ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla natura giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. L‘Adunanza Plenaria si pronuncia sulla violazione del principio di alternatività (nota a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 7 maggio 2024, n. 11).
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum. – 2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria. – 3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale. –– 4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum.
Con la sentenza n. 11 del 2024, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata in ordine alla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e al regime del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto in sede giurisdizionale.
La vicenda da cui trae origine la questione sorge da un mancato coordinamento tra la decisione resa in sede giurisdizionale, a seguito di rituale trasposizione, ed il parallelo procedimento proseguito ai sensi degli artt. 8 ss. d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 e culminato con l’erronea emanazione del decreto decisorio.
In particolare, la vicenda contenziosa nasce dalla realizzazione, senza alcun previo titolo abilitativo, di un manufatto abusivo per il quale veniva poi presentata istanza di condono, cui il Comune rispondeva con un diniego; il diniego di condono veniva impugnato con un primo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria pronunciatosi con sentenza di rigetto, confermata in appello dal Consiglio di Stato.
Nel frattempo, il Comune adottava una prima ordinanza di demolizione dell’opera realizzata in assenza di titolo autorizzativo. Avverso tale ordinanza (n. 754/2006) il privato cittadino artefice del manufatto abusivo proponeva ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto in sede giurisdizionale dinnanzi al medesimo Tar[1].
Nelle more del giudizio da ultimo indicato, il Comune ingiungeva nuovamente la demolizione con una nuova ordinanza (n. 43/2008, ripetitiva della precedente n. 754/2006) impugnata innanzi al Tar[2], che respingeva la domanda[3].
Nonostante la rituale trasposizione in sede giurisdizionale del giudizio avente ad oggetto la prima ordinanza di demolizione, il 18 novembre 2020 veniva erroneamente emesso il decreto del Presidente della Repubblica con il quale veniva accolto il ricorso straordinario proposto avverso l’ingiunzione n. 754/2006.
Successivamente, in senso opposto interveniva la sentenza a definizione del giudizio (n.r.g. 1240 del 2006) relativo allo stesso ordine di demolizione n. 754/2006 con la quale il Tar, respingendo il ricorso, rilevava che “il decreto presidenziale […] è intervenuto dopo la rituale trasposizione del contenzioso innanzi a questo giudice, in cui si era radicata definitivamente la giurisdizione e, pertanto, esso non preclude una decisione sul merito nel presente giudizio”.
I giudici amministrativi, dunque, precisavano immediatamente come il radicamento della propria giurisdizione non potesse essere intaccato dall’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica, essendo questo intervenuto solo dopo la rituale trasposizione del contenzioso in sede giurisdizionale.
Ciò nonostante, il privato cittadino appellava la predetta sentenza sulla scorta di tre motivi, tra cui l’asserita elusione del decreto del Presidente della Repubblica del 18 novembre 2010. L’appellante, muovendo dall’assunto della “natura sostanzialmente giurisdizionale” del ricorso straordinario “e dell’atto terminale della relativa procedura”, sosteneva l’impossibilità per il giudice di disattendere il parere recepito nel decreto presidenziale, pena la violazione della regola dell’alternatività tra i due mezzi di gravame espressa dall’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971, sulla base di un’asserita lapalissiana influenza del decreto sul processo di convincimento del giudice.
In altri termini, la decisione contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica viene tratteggiata dal ricorrente come cosa giudicata.
A fronte del ricorso presentatole, la Sezione VI del Consiglio di Stato osservava come la controversia ponesse la questione inedita del rapporto esistente tra la decisione resa su un ricorso straordinario, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto, e la sentenza adottata in sede giurisdizionale, nel caso in cui le due pronunce abbiano avuto esiti contrastanti.
La soluzione che l’Adunanza Plenaria è chiamata a fornire attiene, sì, al regime del decreto decisorio reso all’esito del ricorso straordinario, ma prima ancora alla natura stessa di tale strumento, questione strettamente funzionale alla risoluzione del quesito se la pronuncia resa sul ricorso straordinario sia idonea a passare in giudicato in una maniera assimilabile alla sentenza pronunciata dal giudice amministrativo.
La Sezione rimettente, infatti, ritiene sussistenti ancora profili di incertezza circa la natura del ricorso straordinario e la portata del principio di alternatività enunciati dall’art 8 d.P.R. n. 1199/1971, pertanto – affermando di propendere per la tesi della nullità sul rilievo della natura soggettivamente amministrativa della decisione che definisce il ricorso straordinario, con conseguente applicabilità delle norme che regolano le invalidità del provvedimento amministrativo – ha rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria il quesito volto a chiarire quale sia “il regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto, ossia: se ad esso sia o non sia riferibile l’insegnamento consolidatosi che considera la decisione di un ricorso straordinario non trasposto avente valore di cosa giudicata e, nel caso in cui tale decreto decisorio del Presidente della Repubblica non abbia valore di cosa giudicata, se debba essere considerato nullo ai sensi dell’art. 21 septies della legge 241 del 1990 perché reso in astratta e totale carenza di potere per violazione del principio di alternatività dei rimedi”
2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in commento, ha preso posizione netta sulla natura del ricorso straordinario, ponendosi in aperto contrasto con la tendenza, sempre maggiormente consolidata in seno a una parte della giurisprudenza[4], a riconoscere una sorta di progressiva “giurisdizionalizzazione”[5] del ricorso straordinario, che avrebbe una natura “formalmente amministrativa, ma sostanzialmente giurisdizionale”[6] .
I principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria[7] sono, infatti, i seguenti: “Il ricorso straordinario è un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, di cui condivide soltanto alcuni profili strutturali e funzionali. La decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, sebbene il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, è nulla ai sensi dell’art. 21 septies del c.p.a., in quanto emanata in difetto assoluto di attribuzione”.
Per giustificare tali conclusioni, i giudici affermano come l’individuazione della regola atta a dirimere il contrasto pratico loro sottoposto sia dipesa dalla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dal regime giuridico conseguentemente applicabile al decreto decisorio.
Attraverso un ineccepibile percorso argomentativo, di cui si dirà diffusamente a breve, volto a ribadire la tesi tradizionale della natura amministrativa, o meglio, giustiziale del rimedio, l’Adunanza Plenaria, avendo dato atto dei due orientamenti contrapposti sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e delle relative conseguenze del regime giuridico applicabile al decreto decisorio reso all’esito del procedimento, attraversa la storia dell’istituto ripercorrendo l’accidentato percorso normativo e giurisprudenziale che lo ha caratterizzato, per poi approdare al dibattito più recente, raffrontando la compatibilità dei diversi orientamenti contrapposti con il quadro normativo esistente.
Svolta tale approfondita ricostruzione, il Supremo Consesso Amministrativo ha ravvisato la necessità di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire da un’imprescindibile indagine sulla portata della nozione di giurisdizione (e non sovrapponibilità della stessa con la nozione di giudice) e di cosa giudicata, senza tralasciare la ratio della regola dell’alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971 per poi tracciare, una volta data adesione alla teoria giustiziale, il regime giuridico dell’atto conclusivo che rappresenta un provvedimento amministrativo a tutti gli effetti e come tale trova la propria disciplina, nelle norme sull’invalidità amministrativa.
3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale.
Il punto di partenza da cui muove l’Adunanza Plenaria, su cui si spende gran parte della pronuncia, attiene alla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Vengono immediatamente prospettate, in apertura della parte in diritto, le due letture[8] attorno alle quali si è polarizzato il dibattito sulla natura del rimedio in esame.
Da una parte la tesi tradizionale[9] – fondata originariamente sulla natura amministrativa dell’organo promanante la decisione, sulla natura obbligatoria ma non vincolante del parere del Consiglio di Stato[10], sull’inidoneità delle decisioni del Presidente della Repubblica a passare in giudicato, e sull’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale e di effettuare rinvio pregiudiziale[11], nonché sul principio di alternatività – vede nel ricorso straordinario un rimedio di natura amministrativa[12].
Dall’altra, la tesi della natura “sostanzialmente giurisdizionale”[13] trova sostegno negli indici della presenza del parere del Consiglio di Stato, nello stesso principio di alternatività che starebbe a dimostrare l’equiordinazione rispetto al rimedio giurisdizionale, nella tendenziale immutabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario, nella possibilità di esperire il rimedio della revocazione[14] e nel principio del contraddittorio, accentuato nell’ambito del ricorso straordinario.
Diverse sono le conseguenze che discendono sul piano pratico, per la questione sottoposta al vaglio dell’Adunanza, a seconda che si sposi l’una o l’altra teoria.
Seguendo l’impostazione tradizionale, la fattispecie andrebbe sussunta sotto le norme che disciplinano l’invalidità dell’atto amministrativo (segnatamente, la nullità per difetto di attribuzione) che in quanto tale sarebbe privo della forza e del valore giuridico per imporsi o condizionare l’accertamento giurisdizionale.
La tesi che invece configura il ricorso straordinario come sostanzialmente giurisdizionale dovrebbe comportare una soluzione diametralmente opposta: la pronuncia sul ricorso straordinario, in maniera non dissimile alla sentenza del giudice amministrativo, sarebbe idonea a passare in giudicato con una serie di conseguenze: la violazione della norma sull’alternatività tra sede straordinaria e giurisdizionale si tradurrebbe in un vizio del decreto che, in applicazione del principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, andrebbe fatto valere tramite il mezzo di impugnazione previsto dalla legge (nel caso di specie quello di cui all’art. 10 comma 3 del d.P.R. n. 1199/1971), risultando altrimenti sanato; il mezzo attraverso il quale dovrebbe essere rilevata l’esistenza di un precedente decreto decisorio (equiparato alla sentenza) ormai “stabile”, sarebbe l’eccezione di cosa giudicata; solo ove non fosse rilevata l’eccezione di cosa giudicata o proposta revocazione avverso la seconda sentenza[15] si determinerebbe, in caso di difformità tra le due pronunce, un contrasto tra giudicati in cui sarebbe l’ultimo giudicato a prevalere sul precedente.
Al fine di dimostrare la fondatezza della tesi tradizionale, la sentenza in commento, tralasciando la trattazione sull’origine storica dell’istituto[16], ripercorre il dibattito che lo ha caratterizzato.
Sino al 2009, l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa intendeva il ricorso straordinario come un rimedio contenzioso di natura amministrativa. In quest’ottica non vi era spazio per il riconoscimento, in capo alle sezioni consultive del Consiglio di Stato, della legittimazione a sollevare l’incidente di costituzionalità né della proponibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione delle decisioni rese su ricorso straordinario o della loro ricorribilità per motivi di giurisdizione.
La discussione sulla natura del rimedio venne rivitalizzata dall’entrata in vigore della l. 69/2009 che, all’art. 69, ha modificato l’art. 13 d.P.R. n. 1199/1971 prevedendo che la Sezione consultiva “se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l’espressione del parere e ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale” nonché l’art. 14 del medesimo d.P.R., eliminando la potestà del Governo di deliberare in senso difforme rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato. A fronte anche delle ulteriori innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104[17], a seguito del riconoscimento da parte della Corte di Cassazione di una serie di rimedi che spostavano l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, quali l’ammissibilità dell’azione di ottemperanza per l’esecuzione dei decreti resi su ricorsi straordinari[18], nonché la loro impugnabilità per motivi inerenti alla giurisdizione[19], la giurisprudenza di legittimità ha sempre più mostrato la propria propensione a riconoscere nel decreto presidenziale un’estrinsecazione sostanziale della funzione giudiziaria.
Diverso è, invece, il tenore delle pronunce della Corte Costituzionale[20] e del Consiglio di Stato che hanno, seppur quest’ultimo in maniera altalenante, negato la piena coincidenza dei due rimedi, per quanto possano dirsi assimilabili sotto taluni profili[21], senza che però ne venga mutata la natura amministrativa.
Da tale ricostruzione emerge innegabilmente un quadro complesso. In più, ragionevolmente, i giudici della Plenaria evidenziano come le formule linguistiche che, prudentemente e con diverse sfumature, alludono ad un’assimilazione del rimedio straordinario a quello giurisdizionale non appaiono, tuttavia, esaustive sul piano definitorio; in altri termini, non viene mai chiarito come “l’asserita antinomia – o ambivalenza – tra forma (di atto amministrativo) e sostanza (di atto decisorio) possa incidere sulla collocazione sistematica e sul regime giuridico dell’istituto”[22]; l’interprete, in altre parole, si mostra spesso restio ad abbandonare quella prudenza che lo trattiene in una costante incertezza definitoria.
Il progressivo riconoscimento della natura giustiziale del ricorso straordinario ha spinto, pertanto, a ingenerare quasi un equivoco lessicale fondato sull’arbitraria sovrapposizione dei concetti di giustiziale e giurisdizionale. Tale equivoco è particolarmente evidente a fronte di un istituto giuridico quale quello del ricorso straordinario, residuato invero di un’altra epoca del nostro diritto, ma pervenuto sino a noi, ove la natura amministrativa del rimedio giustiziale si colloca oggi in evidente contrasto col sentimento di tutela del diritto di difesa ormai imprescindibile nelle ipotesi di tutela giurisdizionale. Da ciò l’esigenza degli interpreti di piegare il lessico normativo e, di conseguenza, la sostanza del rimedio, per il perseguimento di questo obiettivo[23].
Proprio a fronte di tale incertezza lessicale e inconcludenza sul piano definitorio, il Supremo Consesso ravvisa l’esigenza di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire dalla nozione di “giurisdizione” che, sin da subito, viene differenziata dalla rappresentazione ideale della funzione di rendere giustizia, dovendosi invece definire come attributo di specifica e concreta attività statale da disciplinare. Vanno scartati i tentativi dottrinali di definizione della giurisdizione sulla base di aspetti di tipo contenutistico o sulla base del dato strutturale – ossia quello di essere l’accertamento dei giudici contrassegnato dal particolare regime di cosa giudicata – dovendosi optare per l’unica definizione attendibile, basata non sul dato ontologico quanto sull’aspetto soggettivo: “la giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai giudici, come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (artt. 101, 102 e 103 Cost.)”[24].
Partendo da tale concetto di attività giurisdizionale, demandata all’autorità giudiziaria ordinaria e agli altri organi di giurisdizione contemplati dalla Costituzione, tra cui i Tribunali Amministrativi Regionali ed il Consiglio di Stato, l’Adunanza Plenaria dimostra, a partire dalla qualificazione normativa dell’istituto, come gli indici normativi depongano tutti nel senso della natura amministrativa del rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Il d.P.R. n. 1199/1971 configura espressamente il ricorso come rimedio amministrativo, anche il procedimento[25]illumina la natura non giurisdizionale del rimedio. Difettano, infatti, tutti gli elementi propri dell’attività giurisdizionale in quanto: normalmente non viene garantito il contraddittorio e il parere è espresso in seduta non pubblica nella quale non è ammessa discussione orale; il parere del Consiglio di Stato è un atto endoprocedimentale, che acquista valore fino a quando non viene emanato il decreto del Presidente della Repubblica; il decreto conclusivo è un atto ministeriale perché controfirmato dal Ministro, che ne assume responsabilità politica e giuridica; la decisione finale viene imputata allora allo Stato come persona giuridica e non all’organo giurisdizionale; emerge, infine, un’autonomia strutturale della decisione del Presidente della Repubblica e Ministro rispetto a quella del Consiglio di Stato in quanto gli eventuali vizi propri del segmento successivo al parere possono essere fatti valere ai sensi dell’10 comma 3 d.P.R. 1199/1971 e il fatto che il Presidente della Repubblica abbia la facoltà di richiedere il riesame del parere restituendo gli atti al Ministro competente, sostiene la teoria che la decisione finale non sia meramente dichiarativa di una pronuncia dell’organo giurisdizionale.
Significativa, in questa ricostruzione, è la caratteristica – richiamata a fondamento di entrambe le teorie sulla natura del ricorso straordinario – dell’alternatività del rimedio rispetto a quello giurisdizionale. In quest’ottica, l’argomento è richiamato a sostegno dell’eterogeneità dei due rimedi, che, pur presentando punti di contatto, hanno natura diversa; non a caso è prevista la possibilità di trasporre il ricorso in sede giurisdizionale, evidenziandosi in tal modo la diversità e complementarietà dei due, che danno vita ad un sistema integrato di tutela. L’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971 subordina, infatti, l’ammissibilità del ricorso straordinario alla condizione che lo stesso interessato non abbia impugnato il medesimo atto con ricorso giurisdizionale; il ricorso straordinario diviene improcedibile qualora l’amministrazione o il controinteressato abbiano trasposto il giudizio in sede giurisdizionale (art. 10).
Lo stesso c.p.a. prende allora in considerazione il ricorso straordinario al solo fine di disciplinare gli effetti processuali della predetta trasposizione. La generalizzazione della facoltà di opposizione estesa a tutte le parti art. 48 comma 1 c.p.a.) si spiega per salvaguardarne il diritto di azione in sede giurisdizionale: la locuzione di cui all’art. 48 c.p.a. (secondo cui se l’opposizione è dichiarata inammissibile il tribunale dispone la restituzione del fascicolo “per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”) è semplicemente un meccanismo di raccordo con il rimedio amministrativo conseguente all’accertata inidoneità dell’opposizione a comportare la trasposizione.
