ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto.
Conclusioni di Antonio Ruggeri
Il lascito della lezione mazziniana sui doveri dell’uomo per la Costituzione repubblicana
Sommario: 1. Pace e dignità quali beni assoluti, in funzione della cui salvaguardia si giustificano il diritto fondamentale all’esercizio dei doveri e il dovere parimenti fondamentale di far valere i diritti. – 2. Non v’è prius o posterius nel rapporto tra diritti e doveri fondamentali che, proprio perché tali, si dispongono sullo stesso piano, dandosi mutuo sostegno e alimento. – 3. Il magistero mazziniano su libertà e solidarietà, patria e umanità e il segno da esso lasciato sulla Costituzione. – 4. La triade composta dai doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà e cooperazione, la loro formidabile vis espansiva, l’afflato etico che accomuna la lezione mazziniana e la Costituzione. – 5. Una succinta notazione finale a riguardo del mutuo sostegno che etica e diritto hanno da darsi al fine della loro ottimale affermazione.
1. Pace e dignità quali beni assoluti, in funzione della cui salvaguardia si giustificano il diritto fondamentale all’esercizio dei doveri e il dovere parimenti fondamentale di far valere i diritti
Mai come nella presente, particolarmente sofferta congiuntura, attraversata dal soffio impetuoso di venti di guerra che spazzano il cuore dell’Europa e a tutt’oggi profondamente segnata dalla pandemia sanitaria[1], il tema dei doveri costituzionali è tornato a riproporsi in modo così pressante ed urgente[2], interpellando le coscienze di ciascuno di noi ed obbligando ad una (per quanto possibile, serena e disincantata) riflessione, idonea a rimettere in discussione – se del caso – antiche e consolidate credenze.
Accolgo volentieri l’invito rivoltomi dall’amico Roberto Conti a dare un contributo al dibattito sollecitato e ospitato da Giustizia insieme sul significato complessivo che può oggi assegnarsi al magistero mazziniano sui doveri dell’uomo[3], mettendomi in coda agli interventi di studiosi accreditati che hanno offerto a tutti noi spunti di ordine teorico-ricostruttivo di particolare interesse. Preferisco soffermarmi, con la massima rapidità, sui punti cruciali evocati dai quesiti sottopostici non rispondendo a questi ultimi separatamente ma componendoli in un quadro unitario e facendone oggetto di un unico, seppur internamente articolato, ragionamento. Prima, però, di richiamare i passi maggiormente salienti della nota opera del pensatore genovese ed allo scopo di cogliere e portare allo scoperto il filo nascosto che, a mio modo di vedere, la lega al quadro costituzionale, si rende necessario svolgere alcune notazioni di carattere teorico concernenti il modo con cui i doveri costituzionali si pongono in rapporto con i diritti fondamentali.
Avverto subito che la illustrazione del rapporto in parola avrebbe richiesto uno spazio ben più consistente di quello di cui ora dispongo. Mi trovo pertanto obbligato a far luogo ad una sintesi drastica che obbliga a vistoso sacrificio taluni passaggi argomentativi che, per vero, presenterebbero non secondario interesse al fine dell’analisi che mi accingo a svolgere ma che devono trovare altrove il luogo per la loro adeguata rappresentazione.
Dico subito che considero la lezione mazziniana ancora oggi di straordinaria attualità e marcato il segno da essa lasciato sull’impianto costituzionale, una volta epurata – naturalmente – dell’ispirazione religiosa che la pervade ed anima e riconciliata dunque con il carattere laico proprio della Carta repubblicana[4]. Certo, il contesto storico-politico in cui essa è maturata è profondamente diverso da quello odierno. L’idea di fondo però – come si tenterà di mostrare – non per ciò è venuta meno; piuttosto, si tratta di adattarla al nuovo contesto e di portarla – fin dove possibile – a frutto. D’altronde, un tempo di lotta era quello in cui è maturata la riflessione mazziniana e un tempo di guerra è quello presente. Una guerra – tengo a precisare, con riserva di approfondimenti altrove – che però non è come tutte le altre che si sono avute (e si hanno) nel pianeta, seminando distruzione e morte, vuoi per il fatto che essa ha per teatro l’Europa, laddove (non a caso) è cresciuto, diffondendosi quindi anche al di fuori del vecchio continente, il seme del secondo conflitto mondiale, e vuoi (e soprattutto) perché qui – se ci si pensa – si fronteggiano due concezioni ordinamentali e di vita di relazione reciprocamente incompatibili, l’una avendo il suo cuore pulsante nel riconoscimento dei diritti fondamentali e, specularmente, dei doveri inderogabili di solidarietà, ovverosia (e in breve) nel modello liberal-democratico, l’altra di contro misconosce i diritti stessi e, con essi, il modello di organizzazione funzionale alla loro salvaguardia. Il rischio, insomma, è che possa considerarsi prossimo il momento del redde rationem, dal momento che delle concezioni in parola si fanno portatori schieramenti di Stati pronti a farle valere ricorrendo anche all’uso delle armi.
Ebbene, il primo dei doveri gravanti su tutti noi è quello di batterci con tutte le forze di cui disponiamo per difendere con le unghie e coi denti il modello di società e di Stato che abbiamo ereditato proprio da coloro che vissero la sofferta ma esaltante stagione risorgimentale, se del caso dando dunque vita ad un nuovo Risorgimento e chiamando a raccolta al fine della sua affermazione quanti, nel nostro Paese come altrove, si riconoscono nel modello della liberal-democrazia: un modello nel quale centralità di posto hanno la pace e la dignità della persona quale centro di imputazione e – piace a me dire, riprendendo la mirabile (per sintesi e forza espressiva) formula dell’art. 2 della nostra Carta – punctum unionis di diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà.
La pace – mi sono sforzato di chiarire assai di recente e tenterò di precisare ancora meglio a momenti – è un bene assoluto per la collettività e l’intera umanità, così come lo è la dignità per ogni essere umano, che si pone al centro della costruzione ordinamentale d’ispirazione liberale[5]: la dignità appare, infatti, ai miei occhi essere una sorta di chiodo saldamente conficcato nella roccia dal quale, come in un’ideale scalata alpinistica, i componenti la comunità, tutti legati in cordata l’uno all’altro in un comune destino collettivo, si tengono per portarsi avanti, sempre più in alto, perlomeno fin dove le forze li assistano e la fortuna li soccorra.
