ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ricordo di Raffaele Foglia
di Federico Roselli
Si può parlare di “passione” per il diritto? Qualche tempo fa un civilista francese ben noto anche in Italia, Jean Carbonnier, scrisse un libro (Droit et passion du droit, sous la V République, ed. Flammarion 1996) in cui evocò la “passion du métier, du métier de juriste en ses multiples catégories”.
Non esito a dire che Raffaele Foglia è stato un giurista appassionato oltreché versatile.
Come autore di pubblicazioni dottrinali Raffaele mi era noto anche prima che lo potessi conoscere come collega nella Sezione lavoro della Cassazione.
Allo studio del diritto del lavoro egli univa l’interesse per l’ordinamento dell’Unione europea, come dirò tra breve.
Raffaele collaborò anche alla formazione della giustizia costituzionale nei periodi nei quali fu assistente di studio dei giudici Luigi Mengoni, maestro di tanti civilisti e lavoristi anche non suoi studenti dell’Università cattolica, e Luigi Manzella.
Non è possibile praticare il diritto del lavoro senza credere nel principio della pari dignità sociale, che viene enunciato nell’art.3 della Costituzione. Si suole dire che gli ordinamenti del lavoro e della sicurezza sociale, nati nella seconda metà dell’Ottocento, trovino la loro ragion d’essere nella difesa dei soggetti più deboli.
Il principio d’eguaglianza è particolarmente sentito dalle persone che professano la fede cristiana . Mi limito a ricordare il recente scritto del professore Andrea Proto Pisani La giustizia secondo Dio (alla luce dei Vangeli) e sulla giustizia secondo gli uomini (alla luce della Costituzione), in Persona umana e processo civile, Giuffrè 2022, 173.
Raffaele Foglia non teneva nascosta la sua fede.
Ma il valore della pari dignità sociale è sostenuto con convinzione anche da molti non credenti, i cosiddetti laici, i quali si preoccupano di qualsiasi situazione di debolezza e non solo di quella in cui versano le persone appartenenti a “ceti di bassissimo livello” (Proto Pisani cit., p.176). Quando si rievocano i contributi dati nell’Assemblea costituente alla scrittura dell’art.3 non si manca mai di ricordare l’impegno profuso in pari misura dai cattolici e dai laici. Si parlò di “sinergia costruttiva” da Giuseppe Dossetti (riportato da P. Grossi, Sistema moderno delle fonti del diritto ed esperienza giuridica posmoderna in Italia, in Riv. internaz. fil. dir. 2021, p.167 nt.26).
Tra le “rivoluzioni positive” del secolo ventesimo viene posto l’emergere del quarto stato, vale a dire l’inserimento del ceto più svantaggiato (una volta si diceva il proletariato o la plebe) nella popolazione politicamente attiva (R. Levi Montalcini, citata da E.J. Hobsbawn, Age of extremes. The short twentieth century [1994], trad. it. Il secolo breve, Rizzoli 2000, p.13). Questo inserimento ha avuto effetto benefico per tutti i ceti poiché ha diffuso benessere non solo materiale ma ha anche favorito la reciproca fiducia, manifestata dalla maggiore semplicità e schiettezza delle relazioni personali. Nel diritto si è avuto, prima di tutto, l’applicazione diretta delle norme e dei princìpi costituzionali ai rapporti tra privati.
È possibile che il valore dell’eguaglianza, strettamente connesso con quello del suffragio “universale e diretto” di cui agli artt.56 e 58 Cost., appaia di più difficile consolidamento nella fiducia di molti cittadini, specialmente quando venga inquinato da quello che si chiamava demagogia e che oggi è detto populismo. Ma ciò significa soltanto che la sua attuazione è difficile, impegnativa.
Tornando al diritto del lavoro, la prosperità delle imprese, private e pubbliche, serve anzitutto a proteggere la dignità dei singoli, nessuno escluso (artt.3, 4, 35 e 36 Cost.).
Questi princìpi sono stati alla base dell’attività di Raffaele Foglia.
Sarebbe impossibile una rassegna, anche sintetica, delle migliaia di sentenze da lui estese durante la permanenza in Cassazione. Egli ebbe modo di interpretare si può dire tutti gli istituti del diritto del lavoro e della sicurezza sociale, e molti della procedura civile.
Anzitutto in materia di libertà di organizzazione dell’azienda, “sempre contemperata con il rispetto della dignità umana” (Cass. n.21967/10, 18122/05, 15346/04). Specialmente in queste pronunce si rivela il valore formativo della collaborazione prestata presso la Corte costituzionale.
Importanti le decisioni nella materia, controversa e toccata anche dalla normativa europea, della cessione del ramo d’azienda, con passaggio automatico del lavoratore da una ad altra impresa (Cass. n. 19000/10).
Ancora l’approfondimento dei temi costituzionali gli giovò alla conoscenza della teoria delle norme, e così di successione delle leggi nel tempo (Cass. n.11459/04) o di conoscenza, da parte del giudice, delle regole di diritto, quando esse stiano in atti non ufficialmente pubblicati, come avviene per la cosa giudicata esterna (Cass. n.7018/04).
Non ho le necessarie conoscenze professionali per illustrare l’opera svolta da Raffaele nel Ministero della giustizia. Essa si concretò nella collaborazione per la riforma del processo del lavoro, data come presidente dell’apposita commissione (la relazione definitiva è del 7 maggio 2001), nonché per l’adeguamento dell’ordinamento italiano a quello della Comunità, oggi Unione, europea.
Posso solo dire che l’opera prestata dai componenti delle commissioni per riforme di ampio respiro si rivela utile anche quando esse non trovino immediata attuazione. I materiali verranno utilizzati successivamente dagli uffici ministeriali e dalla dottrina.
Gran parte del lavoro ministeriale svolto da Foglia si tradusse anche in opere monografiche o di sistemazione.
Anzitutto nei lavori sul diritto comunitario (Profili di diritto comunitario, del 1996; L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, del 2002; Il diritto del lavoro nell’Unione europea, del 2011; Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, del 2013). È poi da ricordare la parte lavoristica da lui scritta nel Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone, e in particolare in uno dei due volumi sul Diritto privato dell’Unione europea, curati da Mario Tizzano (Giappichelli 2006). Si aggiunge la Rassegna di giurisprudenza costituzionale sulla sicurezza sociale, del 1997; poi i lavori sul diritto processuale, tra i quali il Manuale d’udienza del lavoro, del 1979, e Il processo del lavoro di primo grado, del 1995. Va ancora ricordato il libro su La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, del 2002. Né mi illudo di aver fornito una bibliografia completa.
A tutto ciò si aggiunge la collaborazione a varie riviste. De Il diritto del lavoro Raffaele assunse anche la direzione.
Dopo il collocamento a riposo mi è toccato di ripensare spesso a magistrati della Sezione lavoro sempre ammirati da tutti i colleghi e scomparsi troppo presto, troncando un’attività che avrebbe potuto ancora essere utile in misura eccezionale. Voglio ricordare Ugo Berni Canani, Stefano Evangelista e Pasquale Picone. La tristezza causata dalla malattia di Raffaele e dalla sua fine è mitigata dal ricordo delle serene, pur se qualche volta travagliate, camere di consiglio e delle conversazioni private, anche in sede conviviale. Egli fu instancabile nella vita professionale. La sua grande operosità rivela un uomo animato da passione non solo per le tecniche giuridiche ma anche per la ricerca della giustizia.
L’esordio operativo dell’Ufficio per il processo nelle Corti di appello.
Intervista di Ernesto Aghina, Luca Marzullo e Michela Petrini a
Mario Vincenzo D’Aprile, Presidente Corte appello di Perugia
Matteo Frasca, Presidente Corte appello di Palermo
Giuseppe Meliadò, Presidente Corte di appello di Roma
Iside Russo, Presidente Corte di appello di Salerno
Dopo una partenza anticipata presso la Corte di Cassazione, il 21 febbraio inizieranno la loro attività negli uffici giudicanti di primo e secondo grado ben 7.264 addetti all’Ufficio per il processo, che costituiscono il primo scaglione dei 16.500 laureati assunti dal Ministero della Giustizia a tempo determinato con l’obiettivo di abbattere l’arretrato civile e di ridurre la durata dei procedimenti civili e penali.
Dopo la sua istituzione nel 2014 ed un avvio non uniforme nei singoli uffici giudiziari, non sempre in grado di fare fronte all’implementazione di tale struttura per l’endemica carenza di risorse, quello messo in atto è un intervento del tutto inedito nel nostro panorama giudiziario, che per la sua peculiarità impegnerà tutti gli uffici giudiziari, coinvolti in una vera e propria rivoluzione organizzativa di particolare complessità, a partire dai dirigenti degli uffici stessi, che hanno già predisposto a tal fine un progetto operativo.
Francesco Cottone, direttore generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia, ha affermato che il valore principale del progetto sugli Uffici per il Processo va oltre il raggiungimento degli obiettivi di efficienza giudiziaria previsti dal PNRR, in quanto “crea concime per l’innovazione del sistema giudiziario Paese e, speriamo che l’iniziativa lasci una eredità a regime, in termini di relazioni tra università e Uffici Giudiziari, di iniezione di capacità manageriali negli uffici giudiziari e di capacità predittiva della domanda di giustizia, per fornire le giuste risposte organizzative ma anche procedurali alla reale domanda di giustizia”[1].
Ed è proprio muovendo da queste premesse ed auspicando che questa rivoluzione porti ad un miglioramento del servizio giustizia, non solo in termini quantitativi (abbattimento dell’arretrato), ma anche qualitativi (contenuto del provvedimento giurisdizionale) che Giustizia Insieme ha deciso di aprire un focus sull’Ufficio per il processo, inserendo nella pagina web della Rivista una rubrica dedicata, nella quale, a partire da oggi, verranno pubblicate interviste ed approfondimenti, con l’obiettivo di monitorare il concreto evolversi di questo nuovo modello organizzativo che costituisce, ad oggi, la vera sfida per una riforma della giustizia.
Già in passato, su questa Rivista, si sono esaminati gli aspetti principali dell’U.P.P. e la sua genesi (vedi in proposito l’intervista a Barbara Fabbrini: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e risorse degli uffici giudiziari: il “nuovo” Ufficio per il processo) ed oggi, all’esordio di questo innovativo modello organizzativo, può essere utile porre a confronto le scelte adottate, su alcuni temi “topici”, da alcuni dirigenti di Tribunale e di Corte di Appello, selezionati su un campione che tiene conto delle diverse aree geografiche e delle dimensioni degli uffici.
Non esistendo difatti un modello unico di Ufficio per Processo, quanto piuttosto uno schema flessibile che dovrà essere convenientemente adattato alle esigenze dei vari uffici giudiziari, si rilevano già sostanziali differenze strutturali che caratterizzano scelte gestionali diverse.
Di seguito le risposte offerte da Mario Vincenzo D’aprile (Presidente della Corte di Appello di Perugia), Matteo Frasca (Presidente della Corte di Appello di Palermo, Giuseppe Meliadò (Presidente della Corte di Appello di Roma) e Iside Russo (Presidente della Corte di Appello di Salerno).
1. Nel progetto organizzativo depositato la distribuzione degli addetti all’UPP tra settore civile e penale è stata operata in modo equivalente, ovvero sulla base di quali criteri?
D’APRILE La distribuzione degli addetti all’U.P.P. è stata organizzata in base alle esigenze specifiche e agli obiettivi individuati per i due settori, in particolare avendo riguardo agli arretrati da eliminare e ai tempi di definizione su cui occorre incidere in ciascuna delle sezioni. Nel dettaglio, le situazioni di partenza e gli obiettivi che hanno orientato la distribuzione degli addetti all’U.P.P. sono i seguenti, suddivisi per sezioni:
Sezione civile
Nel settore civile sarà perseguito l’obiettivo specifico della completa eliminazione delle pendenze ultrabiennali; inoltre, si curerà la progressiva riduzione dei tempi di definizione dei processi, anche oltre il 40% vincolante, fino a giungere, alla fine del periodo in considerazione, alla tendenziale eliminazione delle cause iscritte da più di un anno.
Sezione lavoro
La Sezione lavoro non ha un arretrato ultrabiennale significativo: i procedimenti ultrabiennali oggi pendenti devono l’eccedenza della loro durata all’opportunità di attendere le pronunce di organi giurisdizionali superiori (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale, Corte di Giustizia dell’Unione Europea) su questioni di diritto rilevanti ai fini della decisione. Al momento attuale, tutte le questioni connesse a procedimenti ultrabiennali sono state risolte dalle giurisdizioni superiori o sovranazionali, per cui le cause in questione sono in corso di definizione e saranno verosimilmente esaurite entro i primi mesi dell’anno 2022. Conseguentemente, per la Sezione lavoro, un obiettivo specifico potrà consistere in una progressiva riduzione dei tempi di definizione dei processi, anche oltre il 40% vincolante, fino a giungere alla tendenziale eliminazione delle cause iscritte da più di un anno.
Sezione penale
Nel settore penale, gli obiettivi specifici da perseguire consisteranno nella completa eliminazione delle pendenze ultrabiennali e nella progressiva riduzione del DT, in modo da raggiungere, tendenzialmente, tempi di definizione non superiori ad un anno; inoltre, si opererà per la riduzione dei tempi di trasmissione dei ricorsi alla Corte Cassazione, in modo che sia garantito il rispetto del termine massimo di novanta giorni decorrente da quello fissato per il deposito della motivazione; infine, sarà perseguita la progressiva e più ampia possibile informatizzazione di tutte le attività della Sezione.
FRASCA Sulla base dei dati sull'assetto organizzativo dell'Ufficio e sulla pendenza è apparso funzionale al conseguimento degli obiettivi che la maggior parte delle risorse in arrivo fosse destinata al settore civile ordinario, nel quale sostanzialmente sono concentrate le criticità in termini di arretrato patologico e che, viceversa, sono pressoché inesistenti nell'ambito delle controversie di lavoro e nel settore penale, per le quali sono ipotizzabili interventi di miglioramento sul versante del disposition time.
All’esito dell’analisi complessiva dei dati si è ritenuta adeguata la distribuzione delle risorse indicata nella tabella che segue:
| Servizi settore civile | Servizi settore penale | Servizi trasversali | TOTALE |
addetti UPP assegnati |
61 |
24 |
5 |
90 |
SETTORE CIVILE | |
SEZIONI | N. ADDETTI UPP ASSEGNATI |
Sezione Prima | 20 |
Sezione Seconda | 18 |
Sezione Terza | 20 |
Sezione Lavoro | 3 |
SETTORE PENALE | |
SEZIONI | N. ADDETTI UPP ASSEGNATI |
Sezione Prima | 6 |
Sezione Seconda | 5 |
Sezione Terza | 5 |
Sezione Quarta | 6 |
Corte di Assise di Appello | 2 |
SETTORI/ SERVIZI TRASVERSALI | |
SEZIONI | N. ADDETTI UPP ASSEGNATI |
Presidenza | 5 |
Tale distribuzione sarà rivedibile all'esito della periodica verifica sull'andamento del Progetto.
MELIADÓ Mi pare opportuno premettere che, presso la Corte di appello di Roma, è stata operata riguardo all’ufficio per il processo una scelta chiara, senza attendere il PNRR.
Partendo dall’idea che il coinvolgimento dei magistrati della Corte intorno ad un modello organizzativo volto a lavorare per progetti e per obiettivi condivisi (all’insegna del proposito di lavorare meglio, e non solo di più) è la indispensabile premessa per conseguire risultati positivi nella gestione della giustizia civile e penale, ho, sin dal mio insediamento, costituito un gruppo di lavoro per dare concreta attuazione, presso le sezioni civili e penali, all’ufficio per il processo, così come da lungo tempo auspicato nei documenti programmatici della Corte, e con la volontà di strutturarlo “per obiettivi”, e non per mera “sommatoria” di figure professionali, in modo da puntualizzare meglio i compiti di razionalizzazione del lavoro giudiziario e di miglioramento delle tecniche di decisione cui questa struttura è dedicata.
Questi propositi si sono finalmente attuati, nel maggio dello scorso anno, con la formale costituzione dell’ufficio per il processo presso tutte le sezioni civili della Corte (e di lì a qualche mese anche presso le sezioni penali), con la predisposizione di un documento programmatico che ne individua struttura, obiettivi, coordinatori e responsabili delle periodiche verifiche dedicate, chiudendo così una stagione di prolungati rinvii.
La preventiva previsione di specifici obiettivi per tutte le sezioni e per tutti i settori (civile, penale, lavoro, minori) ci ha pertanto sicuramente agevolati nella organizzazione della distribuzione delle nuove risorse che sono state attribuite agli uffici giudiziari dal PNRR, in ciò favoriti anche dal numero degli addetti in concreto destinati alla Corte capitolina (184), che pareggia quello dei magistrati in servizio. Con la conseguenza che tutte le sezioni potranno avvalersi della collaborazione dei nuovi funzionari.
RUSSO Una premessa. L’ufficio per il processo è stato istituito nella Corte d’appello di Salerno nel 2017 con ruolo di “filtro” cioè di valutazione preliminare dei ricorsi al fine di “fotografare” le pendenze e le sopravvenienze attraverso una ricognizione qualitativa e quantitativa della domanda. Nel corso degli anni è stato aumentato il numero da 3 a 6 e poi affinata la struttura organizzativa. Pertanto, nelle tabelle 2020-2022 della Corte d’appello di Salerno erano previsti 6 uffici per il processo (1 alla prima sezione civile, 1 alla seconda sezione civile, 1 alla sezione lavoro e 3 alla sezione penale: 1 al collegio A, 1 al collegio B ed 1 al collegio C). Nel progetto organizzativo redatto ai sensi del D.L. n. 80/2021 conv. in l. n. 123/2021 è stato aggiunto un 7° ufficio per il processo dedicato ai servizi trasversali (monitoraggio, Banca dati, digitalizzazione, ecc.). Va anche precisato che il progetto organizzativo è stato discusso e condiviso nell’ambito di una procedura partecipata con colleghi, personale amministrativo, avvocati ed organizzazioni sindacali.
I 41 addetti UPP assegnati alla Corte sono stati distribuiti nel seguente modo: 10 alla 1^ civile, 11 alla 2^ civile, 5 alla sezione lavoro, 9 alla sezione penale, 6 ai servizi trasversali, sulla base delle priorità del PNRR (eliminare il 90% dell’arretrato civile); delle pendenze superiori nella giurisdizione civile: al 20 novembre 2021 dinanzi alla Corte d’appello di Salerno erano pendenti 1.209 cause civili ultrabiennali a fronte dei 28 processi penali e delle 83 controversie di lavoro; della necessità del monitoraggio e creazione Banca dati richiesti dalla C.E. al Governo italiano che dovrà al riguardo rendicontare con cadenza ciclica.
