ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Valéry Giscard d’Estaing: l’europeista “visto da vicino”
di Pier Virgilio Dastoli
Parafrasando gli scritti di Giulio Andreotti potrei dire di Valéry Giscard d’Estaing: “visto da vicino”.
Sono stato eletto segretario generale del Movimento europeo internazionale – una rete di organizzazioni europee e di sezioni nazionali nata all’Aja nel 1948 come casa comune dell’europeismo tradizionale – nell’aprile 1995 come candidato dei federalisti vincendo a sorpresa nel segreto dell’urna contro l’inglese Peter Luff che partiva avvantaggiato dal ruolo di segretario generale aggiunto.
Da sei anni, il Movimento europeo internazionale era presieduto da Valéry Giscard d’Estaing, eletto parlamentare europeo nel 1989 e presidente del Gruppo Liberale dal 1989 al 1991.
Dopo la scomparsa di Altiero Spinelli, di cui ero stato l’assistente parlamentare dal 1977 al 1986, avevo promosso e coordinato un “intergruppo federalista per l’Unione europea” nutrendo l’illusione che il Parlamento europeo fosse disponibile a riprendere l’azione costituente che si era concretizzata nell’approvazione del “Progetto Spinelli” il 14 febbraio 1984.
Notoriamente lontano dalla cultura gollista in materia europea che caratterizzava la posizione della grande maggioranza delle forze politiche francesi a cominciare dai socialisti ma estraneo alle logiche interne del Parlamento europeo, Giscard d’Estaing avrebbe voluto collocare i liberali europei al centro dell’azione parlamentare approfittando della paralizzante grande coalizione fra popolari e socialisti e creando intorno al suo ben più piccolo gruppo un’alleanza per una “Europa sovrana”.
Fui convocato a Parigi da un suo collaboratore per un colloquio con Monsieur le Président nel corso del quale Giscard d’Estaing mi propose di lasciare il Gruppo Comunista e Apparentati in cui ero entrato nel 1988 come consigliere per le questioni istituzionali e diventare suo capo di gabinetto nel Gruppo Liberale scegliendo un italiano, vicino ai comunisti e federalista.
Nella convinzione che nel passaggio al Gruppo Liberale avrei perso una buona parte della mia posizione di libero pensatore federalista, non accettai la sua proposta.
A metà legislatura Giscard d’Estaing lasciò a sorpresa i liberali entrando nel Gruppo dei popolari europei e mi felicitai con me stesso per non aver accettato la sua proposta.
Ciononostante continuai a “vederlo da vicino” nel Parlamento europeo e nel Movimento europeo che avevo iniziato a frequentare più assiduamente in rappresentanza della sezione italiana.
Da buon francese, Giscard d’Estaing non amava molto gli inglesi e tantomeno chi all’interno del Movimento europeo aveva rappresentato la logica dell’europeismo tradizionale acritico nei confronti del metodo comunitario.
Mi ritrovai così alla segreteria generale del Movimento europeo ancora più vicino a Giscard d’Estaing valutando in incontri settimanali le sue convinzioni europeiste.
Capii che non poteva essere iscritto fra i seguaci di Jean Monnet che aveva messo il metodo funzionalista (e cioè l’evoluzione graduale dell’integrazione europea affidata ad una amministrazione formalmente indipendente dagli Stati nazionali ma di fatto prigioniera del potere preponderante dei governi) al centro della costruzione comunitaria.
Avendo contribuito - durante un settennato (1974-1981) pieno di luci come la modernizzazione laica dello Stato francese e di ombre come l’ affaire dei diamanti del dittatore centro-africano Bokassa spodestato dallo stesso Giscard nel 1979 - da presidente della Repubblica a iniettare nelle Comunità europee tre innovazioni di peso rappresentate dalla perennizzazione del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo con un ruolo politico di indirizzo e non di decisione, dalla creazione del Sistema Monetario Europeo come embrione della futura unione monetaria e dall’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, Giscard era convinto che il sistema europeo dovesse essere razionalizzato in un insieme più equilibrato che evitasse i rischi di paralisi insiti in un evidente squilibrio istituzionale e nel diritto di veto permanete nel Consiglio.
A suo avviso, l’Unione europea nata a Maastricht nel 1992 doveva essere inquadrata in una futura costituzione europea per evolvere verso gli Stati Uniti d’Europa, gli Stati avrebbero dovuto attribuire al livello sopranazionale un insieme di competenze ampie ma non modificabili secondo il modello federale della Legge Fondamentale tedesca e il passaggio dall’Unione agli Stati Uniti d’Europa avrebbe dovuto avvenire nel quadro di un’Europa a due velocità.
Nella sua visione degli Stati Uniti d’Europa, equidistante dal funzionalismo di Monnet e dal federalismo di Spinelli, non c’era posto tuttavia per un governo federale di origine parlamentare (nella Convenzione sul futuro dell’Europa propose una sorta di Congresso di Versailles composto da parlamentari europei e deputati nazionali, n.d.r.) ma era prevalente l’idea di una repubblica europea semipresidenziale necessaria per gettare le basi di un’Europa sovrana a livello internazionale.
Da Spinelli lo allontanava infine l’idea che gli Stati Uniti d’Europa dovessero essere il frutto di un’azione costituente del Parlamento europeo perché a suo avviso si doveva passare dalle forche caudine dell’accordo dei governi a condizione che tale accordo non dovesse essere sottoposto alla condizione della unanimità e perché non aveva trovato o non aveva cercato nel Parlamento europeo una spinta propulsiva verso un ruolo costituente.
“Visto da vicino” nel ruolo di presidente del Movimento europeo internazionale, la sua equidistanza fra Monnet e Spinelli era compensata dal desiderio di passare alla storia come il padre della futura costituzione europea e, con questo obiettivo, convinse il Movimento ad agire in due direzioni: una di carattere accademico con la creazione di una Agora accademica sul futuro dell’Europa che elaborò un corposo rapporto significativamente intitolato Verso una costituzione europea ed una – accettata a dire il vero obtorto collo in una agitata riunione al Bundestag dove le reticenze di Giscard d’Estaing furono superate dal sostegno della presidente del Bundestag e presidente del Movimento europeo tedesco Rita Suessmuth e dal presidente del Movimento europeo italiano Giorgio Napolitano – della creazione della prima rete europea della società civile (il Forum Permanente) che fu poi all’origine della Carta dei diritti dell’Unione europea e dell’embrione di democrazia partecipativa inserito nell’art. 11 del Trattato di Lisbona.
Come sappiamo – e se mi è consentito un paragone storico azzardato – e come avvenne al tempo della rivoluzione francese è nata prima la Carta dei diritti, elaborata su proposta del governo SPD-Verdi di Gerhard Schroeder da un organo sui generis che si battezzò Convenzione, che fu proclamata solennemente a Nizza nel dicembre 2000 e poi il Trattato costituzionale nel 2003.
L’idea della costituzione fu approvata dal Congresso d’Europa all’Aja nel maggio 1998 quando Giscard aveva lasciato a Mario Soares la presidenza del Movimento e, in quanto presidente di regione, era stato eletto alla presidenza del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa.
Il tema della costituzione entrò così nell’agenda europea prima con il discorso di Joschka Fischer a Berlino il 12 maggio 2000 tuttavia pieno di caveat confederali e quindi nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa concepita al Vertice di Laeken nel dicembre 2001 su iniziativa del primo ministro belga Guy Verhofstadt e alla cui presidenza Jacques Chirac impose lo stesso Giscard d’Estaing affiancato da Giuliano Amato.
Per elaborare la costituzione si decise infatti di ricorrere al metodo sui generis della Convenzione considerando l’efficacia e il successo di quella che aveva elaborato la Carta.
Condizionato dalla presenza ingombrante dei governi e frenata dall’incapacità del Parlamento europeo di assumere un ruolo di leadership e di creare un’alleanza innovatrice con i parlamenti nazionali, il testo di “Trattato che istituisce una costituzione europea” elaborato e approvato dalla Convenzione fu il frutto di un minimo comun denominatore reso inevitabile dalla regola secondo cui i convenzionali dovevano decidere secondo il principio del consenso sapendo che il testo sarebbe poi passato per le mani di un negoziato diplomatico, di una conferenza intergovernativa e delle ratifiche nazionali frammentate fra consultazioni popolari e adozioni parlamentari.
Prigioniero del proprio ego, Giscard d’Estaing ha lavorato sull’ipotesi di una apparente costituzione condivisa dai governi nella speranza o nell’illusione che essa sarebbe passata indenne dalle forche caudine delle ratifiche nazionali, che sarebbe stata accettata anche dal Regno Unito a cui aveva concesso l’art. 50 sull’uscita volontaria e che avrebbe comunque aperto la strada ad un salto verso l’unità politica grazie ai suoi anticorpi costituzionali (il primato del diritto dell’Unione una lista di valori comuni costituzionalmente vincolanti, i limiti ai poteri del Consiglio europeo e il ruolo accresciuto del Parlamento europeo nei confronti della Commissione, la legge europea, una clausola per il passaggio dall’unanimità alla maggioranza….).
Sappiamo che così non è stato perché i governi hanno irresponsabilmente deciso di mettere del piombo nelle deboli ali della breve costituzione europea associando ad un testo di diritto primario la massa di oltre trecentocinquanta articoli del diritto secondario dei trattati esistenti ed hanno eliminato tutti gli anticorpi costituzionali aprendo la strada ad un dibattito confuso e a quelle che oggi avremmo chiamato fakenews.
Prima dei britannici e nonostante il voto favorevole di tredici paesi europei (di cui i referendum in Spagna e Lussemburgo) la Francia di Giscard d’Estaing e i Paesi Bassi incamminati sulla via dell’euroscetticismo hanno affossato nella primavera del 2005 il cosiddetto Trattato costituzionale e, come avrebbe detto Spinelli, dalla sua montagna è nato il topolino del Trattato di Lisbona.
Speriamo che la storia della sfortunata costituzione europea ammaestri coloro che dovranno guidare il prossimo dibattito sul futuro dell’Unione sulla via degli Stati Uniti d’Europa ed in particolare il Parlamento europeo.
Interdittiva antimafia e ius ritentionis (nota ad Adunanza Plenaria 26 10 2020 n. 23).
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Premessa.– 2. Lo ius ritentionis da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva. – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza sulla “utilità conseguita” e la certezza dei rapporti. – 4. La posizione della Plenaria
1. Premessa
L’Adunanza Plenaria si pronuncia sul tema delle conseguenze connesse all’adozione di un’interdittiva antimafia sulla pregressa percezione di contributi pubblici diretti all’incentivazione di un’iniziativa imprenditoriale ormai interamente realizzata.
Il tema delle interdittive è molto dibattuto sotto molteplici profili e, in particolare sui limiti prefettizi (le c.d. interdittive generiche) e sui poteri di cognizione del giudice amministrativo (in particolare il ruolo della Sezione III del Consiglio di Stato). La dottrina è molto attenta e critica sul punto palesando in recenti interventi “un’ennesima, incondizionata, presa di posizione a favore delle misure interdittive antimafia”[1]. Per converso la giurisprudenza è granitica nel ritenere che l'informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell'autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa[2]. La complessità dell’informazione interdittiva è in costante ricerca di un punto di bilanciamento tra lotta alla mafia e diritto di difesa[3]. In effetti, come nota attenta dottrina vi è un “continuo confronto tra Stato e anti-Stato” il quale “richiede un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini”[4].
L’aspetto economico ne è un ulteriore aspetto imprescindibile che attesta l’effettività delle misure.
Oggetto del quesito deferito dalla Sezione III del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. III, 23 dicembre 2019, n. 8672 sentenza non definitiva) alla Adunanza Plenaria sono gli artt. 92, comma 4, e 94, comma 2 d.lgs. n.159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. Testualmente prevedono che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”; l’art. 94, comma 3, dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
Contenuto del quesito deferito alla Plenaria, e da questa rimodulato, riguarda la questione se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92, comma 3, che nell’art. 94, comma 2, d.l.gs. n. 159 del 2011, sia da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo.
All’esito di un complesso ragionamento la Plenaria ha stabilito il seguente principio di diritto che: “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”.
Vanno altresì posti all’attenzione due ulteriori aspetti che sono emersi.
Il primo aspetto, squisitamente di natura processuale, riguarda la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi. Nel caso è stato esperito l’intervento ad opponendum di un terzo imprenditore (estraneo al merito della vicenda processuale) rispetto all’appello proposto dall’appellante sul presupposto che il giudizio dell’interveniente vertente sul medesimo principio di diritto (ma non connesso) è stato sospeso ai sensi degli articoli 79, comma 1, c.p.a e 295 c.p.c. e conseguentemente rinviato per la decisione in attesa della pronuncia della Plenaria. Quest’ultima ha giudicato l’intervento ad opponendum inammissibile in quanto: “non è sufficiente a consentire l’istanza di intervento ad opponendum la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio”. La Plenaria esclude che la sua attesa pronuncia possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica e non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 99, comma 3 cpa.
Il secondo aspetto, di tecnica redazionale dei quesiti, desta interesse, poiché la questione deferita all’esame della Plenaria dalla Sezione abbisognava di una diversa e più ampia formulazione. In effetti, il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte della Plenaria) “riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico”. In questi termini la Plenaria ha riformulato il quesito, poiché è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente”.
2. Lo ius ritentionis da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva
La vicenda fattuale da cui trae origine la pronuncia in commento riguarda la richiesta di ripetizione di un contributo pubblico concesso ad un’azienda agricola per l’acquisto di attrezzature e macchinari necessari alla costruzione e all’ampliamento di una cantina.
L’A.G.E.A., a seguito di positiva istruttoria, ammetteva la richiedente al contributo regionale ed erogava lo stesso in sei diverse tranche nel periodo 2013-2016. In previsione dell’erogazione del contributo la Regione Basilicata richiedeva il rilascio dell’informativa antimafia una prima volta nel 2012 e una seconda volta nel 2014, senza tuttavia ricevere alcuna risposta da parte della Prefettura competente. Solo nel 2017 la Regione riceveva la comunicazione che l’azienda finanziata era stata attinta da una informativa antimafia positiva, emessa dalla Prefettura nel febbraio del 2016.
L’amministrazione regionale informava di un tanto l’A.G.E.A. che, in applicazione del disposto dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, disponeva la revoca dei contributi erogati richiedendone la restituzione. Alla prima interdittiva del 2006, poi, ne seguivano altre due, una nel 2017 e una nel 2018.
L’azienda agricola impugnava con due distinti ricorsi le prime due interdittive, mentre con motivi aggiunti la terza. Infine, un terzo giudizio veniva instaurato avverso gli atti di revoca dei finanziamenti.
Il contenzioso risultante dalla riunione dei succitati tre giudizi è stato definito nel merito dal T.A.R. Basilicata (T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 23 ottobre 2018, n. 707). Il Collegio adito ha rigettato i ricorsi riguardanti la legittimità dei provvedimenti di interdittiva, mentre ha accolto il ricorso avente ad oggetto la ripetizione delle somme ricevute, con il consequenziale annullamento dei provvedimenti con cui provvedimenti con cui l’A.G.E.A. aveva revocato i finanziamenti erogati alla società ricorrente.
Lasciando in disparte i motivi sulla base dei quali sono stati respinti i ricorsi avverso la legittimità delle interdittive antimafia che non rilevano sulla questione rimessa all’Adunanza plenaria in commento, pare opportuno, invece, evidenziare le motivazioni che hanno portato all’accoglimento del ricorso avverso la richiesta restitutoria dei finanziamenti percepiti. A tal riguardo il T.A.R. ha fatto proprio quell’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla ricorrente (cfr. T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 15 febbraio 2013, n. 119;T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 13 giugno 2017, n. 3237; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 3 gennaio 2018, n. 3237, n. 52) secondo il quale gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui fanno “salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite ed il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, vanno applicati, oltre che alle revoche dei contratti di appalto pubblico, anche alle revoche dei finanziamenti e dei contributi pubblici, che vengono corrisposti per finalità di interesse collettivo, tenuto conto del bilanciamento tra l’interesse pubblico (di impedire l’erogazione di denaro pubblico in favore di soggetti economici privati, condizionati dall’infiltrazione mafiosa) ed il principio di affidamento dei soggetti privati (trattandosi di soggetti che non sono indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata, ma solo sottoposte al rischio dell’infiltrazione mafiosa). La finalità delle norme sarebbe quella di non erogare il pubblico denaro, ma non di restituire quello già speso come, nella specie, il contributo concesso per l’ammodernamento dell’azienda agricola ricorrente mediante l’acquisto di attrezzature e macchinari per la cantina.
Avverso tale sentenza di primo grado è stato proposto appello da parte dell’A.G.E.A.che, dopo aver contestato la ricostruzione motivazionale del giudice di prime cure poiché in contrasto con la corretta applicazione della normativa vigente, ha pure evidenziato che sul punto in giurisprudenza sussistono due opposte soluzioni interpretative, avanzando istanza di deferimento del ricorso all’Adunanza plenaria, onde addivenire alla composizione di tale contrasto giurisprudenziale.
L’adita Sezione III del Consiglio di Stato, in accoglimento a tale richiesta e previa reiezione dell’appello incidentale dell’appellata avente ad oggetto l’asserita illegittimità dei provvedimenti prefettizi di interdittiva, ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione interpretativa in ordine all’esatta portata della clausola di salvaguardia di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. 159/2011.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza sulla “utilità conseguita” e la certezza dei rapporti
La lettura della clausola di salvaguardia di cui all’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011, è stata oggetto di due opposti orientamenti giurisprudenziali, uno estensivo e l’altro restrittivo. Si dibatteva sulla portata della disposizione nel senso se fosse limitata al solo caso della revoca del contratto, escludendo la diversa ipotesi della revoca del finanziamento oppure se lo ius ritentionis fosse ammesso oltre che per i contratti di appalto caratterizzati da un nesso di corrispettività anche per i provvedimenti unilaterali di concessione o autorizzazione di finanziamenti o contributi pubblici con un nesso di corrispettività attenuato.
Secondo l’interpretazione estensiva del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia nelle sentenze n. 3 e n. 19 del 2019 si propone una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di “utilità conseguite”. In tal modo si slega il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente come nel caso dei contratti di appalto e si estende a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall’amministrazione.
Per contro invece secondo l’interpretazione restrittiva del Consiglio di Stato, Sez. III, nelle sentenze n.1108 e n. 5578 del 2018, la nozione di “utilità conseguite” di cui all’art. 92 comma 3 “non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l’integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l’interesse pubblico risulterebbe essere soltanto indiretto”.
I due orientamenti si sono incentrati sull’interpretazione della nozione di utilità assumendo la distinzione tra utilità dirette e indirette ovvero tra quelle “direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente come nel caso dei contratti di appalto” e quei vantaggi che soddisfatto, anche in via indiretta, l’interesse generale sotteso all’erogazione ma che non di rado rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di “utilità su scala collettiva” che lo stesso è in grado di generare”.
Altro nodo da sciogliere riguarda l’ordine pubblico economico degli effetti dell’interdittiva – cioè l’incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all’operatore attinto da un’informativa interdittiva - sui rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo ma che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione a causa di ritardi nella richiesta o comunicazione di fatti ostativi. In tale ambito la sentenza n. 3/2019 del Consiglio di Giustizia Amministrativa si era, infatti, posta la questione della certezza e sicurezza nei traffici giuridici ponendo in risalto il legittimo affidamento in capo all’operatore privato.
4. La posizione della Plenaria
Secondo la Plenaria l’esame ermeneutico degli articoli 92, comma 3 e 94, comma 2, risponde alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione. Gli articoli richiamati sono norme di eccezione e precisa scelta del legislatore che derogano all’ordinario procedimento il quale prevede che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti (v. art. 91), da parte dei soggetti pubblici deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione dell’informazione antimafia. La deroga invece consente nel caso di mancata comunicazione dell’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, comma 2, ovvero nei casi di urgenza (art. 94, comma 2) di procedere anche in assenza dell’informazione sulla capacità a intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione.
In tale contesto di lettura delle norme la Plenaria, in continuità con la sua precedente n. 3/2018, ribadisce che l’interdittiva antimafia non costituisce un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto. L’interdittiva consiste nell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione: “quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti”. Infatti, giova ribadire che l’atto di revoca non rappresenta un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma “un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”. Del pari si ha in caso di recesso che si contraddistingue in differenti varie tipologie non tutte riconducibili alle figure che ineriscono ad un diritto potestativo privato di ripensamento, come il recesso ordinario civilistico ovvero a quello previsto dall’articolo 109 del Codice dei contratti, ma si identificano in quelle che scaturiscono da una verifica postuma negativa sui requisiti generali ovvero nell’accertamento autoritativo postumo di una causa di esclusione (Tar Lazio, sez. II, 28 maggio 2020, n. 5700). In un caso il rapporto è da considerasi consolidato nell’altro caso è invece contraddistinto dalla precarietà degli effetti dei rapporti espressamente enunciata nelle norme. In quest’ultima ipotesi non è ravvisabile l’insorgere di un affidamento in capo al soggetto privato o di un suo diritto di ritenzione delle somme beneficiate.
L’ambito di applicazione della norma di eccezione relativa alla salvezza dei pagamenti è secondo la Plenaria strettamente circoscritto ai contratti di appalto in quanto “anche il dato letterale della disposizione” si oppone “ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti”. Del pari anche il riferimento alle “utilità conseguite” contribuisce ad escludere che la norma possa estendersi anche ai finanziamenti ed ai contributi.
Nell’ipotesi in cui ricorrono i presupposti di eccezione alla procedura ordinaria la Plenaria, in correzione del quesito, afferma che, intanto potrà procedersi alla verifica della “utilità conseguita”, in quanto si ritenga ammissibile la salvezza del pagamento delle “opere già eseguite” ovvero del “rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, poichè il riferimento “nei limiti delle utilità conseguite” va inteso come misura del “quantum” dovuto dall’amministrazione al privato colpito da interdittiva.
Sulla base di queste premesse, e aderendo alla posizione restrittiva, la Plenaria indica quando non sia possibile ricondurre alla “utilità conseguita” anche più generali interessi pubblici. E precisamente non è possibile quando: (i) l’accertamento appare non rispondere (o non rispondere sempre) a parametri giuridici, bensì a parametri macroeconomici, proporzionati alla tipologia, all’estesa latitudine degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo; e (ii) (per altro verso) essi stessi prescindono da una vera e propria possibilità di “misurazione” in senso giuridico o economico, afferendo alla migliore esplicazione di diritti politici o economici, ovvero ad aspetti di sviluppo sociale o culturale.
