ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla responsabilità civile dell’avvocato.
Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.
“Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Salvatore Satta
Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.
1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto
È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.
La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.
Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.
La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.
È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famiglia” ex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.
E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.
Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.
Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.
2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma
Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:
a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.
È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.
b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.
Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.
c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.
La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.
Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.
Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.
È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.
3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato
Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.
Indico qualche caso:
a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi”.
Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.
Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.
Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.
Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.
È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.
Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.
Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.
b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.
In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.
Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.
Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.
Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.
c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.
Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.
In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.
Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.
Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.
Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.
d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.
Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L'avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”.
Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.
Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.
E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.
4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito
In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.
Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.
Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.
Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.
Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:
a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.
Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.
b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.
Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.
E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.
È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.
Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.
Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.
5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale
In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.
Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.
Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.
E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.
In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.
Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.
Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.
È dall’8 marzo 1946 che il rametto di mimosa è stato associato, per iniziativa delle parlamentari comuniste Teresa Mattei e Rita Montagnana, alla Giornata Internazionale della Donna.
La scelta cadde sulla mimosa perché fiorisce nei primi giorni del mese di marzo e, secondo i nativi americani, i fiori della mimosa significano forza e femminilità.
L’Unione delle Donne Italiane scartò prima le anemoni e poi i garofani, perché la mimosa, con i suoi fiori gialli luminosi e profumati, era anche un fiore molto economico e rappresentava la speranza e la vitalità in un momento di rinascita e cambiamento.
Ed è proprio un cambiamento che vogliamo annunciare.
Oggi, in occasione della Giornata internazionale in cui si celebra la forza delle donne, Giustizia Insieme vuole omaggiare tutte le donne protagoniste della Rivista non con un ramoscello di mimosa, ma con una riscrittura al femminile di tutte le biografie delle autrici e delle componenti del comitato scientifico e di redazione
A pensarci bene non si tratta di un regalo o di un omaggio, ma di un dovere culturale, perché non è mai solo una questione di parole: nominare le donne, soprattutto le donne professioniste, può contribuire anche a cambiare la percezione nei loro confronti.
Non si può negare che sia pervasiva e trasversale, anche nel mondo delle donne, una certa resistenza e ritrosia all’uso del femminile.
Lo spiega bene Cecilia Robustelli nel Tema di discussione dal titolo “Infermiera sì, Ingegnera no”, pubblicato nel 2021 sul sito dell’Accademia della Crusca.
«Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fortemente linguistiche.»
L’attenzione alle discriminazioni linguistiche e al coretto uso dei femminili professionali è solo il primo passo verso un diverso approccio culturale al tema; il linguaggio è lo specchio del pensiero e tradisce pregiudizi, paure e anche convinzioni spesso nascoste nei meandri del nostro conformismo culturale.
E allora smettiamo di nasconderci dietro al dito della cacofonia, evitiamo la ricerca spasmodica del neutro impossibile e non esaltiamo la polisemia dei termini.
Care lettrici, cari lettori sappiamo bene che qualcuno di voi storcerà il naso quando leggerà le nostre biografie, ma crediamo che abbia ragione Vera Gheno, in Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, quando ci invita a riflettere in questo senso: «succede che ciò che non viene nominato tende ad essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole suonano male: ci si può abituare.»
Immagine: Federico Zandomeneghi (1841-1917), Ragazza che scrive, s.d., olio su tela, cm 46×38, collezione privata.
Rappresento la Fondazione Vittorio Occorsio. Oggi è qui con noi Vittorio, che del nonno porta il nome.
Vengo da una generazione di magistrati che ha dovuto confrontarsi con sfide drammatiche. Vittorio Occorsio e Mario Amato, magistrati della Procura della Repubblica di Roma, affrontarono consapevolmente l'impegno gravoso che imponeva loro la funzione di pubblico ministero, che essi svolsero con grande coraggio e dignità, nonostante i violenti attacchi anche personali e l'isolamento, in alcuni momenti persino tra i colleghi e nel Foro.
La Fondazione Vittorio Occorsio, voluta dai suoi familiari, persegue la memoria di quel sacrificio. Una memoria attiva, che vive nel confronto, aperto ma non neutro. È per questa ragione che oggi sono qui, perché l’ANM è anch’essa aperta e oggi ha invitato i cittadini e le loro rappresentanze a condividere preoccupazioni e proposte.
Essere magistrati richiede coraggio. Oggi anche per decidere sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale o sull’affidamento di un minore.
È per questo che la soggezione del giudice soltanto alla legge e l'imparzialità del pubblico ministero, rafforzata dal principio di obbligatorietà dell’azione, sono tutelati dalla Costituzione. Quando si mette in discussione pubblicamente e senza fondamento l'imparzialità della decisione del giudice o dell’azione del pubblico ministero, si mettono in crisi i principi costituzionali nel loro reale funzionamento e dunque la Costituzione in atto.
Certo, un così grande potere deve essere bilanciato dalla piena consapevolezza delle conseguenze del proprio agire sulla vita delle persone e quindi da una altrettanto grande professionalità e da responsabilità, in forme compatibili con l’indipendenza.
Per questo la magistratura italiana ha un sistema disciplinare così efficace. Questa affermazione è divenuta controintuitiva perché in contrasto con la falsità continuamente ripetuta, che la definisce spregiativamente come domestica per dire addomesticata (la disciplina è per sua natura domestica, interna al corpo). I dati sono ben diversi e non assimilabili, neppure lontanamente, a quelli assai minori delle altre magistrature o delle professioni a ordinamento pubblicistico. Basti leggere le relazioni del procuratore generale per l'anno 2024 e degli anni precedenti, tra cui anche quelle di chi parla. In esse vi è un’analisi documentata, nella quale si dà conto della gravità delle sanzioni irrogate e delle dimissioni volontarie dall'ordine giudiziario, assai frequenti quando il magistrato si trova a fronteggiare gravi contestazioni disciplinari.