A spiegare la natura giustiziale del ricorso straordinario è la stessa ratio dell’opposizione, volta a garantire ai controinteressati e alle parti resistenti la piena libertà di adire la tutela giurisdizionale e non quella di scegliere tra due rimedi entrambi giurisdizionali[26]: la trasposizione esprime allora “un rapporto di complementarietà tra il mezzo giustiziale e quello giurisdizionale, entrambi parti di un sistema comunicante e integrato di tutela”[27].
Non può poi ignorarsi lo stesso art. 69 della legge n. 69/2009 che, rubricato “Rimedi giustiziali contro la pubblica amministrazione”, sottolinea esplicitamente l’intenzione legislativa di incrementare le garanzie di un rimedio giustiziale e non di certo di trasformarlo in mezzo di impugnazione giurisdizionale.
Il dato positivo è allora inequivoco e, poiché le norme processuali rinviano a una nozione formale di giurisdizione, le relative disposizioni non possono estendersi ad attività poste in essere da soggetti diversi dai giudici. Pur a fronte dell’indeterminatezza dei termini del linguaggio naturale, l’interpretazione non è mai un atto libero da vincoli e deve pur sempre muoversi, nell’attribuzione del significato, nel perimetro della volontà del legislatore. La nozione di rimedio “formalmente amministrativo, ma sostanzialmente giurisdizionale” non trova alcun riscontro nel dato normativo ed è priva di un effettivo significato.
Perciò l’Adunanza Plenaria nega la possibilità di riqualificare in via pretoria un intero istituto, ricollocando una classe di ipotesi da una sede normativa ad un’altra, in quanto tale operazione trascende il testo ed è destinata a creare ulteriori antinomie: affidare agli interpreti una tale discrezionalità significa esporsi ad esiti imprevedibili, fondati su criteri ondivaghi ed evanescenti[28].
Né si può dal contesto sovranazionale estrapolare una definizione autonoma di giurisdizione, distorcendo una definizione funzionale che, nell’elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte di Strasburgo, ha semplicemente lo scopo di assicurare allo strumento del rinvio pregiudiziale la garanzia dell’“effettività” del diritto europeo, e certamente non di ampliare la nozione, inglobando un rimedio amministrativo nel sistema giurisdizionale[29].
La possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale o di effettuare il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia non può essere assunta quale indice della natura giurisdizionale del rimedio in quanto le nozioni di giurisdizione, e ancor più quella di giudice[30], adottate a tal fine sono, dunque, più ampie rispetto a quelle delineate dal diritto interno e rispondono ad un diverso fine che ne giustifica la connotazione in senso sostanziale.
Su queste basi, l’Adunanza Plenaria, tira le fila della digressione, dettando[31] le proprie conclusioni:
Proprio alla luce dell’impossibilità di qualificare la decisione amministrativa come cosa giudicata in senso tecnico, la Plenaria fa un ultimo passaggio mettendo in discussione anche quell’orientamento[33] che la ritiene impugnabile ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.: la posizione favorevole al ricorso di cui all’art. 362 c.p.c., infatti, sembrerebbe collidere con l’art. 10 comma 3 d.P.R. n. 1199/1971, ove si prevede la possibilità di impugnare la decisione resa su ricorso straordinario davanti al giudice amministrativo: per le parti del giudizio, unicamente per vizi di forma o di procedimento; per il soggetto pregiudicato dalla decisione straordinaria, ma non evocato in sede straordinaria, anche per tutti altri possibili errori di giudizio della decisione[34].
Sicché sembrerebbe quantomeno asistematico fare discendere dalla (asserita) “ambivalenza” del ricorso straordinario finanche una divaricazione del regime delle impugnazioni: il giudizio amministrativo di legittimità con riguardo alla “forma amministrativa”; il ricorso per cassazione in ragione della “sostanza giurisdizionale”. Impugnazioni che, per giunta, sarebbero concorrenti tra di loro, mancando una qualsivoglia norma di coordinamento.
Ad opinione della Plenaria appare, quindi, preferibile ritenere che l’art. 7, comma 8, del c.p.a. – il quale ammette il ricorso straordinario “unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa” – contenga una norma che delimita l’ambito di applicazione del ricorso giustiziale, la cui violazione è censurabile in sede giurisdizionale (e nei vari gradi di giudizio) tramite l’impugnazione di cui al predetto art. 10, comma 3..
4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
Una volta sposata la teoria giustiziale, può finalmente completarsi il quadro delineando il regime giuridico dell’atto finale: inquadrata la decisione del Presidente della Repubblica come provvedimento amministrativo a tutti gli effetti, il regime giuridico non può che essere quello delineato dalla legge n. 241/1990.
Viene, dunque, scartata l’ipotesi del contrasto tra giudicati – corollario della tesi della natura giurisdizionale del ricorso straordinario – e affermato che il regime della decisione resa, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. n. 1199/1971 e dalle pertinenti norme del c.p.a., è quello dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo, segnatamente dalle norme sull’invalidità amministrativa.
I giudici di Palazzo Spada tracciano il regime del provvedimento nullo, evidenziandone tutta la distanza rispetto alla disciplina dell’invalidità in ambito negoziale.
L’art. 21 septies l. n. 241/1990, si legge, ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria.
Tra i vizi che determinano la nullità, la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico. Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (cd. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio (la categoria pretoria della carenza di potere in concreto, invece, rientra oramai nell’area dell’annullabilità).
La fattispecie de qua, ad opinione della Plenaria, ricade senza dubbio nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione. L’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano, infatti, l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971, inibisce qualsiasi pronuncia, di rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale). Se ne desume che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale (salva l’ipotesi dettata dall’art. 10, comma 2, d.P.R. n. 1199/1971).
L’Adunanza si spende poi in una ricostruzione, anche storica, del regime dell’invalidità del provvedimento, valorizzando le innovazioni apportate dal c.p.a.
Nell’assetto anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, annullabilità e nullità rappresentavano il precipitato di tecniche normative marcatamente diverse: l’atto nullo (nel solco della teoria generale del negozio giuridico) veniva considerato giuridicamente rilevante (in quanto sussumibile in una fattispecie normativa, in primis quella che contempla le diverse ipotesi di nullità), ma improduttivo di effetti; il regime dell’annullabilità, rispondendo all’esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, consentiva, a differenza della nullità, che il provvedimento illegittimo si consolidasse rapidamente in caso di mancata impugnazione e comunque producesse i suoi effetti fino all’eventuale caducazione.
L’entrata in vigore del c.p.a., ha tuttavia consacrato una disciplina dell’azione di nullità del tutto difforme rispetto alla tradizione civilistica.
Ai sensi dell’art. 31, comma 4, del c.p.a. “la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni”. L’azione di nullità, dunque, non può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.) e senza essere soggetta a prescrizione (art. 1422 c.c.), ma solo da coloro che sono legittimati a far valere ogni altra illegittimità del provvedimento ed entro un breve termine di decadenza (sia pure più lungo di quello previsto per l’azione di annullamento). Essendo configurata come vizio la cui contestazione è soggetta a termine decadenziale, la nullità si atteggia in termini di illegittimità “forte”, suscettibile anch’essa di consolidamento per coloro che ne subiscono gli effetti pregiudizievoli.
Le principali differenze tra le due forme di invalidità si manifestano nelle tecniche di sindacato: il giudizio sulla nullità si misura in termini “parametrici” di difformità dell’atto rispetto allo schema legale; il giudizio di l’annullabilità consente, invece, di sanzionare anche la devianza “funzionale” dell’atto rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico assegnato alla cura dell’Amministrazione, ovvero di controllarne la ragionevolezza e proporzionalità (sia pure con il divieto di procedere a valutazioni sostitutive di merito).
La pronuncia si sofferma, infine, sui quesiti interpretativi sollevati con riguardo al secondo periodo del comma 4 dell’art. 31 c.p.a., il quale precisa che “la nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”.
Con riguardo a tale aspetto, viene precisato che il potere del giudice di rilevare in via officiosa l’esistenza di una causa di nullità va contemperato e coordinato con il principio dispositivo della domanda e con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo.
Il rilievo d’ufficio della nullità – possibile solo ex actis, sulla base cioè dei fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa – non trova ostacoli se volto a paralizzare la domanda di annullamento del ricorrente (com’è per l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione). Il rilievo della nullità da parte del giudice non può invece sopperire alla carenza di allegazioni del ricorrente, introducendo un tema decisorio che non era stato dedotto nell’atto di impugnazione: l’esercizio del potere officioso, in tale caso, renderebbe vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio da parte del ricorrente[35]; sussistendone i presupposti e in ossequio al principio di legalità e di parità delle armi, non può riconoscersi alcuna discrezionalità in capo al giudice nel rilevare la nullità.
[1] Con ricorso iscritto al n.r.g. 1240 del 2006.
[2] Con ricorso iscritto al n.r.g. 528 del 2008.
[3] Con sentenza n. 584 del 5 giugno 2009, confermata poi dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2906 del 2020.
[4] Si segnala, in particolare, Cass. SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065 che, fungendo da modello per le successive pronunce che hanno spostato l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, ha chiarito come le modifiche apportate alla disciplina del ricorso straordinario dalla legge 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale: l’eliminazione del potere della PA di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato confermerebbe che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio, per cui che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in atto giurisdizionale (in ragione della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti (si legge che “il provvedimento è amministrativo nella forma, ma assimilato a quello giurisdizionale nei contenuti”).
Sempre la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con una serie di sentenze successive (Cass. SSUU., 19 dicembre 2012, n. 23464; 8 settembre 2013, n. 20659; 5 ottobre 2015, n. 19786) sembrava aver superato la natura amministrativa del rimedio, riconoscendo l’idoneità del decreto stesso a formare il giudicato.
Tale tesi, sostenuta dalle Sezioni Unite, è stata successivamente avallata dal Consiglio di Stato che, con Ad. Plen. 5 giugno 2012, n. 18, pur avendo chiarito che il ricorso straordinario al Capo dello Stato costituisce un rimedio giustiziale che si colloca in simmetrica alternativa con quello giurisdizionale, ancorché di più ristretta praticabilità quanto al novero delle azioni esperibili, testualmente afferma come non sia dubitabile che il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una “domanda giurisdizionale”.
Nello stesso solco si colloca poi anche Cons. Stato, Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9 che ha riconosciuto “la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura”.
Gli stessi argomenti sono stati poi ripresi, da ultimo, da Cons. stato, Ad. Plen, 2015, n. 7 per la quale la decisione resa all’esito di un ricorso straordinario è da ricondurre all’apporto consultivo del Consiglio di Stato, connotato da una suitas giurisdizionale tale da trasformare il provvedimento reso dal Presidente della Repubblica in meramente dichiarativo: secondo tale ricostruzione, il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è comunque “estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale” che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti (la sentenza, che di fatto ha riconosciuto la portata innovativa e non meramente interpretativa della modifica legislativa del 2009, nel precisare come tali modifiche debbano considerarsi “inidonee ad incidere sulla natura giuridica” di decreti presidenziali adottati prima della loro entrata in vigore, ha sostanzialmente ravvisato, al contrario, un mutamento della natura giuridica dei decreti presidenziali adottati all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009..
[5] Sul punto si segnalano: per un’ampia trattazione critica sulla natura del rimedio e sulla sua attualità, C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in www.giustizia-amministrativa.it; per una ricostruzione sulla natura del rimedio alla luce della sua “giurisdizionalizzazione” e sulla compatibilità con l’ottemperanza, S. Casilli, La tutela esecutiva per la decisione resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: gli ultimi sviluppi, tra evoluzione e arresti giurisprudenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Prima, 28 febbraio 2022, n. 475), in questa Rivista, 1 febbraio 2023.
[6] Definizione, questa, affermatasi in via pretoria, ma che non trova alcun riscontro effettivo nel dato normativo (non si dimentichi la fondamentale incidenza del principio di legalità nella materia amministrativa), come evidenziato dalla stessa sentenza in commento al punto 3.1 ove si legge che “la creazione pretoria di una nuova categoria di atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente giurisdizionali contrasta anche con la qualificazione scolpita nella legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica) che, nel tipizzare gli «atti amministrativi» (non previsti espressamente dalla Costituzione o da norme costituzionali) da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio o del ministro competente, all’art. 1, comma 1 lettera bb), vi include espressamente la «[…] decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica».
[7] Al punto 8 della sentenza in commento.
[8] Il fulcro di detto contrasto giurisprudenziale, afferendo all’estensione delle forme di tutela disponibili sulla base del dato formale dello strumento di tutela attivato, pur a fronte della medesima situazione giuridica soggettiva (e, segnatamente, al riconoscimento della possibilità di accedere alla tutela esecutiva), ricorda, per certi versi, la tensione sottesa al concetto di Rechtsschutzbedürfnis nel pensiero di Schönke (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 107 ss.).
[9] Cass. SSUU, 2 ottobre 1953, n. 3141; Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 1954, n. 724.
[10] Natura poi mutata dalla legge n. 69/2009 che ha modificato gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/1971 rendendo obbligatorio e vincolante nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il parere del Consiglio di Stato e prevedendo la possibilità, per quest’ultimo, di sollevare, anche in sede consultiva, questioni di legittimità costituzionale.
Il mutato carattere vincolante del parere ha costituito, per taluni, argomento a sostegno della tesi della natura giurisdizionale.
In senso contrario, tuttavia, è stato escluso che possa essere significativo il fatto che la riforma del 2009 abbia reso vincolante il parere del Consiglio di Stato, in quanto la vincolatività di tale provvedimento non ne muterebbe la natura, che rimarrebbe amministrativa ed ancorata ad una funzione giustiziale: in questo senso deporrebbe anche la rubrica dell’art. 69 l. 69/2009. Così G. D’Angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in www.giustamm.it, 2013, 6, secondo cui semmai la vincolatività muta i termini del rapporto con il decreto del Presidente della Repubblica. Del resto, è stato evidenziato che nel procedimento del ricorso straordinario la natura decisoria è riconoscibile, con maggiore evidenza oggi in ragione del carattere vincolato, al parere del Consiglio di Stato, il quale avrebbe carattere formale di atto consultivo ma dal punto di vista sostanziale sarebbe caratterizzato dagli stessi contenuti di una decisione amministrativa (cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2013, 165).
[11] Anche in relazione all’esperibilità del rinvio pregiudiziale lo scenario è oggi mutato alla luce della spinta favorevole operata dalla Corte di Giustizia già con sentenza del 16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96. In quell’occasione la Corte, infatti, giunse ad ammettere la possibilità per il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere su ricorso straordinario, di effettuare il rinvio pregiudiziale. A tale conclusione la Corte di Giustizia pervenne sulla base della considerazione per cui anche in tale sede al Consiglio di Stato va riconosciuta la qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE.
Sulla scia della sentenza della Corte di Giustizia si pose poi lo stesso Consiglio di Stato, sez. I, 19 maggio 1999, n. 850, giungendo ad ulteriori conseguenze e ritenendosi legittimato, anche in sede di parere reso su ricorso straordinario, a sollevare questione di legittimità costituzionale.
Deve però rilevarsi come a più riprese, prima dell’entrata in vigore della modifica legislativa del 2009, si fossero espresse la Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 21/1975, n. 148/1982, n. 254/2004) al fine di negare alle Sezioni consultive del Consiglio di Stato la legittimazione a sollevare incidente di costituzionalità e le Sezioni Unite (con sentenza del 18 dicembre 2001, n. 15978) al fine di confinare la portata del precedente offerto dalla Corte di Giustizia, osservando come la nozione di “organo giurisdizionale – rilevante al fine dell’individuazione delle autorità legittimate a rimettere in via pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia questioni relative all’interpretazione del Trattato – dovesse essere ricavata esclusivamente dalle norme di diritto comunitario, mentre nel caso di specie essa avrebbe dovuto essere desunta dalle disposizioni di diritto interno” per cui tra le due nozioni non doveva esservi, dunque, necessaria coincidenza.
[12] In tal senso pronunce fondamentali sono le già citate Cass. SS.UU. n. 15978/2001 e Corte Cost. n. 254/2004.
[13] Si rinvia, a fondamento dell’orientamento sostanzialmente giurisdizionale, supra, alla nota 4.
[14] Come previsto dall’art. 12 d.P.R. n. 119/1971, ma anche ribadito da TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30 settembre 2022, n. 2582 in cui si legge che “Per giurisprudenza consolidata, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato o al Presidente della Regione può essere impugnata per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 c.p.c., nonché davanti al giudice amministrativo solo per i vizi formali e procedurali successivi al vincolante parere di rito del Consiglio di Stato. Tali limitazioni all'impugnativa della decisone sono opponibili solo al ricorrente e alle controparti del procedimento giustiziale, le quali non avendo chiesto la trasposizione alla sede giurisdizionale hanno così accettato tutte le peculiarità e conseguenze di tale procedimento.
In particolare, la rinuncia del ricorrente straordinario successiva alla trasmissione del parere dell'organo consultivo, ma anteriore al decreto presidenziale, non può essere utilmente presentata e, ove prodotta, non può essere considerata e dispiegare i pretesi effetti estintivi.
L'espressione del parere obbligatorio esaurisce la fase decisionale del ricorso straordinario; la sua rivalutazione in sede giurisdizionale è inammissibile stante il principio di alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, che non consente che vengano rimesse in discussione questioni, di forma e/o di sostanza, afferenti gli atti ed i provvedimenti opposti in via straordinaria, onde evitare che l'impugnazione in sede giurisdizionale porti ad un riesame del medesimo giudizio espresso in sede consultiva, per effetto della sovrapposizione della decisione giurisdizionale a quella del ricorso straordinario”.