In tale contesto la Plenaria ha tracciato l’ambito operativo delle norme riconducendo a sistema anche l’aspetto delle conseguenze economiche delle interdittive. La legislazione antimafia indubbiamente presenta caratteristiche di eccezionalità che si declinano nel diritto della prevenzione palesando le criticità nell’individuazione “del punto di equilibrio tra prevenzione antimafia e interessi pubblici concorrenti o diritti di libertà”[5]. In effetti, non sono mancate critiche alla giurisprudenza amministrativa per aver operato uno spostamento e aggravamento dell’asse fissato dal Legislatore modificando perfino “l’architettura del sistema”[6]. Per converso va però notato che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, in particolare sul fronte degli elementi indicativi dell’infiltrazione mafiosa già a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consente ragionevolmente di prevedere l’applicazione e le conseguenze della misura interdittiva nel rispetto del principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale. Del resto la Corte Costituzionale n. 24 del 27 febbraio 2019 che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, (sebbene con riferimento alle misure di prevenzione personali), ha evidenziato l’esigenza di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, le essenziali garanzie di tassatività sostanziale e processuale (Consiglio di Stato, Sez. III, 6 novembre 2019, n. 7575)[7].
* * *
[1] G. Amarelli, Interdittive antimafia e «valori fondanti della democrazia»: il pericoloso equivoco da evitare, in Questa Rivista.
[2] R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’ 8 giugno 2020) in Questa Rivista e; V.Di Iorio, Informative interdittive antimafia, in l’Amministrativista – Il Portale sugli appalti e i contratti pubblici, 10 gennaio 2017.
[3] R. Rolli e M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (Nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in Questa Rivista.
[4] C. Felicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (Nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945), in Questa Rivista.
[5] M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’indefinita pervasività del sottosistema antimafia delle grandi opere e il caso emblematico della “filiera”, in Dir. econ., 2013, 624.
[6] F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in https://www.giustamm.it/, 6, 2018.
[7] A. M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in https://www.giustizia-amministrativa.it/, 2020.
Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica).
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. La vicenda. 2. La centralità della tutela cautelare nella gestione dell’emergenza. 3. Emergenza pandemica, gestione dei rischi sistemici e urgenza processuale. 4. La difficile parametrazione della bilateralità del periculum. 5. La «dequotazione» del pregiudizio nelle more lamentato. 6. Brevi considerazioni conclusive.
1. La vicenda.
Con decreti presidenziali del 19 ottobre 2020, nn. 1921 e 1922, il T.a.r. Campania, sez. V, respingeva le istanze cautelari presentate avverso l’ordinanza n. 79 del 15 ottobre 2020, emessa dal Presidente della Giunta Regionale della Regione Campania e ogni altro atto ad essa preordinato, connesso e conseguenziale, ivi compresa la pregressa ordinanza regionale n. 78 del 14 ottobre 2020, con cui era stata disposta in tutte le scuole dell’infanzia (fascia 0-6 anni) la sospensione dell'attività didattica ed educativa, ove incompatibile con lo svolgimento da remoto, e le riunioni degli organi collegiali in presenza; nelle scuole primarie e secondarie, invece, la sospensione delle attività didattiche ed educative in presenza, le riunioni in presenza degli organi collegiali, nonché quelle per l'elezione degli stessi.
Tali istanze non trovavano accoglimento per due ordini di ragioni: una di rito, l’altra di merito.
Con riferimento al primo profilo, parte della questione controversa veniva stralciata, poiché si rilevava che in pendenza del giudizio cautelare alcune delle misure disposte con la impugnata ordinanza n. 79/2020 – in particolare quelle relative alla sospensione delle attività didattiche in presenza per la scuola dell’infanzia – erano già state revocate con successiva ordinanza regionale (n. 80/2020), all’esito di rinnovata e aggiornata istruttoria. Pertanto, sovrapponendosi e sostituendosi gli effetti di quest’ultima a quelli dell’ordinanza oggetto d’impugnazione, la valutazione e decisione sulla sopravvenuta e parziale improcedibilità del ricorso era rimessa dinanzi al Collegio.
In disparte la questione processuale sulla parziale sopravvenuta improcedibilità del ricorso, nel merito, le istanze cautelari venivano respinte sulla base di specifiche e puntuali argomentazioni.
Innanzitutto si riteneva che, pur nei limiti della delibazione consentita nella fase cautelare monocratica, fosse stata dimostrata (o meglio, «esaurientemente documentata l’istruttoria» comprovante) l’idoneità e la proporzionalità delle pur gravose misure sospensive adottate con ordinanza regionale.
Di poi, pur nell’asserito rispetto del doveroso bilanciamento d’interessi e della verifica rigorosa dei presupposti di estrema gravità e urgenza che connotano la fase cautelare presidenziale, nelle more della trattazione collegiale dell’istanza cautelare, si riteneva doversi dare prevalenza all’interesse pubblico sotteso al provvedimento impugnato sulla base: i) della non assoluta compromissione degli altri diritti e interessi coinvolti dall’impugnata ordinanza regionale; ii) della temporaneità della misura contestata, atta a «dequotare il pregiudizio nelle more lamentato»[1].
2. La centralità della tutela cautelare nella gestione dell’emergenza.
I decreti presidenziali che si annotano pongono, ancora una volta, la tutela cautelare[2] al centro del sistema della tutela giurisdizionale nel contesto emergenziale.
La fase cautelare, infatti, è per sua natura lo strumento processuale più idoneo a garantire rapidità ed effettività della tutela, sebbene in funzione generalmente[3] strumentale alla decisione della controversia nel merito, specie in contesti connotati da emergenza o da incertezza, quindi di rischio.
L’emergenza pandemica che stiamo vivendo è, infatti, un chiaro esempio di stretta interrelazione e coesistenza fra diritto emergenziale[4], gestione precauzionale del rischio[5] e urgenza decisoria[6], posto che, a differenza di altri eventi emergenziali connotati dall’inverarsi di eventi di danno imprevisti o inattesi, ma territorialmente e temporalmente definiti, essa è la conseguenza dell’inveramento di eventi di rischio più o meno gravi per la salute e la vita delle persone, che le conoscenze scientifiche attualmente disponibili non sono ancora in grado di spiegare.
Di conseguenza, proprio la crisi del sapere scientifico ha acuito le difficoltà politico-amministrative nella predisposizione di validi strumenti atti ad arginare efficacemente l’emergenza.
Il perdurare dell’emergenza e il suo mutevole evolversi in un contesto di permanente incertezza scientifica, hanno reso ancor più difficoltoso il bilanciamento operato dall’amministrazione pubblica fra interesse pubblico rilevante alla tutela della salute e i diritti e gli interessi privati. L’amministrazione pubblica, infatti, è periodicamente “obbligata” a prendere decisioni d’interesse pubblico rilevante che impattano pesantemente sui diritti fondamentali e sulle libertà dei cittadini anche se, paradossalmente, le medesime sono adottate a garanzia e a tutela degli stessi.
In tale contesto, le logiche della necessità e dell’urgenza, della temporaneità e rivedibilità delle decisioni amministrative a fronte del mutare delle conoscenze scientifiche (ma non solo) disponibili, collimano in sequenze provvedimentali – o più genericamente decisionali, alludendo anche alla complessa catena normativa[7] che sta caratterizzando il sistema delle fonti di regolazione del contesto emergenziale in atto – fra loro non solo temporalmente ravvicinate, bensì connesse e consequenziali, quasi da poter considerare i singoli provvedimenti adottati dalla specifica amministrazione (si pensi proprio alle ordinanze regionali) atti di un unico complesso procedimento che si snoda senza soluzione di continuità.
Tale modus procedendi, per vero tipico del decision making process in contesti di rischio[8], rende più complessa la tutela giurisdizionale e, al contempo, porta a valorizzare la fase cautelare.
3. Emergenza pandemica, gestione dei rischi sistemici e urgenza processuale.
Alla luce di quanto argomentato, sembra doversi riconoscere che, proprio nella fase cautelare, i concetti di emergenza (così come di rischio) e urgenza processuale, sebbene fra loro distinti, tendano a saldarsi fra loro[9], per via di un nesso naturale e intrinseco che rende maggiormente qualificato l’elemento del periculum, tale poterlo ritenere, in alcuni casi più gravi, sussistente in re ipsa.
E invero. Sebbene il periculum in mora sia quel presupposto dell’azione cautelare tipizzato dal legislatore, normativamente definito, anche in via gradata, secondo un climax ascendente in relazione al grado di anticipazione della tutela cautelare, lo stesso resta un concetto indeterminato, per via del richiamo a elementi valoriali (pregiudizio grave e irreparabile, estrema gravità e urgenza, eccezionale gravità e urgenza) che implicano una certa discrezionalità nella valutazione da parte dell’organo giurisdizionale.
Purtuttavia, non può non ritenersi che esista questo nesso naturale fra emergenza e tutela cautelare, così come fra tutela cautelare e rischio – e ciò vale, a maggior ragione, nel caso di specie, in cui la tutela cautelare è da erogarsi in un contesto di cointeressenza fra perdurante emergenza e rischio[10], anzi forse più corretto sarebbe parlare di rischi sistemici, per via del propagarsi dell’instabilità e della rischiosità dal settore sanitario a quello economico e sociale – perché emergenza e rischio hanno implicati nella propria intrinseca sostanza l’elemento del pericolo, nella sua massima gravità di espressione.
L’emergenza, per sua natura, è un momento di frattura con l’ordinarietà ordinamentale, sia organizzativo-istituzionale sia funzionale, tale per cui essa si connota di due fondamentali elementi, connessi e consustanziali, necessità e urgenza, da cui la straordinarietà e la contingibilità dell’intervento richiesto. Proprio la temporaneità e la contingibilità non possono che essere espressione di quella urgenza, intesa come sussistenza di un periculum, evidentemente di severa o comunque concreta gravità.
Il rischio, a sua volta, è esso stesso valutazione prognostica, ex ante, di un determinato pericolo. È tipica del rischio, infatti, quell’urgenza improcrastinabile d’intervento, di azione, per la sua corretta gestione. Pertanto, non può non riconoscersi che il rischio condivida con la tutela cautelare il momento di valutazione prognostica del periculum, valutazione rafforzata dall’improcrastinabilità, dall’urgenza del decidere e dell’agire, anche a fronte di contesti connotati da incertezza. Ciò porta a ritenere che sussista un più qualificato nesso fra rischio e il momento cautelare, nella fase di accertamento di uno dei suoi presupposti: il periculum in mora.
E dunque, se si ammette che fra emergenza e urgenza processuale, fra rischio e urgenza processuale, vi sia un nesso naturale, intrinseco, che mostri con più vivida immediatezza l’esistenza pressoché in re ipsa del periculum in mora, in via generale e astratta tale pregiudizio dovrà dirsi esistente.
4. La difficile parametrazione della bilateralità del periculum.
Ferme le considerazioni svolte, la questione, tuttavia, è piuttosto quella dell’accertamento dei differenti attributi richiesti dalla legge per la sussistenza del periculum, a seconda del tipo di azione cautelare da esperire, alla cui valutazione e accertamento in concreto il giudice non può sottrarsi.
Infatti, come noto, stante il principio della parità processuale delle parti, il giudice non potrà che valutare tale pregiudizio in tutte le sue componenti, tenendo conto sia della posizione del ricorrente, sia dell’amministrazione o di eventuali controinteressati.
Ed è qui, si ritiene, il perno della questione sottesa ai decreti presidenziali di rigetto delle istanze cautelari presentate avverso le ordinanze regionali in questione e, più in generale, per la gran parte delle ordinanze contingibili e urgenti emanate per gestire il contesto pandemico.
Infatti, il problema che si sta riscontrando, ripetute volte, nell’erogazione della tutela cautelare nel contesto pandemico (ossia di emergenza causata da rischi sistemici), specie in ambito scolastico[11], è, piuttosto, quello della difficile, se non impossibile, parametrazione della bilateralità del periculum[12], che porta a un evidente squilibrio in favore dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento oggetto di contestazione, perché esso tende a coincidere con il perseguimento di un interesse dichiaratamente generale che rende marginali, ove non convergenti con esso, gli interessi individuali, dei singoli, pur se essi sono espressione di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti.
Di qui, a fronte di una documentata istruttoria, l’asserita adeguatezza e proporzionalità del provvedimento impugnato che, all’apparenza, sembra non sottrarre interessi pubblici e privati a un effettivo bilanciamento, così come costituzionalmente richiesto[13], essendo essi espressione di diritti fondamentali, in nome di un concreto vaglio in termini di adeguatezza, necessità e proporzionalità in senso stretto del provvedimento impugnato[14].
In realtà, però, ciò che sembra emergere, è che forse in queste peculiari ipotesi, la tutela cautelare vada a lambire il merito delle decisioni amministrative, ragion per cui, il giudice amministrativo, nel timore di incidere anche in via interinale su un assetto d’interessi la cui responsabilità compete alla decisione politico-amministrativa, vede ridurre notevolmente il proprio margine d’intervento.
E con esso, forse, dovrebbe ammettersi che a depotenziarsi sia la stessa pretesa giuridica del cittadino al conseguimento di un determinato risultato, non solo per via della latitudine che connota la discrezionalità amministrativa nel caso di specie, bensì e soprattutto, per la percepita marginalità di un interesse individuale a fronte di quello pubblico, quasi aprioristicamente preminente, perché esso stesso elevato a interesse generale[15].
Infatti, in disparte i rari casi in cui è emerso con evidenza un grave difetto d’istruttoria a supporto della decisione pubblica, tale da averla resa abnorme o manifestamente illogica, irrazionale, e ancor prima manifestamente infondata e dunque illegittima[16], non solo la sommarietà del rito, piuttosto l’infungibilità della valutazione politica (recte: discrezionale) sembrano aver confinato la tutela giurisdizionale a un vaglio meramente formale.
Una conferma degli angusti spazi in cui la tutela cautelare monocratica è destinata a essere confinata, specie in questo particolare contesto pandemico, sembra potersi desumere a fronte di un rilevato tentativo[17], più volte esperito dal giudice amministrativo, di forzare le maglie della tutela giurisdizionale in nome della garanzia di diritti fondamentali costituzionalmente tutelati.
Ed invero, proprio il contesto pandemico ha fatto emergere, in riferimento alla tutela cautelare, un problema c.d. “a regime”, ossia quello dell’inappellabilità dei decreti cautelari monocratici. Il Giudice amministrativo, infatti, preoccupato di offrire una tutela a diritti fondamentali in situazioni che altrimenti non l’avrebbero consentito, in particolare in ipotesi inerenti la tutela della salute dei singoli e, in materia scolastica, la salute psico-fisica dei bambini, ha sostanzialmente disapplicato la norma di legge[18] (secondo il Giudicante, «offerto una lettura costituzionalmente orientata della norma processuale»[19]), consentendo l’appello del decreto cautelare e rimettendo gli atti al Giudice diprime cure per il prosieguo della fase cautelare.
In questo modo, sebbene in nome dell’effettività della tutela giurisdizionale, il giudice amministrativo ha, di fatto, svolto un ruolo suppletivo, andando ben al di là della semplice interpretazione estensiva della normativa di riferimento, bensì ricadendo nell’interpretazione creativa[20]. Pertanto, fermo il pregevole intento, evidente è “lo strappo” che il diritto giurisdizionale ha arrecato al principio di legalità e di certezza del diritto, anche se in nome di superiori valori e beni costituzionalmente protetti. Infatti, così procedendo, non solo si travalicherebbe il disposto normativo, violandolo, bensì potrebbero aversi effetti indiretti, quale quello del possibile condizionamento dell’organo collegiale, oltre che un inopportuno appesantimento del contenzioso[21].
Il rischio tangibile, dunque, sul piano della legalità, sarebbe quello della strumentalizzazione delle regole processuali in nome del perseguimento di valori di equità o di giustizia sostanziale[22], come tale non giustificabile perché capace di «alimentare una certo preoccupante incertezza delle regole»[23], particolarmente gravosa in contesti di rischio sistemico, come quello pandemico che si sta vivendo.
5. La «dequotazione» del pregiudizio nelle more lamentato.
A costipare ulteriormente l’efficacia e l’effettività della tutela cautelare monocratica nel contesto pandemico, la temporaneità, la contingibilità, o forse dovrebbe dirsi la provvissorietà esasperata, delle ordinanze oggetto d’impugnazione.
Problema che, nel caso di specie, sembra emergere con evidenza dall’espressione, emblematica, utilizzata dal TAR Napoli, dequotazione del pregiudizio nelle more lamentato, quasi a voler rievocare, in una nuova veste, quella passata teorica della degradazione dei diritti fondamentali[24], sulla cui bontà sembra lecito sollevare qualche dubbio.
Tale assunto desta perplessità per il fatto che la dequotazione del pregiudizio lamentato è posta a giustificazione di una valutazione prognostica sull’esito del ricorso, dunque, sull’inesistenza del fumus boni iuris. Valutazione, questa, che si fa discendere non da un fatto acclarato (es. l’avvenuto riesercizio del potere e l’emanazione di una nuova ordinanza modificativa dell’assetto di interessi precedentemente disciplinato), ma sol dal manifestato proposito, da parte dell’amministrazione, di esperire ulteriori e necessarie valutazioni, alla luce del nuovo quadro normativo-istituzionale relativo alle misure necessarie a fronteggiare la gravissima crisi, ossia alla luce del sopravvenuto DPCM contenente disposizioni afferenti anche alla materia oggetto del contendere, a fronte delle quali l’amministrazione sarà eventualmente chiamata a provvedere.
Tale valutazione, posta a fondamento della decisione di rigetto dell’istanza cautelare, sembra alquanto opinabile, per due ordini di ragioni. Innanzitutto, perché lesiva del divieto per il giudice amministrativo di pronunciare su poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2, c.p.a.)[25]; e poi, perché in tal modo si sterilizzerebbe quell’essenziale provvisorietà, giustificata dall’urgenza processuale, che tale forma di tutela cautelare dovrebbe assicurare, essendo stata compiuta una valutazione prognostica sul fumus boni iuris non sulla base del pur sommario quadro probatorio disponibile, bensì sull’ipotizzato, futuro, anche se imminente, nuovo e diverso esercizio del potere da parte della p.a.
In definitiva, sembrerebbe che il giudice amministrativo, a fronte della particolare provvissorietà della misura cautelare in questione, anche per via della rafforzata ancillarità rispetto alla tutela cautelare collegiale, per come delineata dal legislatore nel contesto pandemico[26], abbia voluto evitare di riconoscere al ricorrente una tutela di carta, meramente fittizia, ipotizzando che l’esito del ricorso non avrebbe che potuto essere negativo.
Orbene, se è vero e condivisibile che debba riconoscersi al decreto presidenziale una provvisorietà e strumentalità rafforzata rispetto alla tutela cautelare collegiale, spettando al Collegio la valutazione del merito complessivo della domanda cautelare e l’individuazione delle misure più idonee a garantire tale tutela, è altrettanto vero e inconfutabile che non si possa non attribuire una certa autonomia alla tutela monocratica, in ragione della evidente possibilità di repentina mutevolezza delle circostanze in fatto e diritto poste a fondamento dell’autonomo vaglio sulla ricorrenza dei presupposti della tutela cautelare, prima nella fase presidenziale, poi in quella collegiale.
Diversamente, non si spiegherebbe la possibilità, questa sì consentita ex lege, di revoca o di modifica del decreto monocratico, ai sensi dell’art. 58 c.p.a., così come disposto dall’art. 84, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18.
6. Brevi considerazioni conclusive.
La vicenda ha permesso di compiere alcune brevi riflessioni sulla centralità e, al contempo, sulla delicatezza della tutela cautelare nel contesto pandemico.
Si è cercato di segnalare alcuni profili di complessità che, di fatto, rivelano le difficoltà che i singoli, ma soprattutto lo stesso giudice amministrativo, incontrano nell’erogazione della tutela cautelare.
In particolare, è emersa chiaramente una problematica di fondo, rilevante e specificatamente afferente il ruolo delle Corti nel diritto del rischio, ossia: la difficoltà di garantire il rispetto della neutralità della decisione giurisdizionale, in un contesto connotato da grande incertezza, non solo scientifica ma prima ancora normativa, in particolare nel caso in cui le scelte politico-amministrative impattino direttamente su diritti costituzionalmente garantiti.
La risposta giudiziaria alla domanda di tutela giurisdizionale, infatti, nel destreggiarsi in complesse forme di equilibrismo fra effettività della tutela e rispetto della legalità, sostanziale e processuale, in alcuni casi rischia di concretizzarsi in manifestazioni estremistiche, non giustificabili, quali sono quelle del creazionismo giudiziario o, all’opposto, un eccessivo e ingiustificato self-restraint dell’organo giudicante.
E invero, in via generale, non si può non riconoscere come la latitudine della discrezionalità amministrativa, atta a fronteggiare il contesto pandemico, in uno con l’estrema contingibilità delle decisioni emergenziali, assunte anche in ragione di quella riflessività amministrativa che caratterizza i contesti di rischio, specie se sistemici e se connotati da notevole incertezza, inevitabilmente arretri i margini di tutela.
Le sole ipotesi – al di là dei casi di creazionismo giudiziario – in cui il singolo ha potuto legittimamente godere di una tutela immeditata, già in sede cautelare monocratica, sono state le per vero eccezionali controversie in cui erano evidenti, allo stato degli atti, le carenze istruttorie a sostegno del provvedimento assunto.
Nel caso di specie, invece, se pare condivisibile la decisione assunta, non può dirsi altrettanto anche per le argomentazioni addotte, che paiono eccessivamente condizionate dalla preoccupazione di interferire sul merito di scelte di forte impatto politico amministrativo attraverso pronunce cautelari, per di più monocratiche.
[1] La vicenda che si riporta ad esempio è ritenuta emblematica per le considerazioni, seppur succinte ma di più ampio respiro, che di seguito si svolgono. Infatti, a tali pronunce se ne sono susseguite ulteriori, di tenore pressoché identico, afferenti alle medesime questioni quivi esaminate, di cui comunque si terrà in debito conto. Cfr.: T.a.r. Napoli, sez. V, (dec.) 9 novembre 2020, n. 2025, n. 2026, n. 2027; Id., 10 novembre 2020, n. 2033; T.a.r. Lecce, sez. II, (dec.) 6 novembre 2020, n. 695; contra T.a.r. Bari, 6 novembre 2020, n. 680; T.a.r. Calabria, sez. I., 23 novembre 2020, n. 609.