2. La previsione dell’UPP è stata modulata con riferimento ai settori (civile/penale), alle sezioni, ai magistrati, ovvero in che altro modo?
D’APRILE L’U.P.P. è stato modulato con riferimento a ciascuna sezione (civile, lavoro, penale), essendo diverse le esigenze e le possibilità organizzative nell’ambito delle stesse. In particolare, gli addetti all’UPP destinati a questa Corte sono in numero di 29 e, allo stato, saranno assegnati nel modo seguente:
- n. 13 alla Sezione civile;
- n. 8 alla Sezione penale;
- n. 2 alla Sezione lavoro;
- n. 6 ai servizi trasversali;
Più precisamente, le unità destinate ai vari settori saranno così utilizzate: - nell’ambito della Sezione civile, la gran parte delle unità assegnate saranno impegnate nella collaborazione con l’attività dei magistrati, secondo le mansioni specificate nell’allegato II n. 1 del D.L. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021; n. 4 unità costituiranno uno staff trasversale per lo svolgimento dei compiti indicati al successivo punto c); - nell’ambito della Sezione lavoro, le due unità saranno impegnate nella collaborazione con l’attività dei magistrati, secondo le mansioni specificate nell’allegato II n. 1 del D.L. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021; una di queste unità provvederà anche alla raccolta degli indirizzi giurisprudenziali della Sezione, organizzando, entro la scadenza del 31/12/2023, una banca dati dei provvedimenti in materia di lavoro/previdenza, fruibile da parte del pubblico; - nell’ambito della Sezione penale, tutte le unità saranno impegnate nella collaborazione con l’attività dei magistrati, secondo le mansioni specificate nell’allegato II n. 1 del D.L. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021; una di queste unità provvederà anche alla raccolta degli indirizzi giurisprudenziali della Sezione, in modo da poterne fare oggetto di diffusione; due unità si occuperanno pure dell’informatizzazione/digitalizzazione del settore, attualmente non soddisfacente;
- nell’ambito servizio trasversale destinato ad attuare il continuo monitoraggio dell’arretrato civile e del DT civile e penale, con conseguente rendicontazione alle scadenze fissate dalla normativa di riferimento, saranno impegnate due unità; - nell’ambito servizio trasversale destinato ad attuare il supporto alla digitalizzazione di tutti i settori dell’Ufficio saranno impegnate n. 4 unità.
FRASCA La rilevante dimensione dell'Ufficio e la sua ripartizione in diverse sezioni con competenza per materia differenziata hanno indotto a escludere, anche all'esito del confronto con i Presidenti di sezione, che gli addetti all'Ufficio fossero assegnati singolarmente ai magistrati, apparendo del tutto più funzionale che venissero destinati a ciascuna sezione all'interno della quale i Presidenti di sezione provvederanno a scegliere le modalità di impiego più idonee in coerenza con le linee del progetto, evitando ripartizioni statiche e privilegiando scelte duttili che consentano la maggior fungibilità possibile, che naturalmente terrà conto della capacità professionale e delle attitudini che si delineeranno con maggiore nitidezza dopo l'avvio dell'attività.
MELIADÓ Per come ho già detto, l’ufficio per il processo è stato costruito intorno a specifici obiettivi, che, in via di estrema sintesi, valorizzano, ferme restando le specificità di ciascun settore, un modello organizzativo basato sulla riorganizzazione dei ruoli di udienza, lo spoglio preliminare dei fascicoli, la rapida assegnazione e tematizzazione degli affari di nuova iscrizione, la predisposizione di archivi condivisi, la comunicazione fra il primo e secondo grado, con la trasmissione al primo giudice dell’esito delle impugnazioni su casi di maggiore rilevanza, e la gestione più efficiente delle fasi preparatorie e successive dell’udienza.
Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, l’inclusione fra gli obiettivi dell’ufficio per il processo delle attività di cancelleria preparatorie e susseguenti all’udienza sdrammatizza la distinzione, rispetto ai compiti dei nuovi dipendenti, fra attività di supporto alla giurisdizione e all’amministrazione, includendo entrambe nei processi di riorganizzazione degli uffici della Corte.
RUSSO L’UPP è stato organizzato prevalentemente su base sezionale, come già evidenziato. Nel privilegiare la giustizia civile si è assegnato un funzionario amministrativo UPP ad ogni Consigliere (una sorta di tutor; esperienza che ha funzionato bene con i GOA) in modo da creare un rapporto di formazione personale ma anche di responsabilizzare l’addetto che dovrà fare riferimento ad un ruolo specifico da tenere sotto controllo con il supporto e la vigilanza del giudice. I compiti dei funzionari amministrativi UPP sono specificati sub c). Inoltre ad ogni sezione civile si è dato un numero ulteriore di 4 addetti UPP che possano dedicarsi all’esame delle sopravvenienze (per evitare il formarsi di pendenza patologica), alla iscrizione del fascicolo al SICID, alla fase esecutiva delle decisioni, a collaborare con gli addetti ai servizi trasversali.
3. Come si è pensato di modulare le mansioni operative degli addetti all’UPP? Saranno impiegati esclusivamente a diretto supporto delle attività dei magistrati, ai servizi amministrativi, in modo promiscuo ovvero in altri compiti, e quali?
D’APRILE Gli addetti all’U.P.P. saranno prevalentemente addetti al supporto dei magistrati, espletando le mansioni loro proprie; in numero congruo e diversificato per ciascuna sezione, svolgeranno anche compiti trasversali, attinenti le banche dati di giurisprudenza, l’informatizzazione e il monitoraggio dei flussi. In particolare, con riferimento alle varie Sezioni:
Sezione civile
A ciascuno dei n. 6 Consiglieri verrà assegnato un addetto all’UPP, con compiti, tra l’altro, di controllo formale del ruolo, controllo del singolo fascicolo (notifiche e costituzioni), aggiornamento con i depositi telematici, preparazione udienza, redazione scheda riassuntiva del fascicolo, verifica in ordine ad eventuali ipotesi di inammissibilità e/o improcedibilità dell’appello al fine di fissare udienza ex art. 281-sexies c.p.c., partecipazione all’udienza, scarico dell’udienza, controllo liquidazioni C.T.U. e gratuito patrocinio, con redazione di bozza del relativo provvedimento e successivi adempimenti, redazione di bozze di sentenze nei procedimenti più semplici.
Al Presidente della Sezione saranno assegnati n. 3 addetti, che dovranno occuparsi della gestione del ruolo ordinario, della gestione del ruolo delle udienze di equa riparazione e del collegamento con lo staff trasversale di cui appresso, per quanto attiene al continuo monitoraggio di eventuali criticità organizzative, da sottoporre al Presidente al fine di porvi rimedio.
I restanti n. 4 addetti costituiranno uno staff trasversale all’interno della Sezione civile, con compiti di controllo dei flussi, organizzazione, entro il 31/12/2023, di una banca dati dei provvedimenti civili, fruibile da parte del pubblico, creazione di un sistema informatico di collegamento con gli Enti e Servizi pubblici coinvolti nell’attività giurisdizionale, specie in materia di famiglia e minori, coordinamento con la Procura Generale nei procedimenti in cui è prevista la partecipazione del Pubblico Ministero.
Sezione lavoro
Per abbreviare la durata media, attraverso la definizione di un maggior numero di processi nell’unità di tempo, occorrerà razionalizzare e velocizzare la preparazione e lo studio delle singole udienze; ciò potrà essere conseguito impiegando gli addetti all’U.P.P., previa la necessaria formazione, anche con l’essenziale contributo dei magistrati e del personale amministrativo della Sezione.
Sezione penale
Per conseguire gli obiettivi prefissati, gli addetti all’UPP saranno impegnati nella diretta collaborazione con l’attività dei magistrati, secondo le mansioni specificate nell’allegato II n. 1 del D.L. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021.
Sarà dedicata peculiare attenzione all’attività di esame preliminare dei motivi di impugnazione avverso le decisioni di primo grado, al fine di fare emergere profili di eventuale inammissibilità (per consentire l’adozione di ordinanze de plano), ovvero gli estremi per possibili pronunce ex art. 129 c.p.p., in modo da ridurre il numero dei processi effettivamente meritevoli di trattazione in udienza.
A tal fine, dopo un primo spoglio da parte del Presidente di Sezione su tutte le sopravvenienze, gli addetti all’U.P.P. assegnati ai singoli Collegi cureranno un ulteriore e più analitico esame preliminare dei vari fascicoli, segnatamente in ordine al computo delle cause di sospensione dei termini di prescrizione.
Gli stessi addetti all’U.P.P., dopo l’emissione della sentenza di secondo grado da parte dei Collegi di rispettiva assegnazione, provvederanno agli adempimenti conseguenti, coadiuvando il personale di Cancelleria, in modo da consentire che gli atti pervengano alla Corte di Cassazione non oltre novanta giorni dalla scadenza del termine fissato per il deposito della motivazione.
In ordine all’informatizzazione, sarà necessario curare una modulistica condivisa dei provvedimenti di routine (ordinanze in tema di incidenti di esecuzione, riconoscimento di atti emessi da Autorità estere, decreti di liquidazione, ecc.), fruibile da parte di tutti i magistrati della Sezione; inoltre, si curerà la predisposizione di tutti i verbali di udienza in formato digitale.
FRASCA L'attività sarà calibrata in relazione alla specificità delle singole articolazioni dell'Ufficio. Al fine di consentire il miglior utilizzo delle risorse la Presidenza elaborerà preventivamente prospetti contenenti l'analisi stratigrafica del contenzioso e dei processi suddivisi rispettivamente per codici oggetto e per titolo di reato, per la conoscenza completa del carico di lavoro di ciascuna sezione.
Proprio con riferimento alle mansioni che saranno concretamente attribuite ai funzionari sarà cura dei Presidenti di sezione predisporre una più dettagliata possibile check list dei compiti che sarà accompagnata dalla preliminare attività informativa e formativa da parte dei Presidenti di sezione e dei Consiglieri, d’intesa con i responsabili amministrativi.
Ciò renderà più agevole, soprattutto in fase di avvio, lo svolgimento del lavoro da parte degli addetti e al tempo stesso semplificherà l’attività di monitoraggio.
Anche per tale ragione la scelta è stata indirizzata verso un modello duttile, suscettibile di rapidi aggiustamenti e adattamenti.
SETTORE CIVILE ORDINARIO
Le mansioni elencate nell’All. II al decreto legge 80/2021 saranno assegnate agli addetti all’Ufficio destinati alle Sezioni Civili ordinarie della Corte in funzione del conseguimento del duplice obiettivo di abbattere, o quantomeno ridurre in modo significativo, l’arretrato ultrabiennale e di contenere in due anni la durata dei procedimenti compresi nell’aggregato di riferimento [con esclusione, pertanto, di quelli di volontaria giurisdizione, sommari, di separazione e di divorzio congiunto].
In particolare, gli addetti cureranno le seguenti attività negli ambiti che seguono:
1. studio dei fascicoli:
- controlleranno la regolarità delle notificazioni e il rispetto dei termini di costituzione delle parti;
- valuteranno la complessità della controversia sia sulla base della lunghezza degli atti defensionali [es.: fino a 5 pagine, da 6 a 15, oltre 15], sia in ragione del numero e della complessità delle questioni dedotte in giudizio, e assegneranno a ciascuna causa, con un indicatore numerico o cromatico, un “peso” secondo una predeterminata scala di difficoltà; ciò al fine di consentire una più efficiente distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati della Sezione e di agevolare la rapida definizione dei processi mediante la fissazione di udienze “tematiche”, riservate a controversie seriali o affini, suscettibili di decisione secondo uniformi e consolidati criteri di giudizio, ovvero attraverso l’utilizzazione degli strumenti previsti dagli artt. 348 bis e 281 sexies c.p.c.;
- verificheranno la completezza del fascicolo [es., l’avvenuta trasmissione del fascicolo d’ufficio di primo grado] e l’osservanza degli adempimenti disposti dal giudice [es.: comunicazione del rinvio ex artt. 309 o 348 c.p.c., notificazione delle ordinanze di nomina di c.t.u., ritardi nel deposito dell’elaborato peritale]; evidenzieranno eventuali incompatibilità dei magistrati nei giudizi di rinvio dalla Corte di Cassazione;
- predisporranno e aggiorneranno per ciascuna causa una scheda riassuntiva della res iudicanda e delle principali vicende processuali, suscettibile di successiva testuale acquisizione nella parte c.d. narrativa del provvedimento decisorio;
- redigeranno, previa autorizzazione del Presidente della Sezione, bozze di provvedimenti semplici in procedimenti contenziosi e di volontaria giurisdizione;
- segnaleranno i fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione [es. giudizi di rinvio dopo la cassazione].
Le attività suddette, da estendere in prospettiva a tutte le cause pendenti, privilegeranno, nella fase di avvio dell’ufficio per il processo, quelle di nuova iscrizione e quelle rinviate per la precisazione delle conclusioni o per la discussione a udienze prossime.
2. approfondimento giurisprudenziale e dottrinale:
- individueranno e approfondiranno, per le singole cause, i temi giuridici d’interesse, ricercando le fonti normative, i precedenti di giurisprudenza, anche locale, e i contributi dottrinari utili per il giudizio;
- predisporranno nelle cause di maggiore complessità, sulla scorta delle acquisizioni istruttorie, degli appropriati parametri normativi e dei pertinenti riferimenti giurisprudenziali, bozze di punti di motivazione, suscettibili di successiva testuale acquisizione nel provvedimento decisorio;
- in stretta coordinazione con i magistrati compileranno schede tematiche enuncianti, in forma di massima, gli orientamenti giurisprudenziali della Sezione, in vista sia del futuro riversamento nella costituenda banca dati della giurisprudenza di merito, sia della fruizione immediata da parte degli utenti del servizio giustizia [sul modello del “Progetto prevedibilità delle decisioni”, attivato nel sito web della Corte di Appello di Bari].
3. raccordo con il personale addetto alle cancellerie:
- in vista delle udienze da svolgersi in presenza, e con congruo anticipo rispetto a esse, effettueranno la ricognizione dei fascicoli di causa, onde accertare che non siano smarriti o fuori posto; accerteranno e annoteranno sul ruolo cartaceo, di cui cureranno la stampa e la distribuzione ai magistrati, gli eventuali adempimenti da compiersi in udienza [es., eventuale cancellazione della causa dal ruolo, eventuale dichiarazione di improcedibilità dell’impugnazione, redazione di verbale di conciliazione, assunzione delle richieste della Procura Generale, quando previste dalla legge]; cureranno la consegna ai Consiglieri relatori dei fascicoli delle cause da decidere in udienza;
- dopo le udienze in presenza o le trattazioni scritte sostitutive, cureranno la comunicazione dei provvedimenti di rinvio alle parti costituite, ove necessario; aggiorneranno i registri del SICID, indicandovi le date di rinvio delle cause e gli eventuali mutamenti del magistrato relatore; pubblicheranno, nella stessa giornata della pronuncia, le sentenze ex art. 281 sexies c.p.c. e i dispositivi di sentenza, attribuendovi il numero di sentenza e di repertorio;
- prima del deposito [tramite acquisizione al SICID] della minuta del provvedimento decisorio, controlleranno la completezza dei fascicoli [presenza dei fascicoli di ufficio e di parte], la completezza e la corrispondenza dei dati riportati nel verbale e nel provvedimento giurisdizionale; aggiorneranno i registri del SICID;
- dopo il deposito della sentenza [tramite acquisizione al SICID] cureranno la pubblicazione della stessa e ogni attività consequenziale, compresa la prescritta comunicazione alle parti costituite e le attività necessarie per la trasmissione dell’atto all’Agenzia delle Entrate; cureranno le attività finalizzate alla trasmissione del fascicolo al Ruolo Generale;
- nel caso di sentenza con parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato, predisporranno il sotto-fascicolo relativo alle spese di giustizia e procederanno alla chiusura del “foglio notizie”; annoteranno sull’originale della sentenza la data di definitività;
- nei processi con parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato coadiuveranno la cancelleria nelle operazioni di importazione dai sistemi SICID e SIAMM delle istanze di liquidazione trasmesse dai difensori, predisporranno le bozze dei decreti di liquidazione, compiranno gli adempimenti conseguenti all’emissione del decreto ad opera del magistrato.
4. Attività di collaborazione per tutte le udienze
I funzionari addetti all’ufficio per il processo coadiuveranno i Consiglieri curando:
a] la regolarità della notifica del ricorso in appello e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione e/o di quella per la trattazione della eventuale inibitoria: tale attività sarà svolta nelle cause nelle quali fino alla giornata di lunedì precedente l’udienza non risulti la costituzione dell’appellato: il relativo esito sarà contestualmente annotato sul ruolo d’udienza di ciascun relatore;
b] la verifica della tempestività dell’appello: tale attività sarà svolta entro il giovedì precedente l’udienza di discussione contemporaneamente alla sistemazione del fascicolo relatore eseguita dal cancelliere e la eventuale tardività dell’impugnazione sarà annotata nella parte interna della copertina del fascicolo relatore;
c] l'esame del fascicolo d’ufficio di primo grado e la descrizione, in apposita scheda, dell’attività istruttoria svolta ove ritenuta rilevante dal relatore in relazione ai motivi di appello;
d]l'indicazione del nominativo del CTU nominato in primo grado;
e] la verifica nelle cause previdenziali e/o assistenziali della dichiarazione reddituale ex art. 152 disp. att. c.p.c. e/o degli eventuali aggiornamenti rispetto a quella resa in primo grado, annotandone l'esito sulla parte interna della copertina del fascicolo relatore;
f] la redazione della bozza del decreto di liquidazione dei compensi dovuti nei casi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato;
g] la redazione nei procedimenti di inibitoria della scheda contenente l'indicazione delle statuizioni contenute nel dispositivo della sentenza appellata, della sussistenza o meno di pignoramento, delle ragioni addotte a sostegno del periculum in mora con verifica del contenuto della eventuale documentazione allegata a sostegno.
L'obiettivo perseguito con tale attività sono l'accelerazione e la razionalizzazione delle attività preparatorie allo svolgimento dell’udienza, con una presumibile riduzione media della durata dei procedimenti, nel 2022, in un range compreso tra il 5 e il 10%.
SETTORE PENALE
Va premesso che, d'intesa con il Presidente della Quinta sezione, che si occupa della materia delle misure di prevenzione e soltanto di un modestissimo numero di procedimenti ordinari in tema di reati connessi con le misure di prevenzione, non è apparso utile allo stato assegnare funzionari addetti all'ufficio per il processo.