Pace e dignità condividono, dunque, la qualità, loro propria ed irripetibile, della assolutezza e, perciò, della naturale refrattarietà a soggiacere a bilanciamento con qualsivoglia altro bene pure costituzionalmente protetto. Lo sono per il fatto di porsi quali precondizioni per il riconoscimento e – ciò che più importa – l’effettiva tutela di ogni diritto fondamentale, come pure per l’adempimento dei doveri costituzionalmente previsti, ai quali pertanto nessuno può, in alcun caso o modo, sottrarsi. Sono, insomma, degli a priori costituzionali, autentici punti fermi in funzione dei quali si giustificano e dai quali traggono costante alimento tanto i diritti fondamentali quanto i doveri, essi pure fondamentali (per quanto non così espressamente qualificati), per la elementare ragione che senza o al di fuori di essi non possono esservi gli stessi diritti e, senza questi ultimi, non v’è e non può esservi “Costituzione”, nell’accezione a tutt’oggi insuperata che se ne dà all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Mi sta molto a cuore invitare a fermare l’attenzione sull’affermazione da ultimo fatta, dal momento che proprio in essa si trova la chiave interpretativa del senso profondo dei quesiti postici e la base su cui può dunque poggiare la risposta agli stessi data.
Ora, è bene non perdere, neppure per un momento, di vista che i diritti fondamentali non soltanto si fanno reciproco rimando, componendo un “sistema” unitario ed inscindibile nelle sue parti, ma anche, visti nel loro insieme, si implicano in modo inscindibile con i doveri, giustificandosi a vicenda, dandosi cioè costantemente e necessariamente mutuo soccorso ed alimento, al punto che gli uni non sarebbero pensabili senza gli altri, così come questi senza quelli.
V’è di più. Si danno circostanze al verificarsi delle quali si tocca con mano la reciproca integrazione e persino la immedesimazione che viene a determinarsi tra di essi.
Non molto tempo addietro, ho precisato[6] questo concetto rilevando come ciascuno di noi può trovarsi a rivendicare il diritto fondamentale di esercitare i propri doveri[7] e, circolarmente, il dovere di far valere i propri diritti[8].
Solo un paio di esempi per chiarire il senso di quest’affermazione che, ad una prima (ma erronea) impressione, potrebbe apparire singolare o, diciamo pure, bizzarra.
Ebbene, si pensi – per tornare alla notazione svolta all’inizio – all’ipotesi, oggi meno fantasiosa che mai, che il Paese sia attaccato dal nemico ed obbligato perciò ad entrare in guerra. Come negare, in questa avversa congiuntura, il diritto dei singoli e dell’intera collettività all’esercizio del dovere di difesa della patria? Solo facendolo effettivamente valere al massimo delle sue potenzialità espressive, possiamo infatti sperare di preservare l’integrità territoriale, i nostri beni e, soprattutto, la vita delle persone minacciate, assicurando la stessa trasmissione dell’ordinamento nel tempo[9], la quale poi si riporta non soltanto al dovere di difesa suddetto ma, allo stesso tempo, anche a quello di fedeltà alla Repubblica, col quale il primo fa tutt’uno, se è vero – com’è vero – che in una delle sue plurime e più genuine espressioni[10] il dovere in parola chiama a raccolta i componenti il gruppo sociale in vista del conseguimento del bene primario della integra trasmissione dell’ordinamento. Similmente, poi, per il caso di un moto eversivo dell’ordine costituzionale affermatosi in ambito interno, per il quale, ancora una volta, viene in rilievo il diritto e dovere a un tempo di resistenza individuale e collettiva, a difesa del quadro democratico sotto attacco degli artefici di un colpo di Stato[11].
D’altro canto, il dovere di esercitare i diritti (e di esercitarli magis ut valeant) ha una sua pronta ed immediata spiegazione nel fatto che, non mettendoli al riparo dalle insidie loro mosse dai prevaricatori e rassegnandosi supinamente davanti a chi li calpesta o ignora, per un verso, si abdicherebbe alla dignità – ciò che non è, in alcun caso o modo, ammissibile, se si conviene, come deve convenirsi, a riguardo della sua indisponibilità[12] – e, per un altro verso, verrebbero fatalmente ad impiantarsi ed a diffondersi pratiche imitative degeneri che porterebbero alla lunga allo sfilacciamento del tessuto sociale e, perciò, nuovamente, alla stessa dissoluzione dell’ordinamento.
Si ha, dunque, conferma – a me pare – di una indicazione nella quale da oltre trent’anni mi riconosco[13], secondo cui nella struttura dei diritti fondamentali si rinviene una componente deontica, che concorre a darne la essenza, il tratto distintivo dai diritti che fondamentali non sono. Altro discorso, poi, che però non possiamo qui nuovamente riprendere, è come si riconoscano gli uni dagli altri[14]. Per ciò che qui, in modo appena allusivo, può dirsene, a mio modo di vedere[15] i primi danno voce a bisogni elementari dell’uomo senza il cui appagamento l’esistenza stessa non sarebbe più – come dice la Carta[16] – “libera e dignitosa”. Se, poi, ci si interroga in merito ai c.d. nuovi diritti, costituzionalmente innominati, e ci si chiede pertanto come possano riconoscersi, senza soverchie incertezze, i bisogni suddetti, ebbene allo scopo non può che farsi luogo – a me pare – alla ricognizione di talune consuetudini culturali di riconoscimento degli stessi profondamente radicate e diffusamente avvertite in seno al corpo sociale. D’altronde, la stessa Costituzione e, a seguire, la normazione sottostante adottata al fine di darvi la prima, diretta e necessaria specificazione-attuazione, come pure la giurisprudenza in ciascuna delle sue articolazioni ed espressioni (comune, costituzionale, sovranazionale), sono chiamate, ciascuna per la propria parte, a dar voce ai bisogni in parola[17]. Ciò che, nondimeno, maggiormente importa ora mettere in chiaro è il rapporto di filiazione diretta che viene ad intrattenersi tra i diritti fondamentali e la dignità della persona; la stessa libertà, peraltro, si spiega e giustifica nel suo porsi in funzione servente nei riguardi della dignità stessa che, pertanto, si conferma essere – piace a me dire – un autentico valore “supercostituzionale”[18], anzi l’unico vero valore, al pari di quello della pace, dotato di siffatta qualità. Serventi nei riguardi della dignità sono altresì i doveri che, al pari dei diritti, concorrono a darvi senso e concretezza in alcune delle più salienti esperienze di vita sì da potersi affermare al pieno delle sue formidabili potenzialità espressive.