[2] Sulla tutela cautelare, dopo il codice del processo amministrativo: M.A. Sandulli, La fase cautelare, relazione al 56° convegno di studi amministrativi su La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, Varenna, 23-25 settembre 2010, consultabile anche in Dir. proc. amm., 2010, 4, 1130 ss.; Id., La tutela cautelare nel processo amministrativo, in www.federalismi.it; A. Travi, Tutela cautelare (dir. amm.), Treccani, diritto on-line, 2013; R. Cavallo Perin, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, Dir. proc. amm., 4, 2010, 1165; M. Allena - F. Fracchia, Il ruolo e il significato della tutela cautelare nel quadro del nuovo processo amministrativo delineato dal d.lgs. 104/2010, in Dir. proc. amm., 2011, 1, 191 ss; A. Police, La tutela cautelare di primo grado, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), Padova, 2017; M. Lipari, La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi, in www.federalismi.it, 2017.
[3] Si pensi, come esempio di strumentalità attenuata o meglio, come eccezione alla strumentalità della tutela cautelare, alla possibilità di definizione del giudizio con sentenza breve all’esito dell’udienza cautelare, ex art. 60 c.p.a.
[4] V. Angiolini, Necessità ed emergenza nel diritto pubblico, Cedam, Padova, 1986; R. Cavallo Perin, Il diritto amministrativo dell’emergenza per fattori esterni all’amministrazione pubblica, in Dir. amm., 1, 2005, 777; C. Marzuoli, Il diritto amministrativo dell’emergenza: fonti e poteri, in Annuario AIPDA 2005: Il diritto amministrativo dell’emergenza, Milano, 2006; A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzia, Bologna, 2008; F. Giglioni, Amministrazione dell’emergenza (voce), in Enc. Del Diritto, Annali VI, 2013, 44-61; G. Rolla, Profili costituzionali dell’emergenza, in rivista AIC, n. 2/2015. Sull’emergenza e gestione di rischi sanitari: M. Chiti, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006; P.M. Vipiana, Il potere di ordinanza contingibile e urgente in materia sanitaria nella giurisprudenza amministrativa, in Cittadinanza, Corti e salute, R. Balduzzi (a cura di), Milano, Giuffrè, 2007.
[5] Nella dottrina italiana: A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006; I.M. Marino, Aspetti propedeutici del principio di precauzione, in www.giustamm.it, ora anche in Ignazio Maria Marino. Scritti Giuridici, A. Barone (a cura di), Napoli, 2015, 1527; R. Ferrara, I.M. Marino, Gli organismi geneticamente modificati. Sicurezza alimentare e tutela dell’ambiente, Cedam, Padova, 2003; F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Milano, 2005; F. Trimarchi, Principio di precauzione e “qualità” dell’azione amministrativa, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2005, 1673-1707; M. Antonioli, Precauzionalità, gestione del rischio e azione amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 56; Follieri F., Decisioni precauzionali e stato di diritto. La prospettiva della sicurezza alimentare, I° e II° parte, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 6, 1495 ss. nonché ibidem, 2017, 1, 61 ss. Nella dottrina straniera: E. Fisher, J. Jones, R. Von Schomberg, Implementing the precautionary principle. Perspective and prospect, Cheltenham Uk – Northampton, MA, Usa, 2006; Id., Is the precautionary principle justiciable?, in Journal of environmental law, vol. 13, issue 3, Oxford Journal, 2001, 315-334; C. R. Sunstein, Laws and fear: beyond the precautionary principle, Cambridge University Press, 2005; N. De Sadeleer, Les Principes du pollueur-payeur, de prevention et de precaution, Bruxelles 1999; M. Gros, Les principes de precaution et de prevention, in M. Gros (a cura di) Leçons de droit de l’environnement, Paris, 2013.
[6] Sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, Bari, Cacucci, 2020.
[7] M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, 2/2020, 10 aprile 2020.
[8] Sulla teoria della sostanziale unicità procedimentale fra provvedimenti di primo e secondo grado nel diritto del rischio, cfr. A. Barone, Il diritto del rischio, op.cit., in particolare p. 180.
[9] A. Barone, intervento al Webinar: “Il processo nell’emergenza pandemica”, svoltosi in data 28 settembre 2020.
[10] Sul nesso che avvince emergenza e rischio nel contesto pandemico, cfr: A. Barone, Emergenza pandemica, precauzione e sussidiarietà orizzontale, in Persona e amministrazione, 1/2020. Più in generale sul tema: L. Giani - M. D’Orsogna - A. Police, Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018.
[11] Cfr.: Cons. Stato, sez. III, (ord.) 27 novembre 2020, n. 6832; Cons. Stato, sez. III, (dec.) 26 novembre 2020, n. 6795; Cons. Stato, sez. III, (dec.), 10 novembre 2020, n. 6453.
[12] Sulla bilateralità del periculum in mora: M. Lipari, La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi, cit.
[13] Corte Cost. n. 85/2013.
[14] Cfr. Cons. Stato, (dec.) 26 giugno 2020, n. 3769.
[15] Sul tema, con riferimento alla materia dei contratti pubblici: G. Severini, Tutela cautelare e interesse generale (con particolare riguardo alla riforma del 2016 dell’art. 120 del Codice del processo amministrativo), in Aa.Vv. Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017.
[16] Cfr., più in generale: TAR Sicilia, Palermo, (dec.) 27 agosto 2020, n. 842. Con particolare riferimento al settore scolastico, cfr: T.a.r. Calabria, sez. I., 23 novembre 2020, n. 609 che fa leva proprio sulla mancanza di evidenze scientifiche e sulla conseguente incompleta e carente istruttoria a sostegno della decisione amministrativa assunta; nonché T.a.r. Bari, 6 novembre 2020, n. 680, in cui, invece, emergono presupposti in fatto differenti e dirimenti, ossia la dimostrata carenza di strutture e attrezzature adeguate ad assicurare lo svolgimento della didattica digitale a distanza nel territorio barese, atti a giustificare l’accoglimento dell’istanza cautelare, posto che l’esecuzione del provvedimento impugnato si tradurrebbe in una sostanziale interruzione delle attività didattiche e dei servizi all’utenza scolastica.
[17] Cfr. come esempi afferenti al caso di specie: Cons. Stato, sez. III, (dec.) 26 novembre 2020, n. 6795; Cons. Stato, sez. III, (dec.), 10 novembre 2020, n. 6453. Sul tema lucidamente: M.A. Sandulli, intervento al Webinar: “Il processo nell’emergenza pandemica”, svoltosi in data 28 settembre 2020.
[18] Così chiaramente M.A. Sandulli, intervento al Webinar: “Il processo nell’emergenza pandemica”, svoltosi in data 28 settembre 2020.
[19] Così: Cons. Stato, sez. III, (dec.), 10 novembre 2020, n. 6453.
[20] Aa.Vv., Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018; M A. Sandulli, Principi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto fra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, al sito www.federalismi.it, 6 dicembre 2017; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018, 45 ss.; Id., Il ruolo del giudice amministrativo e i limiti al potere giurisprudenziale di interpretazione, Relazione al Convegno annuale AIPDA, Trento, 5-6 ottobre 2012, in Annuario 2012, Napoli, 2013; Id., Effettività delle norme giuridiche nell’interpretazione giurisprudenziale e tutela del cittadino, in www.giustizia-amministrativa.it; A. Travi, Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, in Dir. pubbl., 1995, 91 ss.; Id., Giurisdizione e amministrazione, in Sindacato giurisdizionale e “sostituzione” della pubblica amministrazione, F. Manganaro - A. Romano Tassone - F. Saitta (a cura di), Milano, 2013; F. Merusi, Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, in Dir. Pubbl., 2007, 430 ss.
[21] Così, espressamente: M.A. Sandulli, intervento al Webinar: “Il processo nell’emergenza pandemica”, svoltosi in data 28 settembre 2020.
[22] Sul punto sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, cit.
[23] R. Ferrara, L’incertezza delle regole tra indirizzo politico e “funzione definitoria” della giurisprudenza in Dir. amm., 2014, 2, 651-693.
[24] A.M. Sandulli, Collegamenti e consequenzialità fra diritti e interessi e relativa rilevanza ai fini delle competenze giurisdizionali, in Gius. Civ., 1958, ora in Aldo M. Sandulli. Scritti giuridici, vol. V, Napoli, 1990, 251 ss.; F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017; M.A. Sandulli, Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva, in Quaderni del Foro amm.-TAR, 1, 2008.
[25] M. Trimarchi, Il divieto di «pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» attraverso il prisma della giurisprudenza, in Foro amm. Cons. Stato, 2, 2013, 1097 ss.
[26] M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in federalismi, Osservatorio emergenza Covid-19, 31 marzo 2020; Id., intervento al Webinar: “Il processo nell’emergenza pandemica”, cit.; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell’emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? Come? ma soprattutto, perché?, in federalismi, Osservatorio emergenza Covid-19, 6 aprile 2020; Id., Il processo cautelare alle prese con la pandemia, intervento al webinar su: «Il diritto amministrativo dopo il Covid-19», 12 giugno 2020, consultabile al sito www.lexitalia.it; N. Durante, Il procedimento cautelare ai tempi dell’emergenza, 19 maggio 2020; C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art. 84 del d.l. 27 marzo 2020, n.18, in www.giustamm.it, 3, 2020; F. D’Alessandri, Le misure cautelari nel regime dettato per limitare il contagio da Covid-19, in Il quotidiano giuridico, 3 aprile 2020; F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, 15 aprile 2020; Id., Il non-processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid-19, consultabile al sito www.giustiziainsieme.it. Più in generale, sull’impatto dell’emergenza da Covid-19 sul processo amministrativo e sulle tecniche di tutela predisposte, di fondamentale rilevanza il Webinar di Modanella, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, svoltosi in data 30 giugno – 1 luglio 2020, su “L’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro”.Infine, per un’analisi statistica e giurisprudenziale dettagliata, specificatamente afferente alla tutela cautelare monocratica erogata nel periodo emergenziale, cfr.: gli approfondimenti tematici, al sito giustamm.it, a cura di: T. Cocchi - B. Gargari - V. Sordi, La tutela cautelare di secondo grado ai tempi del COVID-19. Primissime applicazioni del Consiglio di Stato, 6 aprile 2020; V. Sordi, Una “prima lettura” dei decreti monocratici “derogatori” assunti dai giudici di primo grado, 17 aprile 2020; Id., “Primo monitoraggio” dei decreti cautelari pronunciati dal TAR Lombardia e dal Tar Puglia, 2 aprile 2020; B. Gargari, Effetti concreti dell’art. 84 del decreto Cura-Italia nei decreti monocratici del TAR Lazio, del TAR Piemonte e Tar Veneto, 2 aprile 2020; nonché il Focus tematico: Decreti monocratici emessi nel periodo emergenziale Covid-19, a cura di G. Veltri, al sito della giustizia amministrativa.
Il Cashback di Stato: evidenze empiriche e inquadramento fiscale
di Carlo Amenta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Cashless society ed effetti su evasione - 3. Il cashback: possibile inquadramento fiscale - 4. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
I commi da 288 e 290 della Legge di Bilancio per il 2020 (Legge n. 160 del 27 Dicembre 2019) hanno introdotto anche in Italia le “Misure premiali per utilizzo di strumenti di pagamento elettronici”. Si tratta del meccanismo noto come cashback con il quale il governo italiano ha fatto un passo in avanti verso il traguardo di quella cashless society che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe portare alla scomparsa del contante con effetti benefici sul contrasto all’evasione e ad altre forme di illeciti di natura economica.
Le disposizioni normative, anche alla luce delle modifiche apportate dall’articolo 73 del D.L. n. 104 del 14 agosto 2020, prevedono un rimborso in denaro per le persone fisiche maggiorenni che effettuano acquisti di beni e servizi con l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici, al di fuori dell’esercizio dell’attività di impresa, arte o professione. Il sistema sarà gestito dalla società PAGOPA, partecipata dal Ministero dell’Economia e Finanze che gestisce la piattaforma dei pagamenti pubblici digitali, anche attraverso l’applicazione per i servizi pubblici IO.
Con il decreto n. 156 del 24/11/2020, conseguente all’approvazione da parte del garante della privacy delle disposizioni normative in oggetto, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito condizioni e modalità attuative per il sistema. I cittadini maggiorenni che vorranno aderire al programma potranno scaricare l’app IO indicando le proprie carte di debito, di credito o prepagate, registrate sul circuito Bancomat o Pagopa, da utilizzare per gli acquisti, ad esclusione quindi di quelli online. Il Ministero ha previsto un rimborso in misura percentuale agli acquisti la cui misura varierà per i periodi dal 1 gennaio 2021 al 30 Giugno 2021, dal 1 luglio 2021 al 31 Dicembre 2021 e dal primo gennaio 2022 al 30 Giugno 2022. Per ciascuno di tali periodi avranno diritto al rimborso tutti i privati consumatori che avranno effettuato almeno 50 operazioni di acquisto e la percentuale è fissata, per il primo periodo, al 10% dell’importo di ciascuna transazione, con un limite massimo di 150 € per transazione. Le transazioni superiori a tale soglia vengono considerate comunque pari a 150 € e il rimborso complessivo non potrà comunque superare quello calcolato su un valore delle transazioni pari a € 1.500,00 in ciascuno dei periodi considerati. Il rimborso sarà erogato sul conto corrente il cui IBAN indicato dall’utente in sede di registrazione entro 60 giorni dal termine di ciascuno dei periodi indicati.
Il decreto attuativo indica anche la disciplina del debutto sperimentale per il periodo che va dal primo dicembre al 31 dicembre 2020 e prevede un numero minimo di almeno 10 operazioni nel mese di dicembre, con un rimborso pari al 10% degli acquisti e con i limiti sulle singole operazioni e sul rimborso massimo ottenibile già indicati in precedenza. Il rimborso per il periodo sperimentale sarà erogato nel mese di febbraio 2021. Il decreto prevede anche un “rimborso speciale” pari a 1.500 euro ai primi centomila aderenti che, in ciascuno dei periodi di riferimento indicati dal decreto, avranno effettuato il maggior numero di transazioni regolate con strumenti di pagamento elettronici.
Si tratta, come detto, di una iniziativa finalizzata alla riduzione dell’uso del contante, basata sul presupposto che l’incremento di mezzi di pagamento tracciabili possa portare a una riduzione dell’evasione, con particolare riferimento all’IVA. Nel proseguo del presente contributo mi concentrerò su una analisi di tale presupposto facendo riferimento ad alcune iniziative già adottate in altri paesi. Proverò quindi a inquadrare il cashback da un punto di vista fiscale per capire se c’è il rischio che le somme ricevute possano o meno essere soggette a tassazione, in assenza di una esplicita disposizione normativa in tal senso. Nelle conclusioni aggiungerò qualche riflessione sulla importanza del contante e sulla necessità di preservarne comunque l’utilizzo.
2. Cashless society ed effetti su evasione
L’evasione di imposte e tasse è certamente un comportamento con rilevanti esternalità negative e il fenomeno è oggetto di misurazioni che, per quanto metodologicamente criticabili e spesso basate su presunzioni di difficile riscontro empirico, hanno contribuito a dare evidenza al fenomeno ponendolo spesso al centro dell’agenda politica.
Una stima del tax gap per l’Italia, definito come il divario tra le imposte e i contributi effettivamente versati e le imposte e i contributi che i contribuenti avrebbero dovuto versare in un regime di perfetto adempimento degli obblighi tributari e contributivi previsti a legislazione vigente, è contenuta nella “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale contributiva”, allegata annualmente alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza[1].
Nella relazione 2020 la Commissione incaricata della redazione ha stimato per l’Italia un tax gap complessivo, in media per il triennio 2015-2017, pari a circa 107,2 miliardi di euro, di cui 95,9 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,3 miliardi di mancate entrate contributive. Il tax gap si è ridotto nel 2018 con un peso rilevante della componente legata all’IVA.
L’incidenza del tax gap sul prodotto interno lordo per il 2018 si attesta sul 4,47% anche se è bene ricordare che l’aggregato statistico con cui misuriamo la ricchezza prodotta, contiene già una correzione per tenere conto del peso complessivo dell’economia sommersa.
In un articolo del 2016[2] l’economista americano Kenneth Rogoff sottolinea il ruolo del contante nello sviluppo della “economia criminale”, in ragione del suo utilizzo in tutte le transazioni in cui assume rilievo l’anonimità dei contraenti. Rogoff sottolinea come un crescente numero di evidenze empiriche ha dimostrato che circa il 50% del contante è utilizzato proprio per nascondere le transazioni e nota come la quantità di contante in circolazione, soprattutto nei paesi più sviluppati, ecceda di molto quello che può essere ricondotto ad un suo uso nell’ambito dell’economia legale.
Quanto evidenziato da Rogoff è stato più di recente confermato da Immordino e Russo che, in un articolo del 2018[3], hanno dimostrato, utilizzando dati europei, che l’utilizzo di carte di debito e di credito come strumenti tracciabili di pagamento è negativamente correlato all’evasione dell’IVA. Più in particolare 10 transazioni a testa in più con le carte di debito o credito sono associate a una riduzione dello 0,69 percento dell’evasione di IVA. Gli autori evidenziano come, per una nazione come l’Italia sarebbe possibile ridurre della metà l’evasione Iva con un aumento di 16 transazioni in più pro capite per anno. La media delle transazioni con carta nel nostro paese è di 26 pro capite all’anno quindi è evidente come lo sforzo non sia di poco conto e gli incentivi da dare ai cittadini debbano essere piuttosto consistenti. Se poi si guarda al valore delle transazioni invece che al loro numero, gli autori evidenziano come un incremento di 200 euro nella spesa pro-capite annua pagata con carte di credito o di debito dimezzerebbe l’evasione IVA. Anche in questo caso va evidenziato come il valore medio delle transazioni pro-capite sia intorno ai 78 euro e quindi l’aumento necessario per dimezzare l’evasione IVA è di misura molto rilevante.
Il tema degli incentivi alla riduzione dell’uso del contante e all’aumento delle transazioni con mezzi elettronici, tracciabili dalle autorità preposte ai controlli, diventa quindi centrale. È noto in letteratura il modello collaborativo di evasione delle imposte che si realizza ogni qualvolta il venditore abbia un interesse a concedere uno sconto sul prezzo in caso di utilizzo del contante, se esso è di importo inferiore al guadagno da evasione realizzabile sulla transazione posta in essere[4]. In questo modo l’interesse del venditore a evadere e quello del compratore ad acquistare a un prezzo più basso trovano un equilibrio che si realizza proprio nella conclusione della transazione “in nero”.
Lo strumento del cashback mira quindi ad aumentare il beneficio che il compratore ritrae dall’acquisto con mezzi tracciabili, al fine di rendere più elevata la soglia di “sconto” che il venditore deve concedere in caso di pagamento in contanti e senza documento fiscale, rendendo così più complicato o impossibile il raggiungimento dell’equilibrio sopra descritto. Il venditore dovrebbe infatti applicare uno sconto che comprende anche il beneficio del cashback e quindi difficilmente riuscirebbe a conservare il suo margine di profitto, trovandosi costretto ad accettare il pagamento con mezzi elettronici attraverso i quali il consumatore ottiene anche un beneficio monetario sotto forma di rimborso dallo Stato.
L’italia non è il primo paese ad avere adottato misure di incentivazione di questo tipo. Nel Rapporto “Verso la Cashless Revolution: i progressi dell’Italia e cosa resta da fare”, realizzato dalla European House Ambrosetti per il 2020 e giunto alla quinta edizione, sono raccontate nel dettaglio le esperienze di paesi come Giappone, Grecia e Portogallo. Quest’ultimo è diventato un caso di scuola in quanto ha introdotto sia lo strumento del cashback che quello della lotteria degli scontrini con il quale vengono sorteggiati premi in denaro per chi ha pagato con mezzi elettronici e ha conservato il relativo scontrino. Anche l’Italia ha introdotto tale misura che doveva prendere il via il primo Luglio 2020 ma che è stata differita dal decreto Rilancio (decreto legge n. 34/2020) al primo Gennaio 2021, in considerazione delle oggettive difficoltà degli esercenti legate all’emergenza da Coronavirus.
In Portogallo, nel 2014 sono stati istituiti sia la lotteria degli scontrini (“fatura da sorte”) che il meccanismo cashback, con
uno sconto del 15 per cento detraibile dalla dichiarazione dei redditi. Dall’introduzione di queste misure il Vat gap del Portogallo si è ridotto dal 13,7 per cento del 2014 al 7 per cento stimato nel 2019[5]. Sebbene non sia possibile da queste mere osservazioni inferire alcuna relazione di causalità tra l’introduzione delle misure descritte e il calo dell’evasione relativa all’IVA, uno studio pubblicato nel 2019 sul caso portoghese ha mostrato che queste iniziative rafforzano certamente la volontà degli acquirenti di richiedere fattura e scontrini, supportando la tesi sulla possibile efficacia di questi incentivi monetari[6].
3. Il cashback: possibile inquadramento fiscale
Nella citata normativa italiana non è prevista una esenzione per il rimborso ottenuto in ragione degli acquisti effettuati con mezzi di pagamento elettronici. Resta quindi aperta la questione relativa alla tassabilità di questo beneficio. Lo strumento del cashback è già stato utilizzato da alcuni esercenti ed è stato classificato come uno sconto indiretto e cioè uno sconto su un acquisto, applicato in un momento successivo a quello in cui si è esaurita la transazione che lo ha generato.
Con la risoluzione n. 147/E del 10 aprile 2008, l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto a un esercente che intendeva liquidare a favore del consumatore finale, successivamente all’acquisto di un determinato prodotto oggetto della promozione, il rimborso di una somma di denaro prestabilita secondo le condizioni ed i termini del programma promozionale, la possibilità di emettere la nota di credito ai fini IVA, ai sensi di quanto previsto dall’art. 26 del DPR 633/72. Più in particolare, l’operazione descritta nell’interpello è certamente assimilabile al meccanismo del cashback in quanto dava luogo all’instaurazione dei seguenti rapporti:
1) cessione del bene da parte della società istante al soggetto rivenditore;
2) cessione del bene da parte del rivenditore all'acquirente finale;
3) rimborso, a seguito dell’adesione all’iniziativa promozionale, di una somma di denaro direttamente da parte della società istante a favore dell’acquirente finale.
L’Agenzia ha inquadrato la fattispecie come uno sconto e pertanto, sulla base del sistema adottato che consentiva di determinare in modo univoco il collegamento tra il prodotto assoggettato a sconto e la fattura di vendita originariamente emessa nei confronti del rivenditore, ha riconosciuto la possibilità di emettere la nota di variazione ai fini IVA anche in assenza di coincidenza tra il soggetto che conclude l’operazione, l’esercente, e quello che effettivamente concede lo sconto, il produttore. La risoluzione assume quindi rilevanza perché ci consente di definire come sconto i comportamenti posti in essere, a prescindere dalla identità tra l’esercente e il soggetto che eroga il beneficio.