Per quanto attiene alle altre sezioni l'organizzazione sarà calibrata in relazione alle specificità delle medesime.
In sintesi, e salve le specificazioni indotte da particolari condizioni di ciascuna sezione, l'ufficio per il processo sarà articolato con l'assegnazione agli addetti dei seguenti compiti:
- coadiuvare il Presidente della Sezione nello spoglio dei processi di nuova iscrizione, esaminando la tempestività degli appelli, la sussistenza di eventuali cause di immediata declaratoria di inammissibilità, i termini di scadenza delle misure cautelari e di prescrizione del reato, nonché [per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020] di durata massima del processo in appello, al fine di consentire una più agevole fissazione e verificare i presupposti di priorità di trattazione, anche secondo il "peso" del singolo procedimento in base alla tabella di valutazione ponderale utilizzata dalla Corte;
- individuazione delle parti [imputati, difensori, parti civili] al fine della emissione del decreto di fissazione dell'udienza e successivo controllo della regolarità delle notifiche;
- controllo della pendenza di istanze o richieste relative ai predetti fascicoli redigendo le bozze dei provvedimenti per i casi di routine;
- redazione delle minute dei provvedimenti di ammissione al patrocinio a spese dello Stato e delle richieste di liquidazione con gli adempimenti conseguenti in tema di notifica alle parti;
- preparazione dei fascicoli assegnati al magistrato di riferimento e studio preliminare dei fascicoli di più agevole trattazione con redazione delle minute dei relativi provvedimenti e compimento delle correlate attività preliminari e successive [avvisi, notifiche, ecc.];
- redazione, per processi di maggiore complessità, di sintesi per punti della sentenza di primo grado e dei motivi di appello;
- raccolta e distribuzione dei fascicoli di udienza per singolo magistrato, curando gli adempimenti preliminari [controllo notifiche ed avvisi] e successivi [scarico] delle udienze relative ai processi dei magistrati con cui collaborano e l’intestazione delle sentenze;
- accertamento della definitività del provvedimento, essenziale anche al fine della individuazione dei termini di scadenza delle misure cautelari e per il controllo del c.d. "scadenziario";
- effettuazione di ricerche di approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte, aggiornando periodicamente, attraverso gli strumenti informatici a disposizione, le cartelle condivise all'interno della Sezione per un'agevole verifica dei precedenti al fine di consentire la rapida consultazione degli indirizzi giurisprudenziali sezionali;
- procedere alla digitalizzazione degli atti e provvedimenti del Giudice così come del ruolo di udienza;
- svolgere, nell’orario residuo rispetto all’impegno lavorativo con il magistrato, le attività di supporto alle Cancelleria e ai cd. servizi trasversali, in considerazione della qualifica di appartenenza;
- incremento, previo confronto con la Procura Generale, di una o più udienze al mese, nella quale fissare almeno venti procedimenti selezionati tra quelli di più agevole trattazione in ragione delle competenze tabellari della Sezione, con assegnazione dei fascicoli, a rotazione, ai magistrati della Sezione e contestuale destinazione di un addetto all'ufficio per il processo a supporto di ciascun magistrato per lo svolgimento dei compiti sopra indicati;
- assegnazione per le restanti udienze già calendate di un numero variabile di procedimenti del medesimo tipo alle unità di ufficio per il processo a supporto dell’attività di ciascun magistrato;
- assegnazione a ciascuna unità di ufficio per il processo di un target numerico di attività da espletare nelle ore libere dall’attività svolta a supporto del magistrato, al fine di collaborare con la cancelleria nella fase di lavorazione dei fascicoli dopo la dichiarazione di irrevocabilità della sentenza [inserimento schede SIC, redazione fogli-notizie, redazioni delle note A, annotazioni al SICP e restituzione del fascicolo agli uffici di primo grado].
L'obiettivo generale per il 2022 è l'incremento delle definizioni di una percentuale variabile tra il 5 e il 10% con evidente contrazione della pendenza e della durata dei processi.
Per la Corte di Assise di Appello, oltre alle predette attività, sono stati programmati i seguenti specifici compiti [in parte estensibili anche alle sezioni ordinarie] per le due unità che vi saranno assegnate:
- per i processi più complessi: ricerche di giurisprudenza che evidenzino eventuali contrasti di indirizzo interpretativo o pronunce a SS.UU.; sinossi delle eventuali sentenze acquisite in ciascun processo; schede riepilogative delle prove dichiarative assunte o acquisite sia in primo che in secondo grado, e, se si tratti di collaboranti, del percorso collaborativo desumibile dalla sentenza impugnata o da altre fonti utilizzabili; verifica delle eventuali riserve ancora da sciogliere; realizzazione di una cartella informatica in cui inserire le ordinanze emesse su richieste istruttorie, o questioni ed eccezioni sollevate;
- realizzazione di un osservatorio sulla giurisprudenza delle corti europee, ordinato per poli tematici e in relazione alle pronunce di maggiore impatto o pertinenza per i processi trattati da questa Corte d’Assise d’Appello;
- realizzazione di un archivio informatico che raccolga le sentenze emesse dalle due sezioni negli ultimi cinque anni [e poi a ritroso negli altri quinquenni] e ordinate, in sequenza cronologica, per tipologia di reati;
- realizzazione, sulla base delle indicazioni dei magistrati delle due sezioni, di una sorta di database, ovvero un archivio informatico ordinato per poli tematici, che raccolga le principali questioni che sono state più frequentemente oggetto di trattazione nei processi definiti da questa Corte, almeno nell’ultimo quinquennio e che siano ancora di particolare attualità [perché ricorrenti o ancora controverse];
- realizzazione, per i più importanti processi in materia di criminalità organizzata, di un database che consenta di incrociare la ricerca tematica per singoli episodi omicidiari e quella su base anagrafica dei relativi imputati;
- realizzazione di un archivio informatico ordinato su base anagrafica per gli incidenti di esecuzione [così da visualizzare in tempo reale l’eventuale sussistenza di precedenti che riguardino lo stesso condannato];
- ulteriore perfezionamento e incremento del modello già collaudato da una delle due sezioni della Corte d’Assise di digitalizzazione degli atti dei processi più ponderosi, basato sulla costruzione di un indice analitico strutturato con collegamenti ipertestuali che permette l’accesso immediato a tutti gli atti – previamente a loro volta digitalizzati – del procedimento.
Un'aliquota degli addetti è stata assegnata alla Presidenza della Corte sia per l'attivazione dei servizi trasversali come quello di monitoraggio che sarà curato unitamente ai funzionari statistici operanti nella Corte, sia per il supporto, con i medesimi compiti sopra riportati, all'attività giudiziaria del Presidente, inserito nelle tabelle come presidente supplente di due sezioni penali, di una sezione di Corte di Assise e della sezione lavoro, con un impegno costante di almeno due udienze al mese.
MELIADÓ Bisogna partire dalla constatazione che il legislatore non ha voluto introdurre l’ufficio del giudice, ma l’ufficio per il processo.
Nell’ambito delle sezioni, i funzionari addetti all’ufficio per il processo opereranno, pertanto, sia per l’assistenza alla attività giurisdizionale dei consiglieri di riferimento che per la realizzazione dei servizi integrati di cancelleria, sulla base degli obiettivi programmatici dell’ufficio, garantendo un apporto temporale differenziato che dovrà essere predeterminato ex ante dal dirigente amministrativo d’intesa col capo dell’ufficio, ma con modalità necessariamente flessibili, in relazione alle condizioni “logistiche” e agli obiettivi delle varie sezioni (che incideranno, fra l’altro, sulla quantità di lavoro agile rispetto al lavoro in presenza da assegnare ai nuovi funzionari, ma anche sulla loro presenza nelle ore pomeridiane o nella giornata del sabato).
I presidenti di sezione, attraverso periodiche riunioni e verifiche, garantiranno, a loro volta, che l’attività di supporto alla giurisdizione assicurata dai funzionari presso i magistrati di riferimento si svolga sulla base di modalità quanto più uniformi, essendo la costituzione dell’ufficio per il processo funzionale al miglioramento complessivo della qualità del lavoro giurisdizionale, sulla base di modelli innovativi, volte a superare prassi puramente individuali, scollegate dal contesto di riferimento dell’ufficio nel suo complesso.
Analoga attività svolgeranno i presidenti coordinatori con riferimento alle sezioni di riferimento.
RUSSO Le mansioni sono state modulate, ovviamente, sulla base dell’allegato II n. 1 del d.l.n.80/2021 conv.l. 123/2021 e della circolare Ministero - Direzione Generale del personale amministrativo che ha declinato questo mansionario. Ogni addetto avrà funzioni promiscue e, esemplificativamente, dovrà imparare a redigere la scheda informatica riassuntiva del fascicolo, operare una valutazione preliminare, redigere bozza provvedimento non complesso e comunque di facile esecuzione e iscrivere i fascicoli al SICID, curare assegnazione automatica poi sottoposta al controllo presidente sezione, verificare trasmissione fascicolo dal primo grado, scaricare udienza. Nel penale i 9 addetti sono collegati ai tre collegi (3 per ogni collegio) e, esemplificativamente, procederanno al “filtro” del ricorso d’appello compilando scheda informatica riassuntiva del fascicolo, verificando correttezza scheda 1° grado ex art. 165 bis disp. att. c.p.p., operando una valutazione preliminare (appello complesso, appello sulla pena, tipologia di reato, questioni nuove, giudizio in sede di rinvio, ecc. ), dovranno redigere bozza provvedimento non complesso e comunque di facile esecuzione e imparare a iscrivere i fascicoli al SICP, accertare definitività sentenza.
I sei funzionari addetti ai servizi trasversali saranno in contatto con le altre articolazioni di UPP, dovendo provvedere al monitoraggio dati di smaltimento e gestione flussi di lavoro.
Rilevante anche la raccolta degli indirizzi giurisprudenziali come base per la costruzione della Banca dati della giurisprudenza della Corte. Entrambe le azioni degli addetti all’UPP si svolgeranno sotto il diretto coordinamento dei presidenti di sezione e il coordinamento generale di questa presidenza (ruolo del resto già previsto nelle tabelle 2020-2022). Ai fini della elaborazione della Banca dati delle decisioni di merito, gli addetti all’UPP trasversale si terranno in stretto contatto con gli UPP assegnati alle singole sezioni per la selezione delle sentenze e per la pubblicazione con le modalità di PCT. Inoltre, ai fini della Banca dati la Corte potrà avvalersi del supporto collaborativo di due magistrati in pensione. In proposito va evidenziato che due magistrati in pensione hanno sottoscritto un rapporto di collaborazione – avallato dal Ministero – con la Corte d’appello e sono preposti da novembre 2021 alla Segreteria della Conferenza permanente (contratti di appalto, disfunzioni nella manutenzione servizi, studio normative speciali in materia di edilizia giudiziaria, ecc.). La loro collaborazione nell’ambito dell’UPP riguarda specificamente le decisioni di merito, per estrapolare il fatto, estrarre la massima, fornire la loro esperienza per la formazione della importante Banca dati. Tra i servizi trasversali rientrano anche le azioni finalizzate all’innovazione organizzativa e di accompagnamento alla digitalizzazione, per le quali si programmeranno riunioni periodiche. Va però chiarito, relativamente ai diversi servizi “trasversali”, che l’ufficio per il processo sarà integrato con personale di cancelleria, informatici, magistrati, a seconda delle specifiche finalità. Ad esempio, fanno parte del 7° UPP destinato al monitoraggio anche il funzionario statistico, tre funzionari di cancelleria (civile e penale) per il controllo della tenuta dei registri informatici, il Rid.
4. Si è ipotizzata la realizzazione di specifici progetti innovativi mediante l’utilizzazione dell’UPP. Quali?
D’APRILE In questa fase, non sono stati ipotizzati specifici progetti innovativi.
FRASCA Allo stato no se non per la parte relativa alla Corte di Assise.
MELIADÓ Mi limito a ricordare l’obiettivo relativo al miglioramento dell’informatizzazione del processo penale e delle cancellerie penali.
La mancanza di un adeguato contesto informatico ha fatto la differenza fra il settore civile e quello penale durante il periodo dell’emergenza sanitaria ed il reperimento di nuove risorse telematiche, pur nei limiti del miglioramento e del potenziamento degli applicativi esistenti, mi sembra un traguardo irrinunciabile, al quale stiamo già lavorando, e che ci ha consentito di realizzare già ottimi risultati con l’informatizzazione dell’UNEP, e cioè dell’ufficio notifiche più grande del paese, facendo cessare file e code notturne e diurne che non facevano onore alla Capitale d’Italia.
RUSSO I compiti che questi giovani dovranno svolgere sono molteplici e consistenti. Legittimo prevedere tempi lunghi prima che giovani laureati possano andare a regime, non potendosi pretendere che in breve tempo riescano ad imparare un “mestiere” per supportare il giudice ed un “mestiere” per lavorare nelle cancellerie. Per queste ragioni non sono previsti ulteriori progetti innovativi. Si segnalano invece alcune iniziative che accompagnano il “decollo” di questo innovativo modello organizzativo. Per garantire la circolazione delle idee e prassi in relazione a questa importante esperienza organizzativa, già nelle tabelle 2020-2022, antecedenti al D.L. n. 80/2021, “è prevista, fermi i compiti di coordinamento e controllo riservati ai presidenti di sezione, una funzione di coordinamento generale da parte del Presidente di Corte, sia tra le tre unità interne al settore penale, sia tra le due strutture attive nel settore civile (ad esempio garantire l’omogeneità dell’applicazione dei parametri di filtro tra le due sezioni civili), sia con gli altri uffici per il processo operanti nella Corte, anche per non disperdere il patrimonio di conoscenze e di esperienza della singola struttura tecnica (modelli innovativi di lavoro, schemi adottati, prassi virtuose), per quella trasmissione di saperi che è preziosa in un’organizzazione complessa (ad es. nel corso delle riunioni per la formazione dell’odierna proposta tabellare è emerso che nella seconda sezione civile è stata creata una postazione SICID per i tirocinanti supportati in questo dalla cancelleria che ha fatto vedere loro il funzionamento del programma, velocizzando pertanto i necessari adempimenti a cui sono addetti, ad es. verifica notifiche), quindi anche al fine di una centralizzazione delle informazioni strumentale alla circolazione delle stesse nella struttura giudiziaria”. Inoltre, è stata predisposta una “scheda di accoglienza”, per agevolare l’inserimento del funzionario nell’ufficio, conoscere le esperienze lavorative, le sue competenze, le sue attitudini e i settori (civile o penale, informatica, ecc) di preferenza. Infine, nel progetto organizzativo, tra i suggerimenti richiesti ho proposto la formazione di un Comitato composto da rappresentanti degli addetti all’ufficio per il processo del distretto, coordinato dalla Corte, per facilitare la diffusione di pratiche e modalità operative nel distretto.
5. Molte facoltà di giurisprudenza hanno attivato un percorso di affiancamento e collaborazione degli uffici giudiziari per il miglior funzionamento dell’UPP: quale tipo di supporto ritiene proficuo attendersi da parte del mondo accademico?
D’APRILE Vi sono stati recentemente contatti con esponenti del mondo accademico, al fine di individuare le modalità per una proficua collaborazione. Al momento, però, si è in una fase assolutamente preliminare e non è possibile esprimersi sul punto.
FRASCA La Corte di Appello di Palermo partecipa, analogamente agli altri Uffici giudiziari, al progetto “JUSTSMART: Giustizia Smart: Strumenti e modelli per ottimizzare il lavoro dei giudici”, con beneficiario l’Università degli Studi di Palermo in qua-lità di soggetto capofila del raggruppamento di Università proponenti ed è inserita nella Macroarea 6, assieme ai distretti di Cagliari, Caltanissetta, Catania e Messina.
Il progetto si propone una pluralità di obiettivi specifici in direzione dell'efficienza che si prospettano di particolare utilità in vista e in funzione dell'Ufficio per il processo.
Nella Corte di Palermo sono già da anni in uso sistemi di rilevazione e analisi mensile dei flussi del contenzioso che oltre alla mera estrazione dei dati relativi al numero dei procedimenti pendenti li distinguono anche per materia e anno di iscrizione per fornire ai magistrati una conoscenza più profonda possibile della pendenza e per l'adozione di soluzioni organizzative, in gran parte trasfuse nei programmi di gestione, per l'impiego razionale delle risorse disponibili, in dire-zione soprattutto del contenzioso più datato o che richiede prioritaria definizione.
La previsione dell'apporto di professionalità altamente qualificate per l'analisi dettagliata della pendenza che vada al di là della ricognizione dei dati numerici ma si estenda alla tipologia del contenzioso e al suo contenuto costituisce un salto di qualità per la selezione, già nel breve periodo, di modelli di "aggressione" dell'arretrato e, soprattutto mediante l'indagine sulle cause principali della formazione dello stesso, per evitare che si riproponga.
Un contributo, quindi, che consenta di valutare nuove metodologie di lavoro, supportate dalla intensificazione della digitalizzazione ed eventualmente anche dall'impiego calibrato di forme di intelligenza artificiale, da implementare con il supporto di scienze diverse da quelle giuridiche in una proficua sinergia di saperi che si prospettano di grande ausilio anche per gli specifici compiti degli addetti all'ufficio per il processo.
Il progetto presenta, tuttavia, una criticità connessa con il dato temporale del suo avvio, programmato per un momento successivo a quello dell'ufficio per il pro-cesso, quando, invece, sarebbe stato indispensabile esattamente il contrario proprio per offrire tempestivamente ai nuovi funzionari e all'organizzazione degli uffici nel suo complesso, anche in considerazione del limitato orizzonte temporale del progetto dell'Accademia ancor più breve di quello dell'ufficio per il processo, quel contributo propedeutico all'ambizioso programma di recupero di efficienza della Giustizia.
Un'altra preoccupazione investe le possibilità di accesso ai registri e ancor di più ai fascicoli processuali che si scontra con le politiche ministeriali restrittive e con l'esigenza di tutela della riservatezza dei dati ma che necessita di una soluzione positiva per consentire quell'analisi accurata e intrinseca del contenzioso costituente condizione importante per l'attuazione del progetto.
Naturalmente è di sicuro rilievo l'obiettivo di una revisione della proposta formativa universitaria indirizzata alla formazione di professionalità specifiche nel mondo giudiziario, che, peraltro, potrà solo essere avviata nel tempo disponibile e i cui frutti saranno destinati a essere apprezzabili nel medio periodo.
MELIADÓ Non sembri strano, ma mi pare più proficuo un contributo, più che sul piano della formazione e delle conoscenze giuridiche, su quello dell’innovazione informatica e organizzativa.