[15] Ai sensi dell’art. 395 n. 5 c.p.c.
[16] Il più lontano antenato del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è rinvenibile nel sistema di “giustizia ritenuta”, tipico delle monarchie assolute. La prima codificazione di questo rimedio risale al 1739, nel 1975 fu poi istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il sovrano potesse ascoltarne il parere, anche se non vincolante, prima di decidere sui ricorsi a lui indirizzati; fu poi Carlo Alberto nel 1831, a modificarne la denominazione in “Consiglio di Stato” il cui parere venne reso obbligatorio in tutti i casi di ricorso al Re dalla Legge del Regno di Sardegna n. 3707/1859.
Con l’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato venne meno la funzione del ricorso straordinario di rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. La legge n. 5992/1889, infatti, attribuiva definitivo sbocco giurisdizionale anche agli interessi legittimi, fino ad allora tutelabili solo attraverso lo strumento dei ricorsi amministrativi.
Pur ritenendo alcuni che il rimedio avesse esaurito la sua utilità, l’istituto venne mantenuto in vita e disciplinato dal d.P.R. n. 1199/1971 e, per evitare che vi fossero problematiche duplicazioni, in ossequio al principio del ne bis in idem, si fece ricorso al principio di alternatività tra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario di modo da evitare da un lato che sullo stesso atto intervenissero due pronunce giustiziali diverse e dall’altro che il Consiglio di Stato si pronunciasse due volte sulla medesima questione.
[17] Il quale: ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (art. 7 comma 8); ha, sia pur non espressamente, definitivamente riconosciuto la possibilità di azionare il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del decreto presidenziale (art. 112); ha generalizzato la facoltà di opposizione di cui all’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario (art. 48 comma 1); ha previsto che “qualora l’opposizione sia inammissibile, il Tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”, delineando, secondo alcuni, una particolare ipotesi di translatio iudicii (art. 48 comma 3 c.p.a.)
[18] In tal senso le già citate SS.UU. n. 2065/2011.
[19] Cass. SS.UU. n. 23464/2012, n. 20596/2013, n. 10414/2014.
[20] Corte Cost. n. 73/2014, n. 24/2018, n. 63/2023.
[21] Recentemente il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sez. I, 22 novembre 2019, n. 2935), pur riconoscendo che il ricorso straordinario “ha perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo”, ha concluso che “non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili” e che l’atto conclusivo della procedura va qualificato come provvedimento amministrativo, “solo per certi aspetti equiparato” ad una sentenza (proprio su queste basi è stata giustificata la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e oralità).
[22] Punto 2.4 della sentenza in commento.
[23] La questione della corretta lettura lessicale dei termini di diritto è peraltro non frutto solo della recente ipertrofia interpretativa, ma era noto già alla dottrina ottocentesca ove si poneva il problema di coordinare un testo normativo ritenuto vago e incompleto con la sentita necessità di garantire adeguata tutela. Così, “l’appello al sentimento giuridico del giudice è il segno che non ci sono altre parole: il sentimento giuridico è la reazione sociale alla frustrazione del desiderio del testo. Sussiste una correlazione necessaria tra afasia normativa e senso giuridico. Una società è in afasia normativa quando non riesce a verbalizzare norme per l’insuperabilità di contrasti sugli oggetti da regolare. Giunta al limite del linguaggio regolativo, mediante le formule di autotrascendenza la società scopre quanto possa esserle provvidenziale l’afasia” (P. Femia, Sentimento e moltitudine. Rudolf von Jhering tra interessi ideali e beni comuni, Il Mulino, 2024, 225 ss).
[24] Si legge al punto 3 della sentenza.
[25] Il legislatore, in ordine al procedimento che conduce alla decisione, prevede che: il ricorso venga notificato all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente, il quale ordina, se del caso, l’integrazione del procedimento (art. 9): l’Amministrazione competente per materia svolge l’istruttoria (art. 11); l’affare già istruito viene trasmesso alle Sezioni Consultive del Consiglio di Stato (art. 12) per l’adozione del parere vincolante (art. 13).
[26] È stato autorevolmente rilevato che, se si optasse, al contrario, per la natura “sostanzialmente giurisdizionale” del rimedio in esame, il significato dell’opposizione dei controinteressati (e delle parti resistenti) non sarebbe più quello di scegliere tra un rimedio giurisdizionale e uno amministrativo, ma quello di scegliere tra due rimedi giurisdizionali (l’uno semplificato e l’altro ordinario), con una conseguente notevole limitazione dell’oggetto del consenso di tutte le parti: l’espressione “sostanzialmente giurisdizionale” da un lato lascerebbe intendere l’impossibilità di sostenere la tesi della natura effettivamente giurisdizionale, dall’altro lato introdurrebbe una distinzione tra giurisdizione in senso sostanziale e giurisdizione in senso formale, che è giustificabile in altri sistemi giuridici ma non nel nostro, in considerazione della disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale (in tal senso F.G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18, in Foro it., 2012, III, 2378).
[27] Punto 3.1 della sentenza in commento.
[28] Le conseguenze rischiose sono presto dette: il diritto giurisprudenziale “diviene un diritto di lotta combattuta con le armi dell’interpretazione, cioè delle norme modellate dall’attività interpretativa: lotta ermeneutica contro fenomeni che non si ritengono adeguatamente tutelati dalla legge” (P.L. Portaluri, Immagini da un futuro possibile: il paradigma della legittimazione ad agire, in CERIDAP. Rivista Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche, fasc. 2/2023, 227 ss).
[29] In tal senso deve essere ridimensionata la portata della pronuncia – che per taluni avrebbe segnato la conclusione del processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario – della Corte Edu, Sez. I, 8 settembre 2020, Mediani c. Italia, che ha affermato che le tutele previste dalla Convenzione (e segnatamente l'art. 6 sulla ragionevole durata dei processi) sono riferibili anche al ricorso straordinario.
[30] Nel diritto interno, infatti, già le due nozioni si differenziano in quanto quella di “giudice”, ai fini dell’applicazione dell’art. 1 legge costituzionale n. 1/1948 e dell’art. 23 l. n. 87/1953, è più ampia di quella di “giurisdizione”.
[31] Al punto 5 ss.
[32] Come è stato osservato da Cons. Stato, Ad. Plen. 14 luglio 2015, n. 7, l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge. Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto all’esecuzione delle decisioni definitive e vincolante che le ha pronunciate, è parte integrante del “diritto a un tribunale” nell’ampia accezione ‘convenzionale’ (inclusiva cioè anche di organi non inseriti nell’apparato giudiziario). Che la decisione resa su ricorso straordinario non configuri un giudicato in senso tecnico non comporta, tuttavia, alcuna modifica dell’orientamento espresso dalla medesima Adunanza Plenaria, nelle sentenze n. 9 e 10 del 2013, secondo cui il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta.
[33] Sul punto si segnala nuovamente Cass. SS.UU. n. 10414/2014, sentenza che, con un’opera di equilibrismo giuridico, ha segnato un’apertura verso l’impugnabilità delle decisioni rese all’esito del ricorso straordinario per motivi inerenti alla giurisdizione, ma non con la medesima ampiezza prevista dall’art. 9 c.p.a.; la Corte estrae una regola processuale assente nell’ordinamento, conformata alla specialità del procedimento (che si svolge in unico grado) che preclude l’impugnazione delle pronunce laddove non sia stata contestata nel corso del procedimento la giurisdizione, fondatasi, così, per accordo delle parti (potendosi diversamente impugnare la decisione per motivi di giurisdizione ove una delle parti l’abbia contestata durante il procedimento).
Le Sezioni Unite consentono tuttavia il ricorso per motivi di giurisdizione ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost. sotto un diverso profilo, ossia quello dell’eccesso di potere giurisdizionale, in quanto in tal caso la questione di giurisdizione non attiene alla giurisdizione come presupposto che deve sussistere, ma riguarda un momento successivo, quello della decisione, che astrattamente potrebbe eccedere dai limiti del potere giurisdizionale, come quando il giudice amministrativo esercita una prerogativa spettante alla PA; evenienza questa (eccezionale), che legittimerebbe le parti, che sul punto non possono dirsi soccombenti, a proporre ricorso ex art. 111 comma 8 Cost. e art. 362 c.p.c.
[34] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 giugno 2006, n. 9.
[35] Così come osservato da Cons. Stato, Sez. III, 3 luglio 2019, n. 4566.
Contenzioso climatico e giurisdizione
di Giuliano Scarselli
“Si chiama perciò politica quell’aspetto della realtà che concerne il complesso degli interessi collettivi”.
F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 12.
Sommario: 1. Il contenzioso climatico in Italia e la questione della giurisdizione del giudice ordinario. 2. Si deve distinguere le controversie intentate contro lo Stato, nelle quali la giurisdizione è esclusa dal principio di separazione dei poteri. 3. Segue: e dall’impossibilità di sostituire il giudice all’amministrazione. 4. Segue: da quelle intentate contro le grandi imprese, nelle quali la sussistenza (o meno) della giurisdizione va valutata secondo le regole procedurali generali. 5. Il difetto assoluto di giurisdizione tra doveri dello Stato (e/o delle imprese) e diritti dei cittadini. 6. I doveri dello Stato. 7. Segue: quelli delle imprese. 8. Segue: e i diritti dei cittadini. 9. Ai doveri degli Stati (e/o delle imprese) non corrispondono automaticamente dei diritti per i cittadini. Quando ciò si verifica e quando no. Analisi della normativa interna e comunitaria sul punto. 10. Ed inoltre: del difetto di giurisdizione delle azioni che fuoriescono dal crisma della pretesa giudiziaria. 11. Se questi argomenti possono tenere a fronte del diritto dell’Unione europea. 12. Brevissima conclusione.
1. Il contenzioso climatico in Italia e la questione della giurisdizione del giudice ordinario. Intervengo su una questione di grande attualità, che è quella della giurisdizione (o meno) del giudice ordinario a fronte di azioni giudiziarie fatte valere da associazioni, oppure da semplici cittadini, per la condanna dello Stato, o di grandi realtà economico/industriali, ad adeguarsi ai doveri della riduzione nell’emissione di gas serra per ottemperare al raggiungimento degli obiettivi nazionali e internazionali a fronte dei cambiamenti climatici in corso[1].
Al riguardo, dobbiamo soprattutto far riferimento a due controversie in Italia:
a) la prima si è chiusa in primo grado con una sentenza del Tribunale di Roma, 26 febbraio 2024, sezione seconda, n. 3552[2].
Esattamente, una associazione e dei privati adivano il Tribunale di Roma contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per ottenere la condanna dello Stato, ai sensi degli artt. 2043 e 2058 c.c.: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990, ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda” (così la domanda delle parti attrici).
Costituitasi in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato, il Tribunale di Roma, con la sentenza sopra menzionata, dichiarava inammissibile la domanda per difetto assoluto di giurisdizione.
Osservava il Tribunale di Roma che: “Gli attori, nel contestare l’inadeguatezza e l’insufficienza della condotta dello Stato nel contrastare i cambiamenti climatici lamentano una responsabilità dello Stato-legislatore, non predicabile fuori dai casi di violazione del diritto dell’Unione europea”; e quindi gli attori, secondo il Tribunale di Roma, chiedevano al giudice di intervenire su “valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana che rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio”.
Una pronuncia di merito su simile domanda, per il Tribunale di Roma, si sarebbe posta: “in violazione di un principio cardine dell’ordinamento rappresentato dal principio di separazione dei poteri” (così Trib. Roma, pag. 12 della sentenza).
b) Parallelamente a questa iniziativa ve n’è stata un’altra, con la quale due associazioni, unitamente sempre a dei soggetti privati, si sono rivolte, di nuovo al Tribunale di Roma, questa volta però non contro lo Stato ma contro ENI s.p.a., perché il Tribunale dichiarasse che “ENI s.p.a., Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cassa depositi e prestiti s.p.a., a seguito delle emissioni in atmosfera di gas serra, e in particolare CO2, provenienti dalle attività industriali, commerciali e dei prodotti per il trasporto di energia venduti da ENI, non hanno ottemperato e non stanno ottemperando al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali riconosciuti di cui ENI s.p.a. si sarebbe dovuta dotare in linea con l’Accordo di Parigi, con l’art. 2 l. 240/2016 e con gli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi, in violazione degli artt. 2 e 8 della CEDU, così come previsto dagli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza. Per l’effetto accertare e dichiarare che ENI s.p.a., Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cassa depositi e prestiti s.p.a., sono solidamente responsabili, per violazione del combinato disposto degli artt. 2 e 8 della CEDU, 2 e 7 della Carta di Nizza, e degli artt. 2043 (o in alternativa art. 2050 0 2051 c.c.) e art. 2059, per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi dagli attori per l’effetto delle conseguenze del cambiamento climatico che essi hanno concorso a cagionare”[3].
In questa occasione, probabilmente per la sussistenza della pronuncia del Tribunale di Roma sopra menzionata, le parti attrici promuovevano regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. per far dichiarare la giurisdizione del giudice adito circa il contenzioso promosso[4].
Il regolamento preventivo di giurisdizione porta la data del 10 giugno 2024, e la questione è pertanto al vaglio della Sezioni Unite della Corte di Cassazione[5].
2. Si deve distinguere le controversie intentate contro lo Stato, nelle quali la giurisdizione è esclusa dal principio di separazione dei poteri. Orbene, io credo che in primo luogo sia necessario distinguere il contenzioso climatico che veda quale convenuto lo Stato, da altro contenzioso climatico che veda quale convenuto una società commerciale/industriale.
La differenza è evidente, poiché lo Stato, a differenze di una società industriale, non inquina e non produce direttamente gas serra; ciò possono farlo solo i singoli cittadini, oppure le imprese.
Dal che, se io chiedo che lo Stato venga condannato “all’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990”, in realtà io non chiedo che detto abbattimento sia posto in essere dallo Stato, ma chiedo, più precisamente, che lo Stato si attivi perché tale comportamento sia tenuto dai cittadini e dall’imprese.
In questi casi la domanda giudiziaria è quindi indiretta, e non a caso le stesse conclusioni dell’atto di citazione precisano che lo Stato sia condannato più esattamente “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc…….
Dunque, non si pretende che il giudice condanni lo Stato all’abbattimento delle emissioni artificiali di CO2-ed, bensì che lo condanni a tenere un comportamento che imponga agli altri di abbattere le emissioni artificiali di CO2-ed.
Ma questa imposizione, ovvero queste “necessarie iniziative” delle quali si chiede la condanna, non potrebbero che avere ad oggetto leggi, o atti aventi forza di legge, con i quali, appunto, imporre il rispetto degli obiettivi.
E poiché è pacifico che il giudice, in uno Stato democratico basato sul principio della separazione dei poteri, non ha alcuna possibilità di ordinare agli organi competenti di fare leggi, o atti aventi forza di legge, di qualunque tipo o natura, (ma direi che la regola valga anche negli Stati totalitari), va da sé che una simile domanda rivolta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri non può che scontrarsi con il difetto di giurisdizione[6].
In questi termini la decisione del Tribunale di Roma, 26 febbraio 2024, che ha dichiarato inammissibili le domande per difetto assoluto di giurisdizione in quanto volte a condannare lo Stato-legislatore, non può che trovare piena condivisione, pena altrimenti il venir meno di ogni regola ordinamentale e processuale.
Il potere di imporre le leggi non è riconosciuto nemmeno alla Corte Costituzionale, relativamente alla quale, al più, si parla di “sentenze monito”, ovvero di sentenze che semplicemente indicano, senza alcun obbligo per il legislatore e fuori da meccanismi di condanna giudiziale, quale possa o debba essere la disciplina costituzionalmente legittima di una determinata materia[7].
E se tale potere non spetta alla Corte Costituzionale, certamente non può spettare al giudice ordinario di merito.
Né un potere del genere può essere immaginato presso il giudice amministrativo: e ciò non solo perché il difetto assoluto di giurisdizione è, appunto, un difetto assoluto, nel senso che nessun giudice, nemmeno quello amministrativo, può avere giurisdizione su detta materia, ma anche perché comunque ciò è escluso dallo stesso art. 7, 1° comma del codice del processo amministrativo, in base al quale: “Non son impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
3. Segue: e dall’impossibilità di sostituire il giudice all’amministrazione.
A completamento di ciò aggiungerei che il difetto assoluto di giurisdizione vi è altresì quando una parte chieda al giudice lo svolgimento di una funzione che fuoriesca dai canoni della giurisdizione a fronte di quelli dell’amministrazione.
È quanto, peraltro, emerge dallo stesso art. 41, 2° comma c.p.c. per il quale non v’è giurisdizione del giudice ordinario “a causa dei poteri attribuiti dalla legge alla amministrazione stessa”.
Al riguardo, alla luce di infiniti scritti dottrinali che sussistono sui rapporti tra giurisdizione e amministrazione, direi che la giurisdizione è il potere di applicare la legge al singolo caso controverso attenendosi al dettato normativo[8], o, per usare le parole di un processualista quale Antonio Segni: “La giurisdizione può definirsi come la funzione statale destinata all’attuazione della norma concreta di legge, attuazione che ha carattere sostitutivo o surrogatorio”[9].