2. Non v’è prius o posterius nel rapporto tra diritti e doveri fondamentali che, proprio perché tali, si dispongono sullo stesso piano, dandosi mutuo sostegno e alimento
Se le cose stanno così come sono qui viste, se ne ha una prima conseguenza sulla quale giova fermare particolarmente l’attenzione, vale a dire che tra i diritti fondamentali e i doveri costituzionali non si dà alcuna scala di priorità astrattamente preconfezionata, un ordine cioè precostituito che veda ora questi ed ora quelli porsi in posizione privilegiata rispetto agli altri. Si dà, invece e naturalmente, un ordine che si rifà di volta in volta, in ragione delle peculiari e complessive esigenze dei casi, in sede di “bilanciamento”, così come – è risaputo – d’altronde si ha per gli stessi diritti inter se. Quanto ai doveri però – e il punto è molto importante e merita una speciale considerazione – la loro soggezione a “bilanciamento” appare essere problematicamente predicabile, perlomeno con riguardo a taluni di essi o ad alcune loro espressioni.
Si torni, ad es., a riconsiderare con la massima rapidità il dovere di fedeltà alla Repubblica che, nella sua più densa e qualificante accezione, quale si coglie ed apprezza in prospettiva assiologicamente orientata, rimanda ai principi fondamentali nel loro fare “sistema”, nei riguardi dei quali chiede ai componenti la comunità statale, prima (e più) ancora che rispetto accompagnato da comportamenti (in forma sia attuosa che omissiva) ad esso conseguenti, adesione, intimamente e intensamente avvertita.
Si fermi un attimo l’attenzione su quest’affermazione, prima di andar oltre. Con essa infatti intendo mettere in mostra la densa e pregnante connotazione assunta dai doveri costituzionali (qui, in ispecie, da quello di fedeltà alla Repubblica) una volta posti sotto la luce abbagliante dell’etica: in linea, per questo verso, come si vedrà a momenti, con una pregnante indicazione metodica offerta dalla riflessione mazziniana. Il dovere di fedeltà per come risulta dalla fredda lettera degli enunciati parrebbe accontentarsi dell’adozione di certi atti o comportamenti (attuosi ovvero omissivi) da parte dei componenti la comunità statale; rivisto, però, in una dimensione eticamente orientata è – come si diceva – adesione ai valori fondamentali positivizzati nella Carta, a ciò che essi hanno rappresentato dopo l’immane tragedia della seconda grande guerra ed a ciò che ancora al presente (e, anzi, proprio oggi) possono e devono rappresentare per ciascuno di noi.
Ora, tra i principi fondamentali ai quali naturalmente rimanda la fedeltà alla Repubblica vi è – come si sa – anche quello della pace che – è doloroso dover proprio nella presente congiuntura rammentare – non è, in alcun caso o modo, disponibile, per la elementare ragione che chi fa la guerra con finalità di aggressione, per ciò stesso, non riconosce alcun valore all’intera tavola dei diritti fondamentali e, dunque, alla dignità e, prima ancora, alla stessa vita degli esseri umani, vale a dire al “primo dei diritti inviolabili dell’uomo”[19].
C’è, dunque, il dovere di difesa della patria, dotato – come si sa – di esplicito fondamento nella Carta che però fa il suo ingresso sulla scena solo in occasione di attacchi portati specificamente al nostro Stato. Ma c’è anche (e prima ancora) un dovere gravante su ciascuno di noi di operare fattivamente per la salvaguardia della pace e della giustizia fra le Nazioni, il cui fondamento diretto è nel combinato disposto di cui agli artt. 11 e 54 ma che può farsi pianamente discendere dall’insieme dei valori fondamentali cui dà voce la Carta, per la elementare ragione che l’offesa recata alla pace ridonda a carico dell’intero sistema dei valori suddetti[20], in ispecie a quelli di libertà eguaglianza democrazia giustizia sociale (che riporto qui – tengo, ora, a rimarcare – non separati da virgola, come usualmente invece si fa, perché non possono esserlo, facendo nell’esperienza tutt’uno e solo assieme tenendosi assieme[21]).
Il punto è molto importante e – come si diceva – richiede un supplemento di riflessione ad esso specificamente dedicata.
La comune dottrina propende – com’è noto – a proiettare in primo piano i diritti, assumendo che essi soltanto si pongano quale il cuore pulsante della Costituzione, ciò che ne dà nel modo più genuino e fedele l’intima natura, l’essenza appunto[22]. È un modo di vedere le cose, questo, che ha per vero una sua innegabile giustificazione, apprezzabile in prospettiva tanto storico-politica quanto positiva. Sappiamo tutti, infatti, che la “lotta per la Costituzione” che infiammò i moti risorgimentali era, in buona sostanza, la lotta per i diritti[23] e che, perciò, non a caso, proprio di questi ultimi (e non pure dei doveri), nel già richiamato art. 16 della Dichiarazione del 1789, si fa esplicita menzione, quale una delle due componenti (e, anzi, proprio quella maggiormente qualificante[24]), unitamente alla separazione dei poteri. della Costituzione.
Diritti e Costituzione, insomma, sono una cosa sola[25]; ed è perciò che – come si è tentato di mostrare altrove – la teoria dei diritti è la stessa teoria della Costituzione, riguardata nel suo profilo maggiormente caratterizzante ed espressivo.
A portare, dunque, fino ai suoi lineari e conseguenti svolgimenti questo schema, se ne ha (o, meglio, se ne avrebbe) che i doveri possono essere imposti unicamente a condizione (e dopo) che siano stati riconosciuti ed effettivamente salvaguardati i diritti. Di qui, appunto, la primauté assiologico-positiva che spetterebbe ai primi rispetto ai secondi[26].
Questo schema, tuttavia, parrebbe essere esattamente ribaltato su sé stesso dal magistero mazziniano, secondo il quale i diritti si pongono quale “conseguenza di doveri adempiti”[27]: è da questi, perciò, che sgorgano quelli, non viceversa[28].
A mia opinione, l’una e l’altra rappresentazione teorica appaiono essere radicali e deformanti, non dandosi né un prius né un posterius tra situazione giuridiche soggettive fondamentali[29], proprio perché… tali, tutte parimenti fondamentali[30], caratterizzanti l’essenza costituzionale e, perciò, egualmente necessarie e bisognose di essere fatte valere al massimo delle loro capacità, pur soggiacendo – com’è naturale che sia – ad operazioni di “bilanciamento” secondo i casi.
Se la visione mazziniana appare dunque essere parziale e non fedelmente espressiva dell’idea liberale di Costituzione, non per ciò tuttavia essa smarrisce il suo significato profondo e – come si diceva – la sua straordinaria attualità.