Penso, ancora una volta, al processo penale telematico, ma anche all’organizzazione dei servizi al pubblico (a Roma manca a tutt’oggi un ufficio relazioni con il pubblico) o alle banche dati della giurisprudenza di merito: tema che, nonostante tanti buoni propositi, non è riuscito sino ad oggi a decollare.
RUSSO Dal mondo accademico mi aspetto soprattutto un apporto multidisciplinare con il contributo di docenti di ingegneria informatica, esperti di scienza dell’organizzazione, che elaborino ad esempio applicativi da utilizzare negli uffici giudiziari. Mi aspetto suggerimenti/consigli/proposte di carattere organizzativo con la collaborazione della imprescindibile presenza di analisti dell’organizzazione per far emergere un fabbisogno non esplicito, mettere a fuoco le criticità del nostro modello organizzativo UPP, migliorarlo, affinarlo. Importante il contributo dei docenti in materia di mediazione, concepita non tanto come strumento deflattivo, alternativo alla giustizia ordinaria ma come strumento con funzione culturale che formi le parti ad una giustizia conciliativa “coesistenziale”.
6. Quali sono le principali criticità che si frappongono nel suo ufficio, alla vigilia della sua partenza, al decollo operativo dell’UPP?
D’APRILE Gli spazi a disposizione della Corte sono tutti occupati dai magistrati e dal personale amministrativo già in servizio. Si sta portando avanti un’azione di razionalizzazione della dislocazione delle postazioni, al fine di individuarne ulteriori, in numero sufficiente per i n. 29 addetti all’UPP destinati all’Ufficio.
Siffatta attività di predisposizione delle nuove postazioni è piuttosto complessa e rischia di non portare a soluzioni pienamente soddisfacenti per la migliore operatività del personale amministrativo di prossima assunzione.
Ulteriore criticità, più difficile da risolvere in breve tempo, è collegata alla scopertura della pianta organica dei magistrati, essendo vacanti attualmente due posti di Consigliere, tra Se- zione civile e Sezione penale.
Come ripetutamente evidenziato in varie occasioni, compresa l’ultima cerimonia di inaugu- razione dell’anno giudiziario, ove si è fatto riferimento particolare alla situazione di alcuni Tribunali del distretto e alla pianta organica flessibile distrettuale (attualmente completa- mente scoperta), l’abbattimento degli arretrati e la riduzione dei tempi di definizione dei processi, nella misura drastica che viene richiesta nell’ambito del P.N.R.R., non potrà esse- re ottenuta esclusivamente con l’assunzione dei pur numerosi addetti all’Ufficio per il pro- cesso. È vero che questi funzionari avranno il compito precipuo di supportare i magistrati in tutte le loro attività, con conseguente aumento di produttività, ma non ci si può illudere che sif- fatto ausilio possa essere, da solo, risolutivo, poiché i nuovi funzionari, pur se molto numerosi, non potranno supplire alle carenze numeriche dei giudici.
FRASCA L'ufficio per il processo rappresenta una sfida e una grande scommessa che però sconta già nell'immediato alcune criticità di particolare rilievo di cui occorre avere consapevolezza pur senza arretrare minimamente nel doveroso e responsabile impegno per la sua migliore realizzazione.
La prima criticità attiene a quella che pare essere la contraddittorietà tra un progetto di così grande rilievo, che si preannuncia epocale e strutturale, e la sua programmata breve durata, resa ancor più problematica dalla suddivisione della dotazione degli addetti in due tranche biennali.
Pur nella consapevolezza che la temporaneità è imposta da fonti sovranazionali, due anni sembrano davvero pochi, soprattutto se si tiene conto dei necessari tempi di avvio di un'attività per certi versi inedita.
È frequente la domanda se sia realmente utile investire tempo e risorse per la creazione di una struttura così complessa già dal punto di vista numerico e però destinata a esaurirsi in breve tempo con un ritorno dell'assetto organizzativo degli Uffici alle dotazioni preesistenti.
Ci si chiede anche come potrà contribuire un progetto di breve durata a rea-lizzare il non agevole cambiamento culturale che ne costituisce lo spirito informatore.
L'ufficio per il processo, infatti, richiede una riconversione verso modalità di lavoro organizzato in team con l’abbandono del tradizionale schema operativo su base marcatamente individuale: si tratta di modelli di lavoro già sperimentati con successo in altri Paesi europei, sia di “civil law” sia di “common law”, che contrariamente a quanto suggestivamente potrebbe temersi, non burocratizzano affatto l’attività giudiziaria ma, al contrario, esaltano la capacità del giudice di sa-per discernere il core business della vicenda giudiziaria sul quale indirizzare la propria professionalità, dalle altre questioni preparatorie per le quali valorizzare sapientemente gli apporti che derivano da un gruppo di lavoro appositamente costituito, formato e coordinato.
Un'altra criticità, o ancor meglio un ragionevole timore, investe la professionalità degli addetti all'Ufficio per il processo, che è lo snodo decisivo dal quale dipende in gran parte l'esito complessivo del progetto e che, attualmente, è una grossa incognita, soprattutto se valutata con riferimento all'aspettativa di un li-vello necessario all'espletamento di taluni compiti di rilievo previsti nel mansionario.
Esiste, poi, un problema specifico che riguarda le Corti di Appello.
Il nuovo ufficio per il processo appare pensato e concepito prevalentemente con riferimento agli uffici di primo grado, nei quali si forma la domanda di giurisdizione e verso i quali, quindi, è opportuno indirizzare la massima attenzione per assicurare una risposta efficace ed efficiente.
Tuttavia, la più elevata consistenza dell'arretrato si riscontra nelle Corti di Appello divenute il vero imbuto della giurisdizione e la cui eliminazione, costituente un obiettivo primario del legislatore, richiede l'intervento di professionalità di particolare qualificazione in relazione al notorio maggior tasso di complessità delle controversie.
Non va trascurato che una giurisdizione di qualità nel secondo grado costituisce un filtro efficace per la Corte di Cassazione, anch'essa afflitta da una pendenza elevatissima.
Anche per questa ragione non sembra irrealistico temere che le Corti di Appello dovranno affrontare, probabilmente senza ancora avere risolto i problemi dell'arretrato esistente, l'incremento delle impugnazioni che verosimilmente seguirà all'atteso aumento della produttività degli uffici di primo grado e che potrebbe diventare un nuovo grande ostacolo alla realizzazione degli obiettivi del progetto.
MELIADÓ Se la mancanza di risorse ha costituito nel tempo la ragione, ma spesso anche l’alibi, per non attuare l’ufficio per il processo, o per configurarlo come una mera formula di stile, oggi, in realtà, i finanziamenti europei aprono un nuovo scenario per l’amministrazione della giustizia, e pongono i presupposti per un possibile balzo in avanti in termini di efficienza e di produttività.
Detto ciò, sarebbe tuttavia illusorio pensare – e bisogna dirlo con altrettanta chiarezza- che, negli uffici ove più si è sedimentato l’arretrato civile e penale, i grandi numeri del nuovo ufficio per il processo, e cioè di un investimento finanziario limitato nel tempo e nelle motivazioni sociali, possano da soli radicalmente ridimensionare i tempi del processo italiano, senza, in particolare, un ulteriore e straordinario ampliamento dell’organico della Corti in maggiore sofferenza e senza colmare e aumentare gli organici del personale amministrativo stabilmente in servizio.
In altri termini, si ripropone il problema di proseguire, al di là della stagione dell’emergenza, riforme di struttura finalmente avviate, ma non certo portate a regime, e che necessariamente debbono correre in parallelo con gli interventi straordinari, ma temporanei, concessi dall’Unione in una logica di necessaria complementarietà.
In presenza di dati che confermano come a tutt’oggi l’arretrato della Corte di appello di Roma costituisce quasi il 20% dell’arretrato nazionale civile e penale, non pare contestabile che l’aumento degli organici di questa e di altre Corti rappresenti uno dei principali snodi del cambiamento atteso.
RUSSO Le criticità sono varie. Solo un flash su un quadro problematico. La complessità dell’impegno e la responsabilità che grava su ciascuno di noi, perché, come è noto, se falliamo le riforme sulla Giustizia, l’Italia non prenderà neanche un euro dei 191 e più miliardi finanziati dalla C.E. Poi il tema centrale e delicato della formazione di questi funzionari amministrativi. Noi viviamo di formazione giorno dopo giorno, per cui non basta il corso iniziale, bisogna avvalersi della sinergia tra Scuola di Formazione del Ministero, SSM, CSM, anche RID e Magrif per continuare a programmare incontri e corsi, insegnare uso consolle magistrato, utilizzo applicativi ministeriali, verificare indici di mediabilità di una controversia civile, calcolare termini decorrenza custodia cautelare, ecc. ecc.. Necessario formare continuamente sia i magistrati sia gli addetti all’UPP con corsi specifici di implementazione del PCT ed aprire questi corsi all’Avvocatura per una comune condivisione degli obiettivi e delle modalità di intervento. Ma soprattutto la principale difficoltà si ricollega al fatto che l’ufficio per il processo è il paradigma di un cambiamento culturale che si richiede ai giudici. Non si tratta soltanto dell’arrivo di oltre ottomila persone che entreranno nelle aule di udienza e nelle cancellerie per garantire un supporto a giudici e cancellieri a superare la crisi dell’arretrato e della durata eccessiva dei processi – e solo la realizzazione di questo obiettivo sarebbe un risultato eccellente -, ma di un profondo e strutturale cambiamento del modo di lavorare del giudice.
Il giudice che ha in genere l’abitudine di lavorare da solo dovrà d’ora in avanti abituarsi a lavorare in team, coordinando il lavoro degli UPP, assegnando i compiti e definendo i tempi e le fasi del processo organizzativo. Un terreno nel quale entrano in gioco le diverse sensibilità, la diversa consapevolezza dell’importanza della cultura dell’organizzazione.
È una rinnovata concezione del modello culturale del magistrato che non può prescindere dai profili organizzativi, che non spettano solo al Dirigente ma a tutti i magistrati quale espressione rilevante dell’autogoverno.
Per ultimo: è un contratto a tempo determinato. Fra due anni dovremo ricominciare ex novo con altri giovani laureati da assegnare all’UPP?
Non posso non rilevare la nota intrinseca flessibilità di questo progetto organizzativo meramente programmatico, che sarà soggetto a continui monitoraggi e verifiche proprio al fine di modularlo in funzione degli obiettivi del PNRR e delle riforme normative, e ovviamente sulla base dei risultati acquisiti.
Prime Conclusioni
Le risposte sopra riportate, pur rappresentando un campione certamente contenuto della geografia giudiziaria, consentono di svolgere alcune prime riflessioni che, lungi dal voler porre vere e proprie conclusioni, costituiscono spunti di riflessione in merito all’imminente avvio di un progetto per certi versi epocale, cui è affidato il raggiungimento di obiettivi parimenti epocali e destinato inevitabilmente a modificare il quotidiano esercizio della giurisdizione.
È chiaro che si tratta di considerazioni “a caldo”; allo stato l'organizzazione dell'UPP è in fase preliminare se non addirittura embrionale e vi sarà, certamente, maggiore concretezza quando gli addetti prenderanno servizio e cominceranno ad essere operativi: solo da quel momento in poi, valutando anche le attitudini dei singoli, si potranno avere idee più chiare, modificando e implementando i singoli servizi.
Tanto premesso, in via di prima approssimazione, alla luce delle riposte fornite dai Dirigenti intervistati possiamo certamente affermare che la sfida dell’Ufficio per il Processo sia stata accettata con serietà, impegno ed un, seppur cauto, ottimismo.
In primo luogo, appare assolutamente apprezzabile la scelta di coinvolgere tutti i magistrati i servizio nei rispettivi Uffici nella procedura che ha portato alla adozione del progetto organizzativo; l’istituzione di gruppi di lavoro, tavoli tecnici o comunque la previsione di riunioni preliminari all’adozione delle decisioni organizzative appare in linea con la previsione legislativa e con le indicazioni che da anni provengono anche dalle circolari del CSM, sempre più indirizzate nella valorizzazione di modelli organizzativi “partecipati” e adottati in seguito al confronto tra i Dirigenti ed i colleghi in servizio.
Dall’analisi delle soluzioni prescelte dai Presidenti delle Corti, pur nella consapevolezza, come si diceva, di aver esaminato un campione ristretto di Uffici e con tutti i limiti connessi a tale opzione, possiamo delineare le seguenti direttrici generali.
L’ufficio per il Processo (già avviato in alcune realtà giudiziarie quali proprio Roma e Salerno anche prima della riforma) è stato strutturato in funzione del raggiungimento degli obiettivi imposti dal piano di ripresa e resilienza; da qui, in particolare, le scelta che appare emerge in maniera condivisa di dedicare le maggiori risorse destinate agli uffici distrettuali nel settore civile, in ragione dell’esigenza di abbattere il patologico arretrato di procedimenti ancora pendenti, laddove per il settore penale e quello del lavoro tale struttura appare volta al conseguimento della riduzione del disposition time.
Emerge, altresì, in modo chiaro quella che da più parti è stata definita la natura “promiscua” della funzione svolta dall’addetto all’Ufficio del processo, con riguardo alle attività collaterali e prodromiche all'attività decisoria del magistrato.
Accanto a compiti più propriamente di supporto alla giurisdizione (studio fascicolo, ricerche anche dottrinarie e giurisprudenziali, anche delle corti sovranazionali, preparazione schede o la predisposizione di punti di motivazione o vere e proprie bozze di provvedimenti) viene, infatti, prevista – anche in tal caso in maniera pressoché condivisa – l’assegnazione anche mansioni di carattere tecnico – amministrativo (aggiornamento registri, inserimento di rinvii e pubblicazione delle sentenze, controllo decreti di liquidazione per i procedimenti con parti ammesse al Patrocinio a spese dello Stato).
Ad un livello intermedio o meglio trasversale tra attività giurisdizionale ed attività amministrativa vi è la preparazione delle udienze, la verifica preliminare dei fascicoli anche allo scopo di formulare una diversificazione dei singoli procedimenti sulla scorta del dato ponderale, la verifica delle sopravvenienze, ed il monitoraggio dei flussi, quali attività di più diretta attinenza alla “gestione del ruolo”, nonché la creazione anche di una banca dati dell’ufficio.
In tutti i progetti, ancora, appare prioritaria l’assegnazione di una attività di spoglio preliminare e valutazione del dato ponderale del fascicolo, ritenendosi evidentemente tale attività come particolarmente dispendiosa di tempo ed energia per il magistrato.
In conclusione, dalle interviste condotte, emerge il tentativo di raggiungere lo scopo dato dal Ministero che vede negli addetti all’uffici del processo uno strumento di supporto al lavoro dei magistrati non solo in qualità di collaboratori per le attività di studio, ricerca, redazione di bozze di provvedimento, ma anche per attività collaterali al giudicare e di innovazione organizzativa, digitalizzazione oltre che alla collaborazione alla costruzione della banca dati di merito giurisprudenziale; e del resto, anche all’esito dei lavori della cd. Commissione Luiso l’ufficio per il processo, quale struttura organizzativa a supporto della giurisdizione, è stato concepito come un tassello fondamentale per aiutare il giudice che dovrà decidere la controversia a svolgere in modo più efficiente tutto il lavoro preparatorio alla decisione stessa.
E, in tal senso, la temuta dicotomia tra qualità e quantità della giurisdizione ravvisata nell’obiettivo di un sensibile abbattimento dell’arretrato è, probabilmente, solo apparente: una efficiente organizzazione, in grado di individuare tempestivamente e rapidamente il “core business” delle questioni portate all’attenzione degli uffici consente di ottenere un risultato valido tanto in termini quantitativi quanto in termini qualitativi.
Come era ragionevole aspettarsi in questa fase iniziale, non sono stati ancora individuati specifici progetti innovativi; emerge, nondimeno, la volontà di valorizzare le nuove risorse nell’implementare – soprattutto nel settore penale – la digitalizzazione e informatizzazione degli Uffici e l’aggiornamento degli applicativi.
Il rapporto con l’Università si caratterizza per un proficuo avvio di relazioni; tuttavia, traspare un condivisibile disorientamento in ordine al come dare concreta attuazione a questa collaborazione, che costituisce, peraltro, una delle vere novità del progetto.
Infine, sebbene emerga univocamente un certo ottimismo nell’affrontare la scommessa dell’Ufficio, non vengono sicuramente celate preoccupazioni.
In primo luogo, appare, invero, contraddittoria la scelta di affidare un sì ambizioso progetto di portata rivoluzionaria ad una struttura connotata, sin dal principio, da una (breve) durata già programmata in due distinti scaglioni e basata su contratti di lavoro a tempo determinato della durata massima di due anni e sette mesi (per il primo scaglione) e due anni (per il secondo).
Il cambiamento culturale, che comincia già nella concezione della funzione giurisdizionale, richiede tempo per poter sedimentare e la riconversione a modelli organizzativi nuovi cui ciascuno deve fare ricorso nel quotidiano esercizio dell’attività giurisdizionale, mal si concilia con un timer biennale e con tempi di formazione (le cui linee guida non sono ancora state adottate) di neoassunti, i quali hanno esperienze di studio e professionali ben diversificate.
Si tratta, in realtà, di un problema già noto nelle prime esperienze dell’Ufficio del Processo e che si ripropone ora.
Il tipo di reclutamento previsto, seppur imposto dalla necessità di rispettare i vincoli del diritto dell’Unione, reca seco il rischio di un eccessivo turn over del personale assegnato e la conseguente rapida dispersione delle professionalità appena acquisite, vieppiù ove si consideri la necessaria fase di formazione del personale addetto all’Ufficio per il Processo prima di poter svolgere proficuamente le funzioni assegnate che, dunque, dovrà essere ripetuta.
E questo consente di passare al secondo profilo problematica, emerso nelle interviste.
Aspetto tutt’altro che secondario è, infatti, quello della cura dell’esigenza di formazione deli addetti che, evidentemente, non può ritenersi soddisfatta da quella prevista in fase iniziale e che richiede, ragionevolmente, il coinvolgimento della Scuola Superiore della Magistratura nonché dei distretti didattici territoriali per la Formazione.
Sarà necessario valorizzare le specifiche attitudini degli addetti all’Ufficio e creare occasioni di confronto e
dialogo, anche per far si che i giudici, abituati a lavorare in solitudine, si adattino a collaborare con un team.
I lavori sono in corso ed il cantiere è certamente aperto.
Non è facile fare previsioni, ma certamente si sono poste le premesse per l’avvio di un percorso che poterà ad una riforma strutturale della organizzazione giudiziaria.
[1] Intervista pubblicata sul sito www.altalex.com
Il pasticcio dell’eutanasia. Le colpe del “politicamente corretto”
di Giuseppe Cricenti
Sommario: 1. Tutta una serie di equivoci - 2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva - 3. La definizione di eutanasia - 4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto.
