutamente trascurando di ricordare i tanti politici appartenenti all’aera del centro-sinistra che pure vennero incriminati e condannati in quegli anni.
Poi arrivarono offese pure e semplici, anche da parte di chi aveva incarichi politici. Nella campagna elettorale per le elezioni amministrative a Milano furono perfino affissi per le strade manifesti recanti un’offesa più grave per i magistrati uccisi che per quelli vivi: “Via le Brigate Rosse dalle Procure!”.
In questo contesto ricordo le parole di Francesco Saverio Borrelli il quale ripeteva che la solitudine è lo stato ordinario del nostro lavoro. Il nostro dovere è quello di indagare con determinazione, senza fermarci dinanzi ad ostacoli di qualsiasi natura. Dunque il magistrato non deve essere influenzato dagli applausi e dal consenso, né da critiche ingiuste ed offese.
Il modello ideale di pubblico ministero (ed in genere di magistrato) rappresentato da Borrelli rimane attuale ed è quello di coloro che non cercano consenso esterno ai palazzi di giustizia e che lavorano con riservatezza e determinazione, al solo fine di provare la verità dei fatti e la responsabilità di chi ne è autore. Voglio credere che si tratti del modello nettamente maggioritario e che l’attenzione alle aspettative dei cittadini e la conseguente tendenza al protagonismo individuale costituiscano vizi da cui è attinta solo una minoranza della magistratura requirente.
Ringrazio “Giustizia Insieme” per l’attenzione e lo spazio che mi ha concesso ma mi scuso con i possibili lettori per la lunghezza della intervista.
[1] Le dichiarazioni di A. Spataro contengono anche riferimenti a valutazioni già da lui espresse nel suo libro “Ne valeva la pena, storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza 2010), nonché in vari suoi interventi pubblicati in altri libri o in riviste (non solo giuridiche) ed in una intervista recentemente rilasciata al prof. Davide Galliani destinata ad un testo ancora non pubblicato.
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