Eppure, sulla falsa costruzione tante volte declamata e per questo solo divenuta vera, si vorrebbe fondare una riforma costituzionale, l'Alta Corte, che rischia di sottrarre il tema della disciplina alla continua elaborazione dei pari, alla piena comprensione del percorso professionale in cui la violazione ipotizzata si inserisce. La giustizia disciplinare è, e deve restare, diversa da un processo penale.
Se vi è da riformare, e la materia non manca, si parta però da un'attenta ricostruzione delle effettive esigenze.
Si parta, e parta anche la ANM, come mi sembra oggi stia facendo con il coinvolgere altri soggetti e interlocutori nel confronto su una riforma considerata rischiosa per gli interessi della collettività, della collettività, non della corporazione - dalla necessità di restituire alla giurisdizione effettività, anche nelle aree apparentemente minori ma che riguardano la vita quotidiana delle persone.
È positivo che finalmente, dopo mesi di chiusura, si avvii oggi il dialogo sulle riforme. Se è possibile che oggi il governo si apra al dialogo non è perché vi è un mutamento nella compagine che regge l'associazione: dopo Santalucia, straordinario presidente, oggi Parodi che con altrettanta determinazione saprà rappresentarla: è per il mandato unitario che oltre l'ottanta per cento dei magistrati, recandosi a votare e votando sulla convergenza nei principi fondamentali, ha dato alla sua dirigenza. In questi tempi difficili si potrebbe dire, con un po’ di esagerazione nell’autostima, che gli elettori dell’Associazione e della Germania tengono alta la rappresentanza elettorale, con percentuali di votanti superiori all’80%…
Un mandato che conferma che l'unità della magistratura non è rivendicazione corporativa, ma interesse della collettività.
Testo del discorso pronunciato da Giovanni Salvi al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
Dedichiamo l’8 marzo alle Madri Costituenti
In questa stagione difficile, in cui è costante il richiamo alla Costituzione e ai valori in essa scolpiti, è d’obbligo dedicare la giornata dell’8 marzo alle Madri Costituenti, che svolsero un ruolo importante e forse poco noto nei lavori dell’Assemblea, dando il loro fondamentale contributo alla realizzazione di una Repubblica democratica ispirata al principio personalista. Erano soltanto 21 sul totale di 556 rappresentanti eletti; 5 di loro entrarono a far parte della Commissione dei 75; nessuna fu chiamata a comporre il “Comitato di redazione” che aveva il compito di elaborare il testo definitivo della Carta. Più specificamente, Nilde Iotti e Angela Gotelli fecero parte della I Sottocommissione incaricata di occuparsi dei diritti e doveri dei cittadini; Maria Federici, Lina Merlin e Teresa Mattei andarono a comporre la III Sottocommissione, designata a trattare la materia dei rapporti economici e sociali; nessuna donna fece parte della II Sottocommissione incaricata dell’organizzazione costituzionale dello Stato.
Esse appartenevano a schieramenti politici diversi: 9 erano comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste, una del Fronte dell’Uomo Qualunque. Erano tutte giovani, alcune giovanissime, e provenivano da diverse regioni d’Italia, così da rappresentare l’intero territorio nazionale. Quasi tutte erano laureate, alcune insegnanti, alcune giornaliste, due sindacaliste. Molte di loro avevano condiviso la militanza nella Resistenza, pagando un prezzo alto per questa scelta di lotta; a tutte era comune un forte impegno nell’associazionismo femminile e poi nella campagna elettorale del 1946.
Non è difficile indovinare il clima di diffidenza, di scetticismo, di odioso paternalismo con il quale esse dovettero da subito confrontarsi: di tale clima è peraltro agevole cogliere numerosi riscontri nei resoconti ufficiali dei lavori.
Fu grande merito delle Costituenti percepire immediatamente la necessità di fare gioco di squadra, nonostante le diversità dello loro storie professionali e delle loro radici culturali, così da formare un sodalizio forte e compatto capace di dar voce con coerenza ed efficacia ad un pensiero femminile nuovo, teso a delineare un ordinamento democratico fondato sulla eguaglianza e sulla tutela dei diritti e della dignità di ogni persona e al tempo stesso a demolire i molti pregiudizi ancorati alla cultura del passato che tuttora allignavano, specie in ordine ad alcuni temi sensibili, nelle idee di molti appartenenti a quel consesso.
Nell’impegno immane di ricostruzione delle fondamenta giuridiche del Paese esse seppero rivendicare il posto che loro spettava, con la stessa quota di responsabilità e di fatica. Con la forza di argomentazioni serrate, con la passione ideale maturata nella loro storia politica e personale esse seppero interpretare e farsi portavoce della legittima aspirazione delle donne italiane di emancipazione, di cittadinanza piena, di rispetto nella famiglia, nella società e nei luoghi di lavoro, facendo così emergere una nuova visione della figura femminile.
Si deve alla determinazione di quelle donne il passaggio da una concezione meramente formale ad una sostanziale del principio di eguaglianza, così chiaramente scolpito in Costituzione: fu grazie ad un intervento di Lina Merlin che l’espressione “di sesso” fu inserita nel primo comma dell’art. 3, nella prospettiva di una piena eguaglianza formale tra tutti i cittadini e le cittadine e nel segno di una decisiva rottura con certi schemi del passato. E fu Teresa Mattei a sollecitare l’inserimento dell’espressione “di fatto” nel secondo comma dello stesso art. 3, così ampliando la natura e la portata degli ostacoli da rimuovere al fine di realizzare il principio di eguaglianza sostanziale.