Perfettamente coerente con l’impianto costituzionale, anche dopo l’avvento dei c.d. diritti sociali e il loro riconoscimento nelle Carte venute alla luce all’indomani del secondo conflitto bellico, è l’idea – direi – non “egoistica” dei diritti fondamentali che, nuovamente, proprio perché tali, richiedono di essere messi in campo e fatti valere non già per l’esclusivo tornaconto di chi ne reclama la tutela ma anche (e soprattutto) per il bene dell’intera collettività (e, ancora una volta, viene così a rimarcarsi quella loro componente deontica, cui si faceva poc’anzi cenno). Esemplare, al riguardo, è la chiara e lapidaria affermazione che si legge nella famosa opera mazziniana che ha dato lo spunto per questo studio, secondo cui scopo della vita di ciascun individuo non è “quello d’essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori”[31]. Colgo in ciò, se non ne traviso il senso, la fortunata intuizione che vede libertà e solidarietà mirabilmente congiunte e, anzi, fuse tra di loro in una sintesi mirabile, gravida di implicazioni e di benefici effetti sia per i singoli che per l’intera collettività.
3. Il magistero mazziniano su libertà e solidarietà, patria e umanità e il segno da esso lasciato sulla Costituzione
Allo stesso tempo, non taciuta è la consapevolezza che la libertà è vuota parola priva di senso alcuno in un contesto sociale profondamente segnato da non rimosse e gravi diseguaglianze, tra le quali quelle riportabili alla diversità dei sessi, cui il patriota genovese assegna particolare e preoccupato rilievo[32]. La libertà – dice Mazzini – di chi ha solo le braccia da offrire come “arnesi di lavoro” e null’altro possiede è una “illusione, un’amara ironia”[33]. È anche (e soprattutto) per ciò che, con inusitata crudezza ed asprezza linguistica, si rileva essere la società in cui viviamo “incadaverita”.
L’idea del fattivo e costruttivo operare, in spirito di autentica e disinteressata solidarietà, è poi ribadita nella rappresentazione mazziniana del rapporto tra individuo e legge.
Qui, il dato di maggior significato e meritevole di essere messo in evidenza si apprezza in relazione alla natura dei vincoli discendenti dalla legge, a giudizio di Mazzini non meramente negativi bensì anche positivi. Esemplare, al riguardo, l’affermazione secondo cui “non basta limitarsi a non operare contro la legge: bisogna operare a seconda della legge. Non basta il non nuocere, bisogna giovare ai vostri fratelli”[34].
Viene così a determinarsi la conversione della solidarietà in fraternità[35]: una fraternità sollecitata a spiegarsi a tutto campo, non soltanto verso chi è vicino ma anche verso chi è lontano[36], non solo verso chi è presente, specie se particolarmente bisognoso di amorevoli cure[37], ma anche verso chi verrà[38]. Quest’apertura a raggiera degli effetti dei diritti fattisi doveri è enunciata con particolare vigore espressivo soprattutto nel cap. IV, dedicato ai Doveri verso l’umanità: termine quest’ultimo che in sé racchiude siffatte plurime valenze. Una umanità che, nell’ideale mazziniano, è vista come una vera e propria “famiglia”, caratterizzata dall’armonia di intenti e di azione di tutti i suoi componenti, non a caso chiamati “fratelli”[39].
Come si vede dalle scarne ed approssimative notazioni svolte, patria ed umanità, riguardati dal punto di vista dei doveri, non soltanto non sono concetti incompatibili ma, di più, appaiono essere complementari e bisognosi perciò di affermarsi congiuntamente.
È chiaro che il contesto odierno è – come si diceva – assai diverso da quello che aveva sotto gli occhi Mazzini al tempo in cui ci consegnava le sue dense ed approfondite riflessioni. Le indicazioni di principio, di particolar significato etico, tuttavia resistono all’usura del tempo e, anzi, forse si presentano, per taluni versi, maggiormente suggestive, stimolanti, pressanti.
Si pensi, per fare solo il primo esempio che viene in mente, all’impegno immane oggi richiesto per un congruo adempimento dei doveri verso le generazioni future e verso l’umanità, cui si è appena fatto cenno, dalla revisione degli artt. 9 e 41 della Carta. Il riferimento alla salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema[40] sollecita infatti – com’è di tutta evidenza – a produrre uno sforzo collettivo poderoso, in spirito di solidale e fattiva cooperazione sia di coloro che operano in ambito interno e sia dei soggetti della Comunità internazionale.
E, ancora, si pensi a come può (e deve) essere oggi intesa la patria, al dovere su ciascuno di noi gravante di difenderla, preservarne l’identità e trasmetterla integra – sempre che la difficilissima congiuntura presente ce lo consentirà… – alle generazioni a venire[41], ancora una volta in considerazione del presente contesto segnato da vincoli crescenti che vengono dalla Comunità internazionale, nonché da una integrazione sovranazionale che, pur con moto non lineare e tra innegabili difficoltà, si va tuttavia portando faticosamente avanti.
L’identità della patria si coglie ed apprezza sotto plurimi angoli visuali ed a più piani di esperienza. È fatta di quel bagaglio di lingua, tradizioni e, in una parola, cultura che connota e distingue la singola Nazione dalle altre, ancorché affini per la comune appartenenza alla grande e nobile famiglia delle liberal-democrazie. I principi fondamentali della Carta ne danno una emblematica, pregnante rappresentazione[42]; ed è perciò che in funzione servente nei riguardi della patria, specie nella sua declinazione assiologicamente pregnante, non si pone – come si è accennato e si tenta ora di precisare meglio – solo il dovere che ad essa fa nominalmente riferimento, quello di difesa, ma i doveri costituzionali tutti nel loro fare “sistema” sia inter se che con i diritti fondamentali[43]. Negli uni e negli altri assieme, infatti, si specchiano i valori di libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia sociale: valori transepocali, seppur – ahimè (ed è storia triste di oggi) – non autenticamente (ma tendenzialmente) universali. Valori comuni – si diceva – agli Stati di tradizioni liberali, come pure – non si dimentichi – all’Unione europea, che nondimeno si rivestono quindi di forme e si caricano di valenze varie da luogo a luogo e, per uno stesso luogo, nel tempo[44]: un patrimonio assiologico comune che, tuttavia, è stato (ed è) messo a dura prova da condizioni oggettive di contesto difficilissime e, persino, per taluni aspetti, proibitive, che obbligano l’Unione a farsi carico di problemi invero di ardua soluzione, offrendo dunque credibili testimonianze di essere davvero ciò che il nome che porta dice essere[45].
D’altro canto, è pur vero che le pretese avanzate a salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo sono cresciute in misura esponenziale e non possono, dunque, essere poste a raffronto con quelle che facevano capo alle libertà “classiche” rivendicate al tempo della riflessione mazziniana. Sono, anzi, pretese che aumentano di continuo e fanno sì, dunque, che si allarghi altresì la forbice tra ciò che in concreto si fa da parte dei pubblici poteri e ciò che dovrebbe ancora di più farsi per darvi appagamento. La qual cosa, poi, si traduce in gravi tensioni e non rimosse contraddizioni emergenti in seno al corpo sociale, foriere le une e le altre di sviluppi ad oggi imprevedibili e – temo – nefasti.