1. Tutta una serie di equivoci
La bocciatura del quesito referendario era prevedibile.
In effetti il referendum mirava ad abolire, quasi interamente, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente producendo un effetto ben maggiore di quello che stava a cuore ai promotori: non solo avrebbe reso lecita l’eutanasia ma qualsiasi caso di morte data con il consenso della vittima, salvo ipotesi eccezionali.
Chiaramente, posto in questi termini, il quesito non poteva passare: per quanto ancora non nota la motivazione, mi pare evidente che, come si evince dal comunicato stampa della Corte, la preoccupazione è stata quella di evitare che i cittadini chiamati al referendum, nella convinzione di star facendo un’opera di bene per i malati terminali, inconsapevolmente acconsentissero anche a condotte che con l’eutanasia hanno nulla da condividere.
Perché si è arrivati a tanto?
Intanto, perché, sia nel senso comune, che tra molti dotti, non è chiaro cosa si intenda per eutanasia, che non è né suicidio assistito né omicidio del consenziente, ma un’altra e ben diversa cosa; inoltre perché la precedente decisione della Corte Costituzionale (n. 242 del 2019), sul famoso “caso Cappato”, quella confusione ha alimentato, facendo soverchio affidamento su una distinzione del tutto irrilevante e fuorviante, tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, ed ha fatto coincidere la prima con il suicidio assistito e la seconda con l’omicidio del consenziente, in modo del tutto ingiustificato: distinguo che ha indotto i promotori del referendum a chiedere l’abrogazione, almeno parziale, proprio dell’omicidio del consenziente, unica norma rimasta a sanzionare l’eutanasia, quella, per l’appunto, attiva.
Vediamo meglio perché.
Il senso della precedente decisione della Corte, ossia della sentenza n. 242 del 2019, era il seguente: se l’ordinamento riconosce il diritto del paziente di rifiutare le cure ancorché salvifiche, perché non dovrebbe riconoscere il diritto di morire facendosi aiutare da un terzo?[1]
In sostanza, conta l’autodeterminazione del paziente, nel senso che, nel ristretto ambito di casi in cui il malato è gravemente sofferente per una malattia irreversibile, è tenuto in vita artificialmente, ma è capace di prendere decisioni libere e consapevoli, allora «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita».
Conseguentemente, se il medico asseconda la determinazione del malato a morire, il suicidio assistito che ne risulta non è penalmente rilevante, e quindi l’art. 580 del codice penale, nella misura in cui invece lo sanziona, è illegittimo.
Ma i casi di assistenza del medico non si riducono a questo.
Infatti, osserva la corte[2] che la legge oggi vigente (il riferimento è alla legge n. 219 del 2017) consente al paziente di rifiutare le cure, ma non consente al medico una condotta attiva che causi la morte del sofferente, e neanche una condotta con cui il medico metta a disposizione del paziente mezzi utili a che costui possa provocarsela da sé.
In sostanza, la differenza tra la condotta lecita del medico e quella illecita è basata su un criterio naturalistico, vale a dire che dipende dalla circostanza che l’azione sia materialmente o meno compiuta dal paziente o dal sanitario.
Nell’operare questo distinguo, la corte ha ripreso una speciosa distinzione fatta dal Comitato di Bioetica, che, richiesto di un parere proprio sul caso oggetto di decisione, ha opinato come, nella misura in cui l’eutanasia consiste nell’anticipazione della morte del paziente per alleviarne le sofferenze, allora rientra nella fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Per contro, la differenza tra questo caso ed il suicidio assistito, starebbe nel fatto che è il paziente, nel suicidio assistito, a compiere l’ultimo atto[3]. Dunque, la validità di una qualificazione morale e giuridica dipende da una differenza meramente naturalistica: il paziente che prende da solo il farmaco, fornitogli dal medico, oppure il medico che glielo somministra direttamente. E cambia tutto.
Insomma, il Comitato di Bioetica, ed in una certa misura la stessa Corte costituzionale, richiamano distinzioni che sembravano superate, in quanto del tutto inutili, se non controproducenti, per una definizione dell’eutanasia. La distinzione tra azione ed omissione come distinzione naturalistica: l’agire è movimento corporeo, l’omissione no; e proprio per questo l’agire è causalmente efficiente e l’omissione no, o comunque, in alcune varianti, è causalmente meno determinante. Con la conseguenza che l’omissione va trattata in modo diverso, moralmente e giuridicamente più indulgente, dell’azione.
Ecco dunque perché il referendum ha dovuto avere ad oggetto la fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Avendo la precedente decisione della Corte costituzionale, ritenuto penalmente irrilevante l’eutanasia passiva, considerata come caso di suicidio assistito, ed avendo invece lasciato in piedi la rilevanza penale di quella attiva, considerata un caso di omicidio del consenziente, ne è seguita la necessità, per coloro che intendevano rendere lecita ogni ipotesi di eutanasia, di chiedere l’abrogazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente, unica fattispecie rimasta in vigore a sanzionare l’eutanasia, quella attiva.
2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva
Il referendum, dunque, ha avuto una strada obbligata: puntare sull’omicidio del consenziente poiché questa fattispecie era l’unica rimasta a decretare la rilevanza penale dell’eutanasia, meglio, di quella ipotesi di eutanasia che la Corte costituzionale aveva ritenuto ancora penalmente rilevante a cagione del fatto che lì è il medico che aiuta il paziente a morire, con una sua attiva condotta.
Sia detto, e non per mero inciso, che v’era di certo interesse a far dichiarare anche questa forma di eutanasia come lecita, poiché un conto è lasciar morire il paziente, interrompendo la cura, ad esempio staccando il respiratore o togliendo il sondino naso gastrico, oppure non somministrando più i farmaci, e altro ben diverso conto è invece procurargli qualcosa che lo faccia morire subito: questa seconda soluzione evita le spesso lunghe sofferenze causate invece dalla prima.
Non ho qui lo spazio per dimostrare che quella distinzione, sfruttando un sedicente diverso ruolo causale, e conseguentemente un diverso statuto morale, dell’azione rispetto all’omissione, è del tutto fallace ed irrilevante, cosi come lo è il ruolo dell’intenzione nella fattispecie dell’eutanasia[4].
Inoltre, è mancata del tutto una riflessione su cosa si intenda per eutanasia, e se solo si avesse avuto cura di considerare che si tratta di una vicenda del tutto diversa da quelle incriminate dal codice penale (art. 579 e 580 c.p.) ossia suicidio assistito e omicidio del consenziente, non avremmo avuto bisogno di rigettare un quesito referendario e non avremo bisogno di una legge: se solo la Corte Costituzionale, avesse evitato di operare quella distinzione enucleando una ipotesi di eutanasia- quella attiva- da intendere ancora come penalmente rilevante.
Vediamo come può definirsi l’eutanasia.
3. La definizione di eutanasia
Da quanto sino ad ora detto, emerge come, sgomberato il campo da quelle distinzioni, si possono individuare condizioni necessarie e sufficienti per definire l’eutanasia come pratica lecita, secondo il modello ipotizzato da T. Beauchamp e A Davidson[5], che risponde peraltro ad acquisizioni pressoché condivise in bioetica e filosofia morale. Secondo questa definizione la morte di un essere umano, A, è un caso di eutanasia se e solamente se: (i) la morte di A è provocata da un altro essere umano, B, ma nel senso che quest’ultimo può essere sia la causa della morte di A che un elemento causalmente pertinente dell’evento morte (che ciò avvenga dunque per azione od omissione non rileva); (ii) B dispone di sufficienti elementi per credere che A soffre in modo intenso o è in uno stato di coma irreversibile, e questa credenza si fonda su una o più leggi causali attestate; (iii) la ragione maggiore per cui B vuole la morte di A è nel far cessare le sue sofferenze; (iv) tre le procedure che consentono la morte di A, A e B scelgono quelle che producono le minori sofferenze ad A, e comunque sofferenze minori di quelle che con la morte si vorrebbero far evitare; (v) A non è un organismo fetale.
Si tratta di cinque condizioni, individualmente necessarie ed insieme sufficienti a definire l’eutanasia.
Intanto (i) deve trattarsi di morte provocata da un terzo, condizione che serve a distinguere l’eutanasia dal suicidio; deve essere voluta per porre fine alle sofferenze di una malattia mortale irreversibile (ii e iii), e dunque, come abbiamo visto non può parlarsi di eutanasia rispetto ad un soggetto sano, né può questa condizione servire a distinguere tra azioni ed omissioni, ipotizzando che solo in quest’ultimo caso la morte sopravviene per decorso naturale della malattia, e salva la restrizione del concetto alle sole sofferenze dovute a malattie mortali o terminali, o particolarmente gravi[6], con la conseguenza che si spiega perché (iv) la sofferenza provocata dalla procedura di eutanasia prescelta non deve produrre sofferenze maggiori di quelle che si vogliono evitare. L’ultima clausola (v) consente di distinguere l’eutanasia dall’aborto; le prime quattro da qualsiasi forma di omicidio o suicidio assistito.
Se aiuto taluno a buttarsi dalla finestra perché deluso dalla fidanzata, o angosciato dai debiti, non è evidentemente eutanasia, e così se propongo a taluno di ucciderlo e costui acconsente.
Eutanasia è concetto ben preciso che indica la fine delle sofferenze di un malato, che è tenuto in vita, o potrebbe esserlo, artificialmente, e che non vuole che si prosegua in un accanimento terapeutico o che quell’accanimento mira a prevenire.
Un concetto onesto che non comprende la medicalizzazione del suicidio: sono solo un depresso e chiedo, magari pagando un ticket, di essere aiutato a morire dalla ASL. Ma che punta sulla fine di una sofferenza inevitabile e di un processo naturale che solo l’accanimento terapeutico può rallentare, senza che rilevi se la fine è decretata da un’azione o da una omissione.
4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto
Mi pare, in conclusione, che si possa convenire sul fatto che l’equivoco è partito proprio dalla decisione precedente della Corte Costituzionale che, dopo aver correttamente premesso che deve essere fatta la volontà del paziente, si è messa a distinguere tra il caso in cui quest’ultimo è aiutato dal medico attivamente oppure no, ed ha dunque ritagliato una ipotesi di eutanasia ancora penalmente rilevante nel primo caso, riferendola alla fattispecie dell’omicidio del consenziente, e così obbligando i promotori del referendum ad aggredire questa norma.
Utile sarebbe stato invece definire l’eutanasia secondo una ormai consolidata visione bioetica.
Ma non basta.
I promotori del referendum hanno agito anche per equivoco proprio: era difficile spiegare contrarietà ai sostenitori del quesito senza incorrere nell’accusa di voler negare autonomia al paziente, e senza essere persino additati tra quelli che vogliono obbligarlo a soffrire.
Ed anche qui l’equivoco.
Non ho lo spazio per dimostrare in questi ambiti quanto poco si sappia del concetto di autodeterminazione quando lo si usa nelle questioni di biodiritto: i bioetici ne hanno maggiore confidenza.
Ma mi limito a brevi chiose.
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’eutanasia è chiesta dai parenti di un malato che, per le condizioni in cui versa, non è in grado di decidere: dunque non realizza l’autonomia del paziente.
Anche quando si è in presenza di un testamento biologico, non bisogna dimenticare che si tratta , sì, di un atto di autonomia, ma di un soggetto sano, e non sappiamo se una volta trovatosi nelle condizioni presagite, costui mantenga la volontà espressa nella direttiva anticipata, o piuttosto cambi idea: gli oncologi di maggiore esperienza riferiscono di pazienti, che pur avendo fatto testamento biologico , chiedono poi di essere curati il meglio possibile, anziché rifiutare l’intervento. Altro è determinarsi da sano, altro è farlo quando la decisione da assumere è concreta.
Restano, certamente, i casi in cui il paziente è cosciente e decide da sé di rifiutare il trattamento medico, e lì la sua volontà va rispettata.
Quello che però da cui mettere in guardia è l’idea che, modernamente, non si può parlare di etica pubblica, se non attraverso l’etica dell’autodeterminazione. Segno dei tempi: non c’è etica pubblica al di fuori di quella dei diritti fondamentali.
L’eutanasia, quale momento di assoluta autodeterminazione del paziente, è un’invenzione degli intellettuali dell’occidente, che non corrisponde alla realtà dei fatti.
Il che non sarebbe un guasto, se questi ultimi, anziché una moda del politicamente corretto- faccio morire il paziente nel suo interesse- fossero frutto di una strategia epistemologicamente fondata.
[1] Corte Cost. 242 del 2019 : «Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più̀ lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».
[2] Corte cost. n. 242 del 2019
[3] Comitato Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, p. 9 e ss..
[4] Rinvio chi avesse curiosità a G. CRICENTI, Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, ETS, Pisa, 2013, p. 98 e ss. Ovviamente B. STEINBOCK, Killing and Letting Die, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1980 e H. KUHSE, The Sanctity-of-Life Doctrine in Medicine. A critique, Clarendon Press, Oxford, 1987, oltre che O.H. GREEN, Killing and letting Die, in «American Philosophical Quarterly», 17, 1980, pp. 195-204
[5] T.L. BEAUCHAMP -A DAVIDSON, The definition of Euthanasia, in «Journal of Medicine and Philosophy», 1979, p. 294 e ss.
[6] Il riferimento alle leggi causali certe consente di affrontare la questione della sofferenza non attuale ma futura, ossia di un soggetto di cui è certo che in un breve tempo soffrirà per una malattia che gli viene diagnosticata oggi e che è incurabile o irreversibile, cosi che rientra nel concetto di eutanasia anche la pratica volta ad evitare sofferenze non attuali , ma certe in futuro.
Contrasto al narcotraffico e legalizzazione delle “droghe leggere”*
di Franco Roberti
Sommario: 1. Premessa - 2. Il metodo di analisi -3. Le dinamiche del narcotraffico - 4. Il contrasto al narcotraffico: efficacia, limiti e prospettive di sviluppo - 5. Le proposte di legalizzazione - 6. Le condotte punibili - 7. Conclusione.
1. Premessa
Le osservazioni che seguono riflettono, con pochi aggiornamenti, quelle da me espresse il 20 giugno 2016, su richiesta della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in relazione alle proposte di legge in materia di stupefacenti (Giachetti ed altre), ivi giacenti e forse oggi risvegliate dalla prospettiva referendaria.
Venendo in rilievo questioni che hanno riflessi immediati sul tema del contrasto alle mafie, ritengo di dover evidenziare immediatamente che qualunque ipotesi di legalizzazione delle c.d. “droghe leggere” andrebbe inquadrata in una strategia di potenziamento della complessiva azione di contrasto al narcotraffico, nei termini che la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha costantemente indicato nelle Relazioni Annuali trasmesse al Parlamento nel periodo 2014-2018.
Su questo tema la DNA ha inteso fornire un contributo anche propositivo, di natura pragmatica, scevro da pregiudizi politici ed ideologici ed esclusivamente fondato su fatti e circostanze documentate. Con la finalità di trovare soluzioni concrete ai complessi e numerosi problemi della materia, molti dei quali da troppo tempo si ripropongono reiteratamente, uguali a se stessi, senza che vi sia una risposta di sistema davvero efficace.
2. Il metodo di analisi
I punti di partenza delle osservazioni contenute in quelle Relazioni, e che anche in questa sede saranno svolte, sono tre.
Il primo punto è costituito da una documentata analisi del fenomeno in tutti i suoi aspetti, che serve a comprendere - al di là delle pur legittime opinioni - di che cosa concretamente parliamo. Tale analisi è stata realizzata sulla base dello studio: a) delle indagini e dei processi che, in materia di traffico di stupefacenti, vengono portati a termine su tutto il territorio nazionale; b) dei diversi report redatti dalle principali Agenzie nazionali ed internazionali che si occupano del tema.
Nel dettaglio, vengono accertate a livello nazionale: le dimensioni quantitative e qualitative del narcotraffico, l’entità del mercato e, quindi, il numero dei consumatori, le dinamiche criminali che muovono il sistema del narcotraffico e le grandi organizzazioni che le governano, la quantità di risorse finanziarie che il fenomeno muove, la direzione verso cui tali risorse vengono indirizzate, e, infine, in senso dinamico, i trend ed i profili evolutivi sia del traffico che del consumo.
Il secondo punto è offerto dalla raccolta e messa a sistema dei risultati raggiunti dall’azione di contrasto al narcotraffico nei suoi diversi ambiti (droghe pesanti, droghe sintetiche, droghe c.d. leggere). Anche in questo caso va fatto esclusivo riferimento a dati oggettivi, desumibili: dai quantitativi di stupefacente sequestrato, dal numero dei consumatori, dalla quantità e qualità degli arresti effettuati, dal livello della catena criminale cui le investigazioni sono giunte, dalla entità dei patrimoni confiscati, dai risultati ottenuti attraverso le indagini finanziarie svolte sul versante delle transazioni finalizzate al pagamento delle partite di stupefacenti.
Il terzo punto consiste nella individuazione delle criticità dell’azione di contrasto. In altri termini, la valutazione della sua adeguatezza - sia in senso globale che in relazione ai diversi aspetti del fenomeno - svolta sulla base dei dati e delle circostanze di fatto acquisite in relazione ai primi due punti.
L’analisi complessiva di tutte queste risultanze, consente, a sua volta, l’individuazione del concreto rilievo e della reale importanza che il narcotraffico, nel corso del tempo, ha assunto, prima, nel contesto criminale e, poi, in quello dell’economia legale.
Non si tratta di un esercizio accademico, ma del presupposto conoscitivo che consente alla DNA di svolgere in modo consapevole i propri compiti istituzionali. Fra questi, vi è quello di garantire, a livello nazionale, anche nel contrasto al narcotraffico, tempestività, e completezza delle investigazioni e, quindi la loro concreta efficacia.
3. Le dinamiche del narcotraffico
Orbene, partendo dalle concrete risultanze delle analisi condotte in relazione ai punti sopra indicati - che consentono di avere chiara l’attuale dinamica del narcotraffico, la sua dimensione, la sua concreta pericolosità, la completezza ed utilità degli strumenti investigativi e normativi utilizzati nell’azione di contrasto - sarà qui evidenziato se, ed in quale misura e per quali aspetti, le proposte di legge all’esame del Parlamento possano, nell’attuale contesto, rappresentare uno strumento idoneo a rendere più efficace l’azione di contrasto al narcotraffico.
Ciò impone una rapida sintesi dell’attuale situazione che non può che partire dalla fotografia del fenomeno. Quella di cui si è detto al primo punto.