Soccorrono al riguardo le parole di Teresa Mattei , la più giovane tra gli eletti e le elette, pronunciate nel suo primo bellissimo intervento in Assemblea: «…fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto, nell’ art. 7 (ora art. 3), la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione…»
Le Madri Costituenti furono determinanti nell’inserire nell’agenda politica dei lavori aspetti nuovi o fino a quel momento trascurati perché ritenuti marginali, come il valore supremo della persona e della dignità umana, la centralità della dimensione relazionale e delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.
Fondamentale fu l’apporto di Nilde Iotti sui temi della famiglia, sul principio della pari dignità della coppia, sulla protezione dei figli nati fuori del matrimonio, così come a Nilde Iotti si deve la nuova concezione del lavoro femminile come strumento essenziale per la crescita personale e l’autonomia non solo economica delle donne, anche se nella formulazione di alcuni articoli (artt. 29, 30, 37) fu necessario addivenire a faticosi compromessi tra le posizioni ideologiche dei costituenti, al bivio tra il pieno riconoscimento del principio di parità e l’esaltazione di un familismo fondato sul ruolo tradizionale delle donne nello spazio domestico.
Quanto all’impegno nella lotta contro i pregiudizi, è sufficiente la lettura dei verbali dei lavori della III Sottocommissione e dell’Assemblea generale relativi alla possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, ed in particolare alla magistratura, per comprendere che i tanti interventi di segno negativo svolti da illustri giuristi non costituivano voci isolate, ma riflettevano orientamenti profondamente radicati nella società, nella classe politica e tra gli operatori del diritto. A fronte di coloro che definivano la partecipazione delle donne all’ordine giudiziario “una innovazione estremamente ardita” o che evocando le parole di San Paolo invitavano le donne a far silenzio nei tribunali si elevava l’ammonimento di Teresa Mattei: «nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile».
Grazie dunque alle Madri Costituenti per esserci state.
Immagine: Le 21 donne alla Costituente, in La Domenica del Corriere, 4 agosto 1946, 19, firmato “il cronista di Montecitorio”.
L’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a. nel giudizio di ottemperanza al giudicato (nota a Cons. Stato, 22 gennaio 2024, n. 664)
di Stefania Florian
Sommario: 1. La fattispecie concreta 2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. 3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento. 4. Conclusioni
1. La fattispecie concreta
La sentenza in commento viene resa su ricorso con il quale il Direttore di un ente parco, nominato con decreto del Presidente della Regione Lazio, chiedeva la riforma della sentenza resa in sede di ottemperanza dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che accoglieva il ricorso con il quale la Dirigente della Regione Lazio e dell’area amministrativa presso l’ente parco naturale regionale in questione, in carica per quasi una decina d’anni, chiedeva l’annullamento del decreto di nomina del medesimo Direttore e i connessi atti presupposti, tra cui la nota con cui era stata individuata la terna di candidati per la nomina, dalla quale la stessa ricorrente per l’ottemperanza era stata esclusa.
La vicenda muove dalla necessità di aggiornare l’elenco regionale dei direttori degli enti di gestione delle aree naturali protette regionali promossa dalla regione Lazio, che aveva avviato una procedura per il conferimento del posto di Direttore dell’Ente Parco e, dopo quasi un mese dalla nota con cui era stata individuata la prima terna di candidati, che conteneva il nominativo della ricorrente in ottemperanza, il Presidente dell’ente trasmetteva una nuova terna, con la motivazione di dover emendare un errore contenuto nella prima nota[1]. Alla fine della procedura il Presidente della regione nominava con decreto un soggetto diverso dalla suindicata ricorrente, la quale ultima, perciò, proponeva ricorso per l’annullamento del medesimo decreto di nomina. Il soggetto nominato alla carica di Direttore presentava quindi le proprie dimissioni e il Presidente della regione, dopo aver comunicato una nuova terna di nomi, individuava il nuovo Direttore in un soggetto diverso dalla ricorrente. Quest’ultima impugnava nuovamente, in sede di cognizione, il decreto di nomina e la nota del Presidente dell’ente regionale, con la quale erano stati individuati i soggetti candidati alla nomina di Direttore. Il ricorso veniva accolto e, successivamente alla sentenza emessa in sede di cognizione, il Presidente della regione procedeva a una nuova nomina, entro una rosa di candidati tra cui non compariva il nominativo della ricorrente. Quest’ultima, pertanto, impugnava con ricorso per l’ottemperanza il decreto di nomina e la nota con cui erano stati individuati i soggetti candidati alla procedura, chiedendone la declaratoria di nullità in quanto assunti in violazione o elusione del precedente giudicato. Il TAR Lazio accoglieva il ricorso per l’ottemperanza e il nuovo Direttore dell’ente parco impugnava suddetta sentenza resa in sede di ottemperanza, riproponendo le difese avverso i motivi di ricorso proposti dalla ricorrente e dichiarati assorbiti dal TAR[2].