Nessuno, poi, esclude che nel far ciò il giudice goda di un certo potere discrezionale, ma parimenti tutti ammettono che la discrezionalità del giudice è ben diversa dalla discrezionalità della pubblica amministrazione, poiché nel primo caso il potere discrezionale del giudice è circoscritto all’interpretazione della legge, mentre nel secondo caso il potere discrezionale della pubblica amministrazione è riferito alle scelte concrete da compiere e alle decisioni da prendere[10].
Ed anzi, il tratto maggiore che separa la giurisdizione dall’amministrazione sta proprio nel grado di discrezionalità che è riconosciuto nello svolgere la funzione: interpretazione della legge da una parte, scelta e bilanciamento degli interessi generali dall’altra[11].
Si tratta di un dato già presente nella nostra dottrina classica[12], riterrei non venuto meno nel tempo presente, e che continua ancor oggi a contrappone la funzione giurisdizionale a quella amministrativa[13].
Di nuovo, se la domanda giudiziale ha ad oggetto la condanna dello Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2”, è evidente che con essa non si chiede al giudice di svolgere una funzione giurisdizionale in senso proprio, quanto piuttosto di sostituirsi all’amministrazione nel prendere decisioni che questa non assume.
Né si chiede al giudice di applicare la legge, poiché anzi le controversie sui mutamenti climatici partono dal presupposto della assenza di leggi che attuino gli impegni internazionali presi dall’Italia sul clima; e, stante anche la circostanza che le norme comunitarie non contengono le determinazioni in concreto delle attività che lo Stato, le imprese o i singoli cittadini devono tenere a fronte dei cambiamenti climatici, è impensabile, a mio parere, che la discrezionalità del giudice possa spingersi fino a consentirgli di porre in essere un’attività amministrativo/legislativa quale è quella di stabilire quali siano le cose da fare in concreto per giungere ad una riduzione della produzione entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990[14].
Ove il giudice facesse una cosa del genere, egli si sostituirebbe all’amministrazione, e quindi porrebbe in essere una funzione che esorbita dalla giurisdizione[15].
4. Segue: da quelle intentate contro le grandi imprese, nelle quali la sussistenza (o meno) della giurisdizione va valutata secondo le regole procedurali generali.
Il discorso, però, può essere diverso se il convenuto del contenzioso climatico non è più lo Stato bensì una società industriale come ENI[16].
Nei confronti di ENI, o più in generale di società commerciali e/o industriali, diversamente dallo Stato, è astrattamente possibile chiedere, direttamente e in concreto, di limitare: “le emissioni in atmosfera di gas serra, e in particolare CO2, provenienti dalle attività industriali, commerciali e dei prodotti per il trasporto di energia venduti da ENI”, o comunque chiedere di accertare che ENI ha tenuto un comportamento non conforme all’Accordo di Parigi e/o al diritto comunitario (così le conclusioni della seconda citazione).
È evidente che a fronte di una controversia di questo genere, il principio della separazione dei poteri non c’entra più niente, e solo qui, secondo i criteri generali, si tratta di valutare se il giudice ordinario abbia o meno giurisdizione a provvedere.
Direi, però, che se la controversia vede come parti solo dei privati e non anche la pubblica amministrazione (e ciò al di là del caso specifico, perché ENI ha un’anima ibrida tra pubblico e privato, e in quella lite è convenuto anche il Ministero dell’Economia), v’è da porsi il problema ulteriore dell’ammissibilità o meno dello stesso istituto del difetto assoluto di giurisdizione,
V’è da chiedersi, infatti, se nei casi in cui il contenzioso è solo tra privati, un difetto assoluto di giurisdizione sia ammissibile[17], visto che il nostro sistema processuale sembra configurarlo esclusivamente nei confronti della pubblica amministrazione (artt. 37 e 41 c.p.c.), mentre la giurisprudenza, almeno per quanto io sappia, non ha dato a questo quesito risposte univoche nel tempo, in quanto in un primo momento ha ritenuto che la improponibilità assoluta della domanda tra privati per mancanza di una norma che tuteli la situazione dedotta in giudizio fosse questione di merito e non di giurisdizione[18], e poi ha cambiato orientamento, asserendo che “Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in un giudizio che si svolga tra privati, in quanto la mera qualità soggettiva delle parti non è più criterio discriminante assoluto al fine di stabilire se il ricorso per regolamento preventivo sia ammissibile”[19].
Ad ogni modo direi:
a) tutto ciò che qui cerco di razionalizzare vale in ogni caso con riferimento alle controversie contro la pubblica amministrazione;
b) e vale parimenti anche con riguardo alle controversie contro le società commerciali/industriali, in quanto, senza troppa differenza, la mancanza di una norma che tuteli la situazione dedotta in giudizio può valere o come difetto di giurisdizione, ove si ritenga ammissibile l’istituto (anche) in questi casi, oppure come inammissibilità della domanda; senza mutamento del risultato sostanziale di rigetto.
5. Il difetto assoluto di giurisdizione tra doveri dello Stato (e/o delle imprese) e diritti dei cittadini.
Il difetto assoluto di giurisdizione è contemplato nel nostro ordinamento dagli artt. 37 e 41 c.p.c.
Per circoscrivere il fenomeno credo si possa semplicemente richiamare la nozione che ne dà la dottrina: “Il difetto assoluto di giurisdizione (o improponibilità assoluta della domanda) nei confronti della pubblica amministrazione, si ha ogni qual volta sia dedotto in giudizio un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento né come diritto soggettivo né come interesse legittimo.”[20].
Si tratta, dunque, di ipotesi nelle quali la posizione dedotta in giudizio non trova tutela nell’ordinamento[21], o, detto in modo analogo, “si tratta in definitiva di ipotesi in cui vengono dedotte dinanzi al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi”[22].
Questa posizione è anche quella della giurisprudenza, sia meno recente[23] che più recente[24]; dal che, ai fini della giurisdizione, si tratta di verificare se la pretesa fatta valere in giudizio abbia natura di interesse semplice oppure la consistenza di un diritto tutelato dall’ordinamento; e, nel nostro caso concreto, si tratta di valutare se i privati abbiano un diritto proprio contro lo Stato (e/o contro le imprese) con riferimento ai problemi climatici del pianeta imputabili al surriscaldamento globale.
Posta la questione in questi termini, due però sono le precisazioni da dare:
a) la prima è che, evidentemente, la valutazione dell’esistenza o meno di questo diritto va fatta in astratto e non in concreto, ovvero si tratta solo di valutare se vi sono, o non vi sono, nell’ordinamento interno e comunitario, norme di protezione in grado di fissare dei veri e propri diritti soggettivi;
b) e la seconda è che, nel far ciò, non si tratta di valutare solo se, e quali siano, i doveri dello Stato (e/o delle imprese) a fronte dei mutamenti climatici, ma anche di chiedersi se ai doveri dello Stato (e/o delle imprese) possano corrispondere contrapposti diritti soggettivi dei cittadini.
V’è la tendenza a ritenere che la sussistenza di un presupposto abbia come conseguenza necessaria la sussistenza dell’altro[25].
Al contrario, si tratta di due momenti distinti, e che distintamente vanno analizzati, in quanto entrambi debbano esserci affinché il giudice abbia giurisdizione, e l’esistenza (eventuale) dell’uno non necessariamente comporta la sussistenza dell’altro[26].
6. I doveri dello Stato.
Circa il dovere dello Stato, si debbono in primo luogo ricordare le norme.
Le fonti normative possono essere indicate nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 9 maggio 1992 (UNFCCC), reso esecutivo in Italia dalla legge 15 gennaio 1994 n. 65, e poi soprattutto nell’Accordo di Parigi sul clima del 12 dicembre 2015, ratificato in Italia con la legge 4 novembre 2016 n. 204,
A livello comunitario vi sono inoltre le Direttive del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021[27], e la Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE.
A ciò poi si aggiungono disposizioni di carattere più generale quali gli artt. 2 e 8 CEDU, gli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza e art. 9 Cost.
A fronte di tutte queste fonti normative, io credo non vi possa essere dubbio dell’esistenza di un dovere dello Stato a provvedere per il contenimento dell’emissione in atmosfera di gas serra.
Tuttavia, poiché par evidente che per ottenere questo obiettivo, ovvero: “l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990” si debbano “fare delle cose”, e queste “cose da fare” non sono precisate negli atti normativi sopra richiamati, è parimenti indiscutibile che questo dovere si concretizzi con l’esercizio di un potere discrezionale/valutativo da parte dello Stato.
Ed infatti l’Accordo di Parigi, fonte sempre richiamata dalle normative successive, e in particolar modo dal Regolamento europeo sul clima 30 giugno 2021 n. 1119, non solo non contiene l’elenco delle cose da fare, ma nemmeno contiene precetti giuridici in senso stretto, quanto piuttosto affermazioni di programma.
A titolo di esempio, per l’art. 2: “I cambiamenti climatici sono preoccupazione comune dell’umanità”, cosicché l’accordo “mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C …; per l’art. 4: “Le parti che sono paesi sviluppati dovrebbero continuare a svolgere un ruolo guida”; ed ancora per l’art. 6 gli obiettivi sono quelli di: “Promuovere la mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra…..Incentivare e facilitare la partecipazione alla mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra”; ed infine per l’art. 10: “Le parti condividono una visione a lungo termine sull’importanza di realizzare appieno lo sviluppo e il trasferimento delle tecnologie al fine di migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici” [28].
Direi, in estrema sintesi, che così come non può essere messo in discussione che vi sia un dovere dello Stato di difesa dell’ambiente a fronte dei cambiamenti climatici, allo stesso modo non può nemmeno essere messo in discussione che questo dovere lo Stato lo adempie con atti non specificamente determinati dalle norme e rimessi al suo potere discrezionale.
Inoltre è chiaro che, poiché l’avanzare di nuovi diritti comporta inevitabilmente una contrazione di quelli già esistenti, va da sé che lo Stato deve procedere con prudenza e bilanciamento di situazione che potrebbero porsi tra loro in contrasto.
Direi che questa è stata anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato nella misura in cui ha sostenuto che non può non sussistere: “un bilanciamento da effettuare tra tutela ambientale e perseguimento di altri rilevanti interessi sociali”[29].
7. Segue: quelli delle imprese.
La questione, di nuovo, si presenta diversamente quando dal dovere dello Stato si passi al dovere delle grandi imprese industriali e/o commerciali come ENI.
Le imprese, evidentemente, agiscono nel rispetto delle norme, e per loro tale rispetto non potrà che essere sufficiente.
Non possono avere le imprese dei doveri oltre quelli che risultino dalle leggi esistenti; né alle imprese può immaginarsi rimproveri da carenza normativa; né, ancora, alle imprese può essere rimproverata la mancata collaborazione agli obiettivi di cui agli accordi internazionali se non nella misura in cui questi obiettivi si siano tradotti in obblighi specifici a loro rivolti.
L’espressione contenuta in citazione, pertanto, e secondo la quale vi sarebbe responsabilità delle imprese che: “non hanno ottemperato e non stanno ottemperando al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali riconosciuti di cui ENI s.p.a. si sarebbe dovuta dotare in linea con l’Accordo di Parigi, con l’art. 2 l. 240/2016” non sembra, a mio sommesso parere, affermazione corretta poiché: a) o si indicano quali sono specificamente le norme che obbligano ENI o altre imprese a mettersi in linea con l’Accordo di Parigi; b) oppure va da sé che ENI e le altre imprese non hanno l’obbligo di adeguarsi all’Accordo di Parigi, in quanto è un Accordo che coinvolge gli Stati, e non le imprese[30].
In questo modo, mentre questo dovere sembra sussistere per lo Stato, se pur nella elastica forma di un dovere rimesso alla discrezionalità di individuazione delle modalità possibili anche in bilanciamento con altri diritti, egual dovere non sembra potersi predicare per le imprese, che nient’altro sono tenute a fare se non rispettare le leggi esistenti che direttamente le chiamino in causa; e tutto il resto può loro essere rimproverato solo dal punto di vista morale; e ciò, evidentemente, anche ai fini della valutazione della giurisdizione.
8. Segue: e i diritti dei cittadini.
È arriviamo al tema principale, che è quello di valutare se al dovere dello Stato segua automaticamente un corrispondente diritto del cittadino.
E qui vale ricordare che, anche ammessa l’esistenza del dovere dello Stato, questo dovere non sembra proprio né riversarsi sulle imprese, né attribuire automaticamente ai cittadini un diritto generale di agire in giudizio.
Prima ancora che con elaborazioni teoriche, penso che l’insussistenza di una correlazione necessaria tra dovere/diritto si possa dimostrare semplicemente con degli esempi.
È fuori da ogni discussione, ad esempio, che lo Stato abbia il dovere di tenere ad elevati livelli di qualità gli ospedali e la sanità pubblica a tutela del diritto alla salute dei cittadini nel rispetto dell’art. 32 Cost.
Però, parimenti, ritengo che nessuno si sentirebbe di affermare che, allora, un qualunque cittadino possa adire il giudice per chiedergli di condannare lo Stato a rispettare questo suo dovere.
Così, se un cittadino si lamenta di una specifica malasanità, che gli ha prodotto un danno ingiusto, lì è ovvio che la domanda può essere solo (se del caso) respinta nel merito, e nessuna questione di giurisdizione può porsi. Ma se al contrario il cittadino, fuori da ogni fatto specifico, semplicemente lamenti l’inattività dello Stato nella corretta e adeguata tenuta e gestione degli ospedali, chiedendone al giudice la condanna a provvedere entro una certa data, lì diversamente credo che ai più apparerebbe evidente l’esistenza del difetto assoluto di giurisdizione[31].
Lo stesso, sempre a titolo di esempio, potrebbe valere per la scuola a fronte del diritto costituzionale di cui agli art. 33 e 34 Cost.
Se un cittadino si rivolgesse al giudice asserendo che lo Stato mantiene la scuola e l’istruzione in uno stato del tutto scadente per un paese democratico ed evoluto quale l’Italia e chiedesse la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’adeguamento della scuola ad un livello accettabile di qualità per un tempo futuro da determinare, oppure la condanna ad adeguare gli stipendi del personale del Ministero dell’istruzione ai parametri dell’art. 36 Cost., di nuovo queste domande, con tutta probabilità, verrebbero rigettate per difetto assoluto di giurisdizione, senza scandalo o discussione di alcuno; e, direi, anche se proposte da una associazione, e non solo da un soggetto privato.
Ma potremmo dare un terzo esempio tratto dall’art. 31 Cost. in materia di famiglia.
Al riguardo, infatti, la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei relativi compiti, con particolare riguardo alle famiglie numerose, nonché protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
Se qualcuno si dovesse rivolgere al giudice semplicemente asserendo che lo Stato è inadempiente con riguardo a questi compiti, e ne chiedesse la condanna giudiziale della protezione in modo più incisivo e concreto, beh, riteniamo, di nuovo, che la domanda verrebbe ancora una volta considerata del tutto priva di giurisdizione, e ciò senza meraviglia di alcuno.
9. Ai doveri degli Stati (e/o delle imprese) non corrispondono automaticamente dei diritti per i cittadini. Quando ciò si verifica e quando no. Analisi della normativa interna e comunitaria sul punto.
Ed infatti, stando ai principi, ai doveri dello Stato non corrispondono diritti dei cittadini, se non nella misura in cui la legge li configuri come tali in modo diretto ed esplicito.
I cittadini hanno una miriade di interessi all’interno di un contesto sociale, ma questi interessi si trasformano in diritti soggettivi solo quando la legge li prende direttamente in considerazione e assegna loro una tutela differenziata e individuale.
Conviene, in proposito, tornare alla teoria generale dei diritti[32], e ricordare che non ogni fonte normativa è in grado di creare diritti soggettivi, ma solo quella che dia vita a ciò che Giuseppe Chiovenda chiamava volontà concreta di legge[33].
Se vi è una volontà concreta di legge di attribuire ad un soggetto portatore di un interesse semplice una tutela diretta e differenziata di quell’interesse, allora lì, e solo lì, quell’interesse si trasforma in diritto soggettivo; altrimenti, la mera esistenza di un interesse di fatto dovuto ad un dovere generale dello Stato non attribuisce al cittadino un diritto soggettivo; ciò avviene solo nei casi nei quali la legge in modo espresso operi questa trasformazione.
Né è sufficiente che le fonti normative, anche di primo piano, disegnino una “situazione giuridica protetta”[34], perché si possa rinvenire in ciò diritti soggettivi giustiziabili, in quanto ogni c.d. “situazione giuridica protetta” emerge pur sempre dal rovesciamento della medaglia del dovere dello Stato: se lo Stato ha dei doveri da una parte, allora, in relazione ad essi, da altra parte, i cittadini hanno una situazione giuridica protetta.
Ma questa situazione, come detto, non configura ancora diritti soggettivi che possano essere fatti valere in giudizio se la legge non li considera tali prendendo a riferimento direttamente i privati quali destinatari della norma, e così consentendo a questi di invadere ed incidere sullo Stato[35].
Altrimenti, come già esplicitato, è chiaro che la salute per i cittadini è una situazione giuridica protetta, e tuttavia è parimenti chiaro che questa situazione giuridica protetta non consente un’azione giudiziaria per pretendere una diversa e più attenta gestione e manutenzione degli ospedali pubblici.
Dunque, se queste premesse sono corrette, e torniamo alle fonti normative dei cambiamenti climatici sopra richiamati, vediamo come in nessuna di questa fonti vi sia una volontà concreta di legge che possa, anche solo lontanamente, far ritenere esistenti dei diritti soggettivi dei privati.