Nella circolare n. 311 del 1997, l’Agenzia aveva già chiarito come iniziative di questa natura, con accreditamento e disponibilità per il consumatore di somme di danaro corrispondenti al valore degli sconti praticati sui prezzi di acquisto di determinati prodotti o servizi, non potessero essere ascrivibili alle categorie delle operazioni a premio, in particolare quando il valore degli sconti riconosciuti fosse accreditato su un conto personale del consumatore non vincolato ad alcuna particolare scadenza e fosse, quindi, in tal modo, assicurata l'immediata disponibilità delle somme accantonate.
Il meccanismo del cashback quindi, anche nella formulazione ipotizzata dalla legge, sembrerebbe poter essere assimilabile a una vera e propria operazione di sconto anche in assenza dell’identità tra soggetto che lo eroga, in questo caso lo Stato che comunque non assume la veste di fornitore, e l’esercente e non darebbe luogo a vincite relative a concorsi a premio, scongiurando così l’ipotesi di tassabilità delle relative somme. L’art. 67 del TUIR, relativo ai redditi diversi, assoggetta infatti a tassazione, tra l’altro: “d) le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte nonché quelli attribuiti in riconoscimento di particolari meriti artistici, scientifici o sociali;”. L’assimilazione dell’operazione a uno sconto, alla luce della prassi indicata, può quindi fare propendere per la non tassabilità dei benefici derivanti da tali operazioni.
In considerazione dell’utilizzo del termine rimborso nelle norme istitutive del meccanismo sarebbe di certo stata preferibile una esplicita previsione di esenzione, anche in considerazione della natura del soggetto che eroga il rimborso che difficilmente può essere assimilabile al produttore che è oggetto del caso discusso nella risoluzione citata. Il termine rimborso, utilizzato dalle norme istitutive del cashback, è certamente indicativo di una componente positiva e questo può dare adito a interpretazioni difformi da quella qui indicata e maggiormente inclini alla tassabilità dell’importo ricevuto come beneficio. La chiara indicazione normativa sulla natura dei soggetti che possono accedere al beneficio, le persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività professionale o di impresa, mi sembra però risolvere il problema interpretativo alla radice. Il tema della tassabilità dei rimborsi come sopravvenienza appare infatti più circoscrivibile al reddito di impresa o professionale mentre, nel caso del reddito delle persone fisiche, esso è affrontato spesso in riferimento al tema del welfare aziendale e dei fringe benefit e quindi come elemento accessorio dei redditi di lavoro. Gli elementi positivi che sono sganciati dalle categorie di reddito che il TUIR elenca nei primi sei capi del Titolo I sono oggetto proprio del Capo VII del TUIR, dedicato ai “Redditi Diversi”. Negli articoli da 67 a 71, gli unici in cui un componente come il rimborso qui trattato potrebbe trovare la propria collocazione, non c’è alcun riferimento a rimborsi o a risparmi di spese assimilabili al meccanismo qui descritto. Anche per queste ragioni e considerazioni di natura più sistemica quindi, l’interpretazione qui prospettata sembra comunque la più sostenibile, anche alla luce della ratio della norma che si troverebbe certamente indebolita da una riduzione del beneficio monetario connessa alla necessità di tassarlo, con il conseguente aggravio amministrativo per il singolo consumatore che sarebbe disincentivato dal partecipare al programma per evitare onerosi adempimenti fiscali connessi alla eventuale tassabilità del beneficio ricevuto.
4. Considerazioni conclusive
L’evidenza empirica disponibile sembra confermare l’efficacia degli strumenti come il cashback e la lotteria degli scontrini per la riduzione del tax gap, con particolare riferimento all’imposta sul valore aggiunto. Il meccanismo di incentivo che mira a rendere il beneficio economico, dato dall’utilizzo di pagamenti tracciabili, maggiore dello “sconto” che l’esercente può permettersi di concedere a chi paga in contanti e senza richiedere ricevuta o scontrino, può pertanto essere uno strumento utile nella lotta all’evasione fiscale.
Appare evidente che la semplice introduzione dello strumento non può, per magia, portare gli effetti sperati se la misura dell’incentivo e il meccanismo che consente di accedervi non sono costruiti in maniera efficiente.
Da questo punto di vista il cashback all’italiana, anche riconoscendone la non tassabilità delle somme ricevute, sembra scontare qualche problema dal punto di vista della entità del beneficio monetario che è possibile ottenere dal comportamento virtuoso. La percentuale del 10% di sconto sugli acquisti è certamente adeguata ma la limitazione dell’importo massimo della singola transazione e quella sul rimborso massimo ottenibile limitano certamente il beneficio. Se queste limitazioni saranno sufficienti a rendere lo strumento inefficace lo potremo scoprire solo quando avremo dati sufficienti per le valutazioni.
Quanto al meccanismo, la necessità di una registrazione attraverso mezzi digitali come una app e le difficoltà di accesso connesse al possesso di certificazioni dell’identità come lo SPID rendono l’adesione al programma non facile, limitandone fortemente la diffusione e riservandola a fasce di popolazione con competenze non banali. Tali strumenti infatti possono essere più efficaci solo se fortemente diffusi e di facile applicazione e l’attuale configurazione non depone certo a favore di questi aspetti.
Una ultima osservazione riguarda l’atteggiamento complessivo nei confronti dell’utilizzo del contante e l’aspirazione di molti Stati occidentali a diventare delle cashless society al fine di rendere impossibile l’evasione e ridurre al minimo le attività illecite.
Il contante svolge ancora oggi funzioni essenziali per l’inclusione sociale di larghe fasce della popolazione in condizione di quasi indigenza o di grave difficoltà economica. Pensate a quanti individui vivono al margine della società con lavori saltuari e occasionali, i quali difficilmente possono accedere alla rete bancaria e a un conto su cui depositare i loro guadagni. Se ci limitiamo alla lotta alle attività criminali può avere più senso la recente proposta di eliminare i tagli di banconote più elevati che sembrano essere preferiti dai criminali nello svolgimento delle loro attività[7]. L’anonimato connesso all’utilizzo del contante non deve solo essere visto come uno strumento che favorisce le attività illecite ma anche come uno schermo dietro il quale l’individuo può esprimere la propria personalità, attraverso le scelte di acquisto, anche quando i beni o i servizi acquistati non sono facilmente accettati dalla società in ragione della loro distanza da pratiche e comportamenti comuni e accettati. Scelte che sono in contrasto con ciò che è comunemente accettato o considerato “normale” non sono necessariamente illecite o illegali; possono solo essere “sconvenienti”, ma è bene che all’individuo sia sempre lasciato uno spazio personale di espressione al riparo dal giudizio della società. degli altri individui o dell’autorità[8]. In questo senso il contante è certamente uno strumento che amplia i margini di libertà e una società in cui tutti gli acquisti siano tracciabili e controllabili da autorità e soggetti terzi, senza che ciò sia autorizzato espressamente dall’individuo o che abbia la possibilità di scegliere di non farlo, assomiglia troppo alla società che Orwell immaginò nel suo romanzo “1984”. In questo senso anche per la cashless society, di cui il cashback può forse essere considerato un primo strumento di applicazione, potrebbe valere il vecchio adagio: “Stai attento a cosa desideri: potresti ottenerlo”.
[1] https://www.finanze.gov.it/export/sites/finanze/.galleries/Documenti/Varie/Relazione_evasione_fiscale_e_contributiva_-Allegato-_NADEF_2020.pdf
[2] Rogoff K.S. (2016), “Cost And Benefits To Phasing Out Paper Currency”, Working paper 20126, NBER Working Paper Series
[3] Immordino G., Russo F. F. (2018). “Cashless payments and tax evasion”. European Journal of Political Economy 55, 36-43
[4] Cfr. Immordino, Giovanni, Russo, Francesco F., 2017. Fighting Tax Evasion by Discouraging the Use of Cash? Forthcoming Fiscal Studies.
[5] Rizzo L. e Taddei M. (2020), “Cashback di Stato per ridurre l’evasione.”. LaVoce.info del 9/11/2020.
[6] Wilks D., Cruz J. e Sousa P. ““Please give me an invoice”: VAT evasion and the Portuguese tax lottery”, International Journal of Sociology and Social Policy, Vol. 39, No. 5/6, pag. 412-426
[7] Cfr. Sands P.(2016), “Making it Harder for the Bad Guys: The Case for Eliminating High Denomination Notes”, M-RCBG Associate Working Paper Series – No. 52. Harvard Kennedy School, Mossavar-Rahmani Center for Business and Government
[8] Per una disamina delle ragioni contrarie all’eliminazione del contante cfr.: John Cochrane, “Cancel Currency?”, Blog “The Grumpy Economist” del 30 Dicembre 2014; John Cochrane, “A World without cash”, Blog “The Grumpy Economist” del 8 Agosto 2016; Hummel J.R. (2018), “Should Government Restrict Cash?”. Policy Analisys. Numer 855. Cato Institute – Center for Monetary and inancial Alternatives.
Ripensare la (neuro)scienza e la sua influenza sul Diritto penale*[1]
di José Antonio Ramos Vázquez
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il ragionamento neurodeterminista - 3. Neuroscienziati che giocano a fare i penalisti - 4. Problemi metodologici e mereologici del neurodeterminismo - 5. I problemi della Scienza con la “S” maiuscola - 6. Verso una scienza con la “s” minuscola - 7. Conclusioni: il dialogo delle (neuro)scienze con il Diritto penale.
1. Introduzione
In tempo di pandemia, molte persone hanno riscoperto l’imprescindibile ruolo che la scienza (che le scienze) occupa nella nostra società. Abbiamo anche potuto apprezzare l’impatto che, per la salute di tutta la popolazione, deriva dalla presenza di parti dell’opinione pubblica che non si fidano della scienza ed optano per lo scetticismo, se non addirittura per il cospirazionismo.
Stiamo, pertanto, vivendo un’epoca nella quale chiediamo alla scienza di accorrere, ancora una volta, in nostro aiuto. Ed è questo, esattamente, il suo ruolo: aiutare l’essere umano a capirsi meglio per sopravvivere nelle condizioni migliori.
Tuttavia, non conviene sopravalutare la scienza, né convertirla nel faro della nostra vita comunitaria. Qualcosa del genere sta succedendo nell’ambito del Diritto penale quando si parla di neuroscienze. Infatti, durante gli ultimi 15 anni abbiamo assistito ad un crescente interesse per l’impatto delle neuroscienze nella nostra materia, tanto a livello teorico che a livello pratico.
Ad un livello macro, la “divinizzazione della neuroscienza” [2] ha prodotto un ritorno inquietante: quella dell’idea di determinismo. Ad un livello micro, i progressi nelle neuroscienze hanno concentrato il dibattito sul suo valore di prova nel processo penale.
Tutto ciò è stato ampiamente studiato dalla dottrina italiana[3]. Ed ancora, probabilmente, è proprio la dottrina italiana quella che, di più, ha affrontato queste tematiche (soprattutto perché la prassi giurisprudenziale italiana è stata molto più aperta alla prova neuroscientifica di quanto lo è stata, per esempio, quella spagnola[4]). Con il presente lavoro non pretendo, pertanto, di entrare in questioni che sono state dibattute, con grande efficacia e spessore, dalla dottrina italiana, ma si cercherà di contribuire al dibattito da una prospettiva diversa: quella della filosofia del linguaggio e quella della filosofia della scienza.
Infatti, dalla pionieristica opera di Vives Antón[5], parte della dottrina spagnola utilizza (utilizziamo) la filosofia del linguaggio come metodo per ripensare i problemi teorici del Diritto penale (e la sfida neuroscientifica, senza dubbio, è foriera di problemi nella nostra disciplina). Dal suo punto di vista, la filosofia della scienza può offrirci interessanti spunti che ci possano aiutare a comprendere meglio la posizione che proprio la scienza deve occupare nella nostra società. E, naturalmente, tutto ciò si riflette anche sul ruolo che deve avere nel Diritto penale e processuale penale.
Pertanto, nelle prossime pagine, utilizzerò un doppio punto di vista: quello della filosofia del linguaggio, per contrastare l’idea del determinismo neuroscientifico e quella della filosofia della scienza per tentare di (ri)collocare il pensiero scientifico nella nostra società e nella nostra cultura, tratteggiando, infine, una serie di conclusioni che considero di interesse per la riflessione teorica sul Diritto penale e per la pratica giudiziale.
2. Il ragionamento neurodeterminista
Molti neuroscienziati hanno sostenuto che la nostra vita di esseri umani liberi è illusoria e che, in realtà, siamo controllati dal nostro cervello e dalle sue connessioni sinaptiche. Se questo fosse vero, ci troveremmo di fronte a un'idea inquietante, quella di essere “semplici giocattoli di forze esterne”[6]: in questo modo, ogni essere umano sarebbe “una macchina, un grande e sciocco orologio che ha l’impressione di muoversi liberamente, i cui movimenti, però, sono completamente controllati dagli ingranaggi che ha dentro”[7].
Per quello che in questa sede interessa, il determinismo infrange integralmente l’etica ed il Diritto (penale)[8], perché, in fin dei conti, il vero problema della libertà come concetto è “il problema della responsabilità. Come facciamo a capire che possiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni ed incolparci a vicenda?”[9].
Questo dibattito sulla libertà, Diritto penale e neuroscienza ha avuto luogo, in maniera pionieristica in Germania[10], con l'irruzione dei lavori di studiosi come Singer[11], Prinz[12], e Roth[13] che focalizzarono l’attenzione sulla questione del determinismo neuroscientifico e sulla sua possibile influenza nel Diritto penale
Molto sinteticamente, Singer afferma che le percezioni dell’essere umano sono il risultato di processi costruttivi[14] e che la scienza dimostra che non esiste nessuna differenza sostanziale tra il cervello degli uomini e quello degli animali (che l’autore considera chiaramente determinati). Per questo, la conclusione è che, nonostante per ora non sia possibile, nel futuro potremo ridurre il comportamento umano a funzioni cerebrali, perché siamo soggetti alle leggi deterministe che reggono i processi psico-chimici[15].
Per quanto concerne Prinz, costui postula che la libertà non sia scientificamente dimostrabile, e pertanto ci troveremmo di fronte ad una mera istituzione sociale[16], un costrutto che, pur avendo indiscutibili conseguenze sociali (cosa che l’autore espressamente riconosce), non smette di essere una mera produzione culturale.
Da ultimo, Roth, sostiene che l’essere umano non agisce mai liberamente, ma è il cervello a controllare il nostro comportamento. Si tratterebbe di una specie di catena di comando nella quale l’essere umano crederà di essere – per un autoinganno – libero, pur, in realtà, non essendolo assolutamente[17]. E questo perché, come sintetizza Demetrio Crespo, “per lui, la rappresentazione tradizionale secondo la quale la volontà si trasforma nei fatti concreti attraverso un’azione volontaria diretta da un IO cosciente non è che un’illusione, dovuta al fatto della conseguenza della concatenazione dell’amigdala, dell’ippocampo e del nodo ventrale e dorsale, la memoria emozionale dell’esperienza (che lavora in modo incosciente), ha la prima e l’ultima parola su quello che concerne la comparsa dei desideri e delle intenzioni, di modo che le decisioni assunte si formino nel sistema limbico uno o due secondi prima di quando possiamo percepirle in maniera cosciente”[18].
Quest’ultima conclusione di Roth è collegata al celebre esperimento di Libet[19], che era giunto alla conclusione per cui qualunque azione umana cosciente è preceduta da un’attività cerebrale incosciente e non controllata dal soggetto[20]. Di questo esperimento, parlerò brevemente nel paragrafo quattro: a questo punto, una volta condensata in poche righe la posizione scientifica di detti autori, bisogna notare che alcuni di loro sono andati oltre ed hanno tratto conseguenze per il Diritto penale.
3. Neuroscienziati che giocano a fare i penalisti
Singer (che, a proposito, ha palesato le sue perplessità per “lo scarso stupore che hanno mostrato i giuristi” in relazione ai presunti progressi deterministici nelle neuroscienze[21]) ritiene opportuno mantenere la punibilità delle condotte deviante per ragioni di opportunità sociale o, per dir meglio, per ragioni di “autocomprensione della società”. Di fatto, il menzionato autore non crede che sia essenziale smettere di utilizzare concetti come “libertà”, “colpevolezza”, “pena”, etc., proponendo, però, misure educative come sanzione. Per questa ragione, Singer ritiene che, in realtà, si tratta di rendere “più gradevole ciò che già avviene. Muta soltanto l’approccio”[22].
Dal suo punto di vista, Roth, molto più interessato allo specifico settore del Diritto penale (in particolar modo a seguito delle sue collaborazioni con Merkel[23]) sembra sostenere una concezione della sanzione penale quale sostegno all’effettività della norma alla Jakobs, ed afferma che la società “deve in realtà essere capace di infondere nei suoi membri un sentimento di responsabilità verso le proprie azioni; ed in particolare muovendo dall’idea che, senza un tale sentimento di responsabilità , la convivenza sociale viene danneggiata in modo duraturo”[24].
In questo modo, “la proposta politico-criminale di questi autori” – segnala Feijoo Sánchez, riferendosi a Roth/Merkel – “si è concretizzata in una teoria della prevenzione generale positiva, al cui interno, l’apporto delle neuroscienze consentirà di ampliare le possibilità di alternative con fini di prevenzione speciale (per esempio, come alternativa all’ingresso in carcere, un trattamento in centri specializzati per autori violenti, previo consenso del condannato)”[25].
Infatti, la prevenzione e le misure di trattamento sono le idee di base intorno le quali ruota l’idea del Diritto penale dei neuroscienziati deterministi. Cosi, sintetizza Demetrio Crespo, costoro “argomentano la prospettiva di un imprescindibile mantenimento dell’ordine normativo, a prescindere totalmente dall’essere o meno determinati, perché lo Stato deve garantire un minimo di reciproco affidamento, nel senso della prevenzione generale positiva sostenuta da Günther Jakobs, motivo per cui risulta decisivo non tanto se si può (o se è legittimo) sanzionare, ma come farlo. In questo senso, gli autori considerano un’obbligazione morale e giuridica offrire al un ampio ventaglio di misure di trattamento che, nel rispetto del fondamentale diritto alla dignità umana, potranno essere accettate soltanto in maniera volontaria, e non imposte. Solo nel caso in cui non fossero accettate volontariamente, l’alternativa consisterebbe nella pena della multa o della privazione della libertà, esattamente come funziona adesso”[26].
Queste idee preventiviste sono oggetto di critica di una parte della dottrina tedesca. Così, Hirsch, con particolare forza, mette in rilievo che “se si sostituirà la punizione con misure di cura, come si sostiene in un’ottica puramente determinista, non si potranno escludere conseguentemente la sterilizzazione e la castrazione nei delitti sessuali, trattamenti sanitari per indebolire permanentemente gli autori di reati violenti e predatori, interventi chirurgici al cervello, etc. I danni di carattere fisico e psichico in estenuanti campi di prigionia, ampiamenti utilizzati dalle dittature del ventesimo secolo, ci danno un’idea della proposta dei neuroscienziati”[27].
Dal mio punto di vista, vorrei segnalare che non è da escludere che i postulati neurodeterministi in materia penale vadano nella direzione della neutralizzazione o della prevenzione speciale positiva: infatti, eliminata la libertà di azione (e l’io, cioè, la persona come soggetto individuale) come asse prioritario del Diritto penale, ciò che resta è soltanto il sistema, la stabilità e la segregazione.
Questa armonica convivenza tra le idee di neutralizzazione che campeggiano nella politica criminale dei nostri giorni e la Neuroscienza sembra provare la limitata innocenza ideologica di questo eterno ritorno al determinismo. Al contrario, di seguito, cercherò di dimostrare che l’essere umano non è determinato, non è una macchina, non è un elemento in più di un sistema termodinamico. Senza l’affermazione della libertà, non solo collassa il nostro mondo, ma inoltre viene meno l’attesa di un Diritto penale rispettoso dei principi illuministici. E questa affermazione della libertà può realizzarsi perfettamente dal punto di vista della filosofia del linguaggio.
4. Problemi metodologici e mereologici del neurodeterminismo
Dato che l’esperimento di LIBET è il simbolo, per così dire, della negazione della libertà nella neuroscienza attuale, comincerò questo paragrafo, dedicato ai problemi metodologici che pone la visione neurodeterminista, segnalando che proprio il Libet non era determinista ed aveva sempre rinnegato le visioni anti libertarie dei suoi esperimenti (che sono proprio questo, esperimenti scientifici e non teorie sull’essere umano).
Infatti, il problema fondamentale delle conclusioni che si è soliti trarre dall’esperimento di Libet non è se ci sono – o meno – concrete condizioni neuronali che ci indicano l’esistenza o no della volontà, ma se possiamo trarne una conclusione determinista. Inoltre, in un lavoro del 1999, detto scienziato fa una serie di puntualizzazioni sui lavori anteriori che ci servono, tra l’altro, per dimostrare che nemmeno lui si sarebbe citato come base per una concezione determinista dell’essere umano. Di fatto, l’autore sostiene che il determinismo è una credenza speculativa, non una proposizione scientifica dimostrata e che l’esistenza della libertà d’azione “è un’opzione scientifica valida almeno quanto, se non di più, della sua negazione da parte della teoria determinista”[28].
Ciò detto, vorrei premettere in primo luogo, sorvolando altri problemi metodologici, che esiste una confusione di fondo nel dibattito sul neurodeterminismo. Utilizzerei, a questo punto, un ampio passaggio di Bennett e Hacker che, a mio avviso, riporta la discussione nei suoi giusti termini:
“Le domande empiriche sul sistema nervoso sono il campo della neuroscienza. Il compito di questa è stabilire gli accadimenti relativi alle strutture ed alle operazioni neurali. È funzione della neuroscienza cognitiva spiegare le condizioni neurali che rendono possibile le funzioni percettive, cognitive, cogitative, affettive e volitive. Le indagini sperimentali confermano o mettono in discussioni tali teorie esplicative. Al contrario, le domande concettuali (quelle che, per esempio, si riferiscono ai concetti della mente o memoria, pensiero o immaginazione), la descrizione delle relazioni logiche tra i concetti (come quelle che esistono tra i concetti di percezione e sensazione o tra coscienza ed autocoscienza) e l’esame delle relazioni strutturali all’interno dei diversi campi concettuali (per esempio, in quello psicologico e neurale o in quello mentale e del comportamento), sono il campo di discussione proprio della filosofia.