Nel merito del giudizio di impugnazione, anche la ricorrente riproponeva i motivi di ricorso che il TAR, in sede di giudizio di ottemperanza, aveva dichiarato assorbiti e evidenziava, con distinta memoria, che “il Consiglio di Stato - anche qualora accolga l’appello, non ritenendo sussistente la fattispecie di nullità dichiarata dal TAR - non potrà che consentire al ricorrente in primo grado di procedere alla riassunzione del giudizio dinanzi al medesimo TAR, innanzi al quale il processo potrà proseguire, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda di annullamento, ai sensi dell’articolo 32, comma 2, c.p.a.” e che, per esserci la corretta ottemperanza al giudicato, l’ente parco avrebbe dovuto ““o inserire la dott.ssa – OMISSIS – nella terza terna dei candidati” oppure “quantomeno, prendere in considerazione la specifica posizione rivestita dalla dott.ssa – OMISSIS - […] esplicitando le ragioni sottese alla scelta di non inserirla nella terza terna dei candidati””[3].
Di contro, la Regione, che si era costituita in quanto cointeressata, depositava un documento dal quale emergeva il sopravvenuto collocamento a riposo della ricorrente, che, perciò, non avrebbe potuto essere nominata Dirigente. All’eccezione relativa all’insussistenza dell’interesse alla decisione sulla domanda di nullità per violazione o elusione di giudicato rappresentata dalla Regione Lazio, la ricorrente ribadiva la sussistenza del proprio interesse a ottenere la pronuncia sulla domanda di nullità ai fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
La questione di rilievo che il Collegio affronta nella sentenza in commento è, perciò, l’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a., nella parte in cui prevede il meccanismo di “conversione” della pronuncia costitutiva di annullamento, ex art. 29 c.p.a., in una pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’atto “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, anche in sede di ottemperanza al giudicato, nel caso in cui sia sopravvenuta la carenza di interesse a una pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato. A riguardo del rilievo dell’interesse alla pronuncia risarcitoria, la sentenza in commento richiama la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, secondo cui, per procedere all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a, sarebbe sufficiente la mera dichiarazione di un interesse anche solo strumentale e morale alla domanda risarcitoria[4]. Tale interesse sarebbe configurabile nel caso di specie, poiché “malgrado l’avvenuto pensionamento, la ricorrente conserva comunque un interesse almeno morale alla decisione del ricorso ex art. 112 c.p.a., trattandosi di questioni comunque attinenti alla sua sfera professionale e alle gratificazioni, anche di carattere personale, che si possono ritrarre anche solo dalla possibilità di una nomina a un incarico apicale”[5]. La sentenza in commento ravvisa, perciò, la possibilità di convertire, nel giudizio di impugnazione della sentenza resa in sede di ottemperanza, l’azione di nullità in un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto, in forza del fatto che la ratio dell’art. 34 comma 3 c.p.a. sarebbe quella di garantire, “in coerenza con l’art. 1 del c.p.a., una «tutela effettiva» del cittadino anche nel caso in cui – «nel corso del giudizio» – sia divenuta impossibile la tutela in forma specifica tramite l’annullamento dell’atto, ma si possa (e si debba) comunque fornire una tutela per equivalente. Il risarcimento diventa, così, l’unica forma di tutela cui l’interessato – illegittimamente colpito da un provvedimento viziato e lesivo – può aspirare”[6]. Pertanto, rileva il Collegio, “anche se il dettato del comma 3 dell’art. 34 fa esplicito riferimento (soltanto) all’azione di annullamento, la medesima ratio legisimpone di ritenere […] che il meccanismo di conversione possa essere invocato anche da chi rischia di perdere il bene della vita non a causa di un provvedimento illegittimo tout court, di cui «non risulta più utile l’annullamento», ma a causa di un provvedimento nullo per violazione di un giudicato, nel caso in cui – sempre «nel corso del giudizio» – sia sopravvenuta la carenza d’interesse a una pronuncia sulla sussistenza di questo profilo di illegittimità. Tale conclusione discende dalla inderogabile necessità, per la giurisdizione amministrativa, di assicurare anche nel giudizio di ottemperanza «una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo», secondo quanto stabilito dall’art. 1 c.p.a.. Questa norma, che pone all’inizio del codice del processo il fondamentale principio di effettività, deve assurgere a guida esegetica anche per l’interpretazione e l’applicazione delle altre disposizioni del codice, ivi compreso l’art. 34, comma 3, qui in questione. In caso contrario, la mera inerzia dell’amministrazione di fronte a una pronuncia del giudice rischierebbe di rendere inutile la pretesa del cittadino alla sua esecuzione, con perdita definitiva (anche «per equivalente») del bene della vita cui è preordinata la domanda di nullità per violazione o elusione del giudicato e conseguente lesione anche del principio di effettività della tutela”[7]. Il Collegio, pertanto, propone un’interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a., che costituirebbe “estrinsecazione di un principio generale che, in ossequio a consolidati canoni processuali, consente l’emendatio riduttiva di ogni domanda volta all’accertamento dell’invalidità del provvedimento amministrativo, ivi compresa la patologia più radicale di cui all’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990. Alla stregua di quanto esposto, anche chi ha proposto azione di ottemperanza ex art. 112 c.p.a. potrà (limitarsi a) domandare – come avvenuto nel caso di specie – l’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini esclusivamente risarcitori ex art. 34, comma 3, del medesimo codice”[8].
Il Consiglio di Stato (Sez. IV), in sede giurisdizionale, pertanto, accoglie l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. per cui sarebbe possibile convertire l’azione di nullità in una declaratoria di illegittimità del provvedimento e degli atti impugnati e respinge l’appello, confermando la sentenza impugnata con diversa motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata obbliga la Regione Lazio “a vagliare l’opportunità di individuare il Direttore dell’Ente Parco fra i candidati presenti nella prima terna elaborata” [9], che esula dal perimetro del giudicato.