In proposito, si è rilevato che negli ultimi anni, a fronte di una stabilizzazione del consumo di droghe pesanti tradizionali (cocaina ed eroina), di una concentrazione delle leve di comando del traffico in poche mani, di un significativo incremento del consumo e del traffico delle nuove droghe sintetiche, si è avuta una straordinaria crescita del consumo di cannabinoidi. Nella Relazione Annuale trasmessa al Parlamento nel 2015, la DNA calcolava che, sulla base dei dati noti relativi al periodo immediatamente precedente, in Italia, il circolante annuo di cannabis, per difetto, era di circa 1.500.000 kg (tale per cui, in astratto, poteva ipotizzarsi che ciascun italiano, compresi vecchi e bambini, potesse consumare circa 25 grammi di cannabis all’anno). Nella stessa Relazione si precisava che le stime più aggiornate del più importante organismo mondiale che si occupa del fenomeno, l’UNODC, evidenziavano la presenza in Italia di un mercato della cannabis composto da circa 3.000.000 di consumatori abituali. Dato, come si vede, congruo e proporzionato rispetto a quello fornito dalla stessa DNA sul quantitativo di cannabis annuo circolante in Italia. E per avere una idea delle dimensioni internazionali di questo mercato, a sua volta, l’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze, nel suo rapporto del 2015, stimava che, sugli oltre 500.000.000 abitanti dell’Unione Europea, circa 78 milioni avevano fatto uso, in modo più o meno prolungato o più o meno abituale, di sostanze stupefacenti del tipo cannabis. Cioè poco meno del 20% del totale della popolazione.
Sul fronte dei gruppi criminali che gestiscono in Italia il narcotraffico, si è assistito ad un conferma della leadership della ‘ndrangheta – nel traffico di cocaina – e, nel medesimo settore, di un consolidamento delle posizioni della camorra. Le mafie balcaniche e quelle pugliesi mantengono invece una forte presenza nel settore del traffico dell’eroina.
In quello della cannabis, la posizione di preminenza deve essere riconosciuta alla camorra, che anche grazie ai suoi insediamenti in Spagna, ha agevoli e continui contatti con i principali luoghi di produzione nord-africani, nonché ai gruppi albanesi (l’Albania è divenuta il primo produttore europeo di cannabis) e, ancora una volta, a quelli balcanici. Va altresì segnalata una fortissima produzione di cannabis in Afghanistan, che è, unitamente a quella marocchina, al primo posto nel mondo ed ha in parte soppiantato la coltura del papaver somniferum (papavero da oppio).
Le organizzazioni criminali straniere (albanesi, marocchini, nigeriani, serbo-montenegrini, bulgari), sono oramai in grado di contendere alle altre formazioni criminali il controllo dei segmenti delle direttrici di traffico che interessano l’Italia e la gestione della rete di spaccio sul territorio nazionale delle principali sostanze d’abuso.
I dati appena esposti sono di rilievo nelle valutazioni che ci accingiamo a svolgere sulle proposte di legge in questione. Dimostrano, infatti: 1) che le mafie transnazionali hanno una posizione di sostanziale monopolio nella gestione dei traffici di stupefacenti, ovviamente compreso quello della cannabis; 2) che la crescente domanda di cannabis ha trovato una pronta risposta nella straordinaria nuova produzione afgana, agevolata dalla situazione socio-economica e politica determinata dal recente ritorno al potere dei Talebani. Ciò significa che questa fondamentale area di produzione della cannabis è controllata da gruppi fondamentalisti e terroristi che da essa traggono la principale fonte di finanziamento.
4. Il contrasto al narcotraffico: efficacia, limiti e prospettive di sviluppo
Esaminati questi primi aspetti, prima ancora di trarre le necessarie conclusioni, verifichiamo quale sia la situazione con riferimento al secondo e terzo punto in premessa indicati. In altri termini deve darsi conto dell’efficacia dell’azione di contrasto. Il che significa evidenziare i risultati dell’azione di contrasto al traffico e le criticità emerse.
Prima di tutto, deve chiarirsi che azione di contrasto efficace non è quella che tende al mero contenimento del fenomeno, bensì quella – ovviamente compatibile con le risorse del Paese – in grado di invertire il trend di continua crescita del narcotraffico che, nel corso degli ultimi trenta anni, ha aumentato a dismisura il potere criminale e finanziario dei narcotrafficanti e attualmente costituisce una preziosa risorsa anche per i terroristi.
È stato già in passato evidenziato come il crimine organizzato si sia rafforzato negli anni, sia nel nostro Paese che nel mondo intero, grazie proprio al controllo di un mercato che vale, annualmente, circa 560 miliardi di curo a livello globale e circa 30 miliardi di curo in Italia (pari a circa il 2% del PIL nazionale): ricchezza illecita inevitabilmente destinata a refluire in gran parte sul mercato finanziario ed economico legale, alterandone le regole essenziali e, fra queste, la più importante che è quella che, in un sistema liberal-democratico, assicura giustizia, equità e progresso sociale, ossia la parità di partenza fra i diversi operatori economici.
Considerando solo gli ultimi 20/25 anni, in concreto, è stato stimato che, ad oggi, in termini assoluti, le narcomafie dispongano, al netto, di un patrimonio ripulito, presente sui mercati finanziari, immobiliari e mobiliari, pari a circa 8.300 miliardi di euro a livello globale ed a circa 400 miliardi di euro in Italia. Patrimonio che – sulla base dei dati forniti dall’UNODOC - di anno in anno si incrementa di circa 20 miliardi di euro. E che, in tutta evidenza, rappresenta un condizionamento insostenibile per un corretto svolgimento della vita sociale ed economica del Paese e per la libera concorrenza.
Pensiamo quanta corruzione può essere – ed è – alimentata da soggetti criminali che dispongono di queste entrate e di questi patrimoni. Come infatti abbiamo già osservato, anche secondo la più prestigiosa Agenzia internazionale che si occupa di crimine organizzato, l’UNODOC, in qualsiasi paese del mondo, vi è, non solo, una relazione diretta, un rapporto di rafforzamento reciproco, fra la corruzione e la sua diffusione e la rilevanza economica che ha assunto il narcotraffico in quel determinato contesto, ma anche un rapporto diretto fra il rafforzamento delle grandi organizzazioni criminali che trafficano in stupefacenti e la penetrazione di queste nella politica e nella amministrazione pubblica, sia locale che nazionale. Sul punto, UNODOC faceva proprio l’esempio della situazione italiana in cui le grandi organizzazioni mafiose mantengono intatte la loro capacità di condizionamento delle istituzioni pubbliche, proprio in quanto dispongono di risorse rilevanti provenienti dal traffico di stupefacenti.
Da qui nasce la priorità dell’azione di contrasto al narcotraffico e proprio su questo terreno la sua efficacia deve essere misurata. Verificando, cioè, la sua capacità di superare un inaccettabile status quo e di invertire una rotta che ha portato, negli ultimi trenta anni, a concentrare in mani criminali rilevantissime risorse illecite che - specialmente nel post pandemia e nella gestione del PNRR - rischiano di condizionare l’economia legale e lo sviluppo del Paese.
In concreto, invece, si è verificato che, pure a fronte di un eccezionale impegno della Magistratura e delle Forze dell’ordine, l’azione di contrasto non è stata in grado di invertire il trend che si è descritto. Non è stata in grado cioè, di incidere sul cuore del problema.
E se, come crediamo, il cuore del problema è rappresentato dalla capacità del narcotraffico di creare e concentrare ricchezze illecite, allora, l’azione di contrasto efficace deve essere sviluppata in tale direzione.
In vista di tale obiettivo la DNA ha proposto nuovi protocolli d’indagine e l’adozione di nuovi strumenti normativi che potenzino le investigazioni.
Anzitutto, dovrebbero essere impiegate in modo più incisivo le risorse, assai rilevanti, che pure vengono spese su questo fronte senza tuttavia riuscire ancora a invertire la rotta.
In particolare, occorrerebbe investire maggiormente nella specializzazione delle Forze dell’ordine in tre settori vitali, che sono: 1) quello dell’informatica – è sul web, ed ancora di più sul deep web, che corre la nuova frontiera del traffico – potenziando la Polizia Postale e dotando la DCSA di personale e poteri investigativi analoghi a quelli della Polizia Postale; 2) quello delle intercettazioni telematiche, con normative più stringenti nei confronti degli internet provider e tecnologie costantemente aggiornate nella disponibilità degli inquirenti; 3) quello delle investigazioni sul riciclaggio dei proventi del traffico, e, prima ancora, sui movimenti finanziari che muovono e alimentano i traffici, da svolgersi anche attraverso l’impiego delle operazioni sotto copertura in contesti economici e finanziari.
In questa prospettiva, va osservato che sul fronte delle droghe pesanti tradizionali, cocaina ed eroina, pur non conseguendosi lo sperato risultato di “inversione del trend”, si è tuttavia ottenuto un sensibile contenimento del fenomeno e, talora, anche dei significativi successi sul fronte degli arresti dei grandi trafficanti, della confisca (ancora ex post, ed assai parziale) dei patrimoni illecitamente accumulati e del sequestro dei grandi carichi. Si tratta di risultati conseguiti grazie alla abnegazione delle Forze dell’ordine e della Magistratura, che tuttavia scontano il limite della perdurante carenza dell’azione di contrasto sul versante dei meccanismi che consentono le enormi transazioni finanziarie che ruotano intorno al traffico e, quindi delle persone fisiche e giuridiche operanti, nell’ombra, in tale settore (il che spiega la ragione per cui non siamo ancora arrivati al cuore del problema).
Gli stessi risultati di contenimento non si sono ottenuti - nonostante lo stesso impegno profuso - nel settore del contrasto al traffico della cannabis, sempre più fiorente grazie ad un consumo incontrollato di massa.
Ed è paradossale che ciò sia avvenuto in un settore, quello delle droghe leggere, nel quale, sicuramente da un punto di vista quantitativo, l’impiego di uomini e risorse, non solo in Italia, ma in Europa, è stato maggiore.
Si è infatti constatato che, sia in Italia che in Europa, le attività repressive sul traffico, lo spaccio e la detenzione di cannabis – a ragione è ritenuto lo stupefacente certamente dannoso, ma meno pericoloso ed a cui si riconnettono, infatti, in tutta Europa, di norma, le sanzioni meno gravi - impegnano sull’intero territorio nazionale (e non solo) un numero di appartenenti alle Forze di polizia giudiziaria e di magistrati che è un multiplo di quello impegnato nelle azioni di contrasto all’eroina ovvero alla cocaina, alle droghe sintetiche, ben più micidiali.
I sequestri di quantitativi di cannabis, sono, a seconda degli anni, 100 o 150 volte di più di quelli di eroina e cocaina e 8000 volte maggiori dei sequestri delle droghe sintetiche. In pratica sequestriamo in misura infinitamente più ampia la sostanza meno dannosa rispetto a quelle ben più nocive, se non letali.
E così, per allargare l’orizzonte, a dimostrazione di una tendenza comune a livello continentale, ì comandi di polizia europei nel solo 2013 sono stati impegnati a segnalare alle più diverse Autorità - giudiziarie ed amministrative - circa 782.000 consumatori di cannabis e a redigere 120.000 rapporti di denuncia per spaccio di tale sostanza - mentre, per dare un riferimento comparativo con l’eroina, le denunce, sempre a livello europeo, per il mero consumo sono state circa 20 volte in meno e per la cessione 7/8 volte in meno.
A loro volta i sequestri di cannabis, che a livello europeo sono stati nel numero di 431.000, sono un multiplo di quelli di tutte le altre droghe messe insieme.
A livello nazionale, nel corso del biennio 2014-2015, furono denunciate per produzione, traffico. e spaccio di cannabinoidi 27.098 persone, che erano di più della somma dei soggetti denunciati per traffico e spaccio di tutte le tradizionali droghe pesanti il cui numero, complessivamente, ammontava a circa 26.000 unità.
Bisogna chiedersi, allora: quante migliaia di ufficiali di polizia giudiziaria impegniamo, complessivamente, nel settore della repressione del traffico di cannabis, considerando prima il numero degli agenti impegnati ad effettuare sul territorio questi interventi, poi quello degli Ufficiali di pg impegnati a redigere le relative informative e verbali e, infine, quello di carabinieri, finanzieri, poliziotti, quotidianamente impegnati nei tribunali per deporre in udienza ? E quanti magistrati, cancellieri, agenti della penitenziaria, funzionari di prefettura, assistenti sociali, impieghiamo per dare corso alle denunce, ai processi o alle segnalazioni di natura amministrativa per lo spaccio, il traffico o per la mera detenzione di tale sostanza? E con quali risultati ?
La risposte, anche qui, sono agevoli.
Impegniamo, sul fronte repressivo per il fenomeno cannabis, circa la metà delle forze che abbiamo a disposizione sul campo per contrastare complessivamente il narcotraffico ed il conseguente gravissimo fenomeno del riciclaggio.
Non solo, quindi, non sarebbe pensabile impiegare più uomini e mezzi nella repressione del fenomeno, perché ciò sottrarrebbe le residue risorse all’azione di contrasto contro fenomeni che lo stesso legislatore ritiene più gravi (traffico di droghe pesanti, riciclaggio, corruzione, contrasto alle mafie e al terrorismo, ecc.), ma sarebbe necessario dirottare risorse ed energie dalla repressione di fenomeni meno gravi (fra cui quello della cannabis) verso quelli ben più gravi che abbiamo indicato.
Quanto ai risultati della strategia repressiva contro la cannabis - che è stata nel corso del tempo, a seconda delle diverse opzioni scelte dal legislatore, più o meno severa – anche qui, sulla scorta dei numeri in nostro possesso, possiamo affermare che la stessa ha oggettivamente condotto – al di là delle buone intenzioni di chi intendeva reprimere il fenomeno – non ad una riduzione o ad un contenimento del fenomeno, ma ad una sua più ampia diffusione.
La verità è che di fronte ad 80 milioni di consumatori presenti nella sola Europa, di fronte ad un mercato che ha oramai l’ampiezza di quello della Coca Cola, dei tabacchi, degli alcoolici, lo strumento penale diviene , in sé, inadeguato. E lo è ancora di più in quanto la pericolosità del fenomeno è sempre meno avvertita.
5. Le proposte di legalizzazione
Nella descritta situazione, vanno positivamente valutate le proposte di legge che mirano a legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati. La legalizzazione, infatti, se correttamente attuata, potrebbe portare : 1) ad una rilevante liberazione di risorse umane e finanziarie in diversi comparti della Pubblica Amministrazione (FFOO, Polizia Penitenziaria, funzionari di Prefettura, ecc.); 2) ad una ancora più importante liberazione di risorse nel settore della Giustizia, dove sono decine di migliaia i procedimenti penali che richiedono l’impegno di magistrati, cancellieri ed ufficiali giudiziari, con risultati spesso del tutto inconcludenti in quanto vengono irrogate sanzioni che rimangono sulla carta; 3) ad una perdita secca di importanti risorse finanziarie, per le mafie e per il sottobosco criminale che, ad oggi, hanno il monopolio del traffico; 4) ad una contestuale acquisizione di risorse finanziarie per lo Stato, attraverso la riscossione delle accise; 5) al prosciugamento, in una più ampia prospettiva di legalizzazione a livello europeo, di risorse economiche e finanziarie per il terrorismo integralista che controlla la produzione afgana di cannabis; 6) in conclusione, ad un vero rilancio – attraverso la liberazione e l’acquisizione delle predette risorse - dell’azione strategica di contrasto, che deve mirare ad incidere sugli aspetti (davvero intollerabili) di aggressione e minaccia che il narcotraffico porta sia alla salute pubblica (attraverso la diffusione di droghe pesanti e sintetiche) che all’economia ed alla libera concorrenza (attraverso il riciclaggio).
E seppure tutto ciò non fosse vero (ma, in realtà, è vero) la legalizzazione avrebbe comunque il pregio di porre fine ad una azione repressiva che si è rivelata del tutto inefficace. In qualsiasi modo, nel corso degli anni, sia stata svolta. E che, anzi, ha fornito, a livello di marketing, un ulteriore vantaggio alla cannabis: la fascinazione del proibito.
E tuttavia la legalizzazione, per essere davvero funzionale agli scopi sopra indicati, dovrebbe mantenersi in binari chiari e pragmatici e rifuggire da ipocrisie, ideologismi, prese di posizioni, che sarebbero più dannosi che utili.
Quanto alla chiarezza – anche perché ci offre un modello sperimentato e funzionante, anche da un punto di vista fiscale – appare condivisibile l’idea di inquadrare la cannabis fra i generi di monopolio. L’assimilazione cioè – sia pure nella particolarità del caso - del regime giuridico della cannabis a quello dei tabacchi, fatta propria da diverse proposte di legge, appare una soluzione concreta, fattibile e priva di rischi. E tuttavia, per rimanere tale, dovrebbe essere portata avanti con coerenza e senza tentennamenti. In questa prospettiva, l’idea di creare, quanto al commercio al dettaglio della cannabis, una (inevitabilmente) nuova rete di esercizi commerciali dedicata solo alla vendita di questo prodotto, desta forti perplessità. Non diversamente da quanto si avuto modo di constatare in altri settori di recente legalizzati (ad esempio quello delle scommesse), questo nuovo affare attirerebbe inevitabilmente gli interessi del crimine organizzato. Fermo restando infatti, il divieto di vendita della cannabis ai minori, esiste invece una rete già nota, collaudata, sicura e conosciuta di rivenditori di generi di monopolio e non si vede perché non si possa ricorrere alla stessa – ovvero a parte della stessa, escludendo chi abbia eventuali controindicazioni di carattere oggettivo o soggettivo - per la distribuzione del prodotto.
Appare, invece, assolutamente non condivisibile l’idea di autorizzare la c.d. coltivazione in forma associata della cannabis.
La valutazione degli effetti di una norma, in astratto ragionevole, la si deve, infatti, misurare in concreto, tenendo conto della situazione di fatto in cui si cala. E riteniamo che la forma di coltivazione associata, possa essere un ulteriore cavallo di Troia per fare rientrare nell’affare la criminalità organizzata che, attraverso le associazioni in questione, potrebbe acquisire un importante ed ulteriore opportunità per produrre e commerciare la cannabis.
Invero, sarebbero inesauribili le possibilità per la criminalità di creare e governare associazioni “fantasma” (se ne vedono moltissime in tutti i settori, da quello agricolo a quello dei servizi) composte da persone spesso inconsapevoli, ovvero da meri prestanome.