Le domande concettuali precedono le questioni di verità o falsità. Sono domande che riguardano le nostre forme di rappresentazione, non la verità o la falsità delle affermazioni empiriche. Queste forme sono presupposte nelle affermazioni scientifiche veritiere (ed in quelle false) e nelle teorie scientifiche corrette (o sbagliate). Non determinano ciò che è empiricamente valido, ma ciò che ha senso e ciò che non lo ha. Da qui le domande concettuali non sono rilevanti né nella ricerca e sperimentazione scientifica, né nella teorizzazione scientifica, perché queste ricerche e teorizzazioni presuppongono i concetti e le relazioni concettuali in questione”[29].
Infatti, non è che esista un conflitto tra le conclusioni delle due discipline, ma due logiche di ricerca diverse, ove quella filosofica stabilisce, in qualche modo, le regole del gioco di quella scientifica.
In questo senso, un’affermazione chiara e categorica come “credo che l’essere umano sia libero”, ha due opzioni di risposta: “In base a quali prove?” o “libero, ma in che senso?”. La prima, ovviamente, esige la presentazione di qualche tipo di evidenza empirica. La seconda richiederebbe, in cambio, un chiarimento concettuale.
Ma la libertà implica una certa immagine del mondo, di modo che “mal potrebbe affermarsi o negarsi a partire da dati empirici, dal momento che si tratta di vedere il mondo in un modo o in un altro”[30]. Di tal modo, se la neuroscienza pretende di svelare il “mistero” della libertà, credo che incorra in un equivoco, perché non esiste tale “mistero” e, se dovesse esistere, non sarebbe risolvibile scientificamente, in quanto non è possibile un riscontro empirico. Credo che nessuno ritenga seriamente di poter dire “solo se si scopre una cosa o l’altra sono libero” (o al contrario: “sono libero finché la scienza non mi dimostra il contrario”). Non è la scienza che può dimostrare la libertà. Né, tantomeno, la non-libertà.
Per esempio, tornando all’esperimento di Libet, al quale sistematicamente si ricorre come “prova” del fatto che non esiste la decisione volontaria, non si rinviene nulla che, dal mio punto di vista, costituisca un criterio per stabilire se l’uomo sia libero o no. E nemmeno su cosa significa “prendere una decisione”. Impulsi cerebrali o connessioni sinaptiche non possono essere chiamati comprensibilmente “decisioni”. Non è questa la grammatica del “decidere”[31].
Detto questo, e come chiaro esempio, a mio avviso, dei problemi concettuali che pone la visione dell’essere umano che ci offrono i neuroscienziati, si può dire che in molte occasioni, la maggior fonte di mistificazione nonché uno dei più sediziosi misteri del cervello, è quello di ascrivere attributi psicologici al cervello in sé stesso considerato, invece che all’essere umano.
Infatti, molti neuroscienziati attribuiscono al cervello o, anche, a sue parti, qualità che usualmente attribuiamo soltanto all’essere umano. Alcuni esempi:
“Quello che vedi non è realmente quello che esiste: è ciò che il cervello crede che esista (…) Il cervello elabora la migliore interpretazione che può d’accordo con la sua esperienza pregressa e la limitata ed ambigua informazione che gli occhi gli forniscono”[32].
“Tali neuroni possiedono la conoscenza. Possiedono l’intelligenza, ed inoltre sono capaci di calcolare la probabilità degli eventi esterni”[33].
“Possiamo considerare l’atto di vedere come una ricerca continua di risposte a domande formulate dal cervello. I segnali che provengono dalla retina sono messaggi che trasmettono risposte. Successivamente, il cervello utilizza questa informazione per costruire ipotesi adeguate in merito”[34].
Come vediamo, il cervello ci inganna, interpreta, cerca, costruisce ipotesi etc. Questa parte del nostro corpo ha, pertanto, secondo questa prospettiva, qualità che normalmente applichiamo all’essere umano nel suo insieme. Ed inoltre, anche le parti di detto organo (i neuroni), hanno conoscenza ed intelligenza.
Il problema di questa visione è che incorre nell’errore mereologico, lo stesso che già Aristotele, denunciava nel IV secolo a.C.[35], ovvero l’errore consistente nell’attribuzione alle parti di qualità che sono esclusive del tutto.
In questo senso, ritengo fondamentale precisare che l’ascrizione di attributi psicologici al cervello non ha senso, è concettualmente inappropriata e fonte di importanti confusioni metodologiche.
Sottolineano, per esempio Bennett e Hacker: “Chiameremo “principio mereologico” nelle neuroscienze il principio per cui i predicati psicologici applicabili unicamente ad un essere umano (o ad altro animale) nella sua totalità non si possono applicare, in maniera intellegibile alle sue parti, per esempio, al cervello (...) i predicati psicologici si applicano paradigmaticamente all’essere umano (o animale) come un tutto e non al corpo ed alle sue parti”[36].
Ad esempio, conviene sottolineare come molte espressioni, tra le quali spiccano i termini psicologici, sono attribuibili stricto sensu solo agli esseri umani e questo per la semplice ragione che i criteri di applicazione di tali espressioni sono determinati comportamenti in contesti specifici analizzati dal punto di vista di un complesso e ramificato background manifestato nel comportamento.
Un corollario evidente di questa premessa è che non ha senso attribuire sentimenti, pensieri, capacità sensoriali etc. – tranne, ovviamente, nell’ipotesi di un uso metaforico o metonimico del linguaggio – né ad esseri inanimati né al proprio corpo umano né ad alcuna delle sue parti (ed in particolare il cervello), né, a fortiori, alle parti delle parti (per esempio i neuroni).
“Solo di ciò che si comporta come un essere umano” – ci dice Wittgenstein – “si può dire che prova dolore”[37]. E questo è un principio, come ben sottolinea Hacker, grammaticale, “non una generalizzazione empirica o una necessità metafisica”[38].
Infatti, non è un fatto empirico che sia la persona ad avere fame e no, ad esempio, il suo stomaco. Non è nemmeno un principio metafisico, derivante dall’essenza del corpo umano che è la persona che ragiona e non il suo cervello. Ad escludere l’attribuzione della presa delle decisioni al cervello è la grammatica: non esistono condizioni di applicazione per l’uso corretto de “il suo cervello ha preso una decisione”.
Applicando questo concetto alla neuroscienza ed alle sue scoperte, la conclusione è evidente: la comprensione di un testo, il calcolo, la percezione del mondo reale e, ciò che qui interessa, la decisione volontaria, sono, ci viene detto, “operazioni cerebrali”, però ha poco senso dire “la mia mente ha mal di denti” così come che il mio cervello percepisce la realtà, costruisce ipotesi o prende decisioni 800 millisecondi prima che lo faccia io. Questi sono predicati riferiti agli esseri umani, applicati sulla base di un comportamento sofisticato e presupponendo capacità complesse.
Il cervello non “vede” più di ciò che “vede” la mente, perché sono io che vedo. Qualcuno può dire: “aspetta un attimo e ti do la risposta”, però non potrà dire “aspetta un attimo che il mio cervello mi dà la risposta e, dopo, io la do a te”[39]. E nemmeno avrebbe senso che Lei, caro lettore, dicesse “il mio cervello sta leggendo questo lavoro” o “il cervello del Professor Ramos mi sta annoiando” (o che io dicessi che il mio cervello ha deciso da solo di scrivere questo lavoro ed io gli sto obbedendo).
Per questo, come accennavo poc’anzi, vorrei avvertire del pericolo di considerare il cervello come una specie di entità che riunisce una serie di capacità che non ha. E, insisto, non le ha non perché ho una scoperta scientifica da rivelare in questo momento, ma perché non è concettualmente corretto affermarlo. E i problemi sono maggiori di quanto sembrano: enunciare frasi come “il cervello decide in ogni momento quali azioni realizziamo” significa attribuire al cervello qualità che non ha, ed all’essere umano un’essenza che non è la sua.
In sintesi, il cervello non è un soggetto logicamente appropriato per attribuirgli predicati come, per quanto qui di interesse, il “decidere”. E, ovviamente, tanto questa attribuzione quanto l’idea che decida per noi (stabilendo una cesura tra noi ed i nostri cervelli) o che ci inganni sono forme degenerate di cartesianesimo.
Ancora, tenendo in conto che la peculiarità dell’agire umano non è qualcosa di fisico, ma di contestuale, sembra chiaro che né un determinato stato cerebrale può assurgere a criterio di un determinato comportamento, né il linguaggio dei termini psicologici è quello della neurofisiologia. Quindi, sebbene i fenomeni psicologici possano essere dedotti da quelli neurologici, non potranno da questi essere spiegati[40], perché ciò che attribuisce un significato a qualsiasi prodotto del mio cervello è qualcosa che ne è completamente esterno[41].
In questo senso, quando i neuroscienziati affermano che quando una persona prende una decisione qualcosa succede nel suo cervello e che, pertanto, ciò costituisce un criterio del “decidere”, stanno palesando, secondo me, un’enorme confusione sul concetto di comportamento in generale e sui criteri per agire e per prendere una decisione in particolare.
Ciò detto, devo aggiungere che, in realtà, il problema di fondo è ritenere che la scienza sia capace di offrirci verità assolute. Infatti, abbiamo convertito la scienza nella “nostra religione preferita”[42]. Per questo, in secondo luogo, mi pare opportuno approcciarsi, dal punto di vista della filosofia della scienza, a come collocare la scienza nell’ambito dei molteplici modi che noi uomini abbiamo di intendere il mondo. E ciò perché, come disse addirittura Einstein: “La scienza senza epistemologia è primitiva e confusa”[43].
5. I problemi della Scienza con la “S” maiuscola
Certamente, non è facile da catturare l’essenza di questo “organismo complesso e cangiante”[44] che chiamiamo scienza, soprattutto perché “l’indagine scientifica è la ricerca di un ideale irraggiungibile: l’ideale di una scienza perfetta, che ci consente una versione veritiera e completamente adeguata di come funzionano le cose nel mondo”[45].
Il mio scopo in questo paragrafo è negare l’esistenza di detta scienza perfetta (con la “S” maiuscola) e, come non potrebbe essere altrimenti, dovrò far riferimento, in primo luogo a Thomas S. Kuhn, che, in qualche modo, ha innescato la discussione sul concetto di scienza e su come si svolge il lavoro scientifico con la sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (pubblicata originariamente nel 1962), affermando come la scienza sia altamente permeabile a considerazioni ideologiche, quando non solo di convenienza o di estetica.
Kuhn, infatti, sostiene che – dopo il periodo prescientifico –, la Storia della Scienza ci dimostra che esistono due fasi: la fase della scienza normale, cioè, quel periodo nel quale c’è una “ricerca basata saldamente su uno o più conquiste scientifiche passate, conquiste che qualche particolare comunità scientifica riconosce, per un certo tempo, come fondamento della sua pratica successiva”[46], e i periodi di crisi, che portano a rivoluzioni scientifiche (che, a loro volta danno luogo ad un nuovo periodo di scienza normale).
I periodi di scienza normale sono, pertanto, quelli che conformano la maggior parte dell’attività scientifica, ed in questi periodi i lavori di ricerca si sviluppano sotto un paradigma. Un paradigma è, innanzi tutto, un modello teorico che risolve alcuni problemi scientifici di rilievo e che serve come esempio per tentare di risolvere altri problemi diversi. Ma, in senso più ampio, i paradigmi includono “altri componenti di tipo assiologico, metodologico e ontologico che sono il segno distintivo di una comunità scientifica”[47]. Così, insomma, “un paradigma è ciò che i membri di una comunità scientifica condividono e, a sua volta, una comunità scientifica è composta da uomini che condividono un paradigma”[48].
Tuttavia, quando non tutti i fenomeni sono spiegabili in maniera coerente con il paradigma, quando questo non è capace di assorbire ulteriori anomalie, la scienza normale entra in crisi: la comunità scientifica smette di intendere il paradigma come un dogma, rivede i presupposti del suo lavoro e sorge la scienza rivoluzionaria.
Le crisi, pertanto sono una condizione pregressa e necessaria per la nascita di nuove teorie ed il cambio del paradigma è una sorta di battaglia tra gruppi di scienziati che cercano di imporre un nuovo paradigma – da un lato – o di evitare l’abbandono del vecchio – dall’altro.
Quando nasce un nuovo paradigma, quando infine scalza quello vecchio, si produce la rivoluzione scientifica, che altera il modo stesso di pensare degli scienziati, poiché queste nuove scoperte devono esprimersi in concetti non articolabili nel vecchio paradigma. Per lo stesso motivo, “la violazione o la distorsione di un linguaggio scientifico che prima non era problematica è la pietra di paragone di un cambiamento rivoluzionario”[49].
Ma il cambiamento rivoluzionario porta con sé una modifica ancora più importante del corso normale del lavoro scientifico: se nei periodi di scienza normale esiste una crescita, un’aggiunta cumulativa di conoscenza, la scienza rivoluzionaria non è cumulativa. Il progresso scientifico, pertanto, si genera attraverso queste rivoluzioni (e non in modo cumulativo, come se fosse una linea ininterrotta di progresso), quando avviene la sostituzione di un paradigma con un altro, valutando nuove problematiche, nuovi metodi e nuove concezioni del mondo[50].
Di conseguenza, il recepimento di un nuovo paradigma, frequentemente, rende necessaria una ridefinizione della scienza corrispondente. Taluni problemi antichi possono essere relegati ad un’altra scienza o esser dichiarati, completamente, privi di scientificità. Altri che prima erano banali o inesistenti, possono divenire, con un nuovo paradigma, gli archetipi stessi della conquista scientifica. E, mutando i problemi, allo stesso tempo mutano, spesso, le regole che servono per distinguere una soluzione scientifica reale da una semplice speculazione metafisica, da un gioco di parole, da un gioco matematico. Così, afferma Kuhn, “la tradizione scientifica normale che nasce da una rivoluzione scientifica è non solo incompatibile ma, spesso, anche davvero incomparabile con quella che esisteva prima”[51].
Pertanto, i cambi di paradigma (le rivoluzioni) nascono dallo scontento e si impongono per la forza persuasiva dei loro sostenitori dentro la comunità scientifica stabilita. E, una volta imposto il nuovo paradigma, modificando tutta la cosmovisione associata al passato, entrambe le teorie divengono incommensurabili, cioè, dato che il significato di un termine scientifico viene dato dal ruolo che occupa in una data teoria e dal sistema di relazioni concettuali che si stabilisce tra detto termine e i restanti termini del paradigma, non esiste una base puramente osservazionale che serva come fondamento neutrale per dirimere la lotta tra paradigmi, poiché ogni osservazione presuppone la validità della teoria data. Vale a dire, è impossibile comparare in modo dettagliato, oggettivo e neutrale il contenuto delle teorie in funzione dell’evidenza empirica, con il fine di determinare quale sia definitivamente superiore o più veritiera[52].
Nonostante Kuhn abbia poi chiarito molto la sua posizione originaria, l’impatto di queste idee è stato enorme nella discussione filosofica e scientifica della seconda metà del XX secolo.
Infatti, l’opera di Kuhn pone in una posizione molto delicata non solo il dogma del superamento delle teorie per la loro migliore corrispondenza ai fatti, ma la stessa razionalità dell’impresa scientifica. Rispetto al primo profilo, ricorderemo che i paradigmi sono incommensurabili e non c’è modo di comprendere quale di loro spieghi meglio il mondo. Inoltre, il proprio mondo cambia in ogni paradigma, nel senso che gli scienziati di diversi paradigmi guardano il medesimo mondo, però vedono cose diverse. Rispetto al secondo profilo, questa ombra di irrazionalità sussiste nel fatto che è il condizionamento personale dei componenti della comunità scientifica che, alla fine, determina la vittoria di uno o dell’altro paradigma. I tentativi di Kuhn per puntualizzare questa affermazione non convincono: la sua idea che le teorie scientifiche successive siano migliori nel risolvere enigmi è contradditoria con la sua idea che ciò che si intende come enigma dipende dal paradigma[53].
Nella mia opinione, Kuhn individuò correttamente – d’accordo con quanto la Storia ci dimostra – il carattere poliedrico dell’impresa scientifica e dei cambi del paradigma. Ma non riuscendo a trovare una logica razionale a tutto questo, sembra, infatti, che ci immerga in un mondo di relativismo e irrazionalità.
6. Verso una scienza con la “s” minuscola
Si è soliti postulare una Scienza con la S maiuscola dalla quale gli scienziati (e non solo loro, ma anche molte persone comuni) pretendono di trarre conclusioni assolute sull’esistente e sui noi stessi. Però la Storia non ci dimostra questo, né l’idea di una scienza assoluta (per chiamarla così) si può sostenere razionalmente, al punto che non esiste un accordo sufficientemente consolidato su cosa sia la scienza.
Diceva Wittgenstein: “quello da cui mi difendo è il concetto di un’esattezza ideale che ci sarebbe stata data a priori, per così dire. In epoche diverse son diverse le nostre idee sull’esattezza: e nessuna è quella superiore”[54]. Noi, in cambio, rimaniamo ancora dell’idea – ereditata dall’emergere della meccanica newtoniana – della precisione assoluta, del sapere globale, del progresso illimitato; idea che trova la sua origine nella “illusione trascendentale” kantiana, ovvero che è possibile una conoscenza assolutamente oggettiva, indipendente dal contesto e dalla prospettiva del soggetto che conosce – e che questa sedicente conoscenza oggettiva la può offrire la scienza[55]- E, da lì, affermano Jáuregui Balenciaga e Méndez Gallo nasce l’idea che la scienza “è indipendente dall’essere, si trova al di sopra di lui. In altre parole, la scienza è la nuova forma di trascendenza, di religiosità, di spiritualità”[56].
Tutto questo, però, non è per dire che la scienza non contribuisca in modo decisivo alla conoscenza umana, né che è impossibile determinare quali teorie contribuiscano maggiormente a questo obiettivo e quali meno. Però, in tutti i casi, il lavoro scientifico e il suo status epistemologico devono essere intesi nei loro giusti termini come, credo, faccia Toulmin. Afferma detto autore, come premessa, che “gli uomini dimostrano la loro razionalità, non ordinando i propri concetti e convincimenti in rigide strutture formali, ma per la predisposizione a rispondere a situazioni nuove con spirito aperto, riconoscendo i difetti delle proprie procedure e superandole. Qui, nuovamente, le nozioni fondamentali sono quelle di “adattamento” ed “esigenza”, piuttosto che quelle di “forma” e “validità””[57].
Vale a dire, l’attività scientifica è una delle nostre imprese collettive di conoscenza ed il problema della razionalità non deve essere collocato nell’argomentazione logica o nei sistemi concettuali, ma nel contesto delle attività umane.
Infatti, “invece di essere i concetti sociali e politici totalmente diversi dai concetti delle scienze naturali, come inizialmente si potrebbe supporre, le relazioni tra teoria e pratica nella scienza e nella politica sono molto simili. In entrambi i casi, l’insorgere di un nuovo concetto importante è preceduto dal riconoscimento di nuovi problemi ed è associata all’introduzione di nuove procedure per affrontare questi problemi. In entrambi i campi, i cambiamenti successivi nell’applicazione di questi concetti vanno associati al progressivo affinamento o alla crescente complicazione del suo significato. E, in entrambi i campi, la “razionalità” dell’insieme delle procedure o delle istituzioni esistenti dipende dal margine che esiste per criticarli e modificarli dall’interno della medesima impresa”[58].
Ciò detto, Toulmin attacca l’idea per cui i termini utilizzati nelle teorie scientifiche si riferiscono direttamente a classi di oggetti naturali e che le sue proposizioni generali affermano o implicano direttamente “generalizzazioni empiriche universali” su detti oggetti naturali. Infatti “la conoscenza empirica che una teoria scientifica ci fornisce è sempre la conoscenza che qualche procedura generale di spiegazione, descrizione o rappresentazione (specificata in termini astratti, teorici), può essere applicata con successo (in modo specifico e con un particolare grado di precisione, discriminazione o accuratezza) ad una classe particolare di casi (precisati in termini concreti, empirici)” in modo che “nella scienza, il significato è mostrato dal carattere di una procedura esplicativa; e la verità, dal successo degli uomini nel trovare applicazioni per questa procedura”[59].
Quest’ultimo argomento mi risulta particolarmente suggestivo, perché ci conduce dalla ragione teorica alla ragione pratica, che è dove – credo – debba risiedere tutta l’attività scientifica (e, in generale, qualsiasi tentativo di migliorare la nostra conoscenza dell’essere umano). Dopo tutto “ragione e pratica non sono due realtà diverse, ma sono parte di un unico processo dialettico”[60].
In conclusione, Toulmin propone di sostituire la razionalità classica per l’atteggiamento di ragionevolezza, ponendo in relazione questa attitudine con l’esame delle basi della conoscenza. Così che “ciò che qualifica come razionale il lavoro di uno scienziato non è la sua competenza nella gestione formale dei concetti e degli argomenti stabiliti, ma la sua disposizione a concepire, esplorare e criticare nuovi concetti, argomenti e tecniche di rappresentazione, come modi di affrontare i problemi principali della scienza di cui si occupa”[61].
Per riassumere: argomentare, giustificare e ragionare criticamente sono le attività basiche di qualunque scienziato che prende seriamente il proprio lavoro. E questo significa: uno scienziato lo è realmente nella misura in cui è capace di mettere in discussione le verità assunte nel suo contesto storico. Galileo e Copernico sono passati alla Storia per aver annientato il geocentrismo dell’epoca, ma non fu un processo facile, né ebbero la comprensione dei loro contemporanei (di fatti, molti secoli prima Aristarco aveva già proposto l’eliocentrismo, senza risultato); Newton passò alla Storia per la posa delle basi della scienza moderna, ed Einstein per liquidarla. Se chiunque di loro avesse creduto che la scienza fornisse verità universali, oggettive ed eterni, non avremmo avuto alcun progresso scientifico negli ultimi 500 anni.
7. Conclusioni: il dialogo delle (neuro)scienze con il Diritto penale
Come appena visto, il problema dell’ideologia scientifica (perché la scienza è anche ideologia) risiede nella sua pretesa di costituirsi come un metadiscorso (al di sopra della conoscenza, delle ideologie e delle opinioni particolari). Ciò nonostante, nella mia opinione, procedure, ragionevolezza, argomentazione e giustificazione (e no oggettività, verità, ecc.) devono essere le linee guida di tutto ciò che aspira ad essere considerato scienza.
Deve essere rifiutata, pertanto, con fermezza, la pretesa degli scienziati di imporre un’asserita superiorità epistemologica della scienza e di sottomettere tutto il ragionamento ad una sedicente verità scientifica. La scienza non è uno stato univoco del sapere umano, ma un conglomerato di teorie che sono scartate o accettate in una determinata epoca.