Al riguardo si deve ricordare che la legge 15 gennaio 1994 n. 65 costituisce semplice ratifica della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 9 maggio 1992 (UNFCCC); successivamente tale convenzione si trasferiva nell’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, oggetto a sua volta di ratifica ed esecuzione in Italia con la legge 4 novembre 2016 n. 204; quest’ultima, infatti, dispone ciò con gli artt. 1 e 2, e poi regola le coperture finanziarie con gli artt. 3, 4 e 5; nient’altro vi si trova.
L’Accordo di Parigi, a sua volta, e come sopra abbiamo sintetizzato, contiene una serie di impegni programmatici degli Stati a fronte dei cambiamenti climatici, ed in particolar modo, con l’art. 2, ogni Stato “mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici… mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale bel al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali”; ma nessuno dei 29 articoli, di cui è composto l’Accordo, attribuisce in modo esplicito e diretto ai cittadini diritti soggettivi, nel senso sopra chiarito, di alcuna sorte.
Lo stesso vale per le fonti comunitarie, ed in particolare:
a) la Direttiva del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, che consta di 52 premesse e di 29 articoli, disciplina “l’attuazione di un impegno più rigoroso della Comunità in materia di riduzioni…che conduca a riduzioni delle emissioni dei gas a effetto serra superiori a quelle previste all’articolo 9”, ed ogni disposizione è sempre rivolta a Gli Stati membri oppure a la Commissione, ecc….
b) La Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE e sempre del 23 aprile 2009, ha ad oggetto “gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al fine di adempiere agli impegni della Comunità in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2020”, e nelle 34 premesse e 16 articoli non si disciplinano ipotetici diritti soggettivi dei privati.
Lo stesso art. 16, rubricato Destinatari, espressamente asserisce che “Gli Stati membri sono destinatari della presente decisione”; inoltre gli impegni sono tutti degli Stati membri: così l’art. 3: “Ciascun Stato membro è tenuto………” “Ogni Stato membro garantisce………” “Ogni Stato membro limita………”, ecc…
c) Infine, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021, 40 premesse e 14 articoli, ha contenuto non dissimile ai precedenti: l’art. 1 richiama espressamente l’Accordo di Parigi e “stabilisce l’obiettivo vincolante della neutralità climatica nell’Unione entro il 2050” e “istituisce un quadro per progredire nel perseguimento dell’obiettivo globale di adattamento di cui all’articolo 7 dell’accordo di Parigi”; inoltre l’art. 3 è dedicato alla Consulenza scientifica sui cambiamenti climatici, l’art. 4 ai Traguardi climatici intermedi dell’Unione, l’art. 6 alle Valutazioni dei progressi compiuti e delle misure dell’Unione, ed ancora l’art. 7 alle Valutazioni delle misure nazionali.
Non v’è, anche in questo Regolamento, alcuna norma che possa avere il crisma dell’attribuzione di specifici diritti soggettivi ai privati.
In sintesi, è necessario non mettere sullo stesso piano quelli che sono i diritti soggettivi dagli interessi e/o dai desideri dei cittadini: i primi giustiziabili, i secondi rimessi alla discrezionalità del potere legislativo e amministrativo, ovvero alla politica.
10. Ed inoltre: del difetto di giurisdizione delle azioni che fuoriescono dal crisma della pretesa giudiziaria.
A completamento di queste osservazioni credo possa poi aggiungersi che le domande fatte valere in questi giudizi appaiono altresì fuoriuscire completamente dal crisma della giurisdizione.
Si consideri al riguardo quanto segue:
a) In primo luogo le domande proposte appaiono di contenuto generico a fronte del dovere di specificità che una domanda giudiziale deve avere per essere ammissibile.
Esattamente, chiedere al giudice di condannare lo Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa”, ecc…… costituisce domanda priva di determinazione, poiché non in grado di individuare con la dovuta specificità qual è, o quali sono, gli obblighi di fare al quale, o ai quali, la parte condannata è tenuta.
Si tratta, pertanto, di una domanda che si pone in contrasto con lo stesso art. 163 n. 3 c.p.c., per il quale la citazione introduttiva del processo deve contenere: “la determinazione della cosa oggetto della domanda”.
La giurisprudenza considera infatti nulla la citazione quando l’oggetto del giudizio sia “assolutamente incerto”[36].
b) Conseguentemente, la sentenza che, paradossalmente, dovesse accogliere una simile domanda, condannando così lo Stato allo abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed, sarebbe poi sentenza priva delle condizioni del titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., visto che il titolo esecutivo ha sempre ad oggetto “un diritto certo, liquido ed esigibile”[37], e visto che per certezza del titolo “deve intendersi la precisa individuazione del bene oggetto dell'esecuzione per consegna e rilascio e della prestazione di fare o non fare nell'esecuzione”[38].
In ogni caso detta sentenza sarebbe priva della possibilità di essere attuata in sede esecutiva.
Ed infatti, stante l’assoluta genericità degli obblighi di fare prospettati con la domanda, sarebbe poi impossibile dare una valutazione oggettiva del suo (o meno) adempimento, né il terzo libro del codice di procedura civile dedicato al processo di esecuzione appare in grado, nelle sue articolazioni, di consentire l’attuazione forzata di una sentenza a contenuto così indeterminato[39].
c) Inoltre, la domanda non sembra corrispondere nemmeno ai principi della legittimazione ad agire ex art. 81 c.p.c.
La legittimazione ad agire è infatti strettamente connessa alla titolarità individuale del diritto fatto valere in giudizio, e solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, che si denominano di legittimazione straordinaria, è consentito a terzi la deduzione in giudizio di diritti che siano da riconoscere in capo a soggetti diversi da quelli presenti nel processo[40].
Qualcosa di analogo sta nel Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), che nell’art. 263, 4° comma espressamente statuisce in punto di legittimazione ad agire: “Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente”.
Poiché l’azione esercitata in questi processi non attiene, al contrario, né ad atti adottati nei confronti delle parti attrici, né ad atti che li riguardino direttamente e individualmente, ma solo ad interesse generici, che toccano l’intera comunità in egual misura, le parti attrici sono carenti di legittimazione ad agire nel senso in cui essa è giudizialmente riconosciuta[41].
Conferma di ciò si ha anche con la decisione dalla Corte Giustizia unione europea 26 settembre 2024 n. 340/23, per la quale: “Riconoscere ad alcuno la legittimazione ad agire fondata unicamente sulla violazione dei suoi diritti fondamentali mediante atti di portata generale, come il regolamento impugnato, equivarrebbe a svuotare di sostanza le prescrizioni dell'articolo 263, quarto comma, TFUE.”.
E conferma di questa posizione si ha anche in forza della sentenza CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20, la quale, nel giudizio per la responsabilità da cambiamento climatico della Svizzera, ha escluso la legittimazione ad agire dei privati, e ammessa la legittimazione delle associazioni solo in presenza di tre criteri, tra i qual quella di “essere legalmente stabilita nella giurisdizione interessata o avere la legittimazione ad agire in tale giurisdizione”[42].
E poiché tale legittimazione nella giurisdizione interessata non sembra proprio sussistere, o sussiste solo in presenza di "una lesione diretta, concreta ed attuale dalla violazione di termini"[43], va da sé che le domande giudiziali qui ad analisi non sono state proposte da parti aventi la legittimazione ad agire[44].
d) Le domande giudiziali, inoltre, nella misura in cui hanno ad oggetto la condanna dello Stato a tenere un comportamento futuro, (per l’abbattimento, entro il 2030, ecc…), hanno parimenti ad oggetto quella che viene definita condanna in futuro.
In questi termini la domanda contrasta altresì con il principio secondo il quale la giurisdizione non può essere utilizzata se non per fatti passati[45], mentre la condanna in futuro è ammissibile solo in via del tutto eccezionale, e nelle sole ipotesi specificamente previste dalla legge (ed in questi casi nessuna legge autorizza l’utilizzo della condanna in futuro).
Ciò perché, par evidente: “la sentenza di condanna presuppone una lesione attuale del diritto, e dunque che si sia già verificato l’inadempimento”, cosicché: “la condanna in futuro costituisce uno strumento eccezionale, circoscritto alle ipotesi espressamente previste dalla legge[46].
e) Soprattutto, una sentenza del genere, la quale dovrebbe individuare “l’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc… avrebbe carattere c.d. costitutivo/determinativo, ovvero darebbe al giudice il potere di determinare in concreto il contenuto dell’obbligazione[47].
Ma una simile determinazione, a parte il fatto che non sembra possibile per le ragioni già illustrate, si porrebbe in ogni caso in contrasto con il principio secondo il quale il giudice può pronunciare sentenze costitutive/determinative solo nei casi tipici individuati dalla legge e nella stretta misura ivi prevista, e ciò ai sensi dell’art. 2908 c.c.[48] E qui siamo fuori da questo ambito, non solo perché non v’è legge che legittimi il giudice a pronunciare in questi casi sentenze costitutivi/determinative, ma anche perché ciò è possibile solo quando il contenuto dell’obbligo non è determinato, ma tuttavia esiste sul piano del diritto sostanziale, mentre in questi casi, per quanto sopra detto, non esiste nemmeno un diritto soggettivo in relazione alle pretese giudiziali avanzate.
f) Infine, una sentenza del genere non rispetterebbe i criteri del giudicato giurisdizionale civile, e ciò, direi, né da un punto di vista oggettivo che soggettivo.
In senso oggettivo poiché esso non riesce ad avere la forza tipica del giudicato sostanziale, in quanto privo di un comando che possa ritenersi giudizialmente individuato a carico della parte obbligata soccombente.
E in senso soggettivo, poiché il dovere di abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed non potrebbe considerarsi posto a vantaggio delle sole parti attrici vittoriose in giudizio, ma andrebbe considerato a vantaggio di tutti, così di nuovo confondendo il piano giudiziale della legittimazione processuale con quello politico della soddisfazione di un interesse, e finendo altresì per attribuire alla giurisdizione una funzione di tipo oggettivo che non esiste nel nostro sistema[49].
11. Se questi argomenti possono tenere a fronte del diritto dell’Unione europea.
In estrema sintesi, noi avremmo più ragioni di difetto di giurisdizione a fronte del c.d. contenzioso climatico: a) v’è difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può ordinare allo Stato di fare leggi o atti aventi forza di legge o di invadere la sfera riservata all’amministrazione; b) v’è difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può decidere questioni relativamente alle quali le parti attrici non hanno situazioni soggettive di diritto; c) e v’è infine difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può decidere una questione che fuoriesce completamente dai crismi della pretesa giudiziaria.
Questo è quanto mi sembra di poter sostenere.
Ma poi, da vecchio giurista di civil law, mi sopraggiungono dei dubbi, e mi chiedo se tutti questi ragionamenti non siano superati dai tempi, e non siano travolti dal nuovo diritto comunitario, che guarda più alla sostanza delle cose, fino a considerare inutili cavilli, o sterili sforzi logici, le dissertazioni che impediscano o limitino ai cittadini l’accesso al giudice.
Sinceramente, però, non credo sia questa la conclusione da dare, ed anche rianalizzando il diritto comunitario concernente le questioni trattate, io non riesco a trovare niente (forse per mia inadeguatezza) che possa rovesciare i punti esaminati.
Precisamente, rilevo ancora quanto segue.
11.1. Vi sono le norme comunitarie sopra richiamate, ovvero, oltre all’Accordo di Parigi, le Direttive del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021, e la Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE, oltre alle disposizioni di carattere più generale quali gli artt. 2 e 8 CEDU, gli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza.
Per le ragioni già esposte, non mi sembra che queste fonti normative si pongano in contrasto con i rilievi svolti.
11.2. V’è, poi, la vicenda Urgenda, sempre menzionata in ogni scritto di Climate change litigation e anche richiamata dalla sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024 n. 3552: “dove lo Stato olandese (considerato tra i paesi maggiormente emissivi in Europa) è stato condannato definitivamente dalla corte Suprema nel dicembre 2019”[50].
Ma, a parte la circostanza che, nel caso, non si tratta di una Corte europea bensì di una Corte olandese[51], ma, a parte ciò, la situazione non sembra affatto cristallizzata con tale pronuncia, se si considera che proprio in questi giorni è uscita la notizia dell’accoglimento di un appello della società Shell dinanzi alla Corte dell’Aja, che ha annullato il giudizio di primo grado emesso dopo una causa intentata da gruppi di ambientalisti olandesi, che imponeva alla multinazionale britannica di ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030.
Per la Corte dell’Aja non si può imporre una soglia precisa a una singola azienda[52].
11.3. V’è, soprattutto, la sentenza già menzionata CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20 nel giudizio di responsabilità da cambiamento climatico della Svizzera[53].
Sia consentito stigmatizzare che si tratta di una sentenza lunga 288 pagine.
Comprendo che una decisione della CEDU debba trovare compromessi tra diverse, e a volte contrapposte, sensibilità, ma trovo davvero riprovevole che non si riesca a produrre provvedimenti giudiziari più precisi e più brevi, soprattutto alla luce dei tempi moderni, che impongono alla giustizia di essere sintetica e specifica.
Ciò premesso, si tratta di una decisione che fissa molti principi generali, per poi concludere, con riferimento alla Svizzera, che: “La Corte ha riscontrato alcune lacune critiche nel processo di creazione del quadro normativo nazionale da parte delle autorità svizzere, tra cui la mancata quantificazione, attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, delle limitazioni delle emissioni nazionali di gas serra. Di conseguenza, lo Stato convenuto aveva superato il suo margine di apprezzamento ed era venuto meno ai suoi obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 del presente contesto”.
Qualcuno potrebbe argomentare che se la CEDU, con questa sentenza, ha provveduto nel merito, allora il tema preliminare della giurisdizione è contenuto e implicitamente riconosciuto.
Da un punto di vista logico, la deduzione tiene.
Da un punto di vista più strettamente giuridico, però, il tema della giurisdizione non appare affatto trattato nella lunga sentenza in questione, e tutto semplicemente viene ricondotto alla questione della legittimazione ad agire dinanzi alla Corte.
Peraltro, una cosa sembrano le azioni di condanna presenti nel contenzioso italiano, altra cosa il mero accertamento che la Corte europea ha posto in essere nei confronti dello Stato svizzero.
E parimenti, una cosa è la legittimazione ad agire, altra cosa la giurisdizione: si dovesse tornare agli esempi fatti, se una associazione a tutela della salute promovesse in Italia una controversia per la buona tenuta degli ospedali, forse qualcuno potrebbe arrivare a riconoscere a questa associazione la legittimazione ad agire, ma difficilmente riconoscerebbe la giurisdizione di una simile domanda.
Ad ogni modo la stessa sentenza precisa che l’accesso al giudice è consentito solo “allo status di vittima ai sensi della Convenzione”, e che al riguardo: “la Corte non ha ritenuto di poter applicare in questo contesto la giurisprudenza relativa alle vittime potenziali, ciò potrebbe coprire praticamente chiunque e non funzionerebbe quindi come criterio limitativo”.
Ed infatti, anche nel rispetto dell’art. 263, 4° comma del Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), la legittimazione ad agire può infatti essere riconosciuta a: “Qualsiasi persona fisica o giuridica” relativamente a questioni: “che la riguardano direttamente e individualmente”.
Poi, però, la sentenza esclude la legittimazione delle parti private ma la riconosce all’associazione, con criteri, a mio sommesso parere, non solo dubbi, ma nemmeno esplicitamente indicati, visto che la Corte motiva sul punto: “Nelle circostanze del caso di specie e tenendo conto di tutti i fattori pertinenti, la Corte ha ritenuto che l’associazione ricorrente soddisfacesse i criteri pertinenti e avesse quindi la necessaria legittimazione ad agire”.
I criteri pertinenti sono: “Scopo dell’associazione…..essere senza scopo di lucro…la natura e l’estensione delle sue attività…….i suoi membri e la sua rappresentatività…i suoi principi e la trasparenza della sua governance….circostanze particolari del caso”, ecc…., per cui: “la concessione di tale legittimazione è nell’interesse della corretta amministrazione”; senza, salvo che non cada in errore, una analisi specifica di rispondenza di detti criteri ai requisiti della associazione attrice del giudizio.
11.4. Ora, io credo che nessuno si sentirebbe di negare che la soluzione adottata da questa sentenza appare di dubbia conformità all’art. 263, 4° comma del Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), e che nessun giudice italiano potrebbe concedere o negare la legittimazione ad agire con una simile motivazione.
Ed inoltre questa sentenza non appare (almeno a me) in linea con altre decisioni comunitarie su temi analoghi.
Faccio riferimento non solo a quelle già richiamate dall’Avvocatura dello Stato nella difesa al contenzioso denominato del “giudizio universale”[54], bensì anche ad altre, che non sembrano proprio coordinarsi con essa[55]; e, come che sia, si ripete, una cosa è la legittimazione ad agire, altra la giurisdizione.
11.5. In ogni caso ricordo altresì che le sentenze CEDU vincolano l’Italia solo se riferibili ad un orientamento consolidato, e la materia non sembra al momento essere circoscritta da un orientamento consolidato, visto che la sentenza CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20 è la sola che al momento si ha.
Ricordo la pronuncia della nostra Corte costituzionale al riguardo:
“La questione è, altresì, inammissibile per l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il giudice nazionale sarebbe vincolato all'osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti "diritto consolidato" o delle "sentenze pilota" in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la «parola ultima» in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, resta fermo che l'applicazione e l'interpretazione del sistema generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo, poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost. deve quindi coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso.”[56].