Dunque, l’introduzione della previsione della coltivazione in forma associata, con ogni probabilità, porterebbe ad un aggiramento della normativa sul monopolio e ad una nuova discesa in campo del crimine organizzato in una materia che, con la legalizzazione, si intenderebbe sottrarre alla sua egemonia. Ma non solo. La legalizzazione della coltivazione della cannabis in forma associata porterebbe, paradossalmente, sia a livello preventivo (per i necessari controlli da svolgere) che e a livello repressivo (in relazione ai prevedibili abusi che sarebbero posti in essere), a drenare ed impiegare quelle risorse umane e finanziarie che invece si volevano liberare legalizzando il settore.
Infine deve esaminarsi la previsione della legalizzazione della coltivazione individuale, c.d. “domestica”, di un quantitativo ridotto di cannabis per uso personale (pari, secondo le diverse proposte di legge a 4/5 piante di sesso femminile), la cui liceità sarebbe subordinata ad una previa comunicazione da parte del consumatore/produttore ai Monopoli di Stato.
Anche in questo caso, sia pure in misura diversa rispetto a quanto si è osservato sulla produzione associata, vanno espresse delle perplessità.
Sulla base di una valutazione immediata, nel previsto sistema di legalizzazione della cannabis, non parrebbe congruo prevedere sanzioni penali a carico di chi la produce a fini di auto-consumo, nei limiti quantitativi sopra indicati.
Occorre tuttavia osservare che, anche in questo caso, la pratica si potrebbe prestare ad abusi e ad aggiramenti sostanziali del regime di Monopolio che è stato previsto e che deve essere, invece, l’architrave del sistema.
La coltivazione cosiddetta domestica, infatti, se svolta in rete ed in modo coordinato da un numero cospicuo di soggetti, che magari sono meri prestanome, tutti formalmente autorizzati all’autoproduzione, rappresenta un rischio concreto di creazione di un mercato illegale e clandestino che, invece, la normativa sulla legalizzazione si propone di sconfiggere.
E ciò senza contare un ulteriore grave rischio: in sede di autoproduzione domestica, e al riparo dei controlli che verrebbero effettuati sui generi di monopolio, potrebbero essere coltivati dei prodotti che attirano un mercato di nicchia, interessato ad un prodotto caratterizzato da alta concentrazione di THC e dunque, maggiormente nocivo ed in grado di indurre maggiore dipendenza.
Del resto, va ricordato che la pratica della auto-produzione si è sviluppata nel contesto di un sistema proibizionista. Essendo vietata la vendita della cannabis, attualmente, il consumatore che non vuole entrare in contatto con il sistema criminale che la traffica e la spaccia, si produce da solo la cannabis necessaria per il suo consumo.
Ma tutto ciò non avrebbe più senso in un sistema in cui il consumatore di cannabis, al pari di quello di sigarette, potrà comprare un prodotto sicuro (nei limiti in cui può esserlo) in una qualsiasi rivendita autorizzata presente nel suo luogo di residenza. Non a caso, infatti, il sistema di “autoproduzione” del tabacco non è mai stato neppure lontanamente pensato ed ipotizzato. E non si vede la ragione per la quale, di fronte ai ragionevoli rischi che si sono sopra indicati, dovrebbe esserlo per la cannabis.
6. Le condotte punibili
Così delimitato l’ambito nel quale – con la maggiore semplificazione e le maggiori cautele possibili - dovrebbe fluire la produzione e la vendita della cannabis, si tratta ora di affrontare il capitolo delle condotte punibili e delle sanzioni penali.
Un assetto equilibrato del sistema penale in materia, che salvaguardi in modo efficace il principio del Monopolio di Stato e la salute pubblica (con riferimento in particolare a quella dei minori) e non ingolfi il sistema processuale con fatti bagatellari, potrebbe essere articolato come segue.
Per i casi di minore rilievo e gravità, quali ad esempio la consumazione della cannabis in luoghi vietati, appare evidente la opportunità di prevedere, non diversamente dalle analoghe fattispecie in materia di divieto di fumo da tabacchi, soltanto severe sanzioni amministrative.
Per la detenzione, attesa la varietà dei casi e l’enorme differenza di lesività delle diverse condotte, sarebbe opportuno distinguere. Appare condivisibile la previsione della proposta Giachetti che – al di là dei casi di uso terapeutico – fissa un limite massimo di quantitativo di cannabis legittimamente detenibile nella misura di gr 5 al di fuori del proprio domicilio e di gr 15 presso il proprio domicilio. Tuttavia tale previsione deve tenere conto del fatto che, secondo l’impostazione fino ad ora seguita (e seguita dalla stessa proposta Giachetti) la cannabis di monopolio dovrà essere venduta, sigillata, in apposite confezioni dotate di etichetta dei Monopoli. Dunque, la stessa (non diversamente dalle sigarette dei monopoli rispetto a quelle di contrabbando) sarà distinguibile da quella commerciata illegalmente al di fuori del regime monopolistico.
Appare, allora, evidente che un conto è la detenzione, oltre il limite quantitativo fissato, della cannabis di monopolio, acquistata legittimamente in un esercizio commerciale abilitato, e, ben altro, è la detenzione di cannabis illegale, prodotta parallelamente in un mercato clandestino. Nel primo caso, la sanzione, seppure seria, dovrebbe essere di tipo amministrativo, non venendo pregiudicati i principi fondanti della legalizzazione. Nel secondo caso, tenuto conto che vengono in rilievo condotte che alimentano un mercato e una attività controllato da entità criminali riguardando, per l’appunto, la detenzione di cannabis prodotta illegalmente, non potrebbe che farsi ricorso alla deterrenza delle sanzioni penali, fatta salva l’ipotesi di detenzione per uso personale nei limiti quantitativi di 5 grammi (o 15 grammi, presso il proprio domicilio), che dovrebbe rimanere immune da sanzione penale ed essere punita solo amministrativamente –
Per la produzione illecita, in un auspicato regime che faccia divieto a chiunque di coltivare la cannabis al di fuori del sistema del Monopolio di Stato, dovrebbero trovare applicazione gli stessi principi e, quindi, le stesse sanzioni previste per la detenzione illecita di cannabis prodotta al di fuori del controllo statale, che tengono conto dell’entità della produzione e, quindi, della gravità della condotta.
Per le ipotesi di illegale importazione, esportazione, trasporto e passaggio in transito, egualmente, la summa divisio dovrebbe essere fatta fra i casi che riguardano l’uso personale e riferibili, quindi, a quantitativi che possono arrivare al massimo a 5 grammi (i 15 grammi abbiamo visto valgono per la detenzione presso il proprio domicilio) e i casi che eccedono tale quantitativo. Nel primo caso il fatto non potrebbe essere in alcun modo sanzionato penalmente, nel secondo caso dovrebbe venire in rilievo l’ulteriore distinzione che è stata fatta in precedenza, quella, cioè, fra cannabis di monopolio e cannabis prodotta e commercializzata al di fuori del regime di monopolio. Nel primo caso, coerentemente, la sanzione dovrebbe essere solo amministrativa e, quindi, per lo più pecuniaria. Nel secondo caso, le pene dovrebbero essere in linea con quelle indicate al secondo punto.
Per la cessione a titolo gratuito appare, in via generale, condivisibile l’impostazione della proposta Giachetti e delle altre che vanno nella stessa direzione: la cessione gratuita di quantitativi fino a 5 grammi, per il consumo del beneficiario della cessione, dovrebbe ritenersi, nel prospettato regime di legalizzazione, del tutto lecita. Ma è necessaria una precisazione. Può essere lecita, la cessione gratuita di tale quantità, quando riguarda cannabis di monopolio. Ma non nel caso di cannabis prodotta al di fuori del regime di monopolio e, quindi, illegale. In quest’ultimo caso, se si vuole mantenere coerenza al sistema e si intende salvaguardare il principio del Monopolio di Stato come sua pietra angolare, appare indispensabile una adeguata sanzione penale nei confronti di chi cede, sanzione che, a nostro avviso, dovrebbe essere in linea con la meno grave delle ipotesi di illegale detenzione.
Per i casi di offerta, vendita e cessione a titolo oneroso, avvenuti al di fuori dell’unico canale consentito, ancora una volta la linea di demarcazione fra sanzione penale e sanzione amministrativa non può che passare attraverso quella fra cannabis prodotta in regime di monopolio e cannabis prodotta illecitamente e clandestinamente.
Nel primo caso, che riguarda le ipotesi del soggetto non autorizzato, che vende cannabis prodotta in regime di monopolio (quella, per così dire, con il bollino dei Monopoli di Stato) ancora una volta, ci sembra opportuna e ragionevole la sola sanzione amministrativa .
Nel secondo caso, quello della vendita a terzi di cannabis prodotta al di fuori del regime di monopolio (dunque, parliamo di cannabis, non controllata, con THC, a volte, assai elevati e dannosi) vengono in rilievo condotte particolarmente gravi che ledono contestualmente la salute pubblica ed interessi finanziari dello Stato. Ovvio che la sanzione penale dovrebbe essere, a seconda dei quantitativi commerciati, in linea con le pene previste dal secondo punto.
Restano, ovviamente, ferme le disposizioni di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Un discorso a parte - ed una particolare attenzione - merita, infine, il tema del consumo della cannabis da parte dei minori e la cessione della cannabis ai minori.
Si tratta di un tema assai delicato, in quanto vengono in rilievo soggetti in relazione ai quali - per la loro vulnerabilità ed influenzabilità e per la minore capacità che hanno di auto-imporsi regole nel consumo - va prevista una tutela penale particolarmente intensa.
Dunque la cessione a minore, di qualsiasi tipo di cannabis e di qualsiasi tipo di stupefacente, deve essere fortemente dissuasa, prevedendosi, in relazione alla cannabis (ed, anche, in relazione alla cessione di altre sostanze stupefacenti), fattispecie autonome di reato, con sanzioni minime e massime particolarmente elevate, dalla metà al doppio di quelle ordinariamente previste negli altri casi di cessione illegale.
Su questo argomento non si condivide, quanto alla liceità della vendita della cannabis, la parificazione degli ultra-sedicenni ai maggiorenni, fatta propria da alcune proposte di legge. Piuttosto, più opportunamente, dovrebbe graduarsi la pena, aggravandola nel caso degli infra-sedicenni e, ancora di più degli infra-quattordicenni, rispetto al caso generale di cessione ai minori.
Peraltro, proprio la complessiva legalizzazione della produzione e del commercio della cannabis, e il conseguente calo di procedimenti ed indagini penali, consentirebbero di concentrare l’attenzione investigativa su questo fronte, particolarmente importante.
Proprio la possibilità che il messaggio pubblicitario possa essere captato e recepito dai più giovani e dai minori, poi, impone che la pubblicità della cannabis, venga non solo vietata ma penalmente sanzionata.
7. Conclusione
In conclusione, nei limiti e con le precisazioni fornite, si ritiene che quello della legalizzazione della cannabis, sarebbe un approdo logico e coerente del sistema a fronte dei deludenti risultati concretamente ottenuti con una politica di criminalizzazione.
Tuttavia, la scelta legislativa di fondo in esame (che appare, nei fatti, oggettivamente, opportuna ed utile) dovrebbe essere vissuta dall’opinione pubblica non come una resa al narcotraffico (perché non lo è) ma, al contrario, come il segno di una inversione di rotta da parte dello Stato , di una concentrazione delle proprie risorse disponibili su ciò che è veramente pericoloso per la salute dei cittadini, per l’economia del Paese e per l’ordine pubblico. E affinché ciò avvenga, a nostro avviso, dovrebbero darsi, da subito, dei segnali importanti. In particolare, le proposte di legge in esame, tenuto conto di quanto sopra si è detto, dovrebbero, contestualmente, contenere delle previsioni concrete che diano il segno di questo rinnovato sforzo dello Stato contro le narcomafie.
All’uopo appaiono apprezzabili le previsioni di utilizzare parte dei proventi fiscali, che saranno riscossi grazie al regime di monopolio della vendita della cannabis, per finanziare il contrasto al traffico delle droghe pesanti e sintetiche. Ma servono indicazioni più precise e stringenti.
*Sul medesimo argomento si rinvia ai precedenti REFERENDUM "CANNABIS LEGALE" - IL QUESITO, L'uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (Nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020), Coltivazione di Cannabis e uso "teraupetico" (Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021), La diffusione della droga in Italia di Giulio Maira, "Il nuovo che avanza...": confronto tra opposti orizzonti legislativi in tema di c.d. "piccolo spaccio" (art. 73, comma V, d.p.r. n. 309 del 1990)"Il nuovo che avanza...": confronto tra opposti orizzonti legislativi in tema di c.d. "piccolo spaccio" (art. 73, comma V, d.p.r. n. 309 del 1990), Quantità ingente di droghe leggere: la Cassazione conferma i due chilogrammi, Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite di Lorenzo Miazzi (parte seconda), Coltivazione e uso personale dopo le Sezioni Unite di Lorenzo Miazzi (parte prima), CANNABIS: DALLE SEZIONI UNITE UNA RISPOSTA CHE VA INTERPRETATA, LA DOSE DROGANTE: Concetto Scientifico o Normativo?, L'amministrazione della Cannabis ad uso medico, Sulla commerciabilità della cannabis sativa, La vendita della cannabis light diventa illecita? Contrasto interpretativo in Corte di Cassazione, La liceità della coltivazione di piante di cannabis sativa prevista secondo la disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016 implica quale logico corollario la liceità della commercializzazione dei suoi derivati.
Note sul diritto al silenzio in diritto tributario[1]
di Alessandro Giovannini*
Il diritto al silenzio è senz’altro compatibile con i princìpi propri al diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[2], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che l’amministrazione potrebbe esercitare autonomamente.
Sommario: 1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa - 2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali - 3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche - 4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo - 5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato - 6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi - 7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali.
1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa
Per i principi costituzionali nazionali e sovranazionali, il diritto al silenzio costituisce articolazione del diritto soggettivo di difesa proprio di chi è chiamato dall’autorità a dare notizie o narrare accadimenti a sé sfavorevoli[3]. Il silenzio esercitato in ragione della difesa, perciò, consente di attribuire un valore giuridico positivo ad un comportamento omissivo altrimenti macchiato da antigiuridicità.
È un diritto, quello al silenzio, dalle radici antiche, nato in seno al diritto penale e al diritto processuale penale, ma tornato d’attualità dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale italiana lo hanno ritenuto estensibile al diritto sanzionatorio amministrativo e al procedimento amministrativo[4].
In ambito tributario si sta discutendo, perciò, se un diritto siffatto sia compatibile con i princìpi costituzionali sul concorso impositivo alle pubbliche spese e se, in concreto, siano individuabili ipotesi normative nelle quali possa trovare applicazione[5].
2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali
Rovesciando il tradizionale ordine illustrativo, espongo subito le mie conclusioni, consegnando ad esse l'attacco tetico.
Lo ius tacendi è senz’altro compatibile con i princìpi di diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[6], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che la pubblica autorità potrebbe esercitare autonomamente.
3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche
Il ragionamento che intendo svolgere a spiegazione della conclusione sinteticamente esposta muove da un doppio presupposto. Il diritto tributario, anzitutto, è un diritto come tutti gli altri e dunque metodo e criteri d’interpretazione non divergono da quelli propri di altri settori dell’ordinamento[7].
Il secondo presupposto è questo: l’obbligo contributivo previsto dall’art. 53 Cost., conseguente al vincolo solidaristico scolpito nell’art. 2, non ha per se stesso privilegio nella scala dei valori costituzionali[8]. E infatti, come non si può accettare l’esistenza di “diritti tiranni”[9], così non sono concepibili “obblighi tiranni”, in grado cioè di contrapporsi, per “azzerarli”, a diritti soggettivi fondamentali[10].
Anche l’obbligo contributivo, perciò, soggiace alle regole generali di contemperamento proprie a qualsiasi altra posizione giuridica costituzionalmente rilevante.
Questa precisazione è tanto utile quanto più s’intenda arrivare subito al nocciolo della questione.
Se il silenzio, come ho detto, traduce un comportamento espressivo del diritto alla difesa, ovvero e in altre parole, se il silenzio come difesa consente di valutare positivamente un comportamento omissivo altrimenti qualificabile come antigiuridico, in linea di principio nessuna preclusione può essere opposta al suo esercizio nel procedimento impositivo.
L’obbligo contributivo e la capacità contributiva che fonda quell’obbligo, non sono autocostitutivi di posizioni di supremazia dell’amministrazione finanziaria, né è conforme o sarebbe conforme al diritto costituzionale moderno una “giurisprudenza degli interessi” che tendesse ad assegnare all’interesse fiscale ruolo assorbente e privilegiato nella dinamica del procedimento impositivo. E neppure si può ritenere che l’interesse collettivo o gli interessi collegati alla ipostatizzata figura statale prevalgano sempre ed in ogni caso, perché superiori ontologicamente, sui diritti degli individui, specialmente quando questi presidiano la loro dignità[11].
Questo non significa negare agli art. 2 e 53 Cost. forza immediatamente vincolante e men che meno significa negare loro funzione costitutiva dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche.
Vuol dire, piuttosto, assegnare a queste norme le funzioni loro proprie, ossia quelle di criterio di riparto dei carichi pubblici e di cerniera fra solidarietà, uguaglianza e diritti proprietari, da un lato, ed interesse generale alla contribuzione, dall’altro. E vuol dire, in seno all’interpretazione, tornare ad invocarle conformemente alle loro funzioni, riservando ad esse la corretta collocazione.
4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo
Segnati i confini della trama costituzionale, il silenzio deve essere studiato nella sua effettiva qualificazione: come alter ego del diritto di difesa, il suo “altro da sé”, ma pur sempre “sé”.
Muovendo da questa considerazione, il ragionamento si semplifica e il suo nocciolo diventa questo: solo quando l’esercizio del nemo tenetur se detegere è causato dal precedente o concomitante esercizio del potere d’indagine di un organo dello Stato, il silenzio stesso diventa difesa[12]. In ogni altro caso, il silenzio deve essere qualificato per quello che è: omissione o inadempimento di un obbligo.
Seppure in un contesto di tensione tra posizioni giuridiche delle parti, come questo, il silenzio non può tuttavia essere invocato se cade su elementi che l’amministrazione potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di accesso, ispezione e sequestro.
E infatti, se le richieste della pubblica autorità cadono su documenti o atti prodromici e strumentali alla dichiarazione[13] o anche solo strumentali al controllo della sua veridicità e completezza[14], il silenzio si formerebbe su elementi che l’amministrazione potrebbe senz’altro apprendere in autonomia. E che solo per ragioni di efficienza ed efficacia dell’azione il legislatore ha reputato conveniente farli trasmettere o consegnare direttamente dal contribuente, com’è chiaramente desumibile dall’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972[15].