Questo, credo, si possa osservare molto bene al giorno d’oggi, in un anno, il 2020, nel quale stiamo vivendo una pandemia della quale la scienza ci ha detto gradualmente le caratteristiche, però con contraddizioni ed errori (come, difatti, è proprio del funzionamento della scienza): si trasmette via aerosol o tramite le superfici? Chi guarisce dal Covid-19 è immunizzato per sempre o solo per un periodo limitato? Ci sono gruppi sanguigni più propensi a contrarre la malattia?
Chiedere alla scienza che, da subito, dia risposte chiare ed incontrovertibili ad una pandemia è chiedere troppo. I suoi risultati sono provvisori, soggetti a dibattito, possono cambiare, come il nostro mondo. Non è affatto come quella scienza contemporanea che, molte volte, produce un discorso privo di ogni traccia di umanità, di dialogo, di retorica, di intersoggettività. E quando la scienza ha pretese eccessive, porta con sé il germe di un totalitarismo potenziale. Cioè, “non è che la scienza è totalitaria, però va in quella direzione soprattutto perché il metodo scientifico rafforza la confusione tra il mondo della scienza e il mondo della vita (…) Inscriversi nel discorso scientifico è perdere la connessione dell’essere umano con il mondo, con l’esperienza”[62]. Però è possibile recuperare questa connessione della scienza con l’essere umano, anche nel contesto qui trattato, quello della neuroscienza.
Quindi, ricapitolando:
i) Le neuroscienze fiorirono alla fine del XX secolo, con una serie di scienziati che mantennero “atteggiamenti entusiastici che hanno preannunciato prematuramente l'avvento di un progresso che non si è visto”[63]. Fra queste affermazioni entusiaste, c’era quella che aveva scoperto che l’essere umano è determinato a causa del suo cervello e, pertanto, mai prende decisioni libere (paragrafi 1 e 2).
ii) A parte detto ottimismo circoscritto all’ambito strettamente scientifico, molti neuroscienziati traslarono detta conclusione (quella del determinismo) nell’ambito del Diritto penale, proponendo l’eliminazione del concetto di azione libera e un Diritto penale basato sulla neutralizzazione e sulla prevenzione generale positiva (paragrafo 3).
iii) ciò nonostante, il determinismo neuroscientifico non si può sostenere dal punto di vista della filosofia del linguaggio. Affermare che il cervello prende decisioni prima che noi o che i nostri neuroni ci dominino, equivale a commettere un errore mereologico (paragrafo 4).
iv) Il neurodeterminismo parte da una precisa idea di scienza che lo considera un metodo per trovare verità oggettive, incontrovertibili e permanenti, quando la riflessione teorica dell’ultimo secolo sulla scienza scarta completamente l’idea che questa sia capace di offrire dette verità (paragrafo 5).
v) La scienza, in realtà, è una delle molte strade che l’essere umano ha per ottenere la conoscenza, d’accordo con i suoi interessi e con le peculiarità della sua forma di vita. Un modo di spiegare non già la realtà immutabile ed oggettiva, ma la nostra realtà contestualizzata e mutevole (paragrafo 6).
Per questo, una volta escluso che le neuroscienze siano in grado di giungere alla conclusione che noi siamo determinati dal nostro cervello, e ridimensionato il suo ruolo, credo che debbano svolgere un compito più modesto, però, senza dubbio, molto utile nel Diritto (processuale) penale.
Così, in un recente articolo intitolato “Responsabilità penale e neuroscienza: ancora non c’è stata la rivoluzione”[64], Bigenwald e Chambon concludono in questi termini: “lontane dall’essere una rivoluzione, le neuroscienze dimostrano di apportare più benefici quando entrano in uno sfumato dialogo con il Diritto per aiutare i tribunali nella loro funzione di ricerca della verità (...) Sebbene Neurolaw evoca spesso una neuroscientificazione del Diritto, può, più correttamente, riferirsi ad una giuridicizzazione della neuroscienza, cioè, un ragionamento giuridico che integrerebbe ed applicherebbe scoperte scientifiche nella giustizia penale ”[65].
Condivido questa opinione e vorrei trarne una conclusione molto simile: le neuroscienze non possono arrogarsi la capacità di cancellare il Diritto penale con le loro sedicenti scoperte deterministe. Né i neuroscienziati devono giocare a fare i penalisti o gli ideatori della politica criminale (allo stesso modo in cui nessun giurista indica agli scienziati come raggiungere i suoi obiettivi della ricerca). Però possono e devono essere d’aiuto, nel processo, e con gli scopi propri del Diritto penale, per aiutare a comprendere meglio la condotta del soggetto giudicato e la sua riconducibilità o meno all’interno dei parametri concettuali che i giuristi utilizzano (colpevolezza, dolo, imputabilità, etc.). E questa funzione non è affatto di minor rilievo, perché presuppone, né più né meno, di collaborare in una delle più importanti funzioni della nostra vita sociale: accertare i fatti ed affermare la responsabilità che un soggetto ha a causa delle proprie azioni di fronte alla collettività.
Ai (neuro)scienziati a cui tutto ciò sembra poco, vorrei ricordare l’opinione di uno scienziato di spessore come fu Erwin Schrödinger:
“Quindi, qual è, per Te, il valore della scienza naturale? Rispondo: il suo scopo, portata e valore sono gli stessi di qualunque altro ambito dell’essere umano. Però nessuno di loro da solo, ha uno scopo o un valore se non procedono unitamente. E questo valore ha una definizione molto semplice: obbedire al comando della divinità delfica conosci te stesso”[66].
* Traduzione di Giuseppe Amara – Procura Modena;
[1] Il presente lavoro si inserisce nel progetto di ricerca “Diritto penale e comportamento umano” (RTI2018-097838-B-I00) patrocinato dal Ministero della Scienza, Innovazione ed Università della Spagna (IP: Prof. Dr. Eduardo Demetrio Crespo). https://blog.uclm.es/proyectodpch/
[2] BENNETT, M., “Neurociencia y filosofía”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, p. 74.
[3] Il lettore italiano conoscerà, senza dubbio, molto meglio del Sottoscritto, le seguenti opere per le quali, si rimanda senz’altro a GRANDI, C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappichelli, Torino, 2016; più recentemente, con la medesima efficacia: GRANDI, C., “Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, Diritto penale e uomo, 4/2019; GRANDI, C., “Neuroscienze e capacità di intendere e volere: un percorso giurisprudenziale”, Diritto penale e proceso, 2020-1, pp. 24 y ss. In tali opere, il lettore troverà, non solo un ampio elenco bibliografico, ma anche un’esposizione dettagliata e ricca dei problemi che le neuroscienze incontrano nel diritto penale.
[4] Per la dottrina spagnola rinvio, senza dubbio al volume DEMETRIO CRESPO, E. (dir.), Neurociencias y Derecho penal: Nuevas perspectivas en el ámbito de la culpabilidad y del tratamiento jurídico-penal de la peligrosidad, Edisofer / BdeF, Madrid / Buenos Aires, 2013, dove si trovano riferimenti ad opere di neuroscienziati e penalisti tedeschi e spagnoli.
[5] VIVES ANTÓN, T. S., Fundamentos del sistema penal, Tirant lo Blanch, Valencia, 1999.
[6] NOZICK, R., Philosophical explanations, Harvard University Press, Cambridge, 1981, p. 291.
[7] BLANSHARD, B., “En defensa del determinismo”, en HOOK, S. (ed.), Determinismo y libertad, Fontanella, Barcelona, 1969, p. 25.
[8] In questo senso, GAZZANIGA (in GAZZANIGA, M. S., “La neurociencia en el sistema judicial”, Investigación y ciencia, 60, julio 2011, pp. 24 y ss.) afferma che l’inesistenza della libertà (che crede conseguenza necessaria delle ultime scoperte neuroscientifiche) deve portarci ad un ripensamento di tutto il Diritto penale e dei nostri criteri per accertare le responsabilità ed irrogare pene (GAZZANIGA, “La neurociencia en el sistema judicial”, cit., p. 28).
[9] TUGENDHAT, E., Antropología en vez de metafísica, Gedisa, Barcelona, 2008, pp. 39 y 40.
[10] Per quanto riguarda la dottrina tedesca, cfr., per esempio, GÜNTHER, K., “Hirnsforschung und strafrechtlicher Schuldbegriff”, KJ, 39, 2006, pp. 116 y ss.; HASSEMER, W., “Haltet den geborenen Dieb!”, Frankfurter Allgemeiner Zeitung (15.06.2010) – che invita a resistere ai "canti delle sirene" delle neuroscienze -; KRAUß, D., “Neue Hirnforschung – Neues Strafrecht?”, en MÜLLER-DIETZ, H. (ed.), Festschrift für Heike Jung, Nomos, Baden-Baden, 2007, pp. 411 y ss.; LÜDERSSEN, K., “Ändert die Hirnforschung das Strafrecht?”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 98 y ss.; MERKEL, G., “Hirnforschung, Sprache und Recht”, en PUTZKE, H. (ed.), Strafrecht zwischen System und Telos. Festchrift für Rolf Dietrich Herzberg, Mohr Siebeck, Tübingen, 2008, pp. 3 y ss.; MERKEL, R., Willensfreiheit und rechtliche Schuld, Nomos, Baden-Baden, 2008; PAUEN, M. Illusion Freiheit? Mögliche und unmögliche Konsequenzen der Hirnforschung, 2ª ed., S. Fischer, Frankfurt am Main, 2004; STRENG, F. “Schuldbegriff und Hirnforschung”, en PAWLIK, M / Zaczyk, R. (eds.), Festschrift für Günther Jakobs, Heymann, Köln/Berlin/München, 2007, pp. 675 y ss., etc.
[11] Cfr., per esempio, SINGER, W., Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003 y SINGER, W., “Verschaltungen legen uns fest: wir sollten aufhören von Freiheit zu sprechen”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 30 y ss.
[12] PRINZ, W., “Der Mensch ist nicht frei. Ein Gespräch”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 20 y ss.
[13] Ya en ROTH, G., Das Gehirn und seine Wirklichkeit, 6ª ed., Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001.
[14] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 31.
[15] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 37.
[16] Prinz, W., “Kritik des freien Willens: Bemerkungen über eine soziale Institution”, Psychologische Rundschau, (55/4), 2004, p. 198.
[17] ROTH, G., Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, p. 553.
[18] DEMETRIO CRESPO, E., “Libertad de voluntad, investigación sobre el cerebro y responsabilidad penal”: aproximación a los fundamentos del moderno debate sobre Neurociencias y Derecho penal”, InDret, abril de 2011, (http://www.indret.com/pdf/807.pdf).p. 6.
[19] LIBET, B., “Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action”, Behaviour and brain sciences, 8, 1985, pp. 529 y ss.
[20] Per un spiegazioen sintetica ed in italiano, GRANDI (“Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, cit., p. 4) se remite a M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, La frontiera mobile della libertà, in id. (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, 2010, pp. XI ss.
[21] SINGER, W., “Ein Frontalangriff auf unser Selbstverständnis und unsere Menschenwürde”, Gehirn und Geist, 4, 2002, pp. 32 y ss..
[22] SINGER, Ein neues Menschenbild?, cit., p. 34.
[23] Vid. Merkel, G. / Roth, G., “Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe”, en Grün, K. J. / Friedman, F. / Roth, G. (eds.), Entmoralisierung des Rechts. Maβstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, Vandenhoeck & Ruprech, Göttingen, 2008, pp. 77 y ss. y Merkel, G. / Roth, G., “Bestrafung oder Therapie? Möglichkeiten und Grenzen staatlicher Sanktion unter Berücksichtigung der Hirnforschung”, en AA. VV., Hirnforschung-Chancen und Risiken für das Recht: Recht, Ethik, Naturwissenschaften, Rechtswissenschaftliche Fakultät der Universität Zürich, Zürich, 2008, pp. 36 y ss.
[24] ROTH, Fühlen, Denken, Handeln, cit., p. 554.
[25] FEIJOO SÁNCHEZ, “Culpabilidad jurídico-penal y neurociencias”, cit.
[26] DEMETRIO CRESPO, “Libertad de voluntad”, cit., p. 16.
[27] HIRSCH, “Acerca de la actual discusión alemana”, cit.
[28] LIBET, B., “Do we have free will?”, Journal of consciousness studies, 6, 1999, pp. 55 y 56.
[29] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, pp. 16 y 17.
[30] VIVES ANTÓN, Fundamentos del sistema penal, cit., p. 325.
[31] Utilizzo qui il termine “grammatica” nel senso di “grammatica profonda” del linguaggio che parte dall’opera di WITTGENSTEIN. In questo senso, bisogna ricordare che il filosofo austriaco distingue tra una “grammatica superficiale” (Oberflächengrammatik) ed una “grammatica profonda” (Tiefengrammatik) del linguaggio.
[32] CRICK, F., The atonishing hipothesis, Touchstone Books, Londres, 1995, p. 30.
[33] BLAKEMORE, C., Mechanics of the mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, p. 91.
[34] YOUNG, J. Z., Programs of the brain, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 119.
[35] ARISTÓTELES, Acerca del alma, Gredos, Madrid, 1978, p. 178.
[36] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, cit., p. 38.
[37] Wittgenstein, L., Investigaciones Filosóficas, Crítica, Barcelona, 1988, parágrafo 283.
[38] Hacker, P. M. S., Wittgenstein: meaning and mind. (vol. III of an analytical commentary on the Philosophical Investigations), Basil Blackwell, Oxford / Cambridge, 1990, p. 147.
[39] Hacker, Wittgenstein: meaning and mind, cit., p. 162.
[40] MARTÍNEZ FREIRE, P. F., La nueva filosofía de la mente, Gedisa, Barcelona, 1995, p. 84.
[41] KENNY, A., La metafísica de la mente: filosofía, psicología, lingüística, Paidós, Barcelona, 2000, p. 204 y ss.
[42] FEYERABEND, P. K., Diálogo sobre el método, Cátedra, Madrid, 2000, p. 25.
[43] EINSTEIN, A., “Remarks concerning the essays brought together in this cooperative volume”, en SCHILPP, P. A., (coord.), Albert Einstein, philosopher-scientist, Library of living philosophers, Evanston, 1949, p. 684.
[44] WOOLGAR, S., Ciencia: abriendo la caja negra, Barcelona, Anthropos, 1991, p. 31.
[45] RESCHNER, N., Razón y valores en la era científico-tecnológica, Paidós, Barcelona, 1999, p. 59.
[46] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, Fondo de Cultura Económica, Madrid, 2005, p. 33.
[47] DIÉGUEZ LUCENA, A., Filosofía de la ciencia, Biblioteca nueva, Madrid, 1998, p. 174.
[48] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 271.
[49] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 93.
[50] GARCÍA JIMÉNEZ, L., “Aproximación epistemológica al concepto de ciencia: una propuesta básica a partir de Kuhn, Popper, Lakatos y Feyerabend”, Andamios. Revista de investigación social. vol. 4, núm. 8, 2008, p. 192.
[51] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., pp. 149 y ss..
[52] DIÉGUEZ LUCENA, Filosofía de la ciencia, cit., p. 201.
[53] CHALMERS, A., ¿Qué es esa cosa llamada ciencia?, Siglo XXI, Madrid, 2003, p. 110.
[54] WITTGENSTEIN, L., Aforismos: cultura y valor, Austral, Madrid, 1995, p. 85.
[55] PUTNAM, H., Realism with a human face, Harvard University Press, Cambridge, 1990, p. 162.
[56] Jauregui Balenciaga, I. / Méndez Gallo, P., Modernidad y delirio, Escalera, Madrid, 2009, p. 67.
[57] TOULMIN, S., La comprensión humana, Alianza editorial, Madrid, 1977, p. 11.
[58] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 176.
[59] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 182.
[60] FEYERABEND, P. K., La ciencia en una sociedad libre, Siglo XXI, México D. F., 1998, p. 23.
[61] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 375.
[62] Jauregui Balenciaga / Méndez Gallo, Modernidad y delirio, cit., p. 91.
[63] SÁNCHEZ ANDRÉS, J. V., “El espacio de la libertad en el determinismo”, Revista de occidente, 356, 2011, p. 72.
[64] BIGENWALD, A. / CHAMBON, V., “Criminal responsibility and neuroscience: no revolution yet”, Frontiers in psychology, 10, 2019.
[65] BIGENWALD / CHAMBON, “Criminal responsibility”, cit., p. 16.
[66] SCHRÖDINGER, E., Ciencia y humanismo, 2ª edición, Tusquets, Barcelona, 1998, p. 14.
Repensando la (neuro)ciencia y su influencia en el Derecho penal*
di José Antonio Ramos Vázquez
Sumario: 1. Introducción - 2. El pensamiento neurodeterminista - 3. Neurocientíficos jugando a ser penalistas - 4. Problemas metodológicos y mereológicos del neurodeterminismo - 5. Los problemas de la Ciencia con la “C” mayúscula - 6. Hacia una ciencia con la “c” minúscula - 7. Conclusiones: el diálogo de las (neuro)ciencias con el Derecho penal.
1. Introducción
En tiempos de pandemia, muchas personas han redescubierto el imprescindible papel que la ciencia (que las ciencias) ocupa en nuestras sociedades. También hemos podido apreciar el impacto que, para la salud de toda la población, tiene el hecho de que haya sectores de la población que no confían en la ciencia y optan por el escepticismo, cuando no en lo que se ha dado en llamar conspiranoia.
Estamos, por tanto, viviendo una época en la que le pedimos a la ciencia que acuda, una vez más, en nuestra ayuda. Y es, precisamente, ése su papel: ayudar al ser humano a entenderse mejor y a sobrevivir en mejores condiciones.
Sin embargo, no conviene sobrevalorar la ciencia, ni convertirla en el eje de nuestra vida en comunidad. Y algo de esto está sucediendo en el ámbito del Derecho penal cuando hablamos de neurociencias. En efecto, durante los últimos 15 años hemos asistido a un creciente interés por el impacto que las neurociencias puedan tener en nuestra disciplina, tanto a nivel teórico como a nivel práctico.
A nivel macro, el “endiosamiento de las neurociencias”[1] ha producido un retorno inquietante: el de la idea de determinismo. A nivel micro, los avances en neurociencias han conllevado el debate sobre sus efectos como prueba en el proceso penal.
Todo ello ha sido estudiado ampliamente por la doctrina italiana[2]. Es más, probablemente sea la doctrina italiana la que mejor ha trabajado estas cuestiones (sobre todo porque la praxis jurisprudencial italiana ha sido mucho más receptiva a la prueba neurocientífica de lo que lo haya sido, por ejemplo, la española[3]). No pretendo con este trabajo, por tanto, entrar en cuestiones que ya han sido debatidas, con gran solvencia y altura, por la doctrina italiana, sino aportar a este debate una perspectiva distinta: la de la filosofía del lenguaje y la de la filosofía de la ciencia.
En efecto, desde el pionero trabajo de Vives Antón[4], parte de la doctrina española utiliza (utilizamos) la filosofía del lenguaje como método para replantear los problemas teóricos del Derecho penal (y el reto neurocientífico, sin duda, es problemático en nuestra disciplina). Por su parte, la filosofía de la ciencia puede ofrecernos interesantes matices que puedan ayudarnos a entender mejor la posición que la propia ciencia debe ocupar en nuestra sociedad. Y, naturalmente, eso significa, también, la posición que deba ocupar en el Derecho penal y procesal penal.
Por tanto, en las próximas páginas utilizaré un doble punto de vista: el de la filosofía del lenguaje, para combatir la idea del determinismo neurocientífico, y el de la filosofía de la ciencia para intentar (re)situar el pensamiento científico dentro de nuestras prácticas sociales y culturales, trazando al final una serie de conclusiones que considero de interés para la reflexión teórica acerca del Derecho penal y para la práctica judicial.
2. El pensamiento neurodeterminista
Muchos neurocientíficos han postulado que nuestra vida como seres humanos libres es ilusoria y que, en realidad, estamos controlados por nuestro cerebro y sus conexiones sinápticas. De ser cierto esto, nos encontraríamos ante una idea inquietante, la de ser “meros juguetes de fuerzas externas”[5]: así, cada ser humano sería “una máquina, un gran reloj estúpido que tiene la impresión de estar actuando libremente, pero cuyos movimientos están completamente controlados por las ruedas y pesas que tiene dentro”[6].
En lo que aquí nos importa, el determinismo hace quebrar toda ética y todo Derecho (penal)[7], pues, a fin de cuentas, el problema real de la libertad como concepto no es “el problema de la responsabilidad. ¿Cómo hay que entender que nos podamos responsabilizar de nuestros actos y reprochárnoslos recíprocamente?”[8].
Este debate sobre libertad, Derecho penal, y neurociencia ha tenido lugar, de manera pionera, en Alemania[9], con la irrupción de los trabajos de científicos como Singer[10], Prinz[11], y Roth[12], que colocaron en primera línea de debate la cuestión del determinismo neurocientífico, y su posible influencia en el Derecho penal.
Muy sintéticamente, Singer afirma que las percepciones que tiene el ser humano son el resultado de procesos constructivos[13] y que la ciencia demuestra que no existe ninguna diferencia sustancial entre el cerebro humano y el de los animales (que dicho autor considera claramente determinados). Por ello, la conclusión es que, aunque por el momento no sea posible, en el futuro podremos reducir el comportamiento humano a funciones cerebrales, pues estamos sometidos a las leyes deterministas que rigen los procesos psico-químicos[14].
En lo que respecta a Prinz, éste parte de que la libertad no es científicamente demostrable, por lo que estaríamos ante una mera institución social[15], un constructo que, por mucho que tenga indudables consecuencias a nivel social (algo que este autor reconoce expresamente), no deja de ser una producción cultural.
Por último, Roth, sostiene que el ser humano nunca actúa libremente, sino que es el cerebro el que controla nuestro comportamiento. Se trataría de una especie de cadena de mando en la que el ser humano se percibiría –debido a un autoengaño- como libre, cuando no lo es en absoluto[16]. Y ello porque, como resume Demetrio Crespo, “para él la representación tradicional según la cual la voluntad se transforma en hechos concretos a través de una acción voluntaria dirigida por un yo consciente no es más que una ilusión, debido a que como consecuencia de la concatenación de la amígdala, el hipocampo y el nudo ventral y dorsal, la memoria emocional de la experiencia (que trabaja de modo inconsciente) tiene la primera y la última palabra en lo que concierne a la aparición de deseos e intenciones, de modo que las decisiones adoptadas ocurren en el sistema límbico uno o dos segundos antes de que podamos percibirlas de modo consciente”[17].
Esta última conclusión de Roth está conectada con el célebre experimento Libet[18], que habría llegado a la conclusión de que toda acción humana consciente está precedido por una actividad cerebral inconsciente y no controlada por el sujeto[19]. Sobre dicho experimento hablaré brevemente en el apartado cuatro: por de pronto, una vez condensadas en tan pocas líneas la posición científica de dichos autores, conviene indicar que algunos de ellos han ido más allá y han extraído consecuencias para el Derecho penal.