4. La triade composta dai doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà e cooperazione, la loro formidabile vis espansiva, l’afflato etico che accomuna la lezione mazziniana e la Costituzione
Ogni medaglia ha, tuttavia, il suo rovescio. Si fa, dunque, per un verso, sempre più vistosa la pressione sociale nei riguardi dell’apparato volta a far sì che si disponga di spazi viepiù estesi entro cui vedere affermati i diritti: quelli ereditati dalla esaltante stagione liberale e i nuovi venuti successivamente alla luce, solo di alcuni dei quali si ha – com’è noto – esplicito riscontro in Costituzione, mentre altri hanno avuto riconoscimento con legge comune e, soprattutto, per il tramite di una sensibile e coraggiosa giurisprudenza, interna e sovranazionale. Per un altro verso, però, si fanno ancora più gravosi i doveri. Non è – si faccia caso – tanto una questione di quantità quanto di qualità. E, per avvedersene, è sufficiente tenere a mente le implicazioni che si danno tra i tre doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà, cooperazione[46].
Ciascuno di essi esibisce una formidabile vis espansiva, venendo pertanto ad occupare porzioni del campo materiale in cui si dispongono gli altri e, perciò, a confondersi con essi, fino a fare tutt’uno. Si ha, insomma, conferma di quella vocazione irresistibile che è propria di ogni situazione soggettiva di rilievo costituzionale ad integrarsi fino ad immedesimarsi del tutto con le altre. Alcune delle più salienti esperienze del tempo presente parrebbero, dunque, riportarsi all’uno come all’altro dei doveri componenti la triade in parola. Se ne ha, infatti, riprova non soltanto se si presta attenzione ai comportamenti, attuosi ovvero omissivi, dei componenti il gruppo sociale ma anche con riguardo all’azione dei pubblici poteri e della stessa Repubblica vista nel suo insieme.
Si pensi, ad es., ai vincoli che connotano le relazioni tra gli Stati appartenenti all’Unione che possono, a seconda della prospettiva da cui le stesse sono riguardate, riportarsi ora al principium cooperationis tra gli Stati ed ora a quello della mutua solidarietà. O ancora si pensi al dovere di fedeltà alla Repubblica che, rimandando – come si diceva poc’anzi – all’intera tavola dei principi fondamentali dell’ordinamento, per ciò stesso evoca in campo proprio la solidarietà, nelle sue plurime articolazioni e valenze.
Il vero è che ai diritti così come ai doveri si applica l’ingranaggio dei vasi comunicanti che si trasmettono a vicenda parte dei contenuti in ciascuno di essi ospitati, rendendosi pertanto assai problematico, specie in talune circostanze, il mantenimento della reciproca tipizzazione.
Ebbene, se crescono le pretese che fanno capo ai diritti e crescono pure quelle legate ai doveri, viene naturalmente a mettersi viepiù in evidenza il carattere etico della Costituzione.
Dando voce ai valori fondamentali che hanno fuori del diritto l’humus naturale nel quale si radicano e crescono, la Costituzione si conferma essere, in nuce, la legge fondamentale eticamente connotata per antonomasia; e le due più qualificanti espressioni di questa che è la vera anima costituzionale sono, appunto, i diritti e i doveri, nel loro fare “sistema” unitariamente significante.
Ebbene, la riflessione mazziniana e la Costituzione condividono un afflato etico idoneo a pervadere ogni vicenda umana, specie nelle sue più salienti espressioni, quali appunto si rendono visibili – come si è venuti dicendo – per il tramite dei diritti e dei doveri costituzionali[47]. Proprio per il fatto di rinvenire nella dimensione etica l’humus naturale nel quale si radicano e crescono, diritti e doveri hanno in interiore hominis la fonte da cui senza sosta si alimentano; e, tuttavia, la sola dimensione etica di per sé non basta. Occorre anche il sussidio apprestato dal diritto, strumento elettivo perché gli uni e gli altri possano farsi valere, alle condizioni oggettive di contesto.
Se n’è avuta una lampante, particolarmente attendibile, conferma proprio in occasione del dilagare della pandemia sanitaria che ad oggi ci affligge ed inquieta. Così, l’obbligo vaccinale è stato vigorosamente e ripetutamente caldeggiato, in primo luogo, dagli scienziati e quindi dagli stessi massimi organi di apparato, a partire dal Capo dello Stato e dal Governo che lo hanno appunto rappresentato quale dovere morale da adempiere con spirito di genuina, intimamente avvertita, solidarietà. La risposta del corpo sociale – come si sa – non è venuta meno. E, tuttavia, il modo più efficace per assicurare la massima diffusione del vaccino è – a me pare[48] – quello di prescriverne il carattere anche giuridicamente obbligatorio per tutti (eccezion fatta, naturalmente, per coloro ai quali, per ragioni di età o di salute, è sconsigliato).
5. Una succinta notazione finale a riguardo del mutuo sostegno che etica e diritto hanno da darsi al fine della loro ottimale affermazione
Il vero è che etica e diritto hanno da darsi – è ormai provato – mutuo sostegno. L’una proietta un fascio di luce lungo gli itinerari intrapresi dal secondo, il quale, a sua volta, col fatto stesso di ispirarsi a quella e di raccoglierne le più salienti espressioni, vi dà voce e ne consente l’ottimale radicamento nell’esperienza. Simul stabunt vel simul cadent, insomma.
L’orizzonte teorico avuto di mira dalla lezione mazziniana sui doveri si arrestava, in buona sostanza, ai confini, peraltro opportunamente rimarcati, della dimensione etica, non percependosi tuttavia fino in fondo le formidabili risorse di cui il diritto dispone e che può mettere a frutto al fine della diffusione e del massimo radicamento dei precetti etici in seno al corpo sociale. La Carta repubblicana ha raccolto ed originalmente rielaborato il senso profondo di questo magistero, offrendogli pertanto opportunità per farsi ancora oggi valere che altrimenti non avrebbe avuto.
Rimane, poi, da vedere se, nel travagliato presente, si danno davvero le condizioni oggettive perché la pianta dei doveri possa crescere e portare i frutti sperati. Molti segni, invero, farebbero pensare che essa possa appassire o rivelarsi sterile; e il conflitto tra Russia ed Ucraina, qualora dovesse – come, invero, è da temere – contagiare anche altri Paesi, fino ad assumere – Dio non voglia – carattere mondiale, potrebbe soffocare ogni residua aspettativa. La storia, d’altronde, insegna che ci sono momenti nel corso delle umane vicende in cui si mette in moto un meccanismo perverso che determina una sorta d’impazzimento collettivo incontrollabile, perlomeno fintantoché non si riesca a far tacere il sordo rumore delle armi. L’uomo dispone tuttavia – non si dimentichi – di formidabili risorse morali, che dalla lezione mazziniana e dall’intima adesione ai valori costituzionali possono (e devono) trarre costante e copioso alimento ed alle quali dunque attingere per tenere accesa, pure nei momenti più bui, la fiammella della speranza.