2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Come noto nel processo amministrativo la conversione della domanda è disciplinata dall’art. 32 comma 2, secondo periodo c.p.a. La norma, dopo aver disposto che il giudice qualifica la domanda sulla base degli elementi sostanziali della stessa e, perciò, “superando l’eventuale nomen iuris scelto dalla parte”[10], afferma che “sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni”. Con riguardo alla conversione di domande nel giudizio di ottemperanza, la giurisprudenza ha ravvisato la possibilità di una conversione ex officio[11], ad esempio, nel caso in cui a seguito dell’annullamento di un atto da parte del giudice amministrativo, l’atto emanato dall’Amministrazione, quando rinnova l’esercizio delle sue funzioni, sia impugnato “«[…]davanti al giudice dell’ottemperanza lamentando la violazione o elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione[…]»”[12]. In tal caso, si è affermato che “«[…] il giudice dell’ottemperanza è quindi chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell'azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda (quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell'atto gravato); viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.» ed inoltre, «ove ne sussistano i presupposti processuali, tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa»”[13]. La giurisprudenza rileva anche la possibilità di convertire ex art 32 co. 2 c.p.a. un ricorso in ottemperanza in un giudizio avverso il silenzio, ex art. 31 e 117 c.p.a., nel caso in cui “il ricorso per ottemperanza sia esperito per l’ottemperanza a una sentenza di annullamento di diniego di concessione, che contenga anche un esplicito riferimento alla necessità/obbligatorietà del Comune di pronunciarsi”[14].
L’art. 32, co. 2 c.p.a., pertanto, consente al giudice di disporre la conversione dell’azione in tutti i casi in cui sussista un rapporto di continenza tra le due domande, per cui la domanda “convertita” costituirebbe un minus rispetto alla domanda “da convertire”, in quanto già implicitamente formulata[15]. Con riguardo, in particolare, alla convertibilità dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la giurisprudenza evidenzia la necessità di ravvisare anche un collegamento tra l’azione di accertamento e la domanda risarcitoria eventualmente formulata successivamente. A questo riguardo, l’Adunanza Plenaria, nella stessa sentenza n. 8/2022 evidenzia come secondo un orientamento minoritario, ai fini della conversione dell’azione di annullamento in una domanda di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., sarebbe necessario che l’interessato alleghi i “presupposti della successiva domanda risarcitoria o, almeno, sarebbe necessario che sia comprovato sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito […]”[16]. Di contro, secondo un orientamento maggioritario cui ha aderito anche l’Adunanza Plenaria con la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, l’art. 34, comma 3 c.p.a. deve intendersi nel senso che l’obbligo di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato sussista in caso di espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente, non essendo necessaria l’allegazione degli elementi che dimostrino il danno concretamente subito[17]. Inoltre, con riguardo al rapporto tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria si è rilevato che “se fosse stata proposta domanda di risarcimento in cumulo con la domanda di annullamento, il giudice, pur avendo accertato l’improcedibilità della domanda di annullamento, per il carattere autonomo della domanda risarcitoria, sarebbe comunque tenuto a pronunciarsi sulla stessa per il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.a., incorrendo, altrimenti, nel vizio di omessa pronuncia. In tale ricostruzione, pertanto, la disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe del tutto superflua; essa, invece, si rende necessaria proprio per l’assenza di rituale domanda risarcitoria che la parte ben potrebbe proporre successivamente in autonomo giudizio, una volta ottenuto dal giudice l’accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa”[18].
Con riguardo al primo orientamento, l’Adunanza Plenaria del 13 luglio 2022, n. 8 rileva che la manifestazione di interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato in un giudizio in cui sia pendente una domanda risarcitoria si ponga in termini di contraddizione logica con quest’ultima, poiché mentre nel caso del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia di annullamento, la pronuncia di accertamento rappresenta “una modifica in senso riduttivo di una domanda già proposta, quella di annullamento”[19], nel caso in cui penda un’azione di risarcimento del danno “l’accertamento mero si palesa inutile ed è assorbito da quello che deve svolgersi in sede di esame della domanda risarcitoria”[20]. A tali conclusioni, la giurisprudenza è pervenuta coordinando l’art. 34, comma 3, c.p.a. con la disciplina processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo amministrativo, ossia con l’art. 30, co 5 c.p.a. [21], che consente di proporre l’azione risarcitoria nel corso del giudizio o comunque, entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. È quindi evidente che il termine ultimo di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria, che si pone oltre la definizione del giudizio di annullamento, non consentirebbe di ammettere la conversione dell’azione di annullamento in un accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato se fossero allegati alla domanda di annullamento i presupposti che consentirebbero la proposizione di un’azione risarcitoria. Pertanto, “l’interesse risarcitorio ai fini di una pronuncia di accertamento di illegittimità dell’atto impugnato si correla al termine ultimo previsto dalla disposizione ora menzionata, in forza della quale è possibile promuovere giudizi in successione per ottenere quella «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» enunciata dall’art. 1 c.p.a. quale principio fondamentale della giurisdizione amministrativa. Nella cornice così definita, contraddistinta da un’ampia possibilità di scelta per il privato di modulare la propria strategia processuale a tutela dei suoi diritti ed interessi, la manifestazione dell’interesse risarcitorio ai fini dell’eventuale azione di risarcimento dei danni dell’atto originariamente impugnato, ma per il cui annullamento è venuto meno l’interesse nel corso del