3. Neurocientíficos jugando a ser penalistas
Singer (quien, por cierto, ha mostrado su perplejidad por lo “poco que se han asombrado los círculos jurídicos” con los supuestos avances deterministas en la neurociencia[20]) cree conveniente mantener el castigo de las conductas desviadas en cuanto que necesidad social -o, por mejor decirlo, en cuanto que necesidad de la “autocomprensión de la sociedad”. De hecho, el mencionado autor no cree imprescindible dejar de utilizar conceptos como “libertad”, “culpabilidad”, “pena” etc., proponiendo, no obstante, medidas de corte educativo como sanción. Por todo ello, SINGER considera que, en realidad, se trata de hacer “más agradable lo mismo que se hace ahora. Sólo cambia el enfoque”[21].
Por su parte, Roth, mucho más interesado en el concreto ámbito del Derecho penal (sobre todo a raíz de sus colaboraciones con Merkel[22]) parece sustentar una concepción de la sanción penal en cuanto que mantenimiento de la vigencia de la norma alla Jakobs, y nos dice que la sociedad “debe en realidad ser capaz de inculcar a sus miembros un sentimiento de la responsabilidad por sus propios actos; y precisamente a partir de la idea de que, sin un sentimiento tal de responsabilidad, la convivencia social se daña de forma duradera”[23].
Así, “la propuesta político-criminal de estos autores” –señala Feijoo Sánchez en referencia a Roth/Merkel- “se ha concretado en una teoría de la prevención general positiva, dentro de la cual las aportaciones de las neurociencias permitirían ampliar las posibilidades de alternativas con fines preventivo-especiales (por ejemplo, en vez de ingreso en prisión, tratamiento en centros especializados para autores violentos previa aceptación del condenado)”[24].
En efecto, la prevención y las medidas de tratamiento son ideas básicas sobre las que gira la idea de Derecho penal de los neurocientíficos deterministas. Así, resume Demetrio Crespo, aquéllos “pasan a argumentar desde la perspectiva del imprescindible sostenimiento del orden normativo, lo que acontece de manera totalmente independiente de si estamos determinados o no, porque el Estado debe garantizar un mínimo de confianza mutua, en el sentido de la prevención general positiva sostenida por Günther Jakobs, donde lo decisivo no es tanto si se puede (o es legítimo) sancionar, sino más bien cómo hacerlo. En este sentido, los autores consideran una obligación moral y jurídica ofrecer al delincuente un amplio abanico de medidas de tratamiento que, por respeto al derecho fundamental a la dignidad humana, solo podrían ser aceptadas de modo voluntario, y no impuestas. Sólo en el caso de que no fueran aceptadas voluntariamente, la alternativa consistiría en penas de multa o privativas de libertad, tal y como sucede actualmente”[25].
Estas ideas preventivistas son objeto de crítica por parte de la doctrina penal alemana. Así, Hirsch, con gran contundencia, pone de relieve que “si se sustituyera la punición por medidas curativas, como resulta de un punto de vista puramente determinista, no se podrían excluir consecuentemente esterilizaciones y castraciones en delitos sexuales, tratamientos médicos desencadenantes de estados de debilidad duraderos en delincuentes violentos y ladrones, intervenciones quirúrgicas en el cerebro, etc. Daños de carácter físico y psíquico en agotadores campos de prisioneros, ampliamente practicados por las dictaduras del siglo XX, proporcionan además una cierta idea”[26].
Por mi parte, quisiera señalar que no es de extrañar que los postulados neurodeterministas en materia penal vayan en la línea de la inocuización o de la prevención especial positiva: en efecto, eliminada la libertad de acción (y el yo, esto es, la persona como sujeto individual) como eje prioritario del Derecho penal, lo que resta es sólo el sistema, la estabilidad y la segregación.
Esta armónica convivencia entre las ideas de inocuización que campean por la política criminal de nuestros días y la búsqueda de anclajes científicos parece probar la escasa inocencia ideológica de este eterno retorno al determinismo. En cambio, seguidamente intentaré demostrar que el ser humano no está determinado, no es una máquina, no es un elemento más de un sistema termodinámico. Sin la afirmación de la libertad, no sólo se colapsa nuestro mundo, sino que también desaparece toda esperanza posible en un Derecho penal respetuoso con los principios ilustrados. Y esa afirmación de la libertad puede perfectamente realizarse desde el punto de vista de la filosofía del lenguaje.
4. Problemas metodológicos y mereológicos del neurodeterminismo
Dado que es el experimento Libet el icono, por así decirlo, de la negación de la libertad en la neurociencia actual, comenzaré este apartado, dedicado a los problemas metodológicos que plantea la visión neurodeterminista, señalando que el propio LIBET no era determinista y siempre renegó de las visiones antilibertarias de sus descubrimientos (que son eso, descubrimientos científicos, no teorías sobre el ser humano).
En efecto, el problema fundamental de las conclusiones que se suelen extraer del experimento Libet no es si hay o no unas concretas condiciones neuronales que nos indiquen la existencia o no de la voluntad, sino si podemos extraer de todo ello alguna conclusión determinista. Y, en un trabajo de 1999, dicho científico realiza una serie de matizaciones sobre trabajos anteriores que nos sirven, entre otras cosas, para mostrar que ni él mismo se citaría como base para una concepción determinista del ser humano. De hecho, él mismo sostiene que el determinismo es una creencia especulativa, no una proposición científica demostrada y que la existencia de la libertad de acción “es una opción científica al menos tan buena, si no mejor, que su negación por la teoría determinista”[27].
Esto sentado, y obviando otros problemas metodológicos, quisiera dejar sentado, en primer lugar, que hay una confusión de fondo en el debate sobre neurodeterminismo.
Utilizaré en este momento un largo fragmento de Bennett y Hacker que coloca la discusión en, creo, sus justos términos:
“Las preguntas empíricas sobre el sistema nervioso son el campo de la neurociencia. El cometido de ésta es establecer los hechos en lo que concierne a las estructuras y las operaciones neurales. Es tarea de la neurociencia cognitiva explicar las condiciones neurales que hacen posibles las funciones perceptivas, cognitivas, cogitativas, afectivas y volitivas. Las investigaciones experimentales confirman o cuestionan tales teorías explicativas. Por contraste, las preguntas conceptuales (las que, por ejemplo, se refieren a los conceptos de mente o memoria, pensamiento o imaginación), la descripción de las relaciones lógicas entre los conceptos (como las que existen entre los conceptos de percepción y sensación o los de conciencia y autoconciencia) y el examen de las relaciones estructurales entre los distintos campos conceptuales (por ejemplo, entre el psicológico y el neural, o el mental y el conductista), son el campo propio de la filosofía.
Las preguntas conceptuales son previas a las cuestiones de verdad y falsedad. Son preguntas que conciernen a nuestras formas de representación, no a la verdad o falsedad de afirmaciones empíricas. Estas formas están presupuestas en las afirmaciones científicas verdaderas (y en las falsas) y las teorías científicas correctas (e incorrectas). No determinan lo que es empíricamente válido, sino más bien lo que tiene o no tiene sentido. De ahí que las preguntas conceptuales no sean pertinentes ni en la investigación y la experimentación científicas ni en la teorización científica. Y es que cualquiera de estas investigaciones y teorizaciones presuponen los conceptos y las relaciones conceptuales en cuestión”[28].
En efecto, no se trata de que exista un conflicto entre las conclusiones de ambas disciplinas, sino dos lógicas de investigación distintas, en la que la filosófica establece, de algún modo, las reglas del juego de la científica.
En este sentido, una afirmación clara y rotunda como “creo que el ser humano es libre” tiene dos opciones de respuesta: “¿qué pruebas tienes?” o “libre, ¿en qué sentido?”. La primera, obviamente, reclama la presentación de algún tipo de evidencia empírica. La segunda reclamaría, en cambio, clarificación conceptual.
Pero resulta que la libertad implica una cierta imagen del mundo, de modo que “mal podría afirmarse o negarse desde datos empíricos, pues de lo que en ella se trata es de ver el mundo de un modo u otro”[29]. De esta suerte, si la neurociencia pretende desvelar el “misterio” de la libertad, creo que se equivoca, porque ni hay tal “misterio” ni, de haberlo, es resoluble científicamente, al no existir ninguna comprobación empírica posible. Creo que nadie se plantea seriamente decir “sólo si se descubre tal o cual cosa podré decir que soy libre” (o a la inversa: “soy libre hasta que la ciencia no me demuestre lo contrario”). No es la ciencia la que puede demostrar la libertad. Ni la no-libertad.
Por ejemplo, volviendo al experimento Libet, al que sistemáticamente se recurre como “prueba” de que la decisión voluntaria no existe, no hay nada en él que, desde mi óptica, constituya un criterio de si el hombre es libre o no. Ni siquiera de qué sea “tomar una decisión”. A unos impulsos cerebrales o a unas conexiones sinápticas dadas no se les puede llamar inteligiblemente “decisión”. No es ésa la gramática de “decidir”[30].
Dicho lo anterior, y como claro ejemplo, en mi opinión, de los problemas conceptuales que plantea la visión del ser humano que nos ofrecen los neurocientíficos, cabe decir que en multitud de ocasiones la mayor fuente de mistificación y uno de los sedicentes misterios del cerebro, es adscribir atributos psicológicos al cerebro en sí mismo considerado, en vez de al ser humano.
En efecto, muchos neurocientíficos predican del cerebro o, incluso, de sus partes, cualidades que usualmente atribuimos sólo al ser humano. Unos ejemplos:
“Lo que ves no es realmente lo que hay: es lo que tu cerebro cree que hay (…) El cerebro hace la mejor interpretación que puede de acuerdo con su experiencia previa y la información limitada y ambigua que los ojos le proporcionan”[31].
“Tales neuronas poseen conocimientos. Tienen inteligencia, pues son capaces de calcular la probabilidad de acontecimientos externos”[32].
“Podemos considerar todo acto de ver como una búsqueda continua de las respuestas a preguntas formuladas por el cerebro. Las señales que proceden de la retina constituyen mensajes que transmiten esas respuestas. A continuación, el cerebro utiliza esa información para construir hipótesis adecuadas sobre lo que hay”[33].
Como vemos, el cerebro nos engaña, interpreta, busca, construye hipótesis etc. Esa parte de nuestro cuerpo tiene, por tanto, de acuerdo con esta perspectiva, cualidades que normalmente aplicamos al ser humano en su conjunto. Es más, incluso las partes de dicho órgano (las neuronas) tienen conocimientos e inteligencia.
El problema de esta visión es que incurre en la falacia mereológica, la misma que ya Aristóteles, denunciaba en el siglo IV a. C.[34], es decir, la falacia consistente en la la adscripción a las partes de cualidades que son privativas del todo.
En este sentido, creo fundamental dejar sentado que la atribución de atributos psicológicos al cerebro no tiene sentido, es conceptualmente inapropiada y fuente de importantes confusiones metodológicas.
Señalan, por ejemplo, Bennett y Hacker lo siguiente:
“Llamaremos “principio mereológico” en neurociencia al principio de que los predicados psicológicos aplicables únicamente a un ser humano (u otro animal) en su totalidad no se pueden aplicar de modo inteligible a sus partes, por ejemplo, al cerebro (...) Los predicados psicológicos se aplican paradigmáticamente al ser humano (o animal) como un todo y no al cuerpo y sus partes”[35].
Es decir, conviene hacer hincapié en que una gran cantidad de expresiones, entre las que destacan los términos psicológicos, son predicables stricto sensu sólo de seres humanos y ello por la sencilla razón de que los criterios de aplicación de tales expresiones son ciertos comportamientos en contextos específicos analizados desde la óptica de un complejo y ramificado background manifestado en el comportamiento.
Un corolario evidente de esta premisa es que carece de sentido adscribir sensaciones, pensamientos, capacidades sensoriales etc. - salvo, por supuesto, en el supuesto de un uso metafórico o metonímico del lenguaje - ni a seres inanimados ni al propio cuerpo humano en su conjunto, ni a alguna de sus partes (señaladamente el cerebro) ni, a fortiori, a las partes de las partes (p. ej., las neuronas).
“Sólo de lo que se comporta como un ser humano” – nos dice Wittgenstein – “se puede decir que tiene dolor”[36]. Y éste es un principio, como bien recalca Hacker, gramatical, “no una generalización empírica o una necesidad metafísica”[37].
En efecto, no es un hecho empírico que sea la persona la que tenga hambre y no, vgr., su estómago. Tampoco es un principio metafísico, derivado de la esencia del cuerpo humano o del pensamiento que es la persona quien reflexiona y no su cerebro. Es la gramática la que excluye la atribución de la toma de decisiones al cerebro: no existen condiciones de aplicación para el uso correcto de “su cerebro tomó una decisión”.
Aplicando esta idea a la neurociencia y sus descubrimientos, la conclusión es clara: la comprensión de un texto, el cálculo, la percepción del mundo real y, en lo que aquí nos importa, la decisión voluntaria, son, se nos dice, “operaciones cerebrales”, pero tan poco sentido tiene decir “mi mente tiene dolor de muelas” como que mi cerebro percibe la realidad, construye hipótesis o toma decisiones 800 milisegundos antes de que yo lo haga. Éstos son predicados referidos a los seres humanos, aplicados sobre la base de un comportamiento sofisticado y presuponiendo capacidades complejas.
No “ve” más el cerebro de lo que “ve” la mente, pues soy yo quien veo. Alguien puede decir: “espera un momento y te doy la respuesta”, pero no “espera un momento a que mi cerebro me dé la respuesta y luego yo te la doy a ti”[38]. Tampoco tendría sentido que usted, querido lector, dijese “mi cerebro está leyendo este trabajo” o “el cerebro del profesor Ramos me está aburriendo” (o que yo dijese que mi cerebro decidió por sí mismo escribir este trabajo y yo le estoy obedeciendo).
Por ello, como mencionaba antes, querría alertar sobre el peligro de considerar al cerebro como una especie de ente que reúne una serie de capacidades que no tiene. E, insisto, no las tiene no porque yo tenga un descubrimiento empírico que revelarles en este momento, sino porque no es conceptualmente correcto afirmar tal cosa. Y los problemas son mayores de lo que parecen: al enunciar frases como “el cerebro decide en cada momento qué acciones realizamos” estamos otorgando al cerebro cualidades que no tiene, y al ser humano una naturaleza que no es la suya.
En suma, el cerebro no es un sujeto lógicamente apropiado para serle atribuidos predicados como, en lo que aquí nos importa, “decidir”. Y, desde luego, tanto esta adscripción como la idea de que decida por nosotros (estableciendo una cesura entre nosotros y nuestros cerebros) como la de que nos engaña son formas degeneradas de cartesianismo.
En suma, teniendo en cuenta que lo específico de la acción humana no es algo físico, sino contextual, parece claro que bajo ningún concepto un determinado estado cerebral puede ser entendido como criterio de un determinado comportamiento. Ni el lenguaje de los términos psicológicos es el de la neurofisiología, pues, aunque los fenómenos psicológicos pudiesen ser deducidos de los neurológicos, no podrían ser explicados por ellos[39], pues lo que otorga significado a cualquier producto de mi cerebro es algo completamente exterior a él[40].
Nada de lo que se pueda decir inteligiblemente que realiza un cerebro puede constituir un criterio de lo que el ser humano hace. No son los cerebros los que sienten dolor o toman decisiones, sino las personas. En este sentido, cuando los neurocientíficos manifiestan que cuando una persona toma una decisión algo sucede en su cerebro y que, por tanto, esto constituye un criterio de “decidir”, están mostrando, en mi opinión, una enorme confusión sobre el concepto de comportamiento en general y sobre los criterios de actuar y de tomar una decisión en particular.
Dicho lo anterior, tengo que añadir que, en realidad, el problema de fondo es considerar que la ciencia está capacitada para ofrecernos verdades absolutas. Es decir, hemos convertido la ciencia en “nuestra religión favorita”[41]. Por ello, en segundo lugar, me parece conveniente abordar, desde la perspectiva de la filosofía de la ciencia, el puesto que ésta debe desempeñar dentro de las muchas maneras que los seres humanos tenemos de entender el mundo. Y ello porque, como dijo nada menos que Einstein: “La ciencia sin epistemología es – en la medida en que sea concebible – primitiva y confusa”[42].
5. Los problemas de la Ciencia con la “C” mayúscula
Ciertamente, no es sencillo capturar la esencia de ese “organismo complejo y cambiante”[43] que llamamos ciencia, sobre todo porque “la indagación científica es la búsqueda de un ideal inalcanzable: el ideal de una ciencia perfecta, que nos permite una versión verdadera y completamente adecuada de cómo funcionan las cosas en el mundo”[44].
Mi objetivo en este apartado es negar la existencia de dicha ciencia perfecta (la ciencia con la “C” mayúscula) y, como no puede ser de otra manera, habré de hacer referencia, en primer lugar, a Thomas S. Kuhn, quien, de algún modo, dinamitó la discusión sobre el concepto de ciencia y sobre cómo se desarrolla la labor científica con su obra La estructura de las revoluciones científicas (publicada originariamente en 1962), exponiendo que la ciencia es altamente permeable a consideraciones ideológicas, cuando no meramente de conveniencia o de estética.
En efecto, Kuhn mantiene que –tras el período precientífico-, la Historia de la Ciencia nos demuestra que existen dos fases: la fase de ciencia normal, esto es, aquel período en el que hay una “investigación basada firmemente en una o más realizaciones científicas pasadas, realizaciones que alguna comunidad científica particular reconoce, durante cierto tiempo, como fundamento para su práctica posterior”[45], y los períodos de crisis, que desembocan en las revoluciones científicas (que, a su vez, dan lugar a un nuevo período de ciencia normal).
Los períodos de ciencia normal son, por tanto, los que conforman la mayor parte de la actividad científica, y en ellos la labor de investigación se desarrolla bajo el dominio de un paradigma. Un paradigma es, ante todo, un modelo teórico que resuelve algún problema científico de relevancia y que, por ello mismo, sirve como ejemplo para intentar resolver otros problemas distintos. Pero, en un sentido más amplio, los paradigmas incluyen “otros componentes de tipo axiológico, metodológico y ontológico, que son la seña de identidad de una comunidad científica”[46]. Así, en suma, “un paradigma es lo que los miembros de una comunidad científica comparten, y, recíprocamente, una comunidad científica consiste en hombres que comparten un paradigma”[47].
Sin embargo, cuando no todos los fenómenos son explicables de manera coherente con el paradigma, cuando éste no es capaz de absorber más anomalías, la ciencia normal entra en crisis: la comunidad científica deja de creer en el paradigma como en un dogma, se replantea los presupuestos de su labor y surge la ciencia revolucionaria.
Las crisis, por tanto, son una condición previa y necesaria del nacimiento de nuevas teorías y el cambio de paradigma es una suerte de batalla entre grupos de científicos, que buscan la imposición del nuevo paradigma – de un lado – o resistirse a abandonar el viejo –de otro.
Cuando adviene un paradigma nuevo, cuando finalmente desplaza al viejo, se produce la revolución científica, que altera el modo mismo de pensar de los científicos, ya que se deben albergar esos nuevos descubrimientos en conceptos no articulables en el viejo paradigma. Por eso mismo, “la violación o distorsión de un lenguaje científico que previamente no era problemático es la piedra de toque de un cambio revolucionario”[48].
Pero el cambio revolucionario conlleva una modificación más importante aún del normal transcurso de la labor científica: si en los períodos de ciencia normal existe un crecimiento, una adición acumulativa de conocimiento, la ciencia revolucionaria no es acumulativa. El progreso científico, por tanto, se produce a través de estas revoluciones (y no de modo acumulativo, como si fuese una línea ininterrumpida de progreso), al acontecer la sustitución de un paradigma por otro, planteándose nuevas problemáticas, nuevos métodos y nuevas concepciones del mundo[49].
Como resultado de ello, la recepción de un nuevo paradigma frecuentemente hace necesaria una redefinición de la ciencia correspondiente. Algunos problemas antiguos pueden relegarse a otra ciencia o ser declarados absolutamente no científicos. Otros que anteriormente eran triviales o no existían siquiera, pueden convertirse, con un nuevo paradigma, en los arquetipos mismos de la realización científica de importancia. Y, al cambiar los problemas, también lo hacen, a menudo, las normas que distinguen una solución científica real de una simple especulación metafísica, de un juego de palabras, de un juego matemático. Así, señala Kuhn, “la tradición científica normal que surge de una revolución científica es no sólo incompatible sino también a menudo realmente incomparable con la que existía con anterioridad”[50].
Por tanto, los cambios de paradigma (las revoluciones) nacen del descontento y se imponen por la fuerza persuasiva de sus defensores dentro de la comunidad científica establecida. Y, una vez impuesto el nuevo paradigma, al modificarse toda la cosmovisión asociada al anterior, ambas teorías devienen inconmensurables, es decir, dado que el significado de un término científico viene dado por el papel que desempeña en una teoría dada y por el sistema de relaciones conceptuales que se establece entre dicho término y los restantes términos del paradigma, no existe una base puramente observacional que sirva como fundamento neutral para dirimir la lucha entre paradigmas, pues toda observación presupone la validez de una teoría dada. Es decir, es imposible comparar de forma detallada, objetiva y neutral el contenido de las teorías en función de la evidencia empírica con el fin de determinar cuál es definitivamente superior o más verdadera[51].
Aunque con posterioridad Kuhn matizó mucho su posición originaria, el impacto de estas ideas ha sido enorme en la discusión filosófica y científica de la segunda mitad del siglo XX.
En efecto, la obra de Kuhn coloca en una situación muy delicada no sólo el dogma de la superación de las teorías por su mejor adecuación a los hechos, sino a la propia racionalidad de la empresa científica. Respecto a lo primero, recordemos que los paradigmas son inconmensurables y no hay modo de resolver cuál de ellos explica mejor el mundo. Aún más, el propio mundo cambia en cada paradigma, en el sentido de que los científicos de distintos paradigmas miran un mismo mundo, pero ven cosas distintas. Respecto a lo segundo, subsiste esa sombra de irracionalidad en el hecho de que sean condicionamientos personales de los integrantes de la comunidad científica los que, a la postre, determinen la victoria de uno u otro paradigma. Los intentos de Kuhn para matizar esta afirmación no convencen: su idea de que las teorías científicas posteriores son mejores a la hora de resolver enigmas es contradictoria con su idea de que qué cuenta como enigma depende del paradigma[52].
En mi opinión, Kuhn visualizó correctamente –de acuerdo con lo que la Historia nos demuestra- el carácter poliédrico de la empresa científica y de los cambios de paradigma. Pero, al no ser capaz de encontrar una lógica racional a todo ello, parece, efectivamente, que nos sumerge en un mundo de relativismo e irracionalidad.