5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato
Le osservazioni da ultimo svolte esigono un chiarimento ulteriore. Per individuare la radice degli obblighi strumentali di esibizione e consegna ai quali or ora si è fatto riferimento e per cogliere il motivo per il quale il silenzio in tali circostanze non può trovare giustificazione, si possono seguire strade diverse.
Si può muovere da una lettura estensiva dell’art. 2 della Costituzione. Si può sostenere che, come l’obbligo di dichiarazione assolve un dovere strumentale alla realizzazione del valore solidaristico di concorrere alla spese pubbliche, così gli obblighi secondari concorrono alla realizzazione dello stesso vincolo, compresi quelli il cui adempimento è collegato ad una richiesta dell’amministrazione[16].
Oppure, nella ricerca di quella radice, si può scegliere di abbandonare il riferimento diretto ai valori costituzionali. È la strada che a me sembra preferibile, poiché richiamarsi ad essi fa correre il rischio, da un lato, di applicarli impropriamente, ossia di utilizzarli oltre le loro reali funzioni e i loro “naturali” confini come fossero passe-partout buoni ad ogni uso; dall’altro, di scivolare nuovamente nell’equivoco concettuale della loro supremazia su concorrenti valori posti a presidio del singolo[17].
Il motivo più convincente, però, per me è un altro. Utilizzare l’art. 2 Cost. per giustificare i doveri di collaborazione endoprocedimentali rischia di sfociare in argomentazioni che, alla prova dei fatti e per coerenza logica ancor prima che sistematica, potrebbero non lasciare margini residuali di applicazione al diritto di tacere. In parole semplicissime, di sfociare in argomentazioni che alla fine “provano troppo”[18].
Infatti, se la radice del dovere di collaborazione sta nell’art. 2, tutte le richieste della pubblica amministrazione potrebbero essere intese come funzionali o strumentali alla realizzazione del vincolo solidaristico del concorso alle pubbliche spese. E ciò anche quando, invece, seguendo un’impostazione alternativa e anelastica, il silenzio potrebbe essere applicato conformemente alla sua ratio.
Credo che l’alternativa si possa costruire collegando il dovere di collaborazione al potere amministrativo di acquisizione diretta degli elementi istruttori e dunque qualificando il dovere collaborativo stesso come potere derivato.
Mi spiego meglio. Nel procedimento di ricerca della capacità contributiva del singolo si possono isolare coppie diverse di situazioni giuridiche, alcune soltanto riguardanti il rapporto tra potere d’accertamento e obbligo collaborativo del contribuente sottoposto ad indagine. Nella strutturazione moderna di queste coppie e del loro contenuto, è frequente che la legge addossi a quest’ultimo obblighi che, se adempiuti, realizzano in via sostitutiva l’esercizio dei poteri pubblici, dei quali, tuttavia, l’amministrazione rimane titolare in ragione della sua posizione autoritaria “originaria”[19].
Non mi riferisco, certo, all’obbligo di dichiarazione gravante sul soggetto passivo, che come detto trova autonomo fondamento. Mi riferisco, invece e proprio, agli obblighi posti a suo carico in funzione dell’esercizio dei poteri di controllo nella fase successiva alla presentazione (o mancata presentazione) della dichiarazione medesima.
Nell’intervallo tra la sua presentazione (o sua omessa presentazione) e il provvedimento d’accertamento, è il potere autoritativo di controllo per come regolato dalla legge ad ordinare e scandire anche la condotta del contribuente[20]. Però, com’ho appena osservato, nelle moderne dinamiche procedimentali l’esercizio di profili strumentali a quel potere è talvolta rimesso al privato. Con un azzardo intellettuale, allora, si può forse dire che, se questi viola il dovere di collaborazione, è come se omettesse l’esercizio di un potere strumentale derivato.
Ecco perché il diritto al silenzio non può essere invocato a giustificazione dell’omessa collaborazione nei casi in cui la legge autorizza la pubblica amministrazione a richiedere l’esibizione o la consegna della contabilità, di database, documenti bancari, contratti o altri atti che la stessa potrebbe acquisire direttamente con l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e sequestro[21].
In queste circostanze l’omissione è nient’altro che violazione di obblighi in sé rilevanti, ed è per questo che il silenzio, qui, non può calzare il cappello del diritto di difesa, non si può ammantare, cioè, della dignità giuridica dell’esercizio di un diritto, rimanendo piuttosto macchiato del disvalore omissivo.
6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi
Quale, allora, lo spazio applicativo del diritto al silenzio? Mi pare di poter dire che il suo esercizio si possa considerare legittimo nelle ipotesi in cui la legge consente all’amministrazione di invitare il contribuente a comparire di persona per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento[22]. Ed anche nelle ipotesi in cui è legittimata a procedere per il medesimo scopo in forma scritta[23].
Lo stesso si deve dire, ritengo, per l’invito a rendere notizie durante accessi ed ispezioni. Un conto, infatti, è se l’agente in quei frangenti intima di consegnare un documento o uno scritto che lo stesso agente potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di controllo[24], altro è se la domanda si appunta su notizie od elementi dei quali non potrebbe avere altrimenti riscontro, giacché acquisibili solo con l’”interrogatorio” del contribuente, tramite, in buona sostanza, una sua “confessione”.
Il nemo tenetur se detegere è nato, proprio, per casi simili: proteggere l’inquisito che, sottoposto ad interrogatorio, si sarebbe potuto trovare costretto, anche solo moralmente, a rendere edotta l’autorità su questioni a sé sfavorevoli che la stessa non avrebbe potuto conoscere o delle quali non avrebbe potuto formarsi un convincimento compiuto, almeno nell’immediatezza, se non attraverso l’interrogatorio o la confessione indotta.
Il diritto a non concorrere alla propria incolpazione, stringi stringi, sta proprio e tutto qui. E sono proprio queste le circostanze che rendono il diritto di tacere “l’altro da sé” del diritto di difesa.
7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali
Le cose fin qui dette consentono di esaminare un ultimo profilo conseguente all’esercizio del diritto di tacere: quello sanzionatorio.
Iniziamo col ricordare che le sanzioni amministrative si possono distinguere in proprie ed improprie[25]. Cosa siano le une e le altre è aspetto ormai noto e sul quale, qui, reputo non essenziale soffermarmi.
La riflessione, invece, deve cadere su aspetti specifici che si legano a questa distinzione.
Muoviamo dalle sanzioni proprie. In seno ad esse occorre separare quelle composte in funzione della violazione dell’obbligo di parlare dalle sanzioni collegate a fattispecie evasive del tributo che possono o potrebbero essere sorrette dalla narrazione del contribuente a sé sfavorevole.
La illegittimità delle prime si può predicare quando rivolte a punire un comportamento che in realtà si conforma allo ius tacendi[26]. È il caso nel quale la sanzione rappresenta anche solo una minaccia al comportamento omissivo del contribuente sottoposto ad accertamento.
Il vizio di previsioni simili è tanto più grave in quanto legato a fil doppio, ancor prima che all’art. 24 Cost., all’art. 3, sotto il profilo della irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte legislative. Vizio che potrebbe perfino connotarsi come “uso distorto della discrezionalità” a tal punto elevato da “raggiungere una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa”[27].
Più complesso è il discorso sulle seconde. Le sanzioni collegate all’accertamento del credito o del maggior credito erariale vengono giocoforza in considerazione come conseguenza dell’accertamento stesso. È perfino banale rilevarlo. Ma questa constatazione torna utile per chiarire che nella logica sistematica del diritto al silenzio esse possono bensì rilevare, ma soltanto come elementi comparativi del suo corretto esercizio.
È esattamente la riproduzione di quel che accade in ambito penale: come in questo le pene si pongono a fronte della conoscenza di fatti di reato e dunque sono esse stesse, anche se solo previste, l’effetto indesiderato e perciò combattuto dall’indagato con l’arma difensiva del silenzio, così avviene in tributario. Infatti, le notizie sfavorevoli al contribuente narrate nel corso di un “interrogatorio” sono fatti dai quali scaturisce, sì la determinazione dell’imposta o della maggiore imposta, ma anche l’applicazione delle sanzioni amministrative (o anche penali).
In queste circostanze, dunque, tanto in diritto penale, quanto in diritto tributario, la sanzione non è un posterius all’esercizio del silenzio, come si deve dire per quelle previste a petto dell’omessa collaborazione, ma viene in considerazione come “antecedente morale” che legittima il privato a non concorrere alla propria incolpazione e ad esercitare la facoltà di tacere.
Ipotesi ulteriori, ma non diverse nella struttura, sono quelle relative alle sanzioni improprie. Qui, però, occorre sforzarsi di non mischiare la tipologia della sanzione, propria o impropria che sia, con i fatti determinanti l’uso del silenzio.
La qualificazione della condotta omissiva alla stregua di violazione ovvero di esercizio del diritto di difesa, non dipende dal fatto che l’amministrazione sia legittimata a ricorrere ad un tipo di sanzione piuttosto che ad un’altra. Dipende dalla fattispecie che determina l’uso del silenzio.
Se il silenzio è esercitato legittimamente e dunque è davvero tale per il diritto, il tipo di sanzione anche solo astrattamente applicabile è irrilevante: che sia propria o impropria poco importa. Sono le circostanze di fatto sulle quali si radica il silenzio che ancora una volta vengono in considerazione, non altro[28]. Purché, ça va sans dire, la conseguenza legata al silenzio sia realmente qualificabile come sanzione, sebbene impropria, secondo i canoni ormai consolidati dell’afflittività[29].
Le conclusioni l’ho già esposte in testa. A chiusura, dunque, ad esse rinvio.
*Professore ordinario di diritto tributario presso l’Università di Siena.
[1] Il lavoro riprende il saggio dal titolo I princìpi del diritto al silenzio in corso di pubblicazione sulla Rivista trimestrale di diritto tributario.
[2] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.
[3] Questo aspetto è ampiamente studiato e non più discusso. Si ritenga sufficiente il rinvio a Corte cost., 10 maggio 2019, n. 117, e per la dottrina a L. Paladin, Autoincriminazioni e diritto di difesa, in Giur. cost., 1965, 312; V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, Giuffrè, 1972, 5 ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2003, 253; P. Moscarini, Silenzio dell’imputato (diritto al), in Enc. Dir., Annali, III, Milano, Giuffrè, 2010, 1079 ss.; G. Stanzione, Autoincriminazione e diritto al silenzio, Padova, Cedam, 2017.
[4] Mi riferisco a Corte Giust., 2 febbraio 2021, C-481/19, D.B. contro Consob, e a Corte Cost., 13 aprile 2021, n. 84. Non mi soffermo ad analizzare minuziosamente queste pronunce, né ripercorro la vicenda che ne sta alla base, ritenendole ormai note. Su di esse, in questa rivista, v. A. Sciacca, Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario, 2021; M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob, 2021; B. Nascimbene, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni, 2021; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione: dal giusto processo al giusto procedimento?, in Riv. trim. dir. trib., 2021.
[5] Cfr. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio del contribuente, in Studi in memoria di Francesco Tesauro, Torino, Utet, 2022, e prima, dello stesso A., Diritto al silenzio del contribuente nell’infedele dichiarazione TARSU, (nota a Cass., sez. trib., 11 febbraio 2005, n. 2823), in Corriere Tributario, 2005, pp. 1839 ss.; Id, Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline. Cedam, Padova, 2012, 31 ss.; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio, cit.
[6] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.
[7] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, Milano, Giuffrè, 2014, passim. Sull’interpretazione, in termini ampi, cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, Cedam, 2003.
[8] Mi sembra che su questo aspetto la dottrina ormai converga unanimemente. Fra i molti, cfr. F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, ETS, 2012; Batistoni Ferrara, Capacità contributiva, in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, Giuffrè, 1999; F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, ETS, 2007; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Padova, Cedam, 1996, e, se si vuole, per ulteriori riferimenti bibliografici, A. Giovannini, Capacità contributiva, in Treccani, 2013.
[9] È la nota e assai efficace espressione utilizzata dalla Corte costituzionale in alcuni suoi arresti. V. Corte Cost., sent. n. 85/2013, per la quale: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Tesi riaffermata dalla stessa Corte in successive pronunce, fra le quali sent. n. 5/2018.
[10] E che il diritto al silenzio si colleghi, proprio, alla dignità dell’individuo è chiaramente detto dalla Corte costituzionale nella già richiamata sent. Cfr. In dottrina, P. Piantavigna, Il diritto del contribuente a non collaborare all’attività accertativa, in Riv. dir. fin e sc. fin., 2013, II, 73 ss.; Id., Osservazioni sul procedimento tributario dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2007, I, 44 ss.; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione europea, Milano, Giuffrè, 2010, 333 ss.
[11] Non mi sfugge, certo, che questo modo di ragionare contrasta con il pensiero e l’opera di una parte consistente della giurisprudenza. Tuttavia, una timida apertura, seppure in un contesto non schiettamente tributario, si è avuta con Corte costituzionale 11 ottobre 2012, n. 223, in Giur. it., 2013, 2471. Ha detto la Corte che l’eccezionalità della situazione economica, se “è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti altrettanto eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui i cittadini necessitano ... è compito dello stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali e i diritti dei singoli, i quali, princìpi, non sono certo indifferenti alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non possono consentire deroghe a primari interessi posti a garanzia, proprio, delle persone”.
[12] Nella tavola del diritto sovranazionale ed in quello nazionale del giusto procedimento, il diritto di difesa è considerato tale anche se esercitato in fasi diverse ed antecedenti a quelle processuali. Su questo aspetto, dottrina unanime e giurisprudenza prevalente concordano. Cfr. per tutti Police, sub art. 24, in Comm. Cost., a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, I, Utet, Torino, 2006, 518 ss.
[13] Come sono ad esempio le fatture, i documenti bancari, le scritture contabili, il bilancio, i database e altri strumenti di conservazione informatica, contratti o altri scritti, anche informali, comunque riferibili allo svolgimento dell’attività.
[14] Oppure strumentali alla verifica della giustezza della sua omessa presentazione e, casomai, alla ricostruzione della capacità contributiva del trasgressore.
[15] Sui poteri d’indagine, cfr. recentemente G. Fransoni, Le indagini tributarie, Torino, Giappichelli, 2020, 45 ss.
[16] A questa conclusione giunge A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio, cit.
[17] E’ possibile che questo sia quel che è accaduto a Cass. Pen, V, n. 3555/2022, chiamata ad esaminare la questione di legittimità riguardante l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi a petto di proventi reato, la cui omissione integra il reato di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000. La Corte l’ha risolta reputando il diritto al silenzio recessivo rispetto al dovere contributivo (art. 53 Cost.) e dunque qualificando come prevalente l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche rispetto all’omessa presentazione della dichiarazione. Credo che il riferimento ai principi costituzionali, qui, non sarebbe stato necessario, poiché il reato che consegue all’omissione dichiarativa non può trovare “copertura” nell’esercizio del silenzio: l’omessa presentazione della dichiarazione è un obbligo autonomamente rilevante, che non ha niente a che vedere con l’esercizio della difesa, come spero di avere chiarito nelle pagine addietro. Piuttosto, l’obbligo di dichiarazione dei proventi illeciti e ancor prima la loro qualificazione come reddito, determina una diversa e ancor più grave lesione dei principi costituzionali e ordinamentali generali, ma non interessa il profilo per come eccepito innanzi alla Corte di Cassazione (se si vuole, A. Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, Giuffrè, 2000, e Id., Proventi e costi di reato in generale nel diritto tributario, in Trattato dir. sanzionatorio tributario, diretto da A. Giovannini, vol. I, Milano, Giuffrè, 2016, 915 ss.).
[18] Non intendo dilungarmi sui caratteri del metodo giuridico e sui criteri di verifica dei risultati dell’interpretazione affinché metodo e criteri si possano considerare scientificamente fondati. Se si vuole, anche per ampi riferimenti alla letteratura, cfr. A Giovannini, Il metodo, i princìpi e il sarcofago, in Riv. dir. trib., 2021, I, 507 ss.
[19] Semplifico molto il ragionamento, prendendo a prestito categorie ed espressioni che la storia del diritto pubblico ha ormai consegnato all’uso, senza avere la prostesa che le parole scelte siano scientificamente esaustive o aggiornate alla modernità.
[20] Il fatto, poi, che il procedimento si debba informare alle regole di lealtà, parità, trasparenza, buona fede, insomma alle regole del “giusto procedimento”, non annulla il potere autoritativo della pubblica amministrazione. Piuttosto quelle regole lo disciplinano con rigore, costringendo il suo uso a venire allo scoperto ed a giustificarsi, proprio, alla loro luce.
[21] Mi riferisco agli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 e agli omologhi artt. 32 e 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, ad esclusione delle ipotesi che saranno specificate nel successivo § 6.
[22] Art. 32, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, e art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.
[23] Art. 32, n. 4 della legge sull’accertamento, e art. 51, n. 3, della legge sull’IVA.
[24] Si ricordi che, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, gli agenti possono procedere a perquisizione personale, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, all'esame di documenti ed a richiedere notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale, ferma restando la norma di cui all'articolo 103 c.p.p. sui vincoli e sulla illegittimità di ispezioni, perquisizioni e sequestri presso i difensori (art. 51 d.P.R. n. 633).
[25] Su queste categorie, cfr. ampiamente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1317 ss., e prima, Id., Sanzioni improprie ed imposizione tributaria, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, ESI, 2006, 519 ss., nonché R. Alfano, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Napoli, ESI, 2020, 289 ss.
[26] Può essere il caso dell’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, nelle parti in cui si riferisce o si può applicare alla mancata comparizione del contribuente, alla mancata risposta a questionari o alla mancata collaborazione in sede di accesso e ispezione quando le richieste avrebbe determinato una “confessione”.
[27] Così Corte Cost., sent. n. 313 del 1995.
[28] Così si può dire per l’accertamento extra contabile previsto dall’art. 39, comma 2, lettera d-bis), del d.P.R. n. 600 del 1973, se fondato unicamente sulla mancata “confessione” del contribuente o sulla mancata risposta ai questionari. Diverso è il discorso sulle preclusioni probatorie di cui all’art. 52, comma 5 e 10, del d.P.R. n. 633 del 1972, tradizionalmente qualificate come sanzioni improprie. Il fatto che i documenti o le scritture, comprese quelle contabili, non esibiti, consegnati o prodotti all’amministrazione non siano più utilizzabili come corredo probatorio favorevole al contribuente, determina senz’altro un vulnus costituzionale. Ma non è corretto ritenere che esso sia conseguenza della compressione del diritto al silenzio. Quel vulnus, che pure è evidente, deve essere affrontato e risolto con altri metri costituzionali, non con quelli riferibili al “nemo tenetur se detegere”, che nelle ipotesi sarebbe improprio invocarlo.
[29] Molto chiaramente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, cit., 1324 ss.
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