giudizio, consente al medesimo privato di ricavare dal giudizio di impugnazione un’utilità residua, impeditiva della pronuncia in rito ex art. 35, comma 1, lett c), c.p.a., nella futura prospettiva di una tutela per equivalente monetario che il codice consente di fare valere […]”[22]. L’Adunanza Plenaria rileva, quindi, come anche da altre disposizioni del codice del processo amministrativo, ai fini della sussistenza di un interesse ai fini risarcitori posto a condizione della pronuncia di accertamento dall’art. 34, comma 3 c.p.a., emerga la sufficienza di una mera dichiarazione di interesse alla pronuncia risarcitoria – da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., a garanzia del contraddittorio nei confronti delle altre parti – perché sorga l’obbligo per il giudice di accertare l’eventuale illegittimità dell’atto impugnato. Tra queste disposizioni, la giurisprudenza in esame evidenzia il rilievo del “l’art. 35, comma 1, lett. c), che prevede l’improcedibilità del ricorso «quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione», soggetta non solo all’eccezione di parte ma anche al rilievo officioso del giudice” [23] e dell’ “art. 104, comma 1, che nell’enunciare il c.d. divieto dei nova in appello, per cui «non possono essere proposte nuove domande”, precisa che resta «fermo quanto previsto dall’art. 34, comma 3»”[24]. Pertanto, osserva la giurisprudenza in esame, “dal punto di vista processuale il fenomeno è inquadrabile nella c.d. emendatio della domanda, in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante un mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al c.d. divieto dei nova in appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a., sopra richiamato. A sua volta, la dichiarazione di interesse risarcitorio in funzione dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato mira a provocare una pronuncia che seppur non modificativa della realtà giuridica, come invece quella demolitoria di annullamento, verte comunque su un antecedente logico-giuridico dell’azione risarcitoria, per la quale è conseguentemente predicabile l’attitudine a divenire cosa giudicata in senso sostanziale ai sensi dell’art. 2909 del codice civile”[25]. Pertanto, rileva il Collegio nella sentenza in esame, “sulla base di quanto ora esposto si trae l’ulteriore corollario per cui l’accertamento richiesto è esattamente quello che il giudice avrebbe dovuto svolgere nell’esaminare nel merito la domanda di annullamento, donde […] la necessità di svolgere un’istruttoria laddove necessario, con la sola differenza che in caso positivo tale accertamento non va a costituire il presupposto per la pronuncia costitutiva di annullamento dell’atto impugnato, ma esaurisce il contenuto della pronuncia (di accertamento mero) con cui il giudizio è definito”[26]. Pertanto, la ratio sottesa all’art. 34, comma 3, c.p.a., che consente l’applicabilità della norma anche a fattispecie diverse da quella indicata e, perciò, anche in sede di giudizio di ottemperanza, non può che essere ravvisato nella previsione della possibilità di esperire un’azione di mero accertamento, che non si limita a momento logico propedeutico al giudizio sulle altre azioni di cognizione (di condanna e costitutiva), ma esaurisce in sé lo scopo del processo[27]. “Con la particolarità che qui l’incisione della situazione giuridica sostanziale non consiste nella condizione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, originata dalla contestazione di controparte, che si intende con l’azione di mero accertamento eliminare. L’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), piuttosto, è integrato dalla necessità di economizzare un giudizio già instauratosi (ma destinato a concludersi in rito, per via di sopravvenienze), deragliandone il percorso in funzione dell’accertamento di una parte (quella riferita alla illegittimità dell’atto) dei fatti costitutivi necessari ai fini dell’accoglimento della (eventuale) azione risarcitoria (in sostanza, dall’annullamento dell’atto si passa ad una sentenza generica su di una frazione dell’ an della pretesa risarcitoria)”[28].
3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento.
Con riguardo al problema della conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in una pronuncia di accertamento si ritiene utile richiamare l’art. 31, comma 4 c.p.a. che, disciplinando l’azione di nullità, dispone un regime giuridico diverso a seconda della singola fattispecie di nullità che, di volta in volta, è configurabile nel caso di specie. La letteratura pare concorde nel ritenere che la fattispecie di nullità per carenza assoluta di potere sia inquadrabile in un’ipotesi di nullità-inesistenza e, perciò, sia riconducibile alla giurisdizione del giudice ordinario[29]. Diversa, invece, è l’azione di nullità relativa ai casi di nullità testuale, per cui la previsione di un termine di decadenza di 180 giorni per la proposizione della domanda conduce a presumere che le fattispecie di nullità riconducibili al regime giuridico di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. siano quelle in cui l’atto nullo è idoneo a produrre conseguenze sul piano giuridico. Si è quindi affermato come la pronuncia di nullità di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. sia più propriamente da considerarsi come una sorta di “annullabilità rafforzata”[30] poiché, non essendo possibile, dopo la scadenza del termine, contestare la nullità del provvedimento, non sarebbe neppure possibile contestare che quel provvedimento, pur essendo invalido, continui ad esistere e a produrre effetti. A tale ricostruzione non osta la Costituzione, che all’art. 113, comma 3 Cost., nel disporre che la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa, sembra consentire al legislatore di prevedere conseguenze diverse dall’annullamento di teoria generale a fronte di un provvedimento illegittimo[31], purchè sia garantita una tutela non inferiore rispetto a quella che sarebbe garantita dalla pronuncia di annullamento[32]. L’annullamento, pertanto, non è la conseguenza necessaria, ma una conseguenza possibile dell’“illegale” esercizio del potere, potendo il legislatore disporre anche una tutela risarcitoria o di nullità come sanzione dell’illegittimità. Decorso il termine di decadenza di 180 giorni, quindi, l’atto diventa inoppugnabile e i suoi effetti non possono più essere contestati. Con la conseguenza che quegli effetti esistono e, pertanto, l’azione di nullità in esame sembra avere una natura costitutiva.