Dunque, le questioni di giurisdizioni si inseriscono, direi indiscutibilmente, nell’ambito della “applicazione e l'interpretazione del sistema generale di norme che è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri”, e l’assenza di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea sul punto esclude che i giudici interni non possano, in tema di giurisdizione, continuare ad applicare le regole proprie di tale istituto processuale.
11.6. Altri precedenti degni di rilievo, non mi sembrano sussistere.
12. Brevissima conclusione.
In conclusione, la sensazione è quella che si sia voluto utilizzare la giurisdizione per ottenere da essa un monito allo Stato affinché sia più efficiente e più determinato nel provvedere all’adempimento degli obblighi comunitari e internazionali con riferimento ai mutamenti del clima.
Ma la giurisdizione non può essere utilizzata per questi scopi, e
nella misura in cui invece lo scopo ultimo di queste iniziative è proprio quello di ottenere ciò, esse non appaiono condivisibili, poiché la politica non può rendersi oggetto di giudizio, e perché, come diceva Francesco Carnelutti è politica, e non giurisdizione: “quell’aspetto della realtà che concerne il complesso degli interessi collettivi”.
Per citare un altro classico, sembra proprio che i tempi di oggi rispondano alle sue previsioni: “Progressivo affievolimento del diritto soggettivo fino a ridursi a un interesse occasionalmente protetto; allargamento del diritto amministrativo a scapito del diritto civile; assorbimento del processo civile nella giurisdizione volontaria e nella giustizia amministrativa; aumento dei poteri discrezionali del giudice; annebbiamento dei confini non solo tra diritto privato e diritto pubblico, ma anche tra diritto sostanziale e diritto processuale; aspirazione sempre più viva del diritto caso per caso. – Tutti questi sono gli aspetti di una crisi che il processualista segue con ansietà nel suo specchio, nel quale si riflette, tradotto in forma di teoria, il vasto travaglio del mondo”[57].
[1] Sul contenzioso climatico v. ad esempio E. BENVENUTI, Climate change litigation e diritto internazionale privato dell’unione europea: quale spazio per la tutela collettiva? in Riv. dir. intern. priv. proc., 2023, 848 e ss.; F. VANETTI – L. UGOLINI, Contenzioso climatico: recenti sviluppi e riflessioni, in Ambiente e Sviluppo, 2024, 403 e ss.; M., DELSIGNORE, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, Giornale di diritto amministrativo, 2022, 265 e ss.; S. NESPOR, I principi di Oslo, Giornale dir. amm. 2015, 750 e ss.; F.Z. GIUSTINIANI, Contezioso climatico e diritti umani: il ruolo delle Corti europee sovranazionali, in Federalismi.it., 2023, 271 e ss.; N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, 2024, n. 57.
[2] Vedi la sentenza anche in Nuova giur. civ. comm., 2024, 309 e ss., con nota di C.M. MASIERI, La causa “giudizio universale” e il destino della Climate change litigation, con ampie indicazioni bibliografiche e di precedenti giudiziari.
La sentenza ha già ricevuto numerose critiche. V. per tutti A. MOLFETTA, La sentenza giudizio universale in Italia: un’occasione mancata di fare giustizia climatica, in Osservatorio costituzionale, Associazione italiana dei costituzionalisti, Fasc. 5/2024. Altri commenti critici sono contenuti nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[3] Vedila nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it
[4] Sempre in www.contenziosoclimaticoitaliano.it
[5] Si veda VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 137 e ss.
[6] Riterrei che questa regola valga pacificamente anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo. V. al riguardo N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, n. 57, 2024: “La Corte EDU ha ricordato i limiti del principio della separazione dei poteri, sottolineando che «un intervento giurisdizionale, ..., non può prendere il posto delle misure che devono essere adottate dal potere legislativo e da quello esecutivo, o sostituire tali misure»”; seppur: “il controllo giurisdizionale è complementare ai processi democratici (§ 412)”.
[7] Per tutti si veda CORTE COSTITUZIONALE, Servizio Studi, Il dialogo con il legislatore: moniti auspici e richiami nella giurisprudenza costituzionale dell’anno 2022, Roma, 2023, 7 e ss.; R. PINARDI, Moniti al legislatore e poteri della Corte costituzione, Quaderni costituzionali, 2022, 3, www.forumcostituzionale.it; A. SPADARO, Del rapporto tra giudice costituzionale e legislatore, in Riv. AIC, 2023, 103 e ss.; E COCCHIARA, L’evoluzione dei moniti della Corte costituzionale al legislatore: un bilancio a settant’anni dalla legge 87 del 1953, Gruppo di Pisa, 2023, 3, 1 e ss.
[8] Ricordo in questo senso studi classici quali GALLI, Il concetto di giurisdizione, in Studi in onore di M. D’Amelio, Roma, 1933, II, 171; e soprattutto MORTARA, Commentario al codice e alle leggi di procedura civile, Milano, 1923, I, 20, per il quale: “Risulta abbastanza chiaro che la funzione giurisdizionale costituisce quella difesa del diritto obiettivo per virtù della quale ottengono protezione le facoltà soggettive al medesimo conformi”; CALAMANDREI, Limiti fra giurisdizione e amministrazione nella sentenza civile, in Opere, Napoli, 1965, I, 65, per il quale la giurisdizione è “un’attività secondaria di natura dichiarativa”; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1966, I, 16, per il quale la giurisdizione è: “attuazione del diritto oggettivo, o del diritto soggettivo garantito dalla norma”; CARNELUTTI, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 230, per il quale la giurisdizione è la precisa “composizione della lite”; ANDRIOLI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1973, I, 29.
[9] v. SEGNI, Giurisdizione (in generale), voce del Nov.mo Digesto, Torino, 1961, X, 987.
[10] V. infatti RASELLI, Il potere discrezionale del giudice civile, Padova, II, 1935; ID., Alcune note intorno ai concetti di giurisdizione ed amministrazione, Roma, 1926, 4; FABBRINI, Potere del giudice, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1985, XXXIV, 721; SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Studi in onore di Segni, Milano, 1966, IV, 243; DE MARINI, Considerazioni sulla natura della giurisdizione volontaria, Riv. dir. proc., 1954, 270.
[11] Mi permetto di ricordare in argomento un mio vecchio studio, SCARSELLI, La tutela dei diritti dinanzi alle autorità garanti. Giurisdizione e amministrazione, Milano, 2000, 202 e ss.
[12] Ricordo ancora F. FERRARA, Potere del legislatore e funzione del giudice, Riv. dir. civ., 1911, 510; PACCHIONI, Dei poteri creativi della giurisprudenza, Riv. dir. comm., 1912, 41; COVIELLO, Dei moderni metodi d’interpretazione della legge, S. Maria Capua Vetere, 1908, 18; LIPARI, Il problema dell’interpretazione giuridica, Il diritto privato nella società moderna, a cura di S. Rodotà, Bologna, 1970, 118.
[13] Aggiungerei, poi, che il divieto posto al giudice di non invadere la sfera dell’amministrazione, ovvero la sfera del potere discrezionale e politico degli organi dello Stato a ciò preposti, non vale solo per il giudice civile, ma costituisce una regola generale, applicabile anche al giudice penale e al giudice amministrativo.
Esattamente: a) per il processo penale si ricorda l’art. 606 c.p.p. per il quale: “Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi: a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri”; b) e per il processo amministrativo si ricorda l’art. 31, 3° comma c.p.a.: “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”; e l’art. 7, che richiama l’art. 134 c.p.a., i quali statuiscono che il giudice amministrativo può pronunciare con cognizione estesa anche al merito nelle sole controversie espressamente indicate nella legge.
[14] Il discorso non muterebbe se il giudice, nel pronunciare la sentenza domandata, invece di determinare le cose da fare in concreto, si limitasse ad accogliere la domanda nella sua generalità per come presentata, ovvero condannasse semplicemente lo Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc…,
Saremmo egualmente in una ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per quanto esposto nel paragrafo n. 10.
[15] Si consideri anche Corte cost. 18 gennaio 2018 n. 6, la quale al punto 15 della motivazione asserisce che: “L’eccesso di potere giudiziario denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come sempre è stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosidetta invasione o sconfinamento)”.
[16] V. in argomento F. GOISIS, CEDU e contenzioso climatico nei confronti delle grandi imprese: quale impatto?, in NT+Diritto.il sole24ore, 20 novembre 2024.
[17] In argomento v. Iannicelli, Il c.d. difetto assoluto di giurisdizione fra privati per mancanza di posizione giuridica astrattamente tutelabile, Foro it., 1988, I, 3394; tra i classici LIEBMAN, Domanda infondata e regolamento di giurisdizione, Riv. dir. proc., 1953, II, 35; GARBAGNATI, Improponibilità della domanda e regolamento di giurisdizione, Giust. Civ., 1987, I, 2849.
[18] V., ad esempio, Cass. 15 giugno 1987 n. 5256; e Cass. sez. un. 30 giugno 1999 n. 368; Cass. 7 marzo 2001 n. 90.
[19] Così invece Cass. 13 giugno 2008 n. 15196; Cass. 21 febbraio 2018 n. 4235; e Cass. 9 marzo 2020 n. 6690.
[20] PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 241.
Tra i classici, sul punto, ricordo, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, I, 127: “La così detta improponibilità della domanda ha luogo quando la pretesa del privato è sì intensamente assoggettata ai poteri attribuiti alla amministrazione attiva da essere sfornita di tutela nel processo contro quest’ultima (CARNELUTTI, Istituzioni, II, n. 423); P. D’ONOFRIO, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957, I, 82: “Il difetto di giurisdizione si verifica allorquando si sottoponga alla autorità giudiziaria ordinaria una pretesa la quale non è azionabile in modo assoluto, ovvero quando la pretesa non ha rilevanza giuridica...Un interesse meramente religioso, estetico o morale, ad esempio, non è tutelabile”;
[21] V. A. MASSARI, Regolamento di giurisdizione e competenza, in Nov.Dig.it., Torino, XV, 1968, 283, citato da G. GIOIA, La decisione sulla questione di giurisdizione, Torino, 2009, 67.
[22] Così BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 116.
[23] Cass. sez. un. 30 marzo 2005 n. 6635: “Il difetto assoluto di giurisdizione è ravvisabile quando manchi nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio”
[24] Cass. sez. un. 1° giugno 2023 n. 15601: “Il difetto assoluto di giurisdizione è configurabile quando manca nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio”. Si veda anche Cass. sez. un. 29 maggio 2023 n. 15058: “Sulla domanda proposta nei confronti dello Stato italiano per il risarcimento dei danni derivanti dalla mancanza di una disciplina normativa per la tutela della maternità delle donne avvocato vi è difetto assoluto di giurisdizione, poiché essa comporta non già la delibazione di una posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma un sindacato sulla sfera riservata dalla Costituzione allo Stato legislatore”.
[25] V. fin d’ora, per tutti BELLOMO, Nuovo sistema del diritto amministrativo, IQ, Diritto e scienza, 2023, I, 43, per il quale: “Non sempre al dovere – diversamente dall’obbligo – in capo a un soggetto corrisponde un diritto in capo ad altro soggetto, potendo sussistere interessi non qualificati che spetta all’amministrazione valutare discrezionalmente. In tale accezione, dunque, l’interesse di fatto consiste nell’interesse dei cittadini ad essere ben amministrati”. Si veda anche CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2024, 163.
[26] È questa, direi, anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato nel giudizio sfociato nella sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024; v. la comparsa di risposta nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it, pag. 26: “Occorre a tal proposito rilevare che l’adesione degli Stati agli accordi sul clima non è idonea di per sé a fondare la base legale da cui evincere un obbligo di natura vincolante la cui (eventuale) violazione vale a fondare un’azione di responsabilità nei confronti delle istituzioni degli Stati stessi”.
[27] D. BEVILACQUA, La normativa europea sul clima: una regolazione strategica o un passo troppo timido, Riv. giur. dell’ambiente, 2022, n. 29.
[28] È questa anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 27: “L’accordo di Parigi si basa sulla definizione di contributi nazionali non vincolanti di mitigazione, che devono essere stabiliti autonomamente da ciascuna delle parti contraenti (sistema bottom-up…..e soggetti a periodica revisione sulla base delle indicazioni che verranno elaborate dalle istituzioni e dagli organismi previsti dal sistema della Convenzione quadro dell’Accordo stesso…..Per assicurare l’attuazione degli impegni non sono stati, comunque, previsti meccanismi sanzionatori, essendosi privilegiata la diversa strategia di affidare il successo dell’accordo a piani contenenti contribuzioni alla riduzione globale delle emissioni volontariamente e ambiziosamente assunte dagli Stati”.
[29] Avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 15.
[30] Al riguardo v. anche la recentissima Cass. sez. un. 19 giugno 2024 n. 16837: “Il difetto assoluto di giurisdizione per invasione della sfera riservata al legislatore è configurabile quando il giudice speciale ha applicato una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete”.
[31] In senso, direi, del tutto conforme, BELLOMO, Nuovo sistema del diritto amministrativo, cit., 43, il quale fa degli esempi analoghi a quelli sviluppati nel testo. Si legge: “Esempi di interessi di fatto aderenti a tale nozione (ovvero alla circostanza che non attribuiscono corrispondenti diritti ai cittadini) possono indicarsi nell’interesse ad una buona e funzionante illuminazione pubblica, alla manutenzione delle pubbliche strade, alla funzionalità e qualità dei servizi pubblici”.
Di nuovo appare chiaro che nessun cittadino può adire il giudice per pretendere dallo Stato, genericamente, l’adempimento di questi doveri.
[32] V., senza alcuna pretesa di completezza, LENER, Potere (dir. priv.), voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1985, XXXIV, 610; CESARINI SFORZA, Diritto soggettivo, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1964, XII, 659; FALZEA, Efficacia giuridica, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1965, XIV, 432 e ss.; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 70 e ss.; BETTI, Dovere giuridico (teoria gen.), voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1965, XIV,53 e ss.
[33] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 2: “Analizzando l’idea del diritto soggettivo, si trova che questo si risolve in una volontà concreta di legge. Ogni norma contenuta nella legge è una volontà generale, astratta, ipotetica, subordinata cioè al verificarsi di determinati fatti. Ogni volta si verifica il fatto o il gruppo di fatti previsti dalla norma, si forma una volontà concreta della legge, in quanto dalla volontà generale e astratta nasce una volontà particolare che tende ad attuarsi nel caso singolo”.
[34] In questo senso, ancora, VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 143 per i quali le fonti normative di protezione dell’ambiente raffigurano situazioni giuridiche protette “tanto al singolo soggetto quanto alla collettività”.
[35] Per tutti v. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 161, il quale, seppur con diverse parole, ritengo manifestasse la stessa idea: “La differenza tra diritto soggettivo e facoltà è facile da tracciare sul filo della differenza tra l’agere e il iubere: la facoltà non esce dalla sfera dell’interesse proprio mentre il diritto soggettivo invade la sfera dell’interesse altrui”.
[36] V. Cass. 28 agosto 2009 n. 18783; Cass. 3 marzo 2008 n. 5743; Cass. 9 settembre 2004 n. 18184; Cass. 1° giugno 2001 n. 7448;
[37] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 169; L. MONTESANO, Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965, 185, e ID., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 175.
[38] Così LUISO, Diritto processuale, Il processo esecutivo, Milano, 2009, 23, secondo la tradizione della dottrina, tra la quale ricordo: REDENTI, Diritto processuale civile, Milano, 1957, II, 121; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, 12; GRASSO, Titolo esecutivo, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1992, XLIV, 692, per il quale il diritto certo è quello che “deve emergere esattamente e compiutamente, nel suo contenuto e nei suoi limiti dal relativo provvedimento giurisdizionale o atto negoziale”. In giurisprudenza Cass. 25 febbraio 1983 n. 1455: “Requisito essenziale dei titoli esecutivi, giudiziali e stragiudiziali, menzionati dall' c. p. c. è la certezza del diritto risultante dal titolo stesso, intesa nel senso che la situazione giuridica accertata in favore di un soggetto deve emergere esattamente e compiutamente, nel suo contenuto e nei suoi limiti dal relativo provvedimento giurisdizionale”. Scriveva altresì Giuseppe Chiovenda che: “La sentenza di condanna presuppone la convinzione del giudice che in base alla sentenza si possa senz’altro, o immediatamente dopo un certo tempo, procedere dagli organi dello Stato agli atti ulteriori necessari per l’effetto del conseguimento del bene garantito dalla legge (v. infatti CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 169).
[39] VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 149, ritengono che potrebbe risolvere il problema, in questi casi, l’esecuzione indiretta di cui all’art. 614 bis c.p.c.; il tutto, comunque, in una prospettiva “difficile da pronosticare”.
Io non credo, tutto al contrario, che in questi casi la strada dell’art. 614 bis c.p.c. sia percorribile, poiché nella misura in cui gli obblighi di fare oggetto di questi contenziosi consisterebbero in interventi normativi dello Stato, rimessi peraltro al suo potere amministrativo/discrezionale, e da realizzarsi nel bilanciamento con tutti gli altri diritti e interessi pubblici coinvolti, trovo del tutto inammissibile che a fronte di ciò il giudice possa condannare lo Stato ad una somma di denaro quale sanzione per ogni giorno di ritardo nell’attuazione delle misure.