[1] … specie per i riflessi profondi che ha avuto, da noi come altrove, sull’economia e sui diritti fondamentali (a riguardo dei quali, da ultimo, in prospettiva comparata, AA.VV., I diritti fondamentali in epoca di pandemia: esperienze a confronto, a cura di G. Battaglia - G. Famiglietti - L. Madau, Pisa University Press, Pisa 2022).
[2] Torna, per vero, a più ondate ad affacciarsi, con andamento carsico, per quanto di sicuro non abbia manifestato (e seguiti a non manifestare) la stessa seduzione del tema dei diritti fondamentali. È pure vero, però, che non di rado chi tratta dei primi fa riferimento anche ai secondi, e viceversa (indicazioni in A. Spadaro, Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti fondamentali. Lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, in Pol. dir., 1/2006, 167 ss.; AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - E. Grosso - J. Luther, Giappichelli, Torino 2007; AA.VV., Diritti e doveri, a cura di L. Mezzetti, Giappichelli, Torino 2013; A.M. Poggi, I diritti delle persone. Lo Stato sociale come Repubblica dei diritti e dei doveri, Mondadori, Milano 2014, e AA.VV., Cos’è un diritto fondamentale?, a cura di V. Baldini, Editoriale Scientifica, Napoli 2017; altre indicazioni, in F. Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, Editoriale Scientifica, Napoli 2014 e R. Bin, Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, Milano 2018). I doveri tuttavia – come rammenta ora I. Massa Pinto, Doveri, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, 289 ss., spec. 291 ss. – si sono storicamente trovati nei documenti costituzionali in una condizione di “minorità” rispetto ai diritti restando “per lungo tempo confinati in una sfera morale”.
[3] Faccio qui riferimento alla versione della nota opera, venuta alla luce – come si sa nel 1860, quale edita da La Nuova Italia, Firenze 1972. Il seme della riflessione mazziniana, peraltro, si rinveniva già nella sua opera Fede ed avvenire del 1835, nella quale era già nitidamente presente il debito della sua teologia politica nei riguardi del pensiero di Lessing [rimarca il punto, ora, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, in Federalismi (www.federalismi.it), 4/2021, 10 febbraio 2021, spec. 325].
[4] Va, nondimeno, avvertito che la religiosità di Mazzini consta – com’è stato messo in chiaro da L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit. – di una “doppia anima”, quale “fatto politico e sociale (ovvero ‘strumento’ di potere) e […] come atto, invece, di fede individuale”.
Sulla visione escatologica mazziniana si è, di recente, soffermato V. Tondi della Mura, nello scritto sopra cit., spec. 322 ss. e 328 ss., a cui opinione la teorica del patriota genovese sarebbe pervenuta all’Assemblea Costituente “oramai sfiancata dalla storia” e non avrebbe pertanto lasciato un segno significativo sulla elaborazione della Carta. Mi chiedo, però, cosa ne sarebbe stato dei doveri senza la lezione mazziniana, in ispecie se se ne sarebbe fatta parola nell’art. 2. Lo stesso Tondi della Mura, peraltro, non tralascia di fare richiamo agli interventi avutisi in seno all’Assemblea nei quali esplicito è stato il riferimento all’insegnamento mazziniano, a partire da quello del Presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini [rimarcato opportunamente il segno lasciato dalla riflessione mazziniana sui lavori della Costituente anche dall’Editoriale su Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 marzo 2022 e, pure ivi, dalle risposte di molti partecipanti all’intervista curata da R. Conti, in ispecie di I. Nicotra e A. Morelli. Infine, v. D. Porena, Tra costituzionalismo rivoluzionario di fine Settecento e costituzionalismo liberale del XIX secolo: alcune riflessioni sul contributo di Giuseppe Mazzini, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2022, 27 marzo 2022, 116 ss.].
[5] Ho argomentato l’una qualifica nel mio La pace come bene assoluto, indisponibile e non bilanciabile, il diritto fondamentale a goderne e il dovere di preservarla ad ogni costo, Editoriale, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 27 febbraio 2022; la seconda, poi, che tengo qui pure a ribadire con forza, può vedersi in più scritti che ho al tema ex professo dedicato, tra i quali La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi), nella stessa Rivista, 2/2018, 3 giugno 2018, 392 ss.
[6] …nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, Intervento al Seminario preventivo di Amicus curiae su La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 196 s.
[7] …e, naturalmente, prima ancora di averli [per una peculiare fattispecie, v. A. Rauti, Il diritto di avere doveri. Riflessioni sul servizio civile degli stranieri a partire dalla sent. cost. n. 119/2015, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2015, 16 ottobre 2015, 1 ss.] che, poi, naturalmente si riflette nel dovere di avere doveri [a riguardo del quale l’omonimo titolo di un libro di L. Violante, edito da Einaudi nel 2014; vi ha fatto cenno anche R. Rordorf, nella sua risposta alla seconda domanda del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.].
[8] A riguardo di quest’ultimo, indicazioni possono aversi da AA.VV., La doverosità dei diritti. Analisi di un ossimoro costituzionale, a cura di F. Marone, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
[9] Per la medesima ragione, a mia opinione, il dovere di difesa della patria non può non ritenersi valevole altresì per gli stranieri stabilmente residenti nel territorio della Repubblica, essi pure minacciati nella vita, negli affetti, nei beni da una eventuale aggressione esterna. Potrebbero considerarsene sgravati gli stranieri appartenenti allo Stato che ci muova guerra, potendosi in una congiuntura siffatta avere conflitti di coscienza anche laceranti che è opportuno, per quanto possibile, risparmiare a siffatta categoria di persone. Di tutto ciò, nondimeno, in altro luogo.
[10] …per la cui illustrazione faccio qui richiamo solo degli studi, particolarmente approfonditi, di A. Morelli, in ispecie del suo I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013.
[11] Un diritto-dovere, questo, che è talvolta espressamente riconosciuto in Costituzione (così – come si rammenterà – già nell’art. 35 del documento costituzionale francese del 1793: “quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”) e un diritto-dovere comunque necessario pur laddove non se ne abbia esplicito riscontro, quale extrema ratio avverso l’aggressione.