Lo stesso art. 34, comma 4 c.p.a. dispone, infine, che tale regime giuridico non si applica alle nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b, ossia ai casi di nullità per violazione o elusione del giudicato, per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV. Sembra opportuno chiarire, a questo punto, se l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato abbia, anch’essa, una natura costitutiva oppure meramente dichiarativa poiché, se fosse configurabile una natura dichiarativa, si presenterebbero alcune criticità con riguardo alla possibilità di individuare il criterio della continenza – per cui sarebbe possibile convertire un’azione in un’altra solo entro una logica “riduttiva”[33] – come riferimento per applicare l’istituto della conversione. Infatti, già altri hanno dubitato della continenza come criterio utile a individuare i presupposti della conversione[34]. Tale criterio “si rivela ancor più critico nel caso della conversione reciproca tra giudizio di ottemperanza e giudizio ordinario, poichè consente la conversione in via unidirezionale, dall’azione di nullità a quella di annullamento e nel caso dell’implicita conversione dell’azione di annullamento in annullamento ex nunc, posto che la continenza pare giustificare la mutilazione dell’azione di annullamento”[35]. La dottrina in esame, pertanto, rileva la necessità di una maggiore valorizzazione della vicenda sostanziale rispetto alla conversione, “restituendo centralità […] alle allegazioni delle parti e, dunque, al generale principio della domanda”[36]. Perciò, “si potrebbe anche dire […] che si realizza un’ulteriore ipotesi di «continenza», atteso che le domande convertite devono essere «contenute» nelle allegazioni delle parti: si tratterebbe, dunque, di una continenza differente, non basata su indici quantitativi, ma fondata sulla centralità della vicenda sostanziale prospettata dal ricorrente e dettagliata nel contradditorio fra le parti”[37].
Tuttavia, l’applicazione del criterio della continenza, così come elaborato dalla giurisprudenza maggioritaria, nel caso di conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in un’azione di accertamento non sembra comportare particolari problemi. Infatti, non dissimilmente dai casi di nullità testuale pare che anche l’atto adottato in violazione o elusione del giudicato, in mancanza di impugnazione nel termine di prescrizione decennale, continui ad esistere e ad avere la forza necessaria per modificare la realtà giuridica sostanziale preesistente[38]. Infatti, tale atto non può che avere la stessa forza che aveva l’atto emanato in prima battuta dall’Amministrazione, prima della sua impugnazione e della formazione del giudicato. Tuttavia, mentre, nel giudizio di cognizione, all’illegittimità dell’atto segue il suo annullamento, alla reiterata violazione della medesima norma che regola l’esercizio del potere l’ordinamento riconduce la nullità per violazione o elusione del giudicato, dal momento che il ricorso per l’ottemperanza rappresenta un mezzo di coercizione più incisivo rispetto a quello offerto nell’ordinario giudizio di legittimità[39], in quanto strumentale al pieno soddisfacimento della stessa tutela di legittimità[40].
4. Conclusioni
Se, pertanto, la pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato concretizza una sentenza costitutiva, il cui presupposto logico necessario è l’accertamento della violazione della medesima norma d’azione accertata nel giudizio di cognizione, sembra potersi ritenere che non dissimilmente dai casi di annullabilità del provvedimento per i quali è ammessa la conversione dell’azione costitutiva in un’azione di accertamento se sussiste un interesse ai fini risarcitori, anche nei casi di nullità di cui alla sentenza in commento possa applicarsi l’art. 34, comma 3 c.p.a. Come la pronuncia costitutiva di annullamento, infatti, sembra che anche la sentenza di nullità per violazione o elusione del giudicato possa scindersi in un effetto dichiarativo, coperto dal giudicato, e un effetto costitutivo. Sicchè, nel caso in cui venga meno l’interesse alla pronuncia costitutiva, il giudice possa limitarsi a accertare l’illegittimità del provvedimento per violazione o elusione del giudicato, che funge, a sua volta, da presupposto per la condanna al risarcimento del danno per equivalente.
Le ragioni che giustificano una interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a. sembrano potersi ricondurre non solo a elementi di carattere strutturale della tutela di nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b c.p.a., ma anche, come rilevato dalla sentenza in commento, all’esigenza di garantire una tutela piena e effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo così come recepiti dall’ 1 c.p.a. La conversione dell’azione di nullità in un’azione di accertamento, infatti, consente di garantire una tutela per equivalente laddove la tutela in forma specifica, in sede di giudizio di ottemperanza[41], non sia più possibile. Tale tutela per equivalente, peraltro, oltre a essere un riflesso delle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 1 c.p.a., è esplicitamente garantita dall’art. 112, comma 3, c.p.a., per cui può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza […] azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione. Il ricorrente vittorioso, tuttavia, potrebbe esperire suddetta tutela risarcitoria per equivalente anche successivamente alla “declaratoria” di nullità per violazione del giudicato in forza dell’art. 30, comma 5 c.p.a.. L’art. 30, comma 5 c.p.a., infatti, sebbene disponga che l’azione risarcitoria può essere proposta sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, sembra applicabile anche nel giudizio reso in sede di ottemperanza se si considera che il regime giuridico dell’azione di condanna di cui all’art. 30 c.p.a. vale anche per i casi di giurisdizione esclusiva, cui sembra rientrare anche il giudizio di ottemperanza (che tutela il diritto di pretendere dall’Amministrazione la prestazione dovuta) giacchè la tassatività dei casi di giurisdizione esclusiva, non esclude che si possa riconoscere i caratteri di tale giurisdizione in fattispecie già pienamente regolate dalla legge[42].