Se poi si aggiunge che questi obblighi di fare sui quali l’art. 614 bis c.p.c. dovrebbe operare sarebbero contenute in un dispositivo della sentenza a contenuto del tutto generico, e tale da rendere praticamente impossibile una verifica oggettiva dell’adempimento o meno della sentenza,
[40] Sulla legittimazione processuale v. ora L. GALATI, Processo senza soggetti, Milano, 2021, 156 e ss.
[41] In questo senso anche l’Avvocatura generale dello Stato, comparsa di risposta, pag. 22: “Gli odierni attori non appaiono legittimati ad agire in giudizio per lamentare forme di alterazione indiretta dell’ambiente, quali potrebbero essere le conseguenze del cambiamento climatico dovuto ad emissioni di gas serra, in quanto titolari di una posizione indifferenziata rispetto a quella di qualunque altro soggetto”.
A conferma di questa posizione l’Avvocatura dello Stato richiamava i precedenti comunitari di: a) caso Armando Carvalho e a.v. Consiglio e Parlamento europeo (causa T-330/18); b) Corte di Giustizia, 15 luglio 1963, causa C-25/62, Plaumann, punto 199; c) CEDU Lopez Ostra v. Spagna 1994; d) CEDU Guerra v. Italia, 1998; e) CEDU Oneryildiz v. Turchia, 2004; f) CEDU Cordella v. Italia, sentenza 24 gennaio 2019, sul caso “Ilva”.
[42] N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, n. 57, 2024, ricorda che per la menzionata sentenza CEDU, la legittimazione ad agire spetta solo quando v’è: “il «rischio reale» di un «impatto personale e diretto» sul ricorrente”, che: “debba essere «particolarmente elevato» (§§ 486 - 488), il che esclude un semplice pregiudizio superficiale. Quindi, la vittima dovrebbe essere «esposta in modo intenso agli effetti del cambiamento climatico», il che implica “un bisogno imperioso di garantire la sua protezione individuale” (§ 487)”.
[43] V. Cons. Stato, 20 settembre 2024, III, n. 7704.
[44] Per una critica alla legittimità generalizzata delle associazioni a far valere in giudizio interessi diffusi v. ora anche PROTO PISANI – VERDE, Verso una giurisdizione di tipo oggettivo, nota critica a Cass. sez. un. 23 novembre 2023 n. 32559, in Riv. dir. proc., 2024, 1031, per i quali: “Il nostro sistema di giustizia – ricordiamolo – è di tipo soggettivo, in quanto il giudice può intervenire se è chiamato in causa da chi è titolare del rapporto giuridico contestato o è diretto destinatario del provvedimento impugnato”.
[45] Si veda anche, al riguardo, l’art. 34, 2° comma c.p.a., per il quale: “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
[46] Così, espressamente, BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 47/48.
Si veda anche in argomento PAOLINI, Note sulla condanna in futuro, Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 507; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 182.
[47] v. in argomento PAGNI, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, 1 e ss.; MONTESANO, Obbligo a contrarre, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1979, XXIX, 508 e ss.; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva, Riv. dir. proc. 1991, 60 e ss.
[48] V. al riguardo PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 161, per il quale: “L’art. 2908 c.c. vale ad imporre il marchio della tassatività alle ipotesi riconducibili nello schema dommatico della tutela costitutiva”. V. anche DI MAIO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 307; E MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 155: “l’inquadramento della tutela giurisdizionale dei diritti in via determinativa sotto la categoria descritta nell’art. 2908 c.c. non è senza concrete conseguenze, giacché comporta la tipicità della tutela in esame”.
[49] V. infatti ancora PROTO PISANI – VERDE, Verso una giurisdizione di tipo oggettivo, cit., 1031 e ss.
[50] Così, espressamente, la sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024 n. 3552, pag. 7.
[51] In questo contesto possono ricordarsi anche le pronunce del Tribunale amministrativo di Parigi del 3 febbraio 2021, con la quale è stata riconosciuta una responsabilità omissiva in relazione agli obiettivi e agli impegni comunitari e nazionali, e la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 29 aprile 2021, che si è pronunciata sulla parziale incostituzionalità della legge federale sui cambiamenti climatici del 2019.
[52] V. al riguardo, M. PIGNATELLI, Il sole24 ore, 12 novembre 2024.
[53] Vedila in https://hudoc.echr.coe.int/it#
[54] Rinvio alla nota n. 41.
L’avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 16 e ss., indica poi numerose sentenze internazionali in senso conforme all’inammissibilità dei ricorsi.
[55] Corte europea dei diritti dell’uomo, Gran Camera 9 aprile 2024: “La Corte, all'unanimità, ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da sei cittadini portoghesi relativamente alle ricadute, odierne e future, del cambiamento climatico”; F.Z. GIUSTINIANI, Contezioso climatico e diritti umani: il ruolo delle Corti europee sovranazionali, in Federalismi.it., 2023, 271 e ss.
[56] Così espressamente Corte Cost. 26 marzo 2015 n. 49; conforme Corte Cost. 4 dicembre 2009 n. 317: “Con riferimento ad un diritto fondamentale garantito anche dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall'ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. In particolare, la Corte non può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. L'obiettivo di massima espansione delle garanzie deve essere conseguito attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che tutelano i medesimi diritti protetti a livello convenzionale e nel necessario bilanciamento con altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, suscettibili di essere incisi dall'espansione di una singola tutela. La protezione dei diritti fondamentali deve, dunque, essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, e la realizzazione di un equilibrato sistema di tutela è demandata, per gli ambiti di rispettiva competenza, al legislatore, al giudice comune e al giudice delle leggi. Il risultato complessivo dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall'incidenza della singola norma Cedu sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali. Resta fermo che la Corte costituzionale non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla Corte in tutti i giudizi di sua competenza”. V. anche in senso analogo Corte Cost. 11 marzo 2011 n. 80.
[57] P. CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, Studi sul processo civile, Padova, 1947, V, 26.
Immagine: Chmee2/Valtameri, CC BY 3.0
Oggi 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Giustizia Insieme ricorda lo stupro di Franca Rame. Si trattò di un episodio emblematico di violenza politica, avvenuto in un’epoca in cui l’emancipazione femminile avanzava con progressi importantissimi eppure era frenata da forti controspinte, a tutt’oggi non esaurite ed allora estremamente pervasive, ad ogni livello. Franca Rame non era una donna in condizioni di fragilità, era invece estremamente forte culturalmente e, grazie alla notorietà, socialmente. Questa forza, purtroppo, non la mise al riparo dal subire l’aggressione e fece anzi di lei un bersaglio particolarmente visibile, più facile di altri. La sua storia oggi ammonisce che la lotta alla violenza deve essere radicale, poiché nessuna delle risorse che una donna potrà mettere in campo le consentirà mai di sottrarsi alla violenza se il contesto sociale e culturale in cui ella vive ed agisce non è a sua volta attrezzato e determinato a tal fine.
Storia di uno stupro. Il corpo e le parole di Franca Rame.
di Sibilla Ottoni
Prendere la parola. Tradurre un pensiero in una forma; individuare un contenuto e portarlo verso l’esterno. Comunicarlo. Se dire è un atto, un’azione umana sorretta da volontà, comunicare è un atto sorretto da precisa intenzione. E tra gli atti comunicativi, sopra tutti si pone il gesto artistico, per cui la scelta della forma è costitutiva. La forma comporta un lavorio sul contenuto, una ponderazione. Ma più oltre, costringe ad un contegno, implica una postura, che è sempre un posizionamento, quindi una scelta di campo, quindi un atto politico. Ancora, il gesto artistico non esiste se non in relazione ad un destinatario astratto, plurale, indefinito: è, sempre, un atto pubblico. Il gesto artistico, che lavora un contenuto fino a dargli una forma e la consegna a un fuori indefinito e potenzialmente illimitato, è dunque il più politico degli atti.
Il progetto artistico e politico di Franca Rame e Dario Fo è emblematico di una concezione di intellettuale impegnato che prende la parola per confrontarsi con la storia. La fase centrale di quell’esperienza coincide con la fase storica segnata dall’inesorabile metamorfosi delle ideologie e dei relativi apparati fino ad allora dominanti, paradigmi che andavano perdendosi e la cui crisi polarizzava lo scontro politico. Da che lato stessero Rame e Fo è noto: dal lato di quella coscienza di classe ormai compiutamente teorizzata e che acquisiva una nuova consapevolezza di sé. Sulla scena artistica, in Europa era arrivato il living theatre, e dal canto suo la compagnia Rame-Fo prediligeva, facendone un manifesto letterario, le case del popolo ai teatri convenzionali, che anzi insieme al popolo si occupavano, come avvenne con la Palazzina liberty.
Il linguaggio scaturito da quel sodalizio è estremamente stratificato e complesso. Non solo la lingua ed i testi; anche i perché, i come e i dove contribuiscono a formare la presa di parola. Attraverso l’esplicita ibridazione dell’attività artistica con l’impegno sociale, indistinguibile a sua volta da quello politico, Rame e Fo radicano la propria libertà in una corrispettiva assunzione di responsabilità: l’adesione piena e dichiarata al sostrato assiologico del proprio agire, una novecentesca autonomia della volontà.
Una complessità culturale che non può essere intesa senza adeguati strumenti, eppure ne è evidente la potenza. E infatti la rappresaglia politica contro quel progetto, nell’incapacità di comprenderlo e rispondere, sferra un colpo bassissimo e mira al bersaglio umano; e all’essere umano donna, nonostante sia solo una parte di quel duo, la parte più invisa, colpevole di uno slancio che con tutta evidenza le si reputa illegittimo, proprio e soltanto a lei; e alla donna nella sua vulnerabilità più fisica e primordiale, annullandone in un sol colpo l’intelletto, il progetto, l’atto, riabbassandola brutalmente a soggetto dominato.
Il 9 marzo 1973, Franca Rame viene presa da cinque paramilitari di estrema destra, caricata su un furgoncino. Sta andando dal parrucchiere, esce dal Cinema-teatro Rossini occupato dalla Comune. Dentro si prova uno spettacolo intitolato Pum pum! Chi è? La polizia.
Il femminismo di Franca Rame, come per forza avviene con ogni femminismo che possa definirsi tale e quindi basato su un’idea di uguaglianza, non è che una parte delle sue attività, il Soccorso Rosso per i detenuti, l’impegno al fianco di quello che ancora può definirsi proletariato, inteso come un popolo operaio privo degli strumenti, assurti a dominanti, della borghesia capitalista. Una così evidente autocoscienza in capo ad una donna non può esserle ancora perdonata. Peggio, non può esserle perdonato il successo, e con esso l’ampiezza del pubblico che il messaggio raggiunge, da sempre unità di misura per la gravità dei crimini letterari. E il linguaggio di Rame, agli occhi della controparte politica, è tanto più offensivo perché alla spudoratezza della parola libera aggiunge il tono irridente, canzonatorio della commedia. La controparte politica, del resto, non solo è quella che semplifica, ma è anche quella che fa della violenza una bandiera, e non esita a usarla contro Rame.
Ciò che accadde è notorio. La punizione è l’offesa massima al corpo della donna, chiamata a pagare il conto per tutti. Non un banale sfogo di violenza sessuale: una spedizione punitiva che umiliando il corpo intendeva colpire il progetto culturale, intellettuale, politico, di cui Rame tuttavia non era che una singola esponente, insieme a Fo, alla Comune, a tutta la sinistra radicale ed extraparlamentare. A lei, tuttavia, spetta il trattamento speciale. Le sigarette spente sulla pelle, le lamette, lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce, la parola. È a sua volta un gesto politico, un atto sorretto da volontà, attuato con specifica postura. Ma vile, perché non supportato da un’assunzione di responsabilità. Non portato a viso aperto, e quindi privo dell’adesione al proprio sostrato assiologico. Un gesto anonimo, di cui non si individueranno mai con certezza processuale gli autori, sebbene è un dato storicamente verificato che quel 9 marzo il mandato alla banda neofascista venne da ambienti istituzionali[1].
Nel suo vuoto di senso e nella sua povertà estetica e semantica, anzi proprio per questo, quel gesto punitivo indubbiamente riesce nell’intento umiliante, come lo abbiamo appreso dalla viva voce dell’artista, che pochi anni dopo racconterà in un monologo la violenza, e quei primi minuti, le ore successive, ma ne impiegherà ancora molti per confessare che si tratta di autobiografia.
Il monologo si conclude con la scelta di non denunciare. È la presa di coscienza dell’incomunicabilità tra linguaggi troppo diversi: il linguaggio del gesto artistico, la libera presa di parola e di responsabilità; il linguaggio dei picchiatori fascisti, la vigliacca rappresaglia anonima, che attacca il corpo della donna perché non sa attaccare la parola dell’artista e l’azione militante; e un terzo linguaggio, platealmente assente da questa dialettica, che è quello dell’istituzione, cui la vittima non si affida. Questa terza voce dovrebbe elevarsi al di sopra di quelle antitetiche spinte, entrambe naturali, sociali, governando i rapporti tra esse. Dovrebbe parlare un’altra lingua, quella della responsabilità giuridica, del confine, pronunciare una parola capace di dare ordine allo scontro sanguinoso accaduto nella realtà riportandolo, in qualche modo, in termini che rendano tollerabile la prosecuzione di una coesistenza. A casa no, si dice dapprincipio Franca Rame appena scesa dal furgoncino, un istintivo rifiuto di richiudersi intorno alla propria offesa, amplificandola. Ma questo linguaggio istituzionale che dovrebbe essere salvifico viene invece visto come a sua volta potenzialmente lesivo, da chi già è stato troppo oltraggiato, e così si difende. Sto ferma non so per quanto tempo a guardarmi quell’ingresso, appoggiata al muro della casa di fronte. Quest’ambivalenza è storicamente molto significativa, storicamente inteso come ieri e come oggi. Ci dice quanto ancora non fosse risolto il rapporto col corpo della donna, già scelto in un abominevole automatismo come il bersaglio naturale, forse perché il più facile. La donna, che per aver preso la parola è già stata castigata, viene di nuovo punita poiché non ha diritto a una difesa delle istituzioni, o in ogni caso perché vive in un contesto in cui deve esitare, dubitare, chiedersi quale sarebbe la risposta, temere una rinnovata offesa, prefigurarsene l’intollerabilità. A prescindere dalla realtà dei fatti, già solo questa percezione decreta il fallimento dell’istituzione, e già è una punizione per la donna, che infatti se la autoinfligge: rinuncia, non ci prova nemmeno. Penso cosa dovrei subire se dovessi entrare ora. Penso alle domande. Penso ai mezzi sorrisi. Penso…e ci ripenso. Poi mi decido. Vado a casa. Vado a casa. Li denuncerò…domani. La voce di Franca Rame a questo punto è un singhiozzo lentamente trascinato, uno strazio. Il solo pensiero di poter ricevere un mezzo sorriso. E peste colga chi non ha capito.
Quei tre linguaggi così distanti per forza si scontrano in un modo sanguinoso, non c’è un terreno su cui possano intendersi. Sempre antagonisti saranno la libera presa di parola e il colpo basso di chi non assume su di sé la propria azione, né nel contenuto, né nella forma, e il linguaggio dell’istituzione che resta colpevolmente al margine, impotente, quando non è coinvolta nella scelta della forma peggiore.
Ma il gesto politico, come il gesto artistico, ha un doppio fondo. Un’arma di ritorno che può recuperare anche quel torbido, quell’umiliazione, trasformandola anch’essa in un prodotto artistico, un prodotto politico, militante. E non è una rivincita, attenzione, non ne verrà alcuna consolazione. Non esiste risarcimento possibile per la persona lesa nella sua dignità. È un’altra cosa, qualcosa che sta accanto, che non restituisce niente. E nondimeno cura, ma non la vittima, cura qualcos’altro. La dimensione collettiva traspone fuori la ferita di dentro, le mille sputate che mi son presa nel cervello, e le lenisce lì, su un corpo plurale, impersonale, altrimenti vivo. Un apparente artificio che sembra una ricerca di conforto, ma non è altro che un ritorno naturale, un effetto riflesso in una sfera che è stata intaccata tanto quanto quella individuale, che se ne sia coscienti o meno. Poiché il corpo di uno è il corpo di tutti, e soprattutto il corpo dell’artista.
[1] I fatti relativi allo stupro di Franca Rame furono parzialmente accertati nel corso di una inchiesta condotta alla fine degli anni ’90 dal giudice Guido Salvini sugli atti terroristici irrisolti, a partire dai fatti di Piazza Fontana, al fine di ricercare prove documentali delle dichiarazioni che erano state rese da vari estremisti di estrema destra. Dagli atti di quel processo emerse che l’azione contro Franca Rame fu ispirata da ufficiali della caserma dei Carabinieri Pastrengo, col fine di dissuadere Rame nella sua attività di sostegno ai carcerati col Soccorso Rosso. Il reato era tuttavia ormai prescritto. A riguardo, negli atti della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi istituita nel 1992 si legge: “Nel 1997 Angelo Izzo, un estremista di destra condannato per stupro e omicidio (fatti del Circeo), dichiarerà che lo stupro di Franca Rame era stato suggerito dai vertici della 1„ Divisione carabinieri ´Pastrengo a (Milano), allora comandata dal generale Giovanni Battista Palumbo, teste al primo processo e all'inchiesta parlamentare sul Piano Solo e iscritto alla P2. Nel 1998 un pregiudicato per reati comuni, già picchiatore nero, arrestato per traffico di eroina, confermerà la dichiarazione di Izzo accusando dello stupro un neofascista riparato a Londra. Quest'ultimo negherà l'addebito, ricordando di essere ´finito in galera per un anno proprio in seguito a un'indagine del generale Palumbo. Non sarebbe venuto a chiedere proprio a me di stuprargli Franca Rame’. Nell'ambito dell'inchiesta del giudice Salvini, il generale dei carabinieri in congedo Nicolò Bozzo testimonierà che il generale Palumbo avrebbe accolto la notizia dello stupro con una risata e il commento ´era ora’. Il 17 febbraio 1998 il premio Nobel Dario Fo indirizzerà una lettera aperta al presidente Scalfaro”. Da un’intervista a Bozzo pubblicata su L’Espresso il 26 febbraio 1998: “Quel mattino avevo appena ricevuto un fonogramma nel quale veniva data la notizia dell’aggressione della sera prima a Franca Rame. Il fatto era gravissimo e subito avvertii io stesso il mio superiore, il Generale Giovan Battista Palumbo. In quel momento era serissimo, ma quando gli consegnai quel messaggio, gioì: cambiò subito espressione, come a dire ‘Finalmente, era ora’. Approvava quell’operazione punitiva.”.