[12] Il punto è, per vero, fatto oggetto di divergenti valutazioni. A mia opinione, se è vero – come credo essere – che la dignità fa tutt’uno con la humanitas stessa della persona, resta avvalorata in pieno l’affermazione ora fatta nel testo. La differenza, infatti, tra la dignità e la vita è che quest’ultima è considerata, al ricorrere di certe condizioni di estrema sofferenza, disponibile (tesi, peraltro, dalla quale per plurime ragioni qui non riproponibili reputo tuttavia di dover prendere le distanze), la dignità invece non lo è mai. Quand’anche, poi, dovesse ammettersi questa eventualità, occorrerebbe pur sempre tenere distinto ciò che può materialmente aver luogo dalla sua giuridica qualificazione. D’altronde, così è per la stessa vita: ogni giorno accade che alcuni se la tolgano volontariamente ed altri se la vedano soppressa da assassini, senza che nondimeno l’uccisione di un essere umano possa essere, in alcun caso o modo, giustificata.
[13] Mi sono, ancora non molto tempo addietro, soffermato sul punto, di cruciale rilievo, nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, cit., 194 ss. Un richiamo al mio pensiero può ora vedersi anche in A. Morelli, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[14] Se n’è discusso in occasione del convegno del Gruppo di Pisa svoltosi a Cassino il 10 e 11 giugno 2016 su Cos’è un diritto fondamentale?, cit. Avverto che, nondimeno, di qui in avanti farò riferimento solo ai diritti fondamentali ma ometterò, per scorrevolezza della esposizione, il più delle volte di far menzione dell’aggettivo che ne dà la qualificazione.
[15] V., dunque, volendo, il mio Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, nel vol. coll. da ultimo cit., 337 ss. e, già, in Consulta OnLine (www.giurcost.org) 2/2016, 30 giugno 2016, 263 ss. Molto importanti, in tema, sono, ancora oggi, A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enc. giur., XI (1989) e N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990; v., inoltre, almeno A. Pintore, I diritti della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; P. Ridola, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Giappichelli, Torino 2006; B. Celano, I diritti nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna 2013; AA.VV., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2014 e G. Pino, Il costituzionalismo dei diritti. Struttura e limiti del costituzionalismo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2017, del quale, più di recente, Diritti fondamentali, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, cit., 207 ss., e, ora, Chi deve essere il custode dei diritti? Sul costituzionalismo politico e i suoi limiti, in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), anteprima 2022, e, nella stessa Rivista, R. Bin, Diritti: cioè? Dietro i diritti, oltre le corti. In tema, opportune precisazioni sono in M.C. Grisolia, Ragionando sui diritti fondamentali, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 31 ottobre 2019, 1 ss.
[16] … con specifico riguardo – come si sa – alla determinazione della retribuzione, laddove nondimeno si dà una indicazione dotata di generale valenza.
[17] Trattandosi, in tesi, di diritti fondamentali, idonei a partecipare ad armi pari con i vecchi ad operazioni di bilanciamento secondo i casi, la loro positivizzazione – si è tentato di mostrare altrove – dovrebbe aversi, a prima battuta, con legge approvata con le procedure di cui all’art. 138, rivestendosi pertanto la materia costituzionale – e qui viene in rilievo proprio la sua parte maggiormente qualificante ed espressiva – della forma sua propria. Il riconoscimento, stricto sensu inteso, dovrebbe dunque aversi con il massimo atto di normazione; la disciplina ulteriore, volta a dare la tutela dei diritti stessi, apprestando la necessaria specificazione-attuazione della disciplina di base, può poi pianamente aversi con legge comune (e, discendendo, altri atti ancora di normazione). Alla giurisprudenza, infine, è demandato il compito di garantire la osservanza di tutte le discipline suddette. Così, perlomeno, dovrebbe essere secondo modello, quale ai miei occhi appare. Sta di fatto, però, che, per ragioni varie il cui esame obbligherebbe questa riflessione ad una digressione qui non consentitale, questo modello non è riuscito, in buona sostanza, ad affermarsi. Di alcuni nuovi diritti fondamentali si ha riscontro direttamente nella legislazione comune, che nondimeno esibisce plurime e gravi carenze, mentre di altri non se ne ha traccia positiva alcuna, con l’effetto per cui risulta direttamente (e talora, appunto, esclusivamente) addossato sulla giurisprudenza l’onere gravosissimo di dare subito il riconoscimento dei diritti stessi e persino l’ulteriore loro disciplina, ricorrendo, se del caso, alla “invenzione” di tecniche decisorie inusuali (Cappato docet).
[18] La qualifica è, per la prima volta, apparsa in A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss.
[19] … come ha avuto modo di ribadire, ancora da ultimo, Corte cost. n. 50 del 2022 (in tema d’inammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p.), con richiamo, tra le altre, della sent. n. 223 del 1996.
[20] Non si dimentichi, d’altronde, la ragione che ha portato alla menzione della pace nella Carta, innalzata al rango dei principi fondanti la Repubblica. Si era appena chiusa la dolorosissima vicenda bellica, preceduta e determinata dall’avvento di regimi autoritari, e si aveva diffusa e piena consapevolezza del fatto che solo in un contesto internazionale pacificato le liberal-democrazie avrebbero potuto affermarsi e crescere rigogliose e salde, a beneficio dei bisogni maggiormente avvertiti in seno al corpo sociale.
[21] Non sarebbe infatti immaginabile, specie nella presente temperie storica, un ordinamento di tradizioni liberali, quale il nostro, in cui si abbia libertà ma non eguaglianza, o viceversa; e così pure per gli altri valori appena indicati [ha ripetutamente insistito sul punto, di cruciale rilievo, G. Silvestri, part. in Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009 e, da ultimo, nella Introduzione al convegno su Il referendum sull’art. 579 c.p.: aspettando la Corte costituzionale, Milano 15 dicembre 2021, a cura di M. D’Amico e B. Liberali, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2022, Quad. n. 4, 3 ss.].
[22] V. quanto ne dicono al riguardo I. Nicotra e L. Salvato, nelle loro risposte al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, in ispecie a quelle date al primo quesito.
[23] Per tutti, in tema, v. M. Dogliani, La lotta per la Costituzione, in Dir. pubbl., 2/1996, 293 ss.
[24] D’altronde la separazione in parola è stata pensata – come si sa – in funzione servente dei diritti [ne ha attentamente ripercorso le più salienti fasi storiche G. Silvestri, La separazione dei poteri, I, Giuffrè, Milano 1979; dello stesso A., per i profili di ordine dogmatico, v., poi, della stessa opera, II (1984); altri riferimenti, ora, in T.F. Giupponi, Separazione dei poteri, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, cit., 97 ss.].
[25] …o, per dir meglio, lo sono negli ordinamenti retti da Costituzioni di tradizioni liberali. Cosa diversa, alla quale tuttavia non può qui riservarsi neppure un cenno, è se possa appropriatamente farsi utilizzo del lemma “Costituzione” anche in relazione ad ordinamenti di tutt’altro segno, da una sensibile dottrina escluso (v., al riguardo, part., A. Spadaro, in più scritti, tra i quali Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994).