[1] Testualmente Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 664, sub 3.3.
[2] Cons. Stato, cit., sub 8.1.
[3] Cons. Stato, cit., sub 8.5.
[4] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[5] Cons. Stato, cit., sub 10.4.
[6] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[7] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[8] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[9] Cons. Stato, cit., sub 11.6.
[10] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 148.
[11] V. per tutti Cons. Stato, Ad. pl. 15 gennaio 2013, n. 2, sub 4.
[12] Cons. Stato sez. IV, 30 agosto 2023, n. 8050, sub 12.
[13] Cons. Stato, cit., sub 12. Cfr. T.A.R. Lazio, sez. I - Roma, 25 agosto 2020, n. 9262.
[14] T.A.R. Lazio ,sez. I - Latina, 24 ottobre 2022, n. 825, massima dejure.it.
[15] Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997, sub 5. Sul rapporto di continenza nel caso di conversione di domande v. anche Consiglio di Stato sez. V, 02 luglio 2020, n. 4253, Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997.
[16] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 1. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 agosto 2017, sub 4.1.
[17] Sul rilievo dell’allegazione dei presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria o comunque degli elementi concreti che comprovino il danno successivamente subito v. Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2016 n 1023.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n 727, sub 3.2.
[19] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 22.
[20] Cons. Stato, cit., sub 21.
[21] Ibidem.
[22] Cons. Stato, cit., sub 16.
[23] Cons. Stato, cit., sub 9.
[24] Ibidem
[25] Cons. Stato, cit., sub 18
[26] Cons. Stato, cit., sub 19
[27] T.A.R. Lombardia, sez. I – Milano, 24 ottobre 2013, n. 2367, sub III.1.
[28] Ibidem
[29] Consiglio di Stato sez. VI, 27/01/2012, n.372; T.A.R. Torino, (Piemonte) sez. I, 22/01/2015, n.137; T.A.R. Pescara, (Abruzzo) sez. I, 09/10/2013, n.473; T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 06/03/2013, n. 2432; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 16/07/2019, n.674. In dottrina v. C. E. GALLO, Sulla nullità del provvedimento amministrativo, in Dir. amm., 1/2017, 57-58 rileva: “Nella gran parte delle ipotesi in cui si contesta la nullità del provvedimento per carenza di potere o per difetto di attribuzione la giurisdizione è del giudice ordinario perché il provvedimento asseritamente nullo è l'atto con il quale l'amministrazione si confronta con il cittadino, meglio incide sulla sua posizione giuridica: l'accertamento della nullità impedisce, perciò, la lesione (si pensi alla nullità del decreto di espropriazione, anche nel caso in cui la nullità dipenda da un vizio di un atto del procedimento, quale è la dichiarazione di pubblica utilità, che, però, ha l'effetto di privare di potere l'amministrazione in sede di adozione dell'atto ablativo)”. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. R. FUSCO, Il sindacato giurisdizionale sulla riedizione del potere amministrativo a seguito del giudicato, in Dir. proc. amm., 1/2024, 67-109.
[30] Configura la “declaratoria” di nullità sottoposta al termine di decadenza di 180 giorni come “annullabilità rafforzata” B. SASSANI, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. proc. amm., 2011, 275 s. Rileva D. CORLETTO, Sulla nullità degli atti amministrativi, in giustamm.it.: “Se l’atto amministrativo è lo strumento principale della concreta azione pubblica, se esso è, tanto per non mascherare la sostanza, la manifestazione del potere di comando e di controllo si di una società, è essenziale che sia efficace, che raggiunga i suoi scopi, e in sostanzia che sia obbedito. Le esigenze della effettività del potere pubblico, fino a che si vuole che un potere pubblico vi sia, sono evidentemente incompatibili con un regime di inefficacia radicale degli atti, tale da autorizzare la disobbedienza al provvedimento, la piena irrilevanza di questo. Il regime della nullità, per essere compatibile, o anche solo pensabile con riferimento agli atti del potere pubblico, non può configurarsi quindi altrimenti che ammettendo che l’atto sia comunque per l’intanto efficace, se può e riesce ad esserlo, fino a che la nullità non viene dichiarata o accertata. Sotto questo aspetto (efficacia fino a contraria dichiarazione) il regime della nullità non può ragionevolmente differire da quello della annullabilità”.
[31] F. VOLPE, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in Dir. proc. amm., 2/2008, 342-350.
[32] F. VOLPE, ult. op. cit., 346-348.
[33] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 151.
[34] S. FRANCA, ult. op. cit., 153-169.
[35] S. FRANCA, ult. op. cit., 177.
[36] Ibidem.
[37] S. FRANCA, ult. op. cit., 178.
[38] Rileva come nell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato sia configurabile una “violazione del dovere di esercitare il potere secondo la disciplina del caso data dal giudicato” D. CORLETTO, Sulla nullità, cit. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. anche M. D’ORSOGNA, Violazione ed elusione del giudicato nella nuova disciplina delle nullità dei provvedimenti amministrativi, in giustamm.it.
[39] F. VOLPE, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 534.
[40] F. VOLPE, ult. op. cit., 533.
[41] Rileva come il giudizio di ottemperanza sia uno “strumento volto a garantire l’effettività della tutela costitutiva di annullamento erogata in fase di accertamento dal giudice amministrativo” F. FRANCARIO, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 4/2016, 1033.
[42] S. GIACCHETTI, Un nuovo abito per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., I, 1979, 2623.
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