Il patriarcato esiste
di Maria Teresa Covatta
In apertura dello scritto “Sulla servitù delle donne” del 1836 John Stuart Mill chiarisce che la condizione di inferiorità giuridica delle donne si fonda su un principio sbagliato in se stesso in quanto trae la sua legittimazione da consuetudini che, non essendo il prodotto di una deliberazione fondata su ragioni di giustizia o utilità sociale, risultano essere un retaggio di barbarie, un frammento del sistema del diritto fondato sulla forza nonché l’esatto contrario di ciò che definiamo come civilizzazione.
Mill afferma che, atteso che la storia stessa del progresso della civiltà coincide con la progressiva abolizione del diritto fondato sulla forza in favore di relazioni regolate in base ai principi moderni di libertà e uguaglianza, qualunque sistema che tolleri l'inferiorità della donna rispetto all'uomo risulta storicamente e logicamente contraddittorio
Queste parole che possono ritenersi superate rispetto al nostro sistema giuridico attuale, certamente formalmente tra i più avanzati in tema di parità e di contrasto alla violenza di genere, meritano tutt'oggi una riflessione atteso che l'uso della forza è ancora, di fatto, uno dei modi in cui viene gestita la relazione uomo donna
La lotta a questa persistenza della barbarie è il senso della giornata mondiale della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre.
Il patriarcato esiste ancora. Inoltre chiamarlo maschilismo, come ha precisato di recente il ministro della pubblica istruzione italiano, per chiarire la sua precedente affermazione secondo cui il patriarcato non esiste, non cambia le cose posto che una diversa terminologia non modifica la realtà. Con il termine maschilismo, infatti, si indica l'adesione a comportamenti, atteggiamenti personali, sociali e culturali con cui gli uomini esprimono la convinzione di una loro superiorità nei confronti della donna sul piano intellettuale, psicologico, biologico che legittima posizioni di possesso, di predominio e di autoritarismo, occupando una posizione di privilegio nella società.
In sociologia il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e talora persino di controllo della proprietà privata, esercitando, in ambito familiare, quale figura maschile di riferimento, la propria autorità sulla donna e sui figli.
Se storicamente il termine patriarcato è stato usato per riferirsi al dominio autocratico da parte del capo di una famiglia, in tempi moderni si riferisce più generalmente a un sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto dagli uomini adulti ed esercitato secondo un modello “maschilista” nel senso detto sopra.
Il patriarcato come sistema di controllo istituzionalizzato ha dato in passato, e dà ancora oggi in una grandissima parte del mondo, un diritto al possesso della donna inteso come diritto anche all’abuso fisico e psicologico
La congiuntura tra patriarcato come privilegio e autorità e la concezione della donna come proprietà finisce per sfociare in quella che è stata definita la “cultura dello stupro” in cui violenza sessuale e altre forme di violenza verso le donne sono viste come possibili all'interno di un ordine sociale barbarico, per dirla con Mill, che resiste e impedisce di superare, nell'ambito dei rapporti tra i sessi, quel particolare tipo di relazione che ancora ci ricorda, nel contesto familiare, il rapporto padrone che comanda e servo che deve ubbidire, nel rapporto politico quello tra despota che decide e suddito che non ha diritto di protestare e infine, nel contesto dei conflitti, quello tra il vincitore e il vinto da annientare fisicamente e psicologicamente.
Il corpo della donna, già bottino in tutte le guerre, diventa anche in tempo di pace campo di battaglia perché attraverso la violenza sessuale e l'annientamento definitivo del corpo femminile si afferma una signoria a cui non si rinuncia nonostante le leggi formali, nazionali e internazionali, lo vietino. E che supporta il diritto a reprimere le decisioni delle donne di affrancarsi da relazioni violente o semplicemente non gradite o, in contesti internazionali sempre più vicini, a manifestare il proprio dissenso o la propria aspirazione alla libertà.
La violenza che si consuma in ambito familiare anche nei paesi civili spesso seguita anche dall'uccisione, come ci raccontano gli agghiaccianti dati dei femminicidi di casa nostra, si manifesta come esercizio di potere sociale e si affianca al fenomeno sempre troppo poco conosciuto dello stupro di guerra e allo stupro come arma di repressione politica, costituendo tutti insieme declinazioni diverse di un orrendo crimine che ha un unico comune denominatore, qual è quello dell'esercizio di un dominio in nome della prevalenza della forza fisica.
Lo stupro di guerra da sempre usato come arma massiva, ancorché riconosciuto come crimine contro l'umanità, resta sempre ai livelli più alti della hit della violenza contro le donne, come forma di annientamento del nemico umiliandolo, terrorizzandolo e modificandone l'assetto politico a fronte di eventuali intelligenze con gli opponenti.
Ed è ancora oggi una vera e propria piaga che tutti gli enfatici “mai più” pronunciati dall'umanità in risposta agli orrori delle due guerre mondiali non sono stati in grado né di arginare né di punire assicurando i colpevoli alla giustizia
Dal passato proseguendo fino alla terrificante realtà dell'oggi, in conflitti sempre più vicini e più massificati, la violenza sessuale resta un'arma di dominazione agita contro il nemico usando il corpo delle donne: dalle dominazioni coloniali al genocidio armeno dalle “marocchinate” alle “mongolate” dell'Italia della seconda guerra mondiale alle violenze perpetrate nella ex Jugoslavia e alla violenza assurta a pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, passando per il Ruanda, la Palestina, la Somalia, la Nigeria, l'India, l'ex Birmania, il Darfur, le terre Curde occupate dall’Isis fino all’America Latina e ancora, in tempi più vicini, la Repubblica popolare del Congo, la Siria, l’Etiopia, la Colombia, Haiti, l'Ucraina, Israele e Gaza.
Secondo i dati di Strategic Initiative for Women in the Horn of Africa, in Sudan sono sempre più le donne che scelgono il suicidio piuttosto che sottostare allo stupro di massa perpetrato sia dalle milizie RSF che dall’esercito golpista i quali, secondo il rapporto di United Nation High Commissioner for Human Rights (OHCHR) violentano e uccidono anche bambine di pochi anni.
Ma lo stupro è anche una potente arma politica, praticata anche da noi fortunatamente in un passato lontano anche se non lontanissimo come ci ricorda la terribile violenza che fu esercitata contro Franca Rame.
Secondo le fonti di Amnesty International riportate da Avvenire, la violenza sessuale è stata utilizzata diffusamente dalle autorità iraniane come arma nell'arsenale della repressione delle proteste per Donna Vita e Libertà.
Lo stesso sta accadendo in Myanmar per reprimere l'opposizione al regime militare instauratosi nel 2021: come dire se la protesta è donna la violenza sessuale procede o segue le percosse e le torture riservate a tutti.
Anche in Afghanistan le donne che protestano contro l'applicazione dei precetti talebani sono incarcerate e lì ripetutamente abusate. E, per concludere l'opera, segue la puntuale video registrazione dell'abuso, con l'esposizione del corpo nudo e del viso ben riconoscibile della vittima, che consente, attraverso la diffusione, di ricattarla e di vittimizzarla ancora di più.
E dunque, come accade nel nostro mondo occidentale e civilizzato dove si registra un aumento esponenziale della diffusione on line di messaggi di odio sessuale, anche l'uso della tecnologia può essere un'arma attraverso cui il patriarcato (o il maschilismo se il termine piace di più!) manifesta la volontà maschile di non perdere il potere sul corpo e sulla vita delle donne.
Una volontà che ancora oggi trova un fertile terreno nell'affermazione, anche pubblica, di cause di giustificazione morale legittimanti le condotte violente. Tra queste al primo posto la gelosia, che, nonostante l'abolizione del diritto d'onore dati al 1981, continua, anche nelle aule dei tribunali, ad essere portata avanti come causa del comportamento violento maschile la cui responsabilità va dunque ricondotta alla donna che vi ha dato causa.
E ciò perché rimane ancora il pervasivo retaggio della cultura patriarcale tradizionale secondo cui, nei rapporti affettivi, la gelosia è ritenuta un segno d’amore facendo della possessività, soprattutto maschile, la cifra di relazioni in cui il dominio e il controllo sull’altro sono la regola.
Così il “diritto di proteggere” celato dietro un preteso dovere di protezione che ha ben altri contenuti e che inevitabilmente rimanda all'esercizio del controllo, alla cancellazione del diritto di autodeterminazione, anche in relazione alla procreazione, e alla privazione di una o di più libertà.
Non può che leggersi così la promessa del capo di un'importante Paese Occidentale Civilizzato di “proteggere le donne anche contro la loro volontà”.
Non per fare paragoni e tornando al regime talebano, si segnala la forte condanna espressa di recente dall’ONU contro la pratica ora invalsa in Afghanistan di imprigionare le donne vittime di abuso sessuale, giustificando la carcerazione con la necessità di proteggerle, ovviamente contro la loro volontà, e ancora una volta facendo pagare il danno al danneggiato.
Volendo formulare un augurio per questo 25 novembre la speranza è che ci siano presto leggi e soprattutto percorsi culturali che servano a sradicare il patriarcato, partendo dalla consapevolezza della sua esistenza, e che possano formare, anche nei giovani, una nuova coscienza del rapporto uomo donna. E che cancellino per sempre l’idea che le donne debbano essere protette con un “tipo” di protezione decisa dagli uomini.
Cambiare funzioni
di Paola Cervo
«C'è una stagione ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Sa che doveva pagare (il gergo del carcere usa sempre questo verbo: “ho fatto due rapine e le ho pagate”) e sente che quella quantità corrisponde al dovuto secondo la “sua” idea di giustizia. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi.»
Il libro da cui tutto è cominciato è “Fine Pena: Ora” di Elvio Fassone.
Quando l’ho letto non potevo immaginarlo, ma queste parole hanno scavato nella mia testa per qualche anno, un pochino alla volta. Nel frattempo sono successe tante cose, ho parlato spesso con Marco e con Milena, ed alla fine eccomi qui.
1° ottobre 2024, fuori dalla porta della mia stanza c’è scritto “il magistrato di sorveglianza” e sotto c’è il mio nome.
Nei giorni precedenti il mio trasferimento, gli avvocati che mi incontravano in Corte di Appello sono sembrati sbigottiti dalla mia decisione. Qualcuno si è spinto a chiedermi perché mai volessi penalizzare così la mia carriera invece di fare domanda per la Cassazione o per una presidenza; qualcuno mi ha chiesto perché volessi relegarmi in quel luogo e smettere di essere un giudice, qualcun altro ha ammiccato come a dire che lo capiva benissimo, se dopo tanti anni di prima linea avevo scelto un posto dove non si lavora.
Forse per reazione a tutte queste condoglianze professionali ho voluto giurare indossando la toga e il bavaglino.
Siamo giurisdizione e la toga ne è il simbolo, ma da oggi non sarò il giudice che assolve o condanna. Confesso che ne sono sollevata.
Negli anni in cui le parole di Fassone scavavano, mi capitava a volte di avvertire una fitta troppo forte in certe condanne, o un sollievo troppo grande in certe assoluzioni: decisioni che sapevo essere corrette, che ho creduto destinate alla conferma in Cassazione, decisioni che adotterei di nuovo, ma non era quello il punto. Il punto era che ne avvertivo il peso, e non più solo la responsabilità.
E dunque, eccomi qui.
I primi detenuti che incontro stanno sistemando degli arredi in legno al piano di sopra, in tribunale, sotto l’occhio di un enorme poliziotto in borghese che sfoggia sul petto un distintivo più grande della mia mano. Noto l’etichetta, in quell’istituto c’è il laboratorio di falegnameria.
Prendono le scale per scendere al mio piano quasi insieme a me, attacco bottone ed iniziamo a chiacchierare. Vengono dall’ istituto che condividerò con altre colleghe. Mi presento, gli chiedo come si chiamino, le iniziali dei loro cognomi non sono lettere mie. Sono appena arrivata ma scopro che mi conoscono già, ho accordato un permesso di necessità ad un loro compagno di reparto, e mentre mi stupisco della velocità con cui viaggiano le notizie in carcere mi assale il dubbio atroce che la notizia si sia sparsa perché ho commesso chissà quale errore.
In attesa che venga reperito un armadio per stipare i fascicoli rossi della conversione delle pene pecuniarie, inizio a studiare i miei fascicoli delle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza si esegue a pena espiata. Lo so da sempre, lo avrò scritto in non so quanti dispositivi, eppure oggi qualcosa stona. Mi sorprendo a chiedermi perché una persona dovrebbe essere socialmente pericolosa dopo avere espiato una pena che la ha rieducata; eppure eccole qui, le misure di sicurezza, ed eccomi qui.
Vigilo sulla casa di lavoro.
Il collega al quale subentro mi propone di fare insieme la mia prima visita all’istituto, ed io accetto felice. Sarò io, adesso, l’unico magistrato di sorveglianza per gli internati.
La direttrice mi accoglie con cordialità, parliamo di assistenza sanitaria e di qualche internato più problematico. È autunno ma fa caldissimo, il balcone è aperto su un gigantesco albero e le zanzare sono entusiaste di avermi lì.
Anche gli internati sanno già chi sono, nei pochi giorni che separano il mio trasferimento dal mio ingresso in casa di lavoro ho già emesso svariati procedimenti, il mio nome gli è già familiare.
L’istituto ha un piccolo tenimento agricolo dove si coltivano melanzane, peperoncini di fiume, alberi da frutta, cavolo nero, finocchi, vite. Ci sono delle rose stupende, piantate da un anziano e terribile ndranghetista che – pare – quando è stato dimesso è tornato in Calabria a fare il nonno.
Lungo i viali che conducono ai reparti vengo letteralmente circondata dagli internati.
Non riesco quasi più a camminare.
Imparerò a conoscere i loro nomi ed i loro visi ma intanto mi lascio assediare dalle loro domande, esamino e commento con loro i documenti e le ordinanze che mi chiedono di leggere – casualmente, hanno tutti in tasca l’ultimo provvedimento che li riguarda, l’ultima istanza che hanno protocollato alla matricola, l’ultima lettera del figlio o della madre. Sono estremamente rispettosi l’uno dell’altro, aspettano il loro momento per parlarmi senza dare fretta a chi sta parlando, ma avverto che tutti mi stanno studiando.
Anche io voglio conoscerli. Entro nel reparto, ci disponiamo in cerchio in un passaggio abbastanza ampio da contenerci tutti. Non ho molto da dire perché non li conosco ancora, preferisco ascoltarli.
Alcuni sono davvero esasperati perché non capiscono come mai si trovano lì, dal momento che hanno già “pagato il reato”; altri mi chiedono, ora con foga e ora con stanchezza, perché si trovino ancora lì.
Mentre guido verso casa riaffiorano vecchie letture sull’ergastolo bianco, intanto ripasso mentalmente l’elenco dei fascicoli che l’indomani voglio studiare.
Sono impacciata, lenta, è tutto nuovo.
Litigo con SIUS, le norme sembrano sfuggirmi, guardo i miei colleghi – i magistrati di sorveglianza ‘veri’, così generosi ed accoglienti con me – e mi chiedo quanto mi ci vorrà per acquisire la loro esperienza e la loro competenza. Eppure mi sembra di essere lì da sempre.
Gli avvocati mi raccontano dei loro assistiti detenuti, prima di uscire dalla mia stanza uno di loro mi confessa: «sa, dottoressa, è il mio primo assistito».
Ricevo molte lettere.
La prima me la ha inviata un detenuto che è coetaneo del mio figlio più piccolo.
«Gentile dottoressa sono M.B., un suo assistito». Un mio assistito. Forse sarà così, forse quando avrà espiato questa lunga pena scopriremo insieme che sarà stato così.
Ma tra i miei assistiti ce n’è uno, che non ho ancora mai visto anche se conosco il suo nome da anni. Il reato per il quale lui sta scontando l’ergastolo è il reato per il quale io sono diventata magistrato. Chissà, magari non è una coincidenza, magari dovevo cambiare funzioni perché il cerchio si chiudesse.
Siamo giurisdizione e ora che sono da quest’altro lato lo vedo proprio nitidamente. E vedo anche che questo è proprio “l’altro lato”. C’è un confine ideale tra l’essere giudice della cognizione ed essere giudice dell’esecuzione, ed io ho scelto di varcarlo dopo 23 anni passati “dall’altro lato”. Chissà se tornerò mai indietro.
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