6. Hacia una ciencia con la “c” minúscula
Se suele postular una Ciencia con C mayúscula de la que los científicos (y no sólo ellos, sino también muchas personas corrientes) pretenden extraer conclusiones absolutas sobre la naturaleza y sobre nosotros mismos. Pero ni es eso lo que la Historia nos demuestra, ni la idea de una ciencia absoluta (por así denominarla) se puede sustentar racionalmente, hasta el punto de que no existe un acuerdo suficientemente consolidado sobre qué sea la ciencia.
Decía Wittgenstein: “aquello de lo que me defiendo es el concepto de una exactitud ideal que nos hubiese sido dada a priori, por así decirlo. En épocas distintas son distintos nuestros ideales de la exactitud: y ninguno es el superior”[53]. Nosotros, en cambio, permanecemos aún en la idea – heredada de la eclosión de la mecánica newtoniana- de la precisión absoluta, del saber global, del progreso ilimitado; idea que tiene su origen en la “ilusión trascendental” kantiana, es decir, que es posible un conocimiento absolutamente objetivo, independiente del contexto y la perspectiva del sujeto cognoscente – y que ese sedicente conocimiento objetivo lo puede ofrecer la ciencia[54] – . Y, de ahí, señalan Jáuregui Balenciaga y Méndez Gallo surge la idea de que la ciencia “es independiente de lo humano, está por encima de ello. En otras palabras, la ciencia es la nueva forma de trascendencia, de religiosidad, de espiritualidad”[55].
Con todo ello, no obstante, no quiere decirse que la ciencia no contribuya de modo decisivo al conocimiento humano, ni que sea imposible determinar qué teorías contribuyen mejor a dicha meta y cuáles peor. Pero, en todo caso, la labor científica y su estatus epistemológico han de entenderse en sus justos términos como, creo, hace Toulmin. Señala dicho autor, como premisa, que “los hombres demuestran su racionalidad, no ordenando sus conceptos y creencias en rígidas estructuras formales, sino por su disposición a responder a situaciones nuevas con espíritu abierto, reconociendo los defectos de sus procedimientos anteriores y superándolos. Aquí, nuevamente, las nociones fundamentales son la de “adaptación” y “exigencia”, más que las de forma y validez”[56].
Es decir, la actividad científica es una más de nuestras empresas colectivas de conocimiento y el problema de la racionalidad no debe ser situado en la argumentación lógica o en los sistemas conceptuales, sino en el contexto de las actividades humanas.
De hecho, “en vez de ser los conceptos sociales y políticos en un todo diferentes de los conceptos de las ciencias de la naturaleza, como inicialmente cabría suponer, las relaciones entre el pensamiento y la práctica en la ciencia y en la política son muy similares. En ambos casos, la aparición de un nuevo concepto importante está precedida por el reconocimiento de nuevos problemas y está asociada a la introducción de nuevos procedimientos para abordar esos problemas. En ambos campos, los conceptos adquieren significado sirviendo a fines humanos relevantes en los casos prácticos reales. En ambos campos, los cambios sucesivos en la aplicación de esos conceptos van asociados al refinamiento progresivo o la complicación creciente de su significado. Y, en ambos campos, la “racionalidad” del conjunto de los procedimientos o instituciones existentes depende del margen que exista para criticarlos y modificarlos desde dentro de la empresa misma”[57].
Esto sentado, Toulmin ataca la idea de que los términos utilizados en las teorías científicas se refieran directamente a clases de objetos naturales y que sus proposiciones generales afirmen o impliquen directamente “generalizaciones empíricas universales” sobre dichos objetos naturales. En efecto, “el conocimiento empírico que una teoría científica nos brinda es siempre el conocimiento de que algún procedimiento general de explicación, descripción o representación (especificado en términos abstractos, teóricos), puede aplicarse exitosamente (de manera específica y con un grado particular de precisión, discriminación o exactitud) a una clase particular de casos (especificados en términos concretos, empíricos)”, de modo que “en la ciencia, el significado se muestra por el carácter de un procedimiento explicativo; y la verdad, por el éxito de los hombres en hallar aplicaciones para ese procedimiento”[58].
Esto último me resulta particularmente sugerente, pues nos hace descender de la razón teórica a la razón práctica, que es donde –creo- ha de hacerse residir toda la actividad científica (y, en general, todo intento de mejora de nuestro conocimiento acerca del ser humano). Después de todo, “razón y práctica no son dos realidades distintas, sino partes de un único proceso dialéctico”[59].
En conclusión, Toulmin propone sustituir la racionalidad clásica por la actitud de razonabilidad, relacionando esta actitud con el examen de los fundamentos del conocimiento. Así pues, “lo que señala como racional a la obra de un científico no es su competencia para la manipulación formal de conceptos y argumentos establecidos, sino su disposición a concebir, explorar y criticar nuevos conceptos, argumentos y técnicas de representación, como maneras de abordar los problemas principales de su ciencia”[60].
Por resumir: argumentar, justificar y razonar críticamente son las actividades básicas de todo científico que se tome en serio su labor. Y esto significa: un científico lo es de verdad en la medida en que sea capaz de poner en tela de juicio las verdades asentadas en su contexto histórico. Galileo y Copérnico pasaron a la Historia por aniquilar el geocentrismo de su época, pero no fue en absoluto un proceso fácil, ni tenían el aprecio de sus contemporáneos (de hecho, muchos siglos antes Aristarco había propuesto ya el heliocentrismo, sin éxito); Newton pasó a la Historia por sentar las bases de la ciencia moderna, y Einstein por liquidarla. Si cualquiera de ellos hubiese creído que la ciencia proporciona verdades universales, objetivas y eternas, no habríamos tenido ningún avance científico en los últimos 500 años.
7. Conclusiones: el diálogo de las (neuro)ciencias con el Derecho penal
Como acabamos de ver, el problema de la ideología científica (porque la ciencia es también ideología) reside en su pretensión de constituirse en tanto que metadiscurso, (y además verdadero, por encima de los saberes, ideologías y opiniones particulares). Sin embargo, en mi opinión, prácticas, razonabilidad, argumentación y justificación (y no objetividad, verdad etc.) han de ser las líneas maestras de todo aquello que aspire a ser considerado ciencia.
Debe rechazarse, por tanto, con firmeza la pretensión de los científicos de imponer una supuesta superioridad epistemológica de la ciencia y someter todo pensamiento a la sedicente verdad científica. Ciencia, por tanto, no es un estado unívoco del saber humano, sino un conglomerado de teorías que son desechadas o aceptadas en una línea temporal dada.
Esto, creo, se puede observar muy bien hoy en día, en un año 2020 en el que estamos viviendo una pandemia de la que la ciencia nos ha ido poco a poco diciendo cosas, pero con contradicciones y errores (como, de hecho, la ciencia actúa): ¿se transmite por aerosoles o por superficies? ¿quien pasa la enfermedad Covid-19 queda inmunizado para siempre o sólo por un tiempo? ¿hay grupos sanguíneos más propensos a contraer la enfermedad?
Pedirle a la ciencia que, desde el primer momento, tuviese respuestas claras e incontrovertidas a una pandemia es exigirle demasiado. Sus resultados son provisionales, sujetos a discusión, cambiantes, como lo es nuestro mundo. En absoluto se parece a esa ciencia contemporánea que, muchas veces, produce un discurso vacío de todo trazo de humanidad, de diálogo, de retórica, de intersubjetividad. Y cuando la ciencia tiene pretensiones excesivas, lleva consigo el germen de un totalitarismo potencial. Es decir, “no es que la ciencia sea totalitaria, pero evoluciona hacia ese paraje, en gran medida porque el método científico fortalece la confusión entre el mundo de la ciencia y el mundo de la vida (…) Inscribirse en el discurso científico es perder la conexión del ser humano al mundo, a la experiencia”[61]. Pero es posible recuperar esa conexión de la ciencia con el ser humano, incluso en el ámbito aquí tratado, el de la neurociencia.
Antes, recapitulemos:
i) Las neurociencias eclosionaron a finales del s. XX, con una serie de científicos que mantuvieron “actitudes entusiastas que han anunciado prematuramente el advenimiento de progresos que no se han visto”[62]. Entre dichas afirmaciones entusiastas, estaba la de que se había descubierto que el ser humano estaba determinado por su cerebro y, por tanto, nunca toma decisiones libres (apartados 1 y 2).
ii) Aparte de dicho optimismo circunscrito al ámbito estrictamente científico, muchos neurocientíficos trasladaron dicha conclusión (la del determinismo) al ámbito del Derecho penal, proponiendo la eliminación del concepto de acción libre y un Derecho penal basado en la inocuización y la prevención general positiva (apartado 3).
iii) Sin embargo, el determinismo neurocientífico no se puede sostener desde el punto de vista de la filosofía del lenguaje. Decir que el cerebro toma decisiones antes que nosotros o que nuestras neuronas nos dominan es cometer una falacia mereológica (apartado 4).
iv) El neurodeterminismo parte de una cierta idea de ciencia que considera ésta un método para encontrar verdades objetivas, incontrovertidas y permanentes, cuando la reflexión teórica del último siglo sobre la ciencia descarta completamente que ésta sea capaz de ofrecer dichas verdades (apartado 5).
v) La ciencia, en realidad, es una de las muchas maneras que el ser humano tiene de obtener conocimiento, de acuerdo con sus intereses y con las particularidades de su forma de vida. Un modo de explicar no la realidad inmutable y objetiva, sino nuestra realidad contextualizada y mutable (apartado 6).
Por ello, una vez descartado que las neurociencias sean capaces de concluir que estamos determinados por nuestro cerebro, y resituada su posición como tales ciencias, creo que deben desarrollar una tarea más modesta, pero, sin duda, muy útil en el Derecho (procesal) penal.
Así, en un reciente artículo titulado “Responsabilidad penal y neurociencia: aún no ha habido revolución”[63], Bigenwald y Chambon concluyen lo siguiente: “lejos de constituir una revolución, la neurociencia demuestra ser más beneficiosa cuando entra en un matizado diálogo con el Derecho para ayudar a los tribunales en su función de búsqueda de la verdad (...) A pesar de que Neurolaw evoca a menudo una neurocientificación del Derecho, podría con mayor propiedad referirse a una juridificación de la neurociencia, es decir, un pensamiento jurídico que integraría y aplicaría descubrimientos científicos en la justicia penal”[64].
Comparto dicha opinión y me gustaría sacar una conclusión muy similar: las neurociencias no pueden arrogarse la capacidad de cancelar el Derecho penal con sus sedicentes descubrimientos deterministas. Tampoco deben jugar a ser penalistas o diseñadores de la política criminal (del mismo modo que ningún jurista indica a los científicos cómo alcanzar sus objetivos de investigación). Pero sí pueden y deben ser de ayuda para, en el proceso, y con los objetivos propios del Derecho penal, ayudar a comprender mejor la conducta del sujeto juzgado y su inclusión o no dentro de los parámetros conceptuales que los juristas manejamos (culpabilidad, dolo, imputabilidad, etc.). Y esta función no es menor en absoluto, porque supone, ni más ni menos, que colaborar en una de las más importantes tareas de nuestra vida social: acreditar unos hechos y determinar la responsabilidad que una persona tiene por sus propios actos frente al conjunto de la sociedad.
A aquellos (neuro)científicos a los que esto les parezca poco, me gustaría recordarles la opinión de un científico de espesor como fue Erwin Schrödinger:
“Entonces, ¿cuál es, para usted, el valor de la ciencia natural? A lo que respondo: su objetivo, alcance y valor son los mismos que los de cualquier otra rama del ser humano. Pero ninguna de ellas por sí sola tiene ningún alcance o valor si no van unidas. Y este valor tiene una definición muy simple: obedecer el mandato de la deidad délfica conócete a ti mismo”[65].
* Este trabajo se enmarca en el proyecto de investigación “Derecho penal y comportamiento humano” (RTI2018-097838-B-I00) concedido por el Ministerio de Ciencia, Innovación y Universidades de España (IP: Prof. Dr. Eduardo Demetrio Crespo). https://blog.uclm.es/proyectodpch/
[1] BENNETT, M., “Neurociencia y filosofía”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, p. 74.
[2] El lector italiano conocerá, sin duda, mucho mejor que yo dichos trabajos, por lo que me remito, sin más, a GRANDI, C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappichelli, Torino, 2016; más recientemente, con la misma solvencia: GRANDI, C., “Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, Diritto penale e uomo, 4/2019; GRANDI, C., “Neuroscienze e capacità di intendere e volere: un percorso giurisprudenziale”, Diritto penale e proceso, 2020-1, pp. 24 y ss. En dichas obras, el lector encontrará, no sólo un extenso elenco bibliográfico, sino también una exposición detallada y rica de los problemas que la neurociencia plantea en Derecho penal.
[3] Para la doctrina española, me remito, sin más, al volumen DEMETRIO CRESPO, E. (dir.), Neurociencias y Derecho penal: Nuevas perspectivas en el ámbito de la culpabilidad y del tratamiento jurídico-penal de la peligrosidad, Edisofer / BdeF, Madrid / Buenos Aires, 2013, donde se recogen trabajos de neurocientíficos y penalistas alemanes y españoles.
[4] VIVES ANTÓN, T. S., Fundamentos del sistema penal, Tirant lo Blanch, Valencia, 1999.
[5] NOZICK, R., Philosophical explanations, Harvard University Press, Cambridge, 1981, p. 291.
[6] BLANSHARD, B., “En defensa del determinismo”, en HOOK, S. (ed.), Determinismo y libertad, Fontanella, Barcelona, 1969, p. 25.
[7] En este sentido, GAZZANIGA (en GAZZANIGA, M. S., “La neurociencia en el sistema judicial”, Investigación y ciencia, 60, julio 2011, pp. 24 y ss.) señala que la inexistencia de la libertad (que él cree consecuencia teórica necesaria de los últimos descubrimientos neurocientíficos) nos ha de llevar a un replanteamiento de todo el Derecho penal y de nuestros criterios para adscribir responsabilidades e imponer penas (GAZZANIGA, “La neurociencia en el sistema judicial”, cit., p. 28).
[8] TUGENDHAT, E., Antropología en vez de metafísica, Gedisa, Barcelona, 2008, pp. 39 y 40.
[9] En lo que respecta a la doctrina alemana, vid., por ejemplo, GÜNTHER, K., “Hirnsforschung und strafrechtlicher Schuldbegriff”, KJ, 39, 2006, pp. 116 y ss.; HASSEMER, W., “Haltet den geborenen Dieb!”, Frankfurter Allgemeiner Zeitung (15.06.2010) –invitando a rechazar los “cantos de sirena” de las neurociencias-; KRAUß, D., “Neue Hirnforschung – Neues Strafrecht?”, en MÜLLER-DIETZ, H. (ed.), Festschrift für Heike Jung, Nomos, Baden-Baden, 2007, pp. 411 y ss.; LÜDERSSEN, K., “Ändert die Hirnforschung das Strafrecht?”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 98 y ss.; MERKEL, G., “Hirnforschung, Sprache und Recht”, en PUTZKE, H. (ed.), Strafrecht zwischen System und Telos. Festchrift für Rolf Dietrich Herzberg, Mohr Siebeck, Tübingen, 2008, pp. 3 y ss.; MERKEL, R., Willensfreiheit und rechtliche Schuld, Nomos, Baden-Baden, 2008; PAUEN, M. Illusion Freiheit? Mögliche und unmögliche Konsequenzen der Hirnforschung, 2ª ed., S. Fischer, Frankfurt am Main, 2004; STRENG, F. “Schuldbegriff und Hirnforschung”, en PAWLIK, M / Zaczyk, R. (eds.), Festschrift für Günther Jakobs, Heymann, Köln/Berlin/München, 2007, pp. 675 y ss., etc.
[10] Vid. por ejemplo, SINGER, W., Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003 y SINGER, W., “Verschaltungen legen uns fest: wir sollten aufhören von Freiheit zu sprechen”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 30 y ss.
[11] PRINZ, W., “Der Mensch ist nicht frei. Ein Gespräch”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 20 y ss.
[12] Ya en ROTH, G., Das Gehirn und seine Wirklichkeit, 6ª ed., Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001.
[13] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 31.
[14] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 37.
[15] Prinz, W., “Kritik des freien Willens: Bemerkungen über eine soziale Institution”, Psychologische Rundschau, (55/4), 2004, p. 198.
[16] ROTH, G., Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, p. 553.
[17] DEMETRIO CRESPO, E., “Libertad de voluntad, investigación sobre el cerebro y responsabilidad penal”: aproximación a los fundamentos del moderno debate sobre Neurociencias y Derecho penal”, InDret, abril de 2011, (http://www.indret.com/pdf/807.pdf).p. 6.
[18] LIBET, B., “Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action”, Behaviour and brain sciences, 8, 1985, pp. 529 y ss.
[19] Para una explicación sintética y en italiano del experimento, GRANDI (“Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, cit., p. 4) se remite a M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, La frontiera mobile della libertà, in id. (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, 2010, pp. XI ss.
[20] SINGER, W., “Ein Frontalangriff auf unser Selbstverständnis und unsere Menschenwürde”, Gehirn und Geist, 4, 2002, pp. 32 y ss..
[21] SINGER, Ein neues Menschenbild?, cit., p. 34.
[22] Vid. Merkel, G. / Roth, G., “Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe”, en Grün, K. J. / Friedman, F. / Roth, G. (eds.), Entmoralisierung des Rechts. Maβstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, Vandenhoeck & Ruprech, Göttingen, 2008, pp. 77 y ss. y Merkel, G. / Roth, G., “Bestrafung oder Therapie? Möglichkeiten und Grenzen staatlicher Sanktion unter Berücksichtigung der Hirnforschung”, en AA. VV., Hirnforschung-Chancen und Risiken für das Recht: Recht, Ethik, Naturwissenschaften, Rechtswissenschaftliche Fakultät der Universität Zürich, Zürich, 2008, pp. 36 y ss.
[23] ROTH, Fühlen, Denken, Handeln, cit., p. 554.
[24] FEIJOO SÁNCHEZ, “Culpabilidad jurídico-penal y neurociencias”, cit.
[25] DEMETRIO CRESPO, “Libertad de voluntad”, cit., p. 16.
[26] HIRSCH, “Acerca de la actual discusión alemana”, cit.
[27] LIBET, B., “Do we have free will?”, Journal of consciousness studies, 6, 1999, pp. 55 y 56.
[28] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, pp. 16 y 17.
[29] VIVES ANTÓN, Fundamentos del sistema penal, cit., p. 325.
[30] Utilizo aquí el término “gramática” en el sentido de “gramática profunda” del lenguaje que parte de la obra de WITTGENSTEIN. En este sentido, hay que recordar que el filósofo austríaco distingue entre una “gramática superficial” (Oberflächengrammatik) y una “gramática profunda” (Tiefengrammatik) del lenguaje.
[31] CRICK, F., The atonishing hipothesis, Touchstone Books, Londres, 1995, p. 30.
[32] BLAKEMORE, C., Mechanics of the mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, p. 91.
[33] YOUNG, J. Z., Programs of the brain, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 119.
[34] ARISTÓTELES, Acerca del alma, Gredos, Madrid, 1978, p. 178.
[35] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, cit., p. 38.
[36] Wittgenstein, L., Investigaciones Filosóficas, Crítica, Barcelona, 1988, parágrafo 283.
[37] Hacker, P. M. S., Wittgenstein: meaning and mind. (vol. III of an analytical commentary on the Philosophical Investigations), Basil Blackwell, Oxford / Cambridge, 1990, p. 147.
[38] Hacker, Wittgenstein: meaning and mind, cit., p. 162.
[39] MARTÍNEZ FREIRE, P. F., La nueva filosofía de la mente, Gedisa, Barcelona, 1995, p. 84.
[40] KENNY, A., La metafísica de la mente: filosofía, psicología, lingüística, Paidós, Barcelona, 2000, p. 204 y ss.
[41] FEYERABEND, P. K., Diálogo sobre el método, Cátedra, Madrid, 2000, p. 25.
[42] EINSTEIN, A., “Remarks concerning the essays brought together in this cooperative volume”, en SCHILPP, P. A., (coord.), Albert Einstein, philosopher-scientist, Library of living philosophers, Evanston, 1949, p. 684.
[43] WOOLGAR, S., Ciencia: abriendo la caja negra, Barcelona, Anthropos, 1991, p. 31.
[44] RESCHNER, N., Razón y valores en la era científico-tecnológica, Paidós, Barcelona, 1999, p. 59.
[45] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, Fondo de Cultura Económica, Madrid, 2005, p. 33.
[46] DIÉGUEZ LUCENA, A., Filosofía de la ciencia, Biblioteca nueva, Madrid, 1998, p. 174.
[47] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 271.
[48] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 93.
[49] GARCÍA JIMÉNEZ, L., “Aproximación epistemológica al concepto de ciencia: una propuesta básica a partir de Kuhn, Popper, Lakatos y Feyerabend”, Andamios. Revista de investigación social. vol. 4, núm. 8, 2008, p. 192.
[50] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., pp. 149 y ss..
[51] DIÉGUEZ LUCENA, Filosofía de la ciencia, cit., p. 201.
[52] CHALMERS, A., ¿Qué es esa cosa llamada ciencia?, Siglo XXI, Madrid, 2003, p. 110.
[53] WITTGENSTEIN, L., Aforismos: cultura y valor, Austral, Madrid, 1995, p. 85.
[54] PUTNAM, H., Realism with a human face, Harvard University Press, Cambridge, 1990, p. 162.
[55] Jauregui Balenciaga, I. / Méndez Gallo, P., Modernidad y delirio, Escalera, Madrid, 2009, p. 67.
[56] TOULMIN, S., La comprensión humana, Alianza editorial, Madrid, 1977, p. 11.
[57] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 176.
[58] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 182.
[59] FEYERABEND, P. K., La ciencia en una sociedad libre, Siglo XXI, México D. F., 1998, p. 23.
[60] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 375.
[61] Jauregui Balenciaga / Méndez Gallo, Modernidad y delirio, cit., p. 91.
[62] SÁNCHEZ ANDRÉS, J. V., “El espacio de la libertad en el determinismo”, Revista de occidente, 356, 2011, p. 72.
[63] BIGENWALD, A. / CHAMBON, V., “Criminal responsibility and neuroscience: no revolution yet”, Frontiers in psychology, 10, 2019.
[64] BIGENWALD / CHAMBON, “Criminal responsibility”, cit., p. 16.
[65] SCHRÖDINGER, E., Ciencia y humanismo, 2ª edición, Tusquets, Barcelona, 1998, p. 14.
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