[26] …testimoniata peraltro emblematicamente dall’attenzione da essi costantemente attratta da parte degli studiosi che vi hanno dedicato scritti innumerevoli, diversamente dai doveri ancora oggi fatti oggetto di studi, sì, meritevoli di ogni considerazione e tuttavia non comparabili – perlomeno per quantità – rispetto ai primi [una speciale menzione va qui, nondimeno, fatta della nota monografia di G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffrè, Milano 1967, cui si deve il risveglio della riflessione sui doveri da parte della nostra dottrina: su di essa, di recente, spunti ricostruttivi di particolare interesse sono offerti da contributi al convegno su Spazio e frontiera. In ricordo di Giorgio Lombardi (1935-2010), svoltosi il 2 ottobre 2020, nonché da V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, cit., 304 ss., seguito ora da A. Gusmai, (Ri)leggere Lombardi, un esercizio “doveroso”, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 7 marzo 2022, 372 ss.].
[27] Cap. I, dal titolo Agli operai italiani.
[28] In tema, v., part., A. Levi, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, Zanichelli, Bologna 1922 e G.M. Chiodi, Precedenza dei doveri sui diritti umani, che peraltro è meglio definire diritti fondamentali, in Id., Europa. Universalità e pluralismo delle culture, Giappichelli, Torino 2002, 141 ss., cui si richiama anche T. Greco, Dai diritti al dovere: tra Mazzini e Calogero, in AA.VV., Repubblicanesimo democrazia socialismo delle libertà- “Incroci” per una rinnovata cultura politica, a cura di T. Casadei, FrancoAngeli, Milano 2004, 137 ss., che, in chiusura della sua densa riflessione, rammenta un pensiero di Gandhi che dichiarò di aver appreso “dalla madre illetterata ma molto saggia che tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto” (149). Di T. Greco, v., inoltre, utilmente, Prima il dovere. Una critica della filosofia dei diritti, in AA.VV., Il senso della Repubblica. Doveri, a cura di S. Mattarelli, FrancoAngeli, Milano 2007, 15 ss., e Giuseppe Mazzini. Per una democrazia dei doveri, in Cosmopolis (www.cosmopolisonline.it), 1/2021. Diffusi i richiami al pensiero mazziniano sul punto negli interventi al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.; in ispecie, L. Trucco ha messo in evidenza il rilievo assunto dai doveri nella giurisprudenza costituzionale, il loro porsi in funzione servente dei diritti, al fine della loro ottimale affermazione.
[29] Della loro “eguale dignità costituzionale” ha, ancora da ultimo discorso A. Morelli, nel suo intervento, già richiamato, al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[30] Lo stesso avverbio è, chiaramente, ridondante, dal momento che, ove così non fosse, non potrebbero appunto essere… fondamentali; preferisco, nondimeno, lasciarlo per rimarcare ancora di più il concetto.
[31] V., nuovamente, loc. ult. cit.
[32] Lucidamente avverte L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit., che Mazzini, se fosse vissuto oggi, avrebbe sposato la causa della “rappresentanza femminile (anche) nei luoghi di potere”.
[33] Op. et loc. ult. cit.
[34] Cap. III, intitolato La Legge. Si è opportunamente riferito a questo passo, particolarmente significativo, anche R. Rordorf, nella sua risposta alla quarta domanda del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[35] Su di che, nella dottrina costituzionalistica, v., part. gli studi di F. Pizzolato, in ispecie il suo Il principio costituzionale di fraternità, Città Nuova editrice, Roma 2012; v., inoltre, utilmente, E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005 e AA.VV., La fraternità come principio del diritto pubblico, a cura di A. Marzanati e A. Mattioni, Città Nuova Editrice, Roma 2007. Per una ricostruzione del concetto diversamente orientata da quella qui accolta, v. I. Massa Pinto, Costituzione e fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: “come se” fossimo fratelli, Jovene, Napoli 2011.
Sul dovere di solidarietà, nella ormai incontenibile lett., dopo S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014, v. almeno i contributi di F. Giuffrè, tra i quali, ora, la voce Solidarietà per il Dig./Disc. pubbl., Agg., VIII (2021); A. Apostoli, La svalutazione del principio di solidarietà. Crisi di un valore fondamentale per la democrazia, Giuffrè, Milano 2012; M.C. Blais, La solidarietà. Storia di un’idea, Giuffrè, Milano 2012; F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bononia University Press, Bologna 2016; v., inoltre, utilmente, AA.VV., Il dovere di solidarietà, a cura di B. Pezzini e C. Sacchetto, Giuffrè, Milano 2005; AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., ed ivi, part., L. Violini, I doveri inderogabili di solidarietà: alla ricerca di un nuovo linguaggio per la Corte costituzionale, 517 ss.; E. Grosso, I doveri costituzionali, in AA.VV., Lo statuto costituzionale del non cittadino, a cura dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Napoli 2010, spec. 248 ss.; V. Tondi della Mura, La solidarietà fra etica ed estetica. Tracce per una ricerca, in Scritti in onore di A. Mattioni, Vita e Pensiero, Milano 2011, 666 ss. e, dello stesso, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, cit.; A. Morelli, I principi costituzionali relativi ai doveri inderogabili di solidarietà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Giuffrè, Milano 2015, 305 ss.; G.L. Conti, Il pendolo della solidarietà nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017, 463 ss.; G. Bascherini, La doverosa solidarietà costituzionale e la relazione tra libertà e responsabilità, in Dir. pubbl., 2/2018, 245 ss.; E. Rossi, La doverosità dei diritti: analisi di un ossimoro costituzionale?, in AA.VV., La doverosità dei diritti. Analisi di un ossimoro costituzionale, cit., 9 ss.; altri riferimenti, nella voce Doveri, sopra cit., di I. Massa Pinto, spec. 294 ss. Infine, A. Gusmai, (Ri)leggere Lombardi, un esercizio “doveroso”, cit., spec. 385 ss. Opportuni richiami della giurisprudenza costituzionale, da ultimo, nel contributo di L. Trucco al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[36] In argomento, faccio qui richiamo solo delle riflessioni consegnateci da A. Spadaro in più scritti, tra i quali L’amore dei lontani: universalità e intergenerazionalità dei diritti fondamentali fra ragionevolezza e globalizzazione, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it); Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, e I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Riv. AIC (www.rivistaic.it), 4/2011, 6 dicembre 2011.
[37] …e così per i soggetti diversamente abili, i più vulnerabili per malattia [per tutti, M. Gensabella Furnari, Vulnerabilità e cura. Bioetica ed esperienza del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; G. RAZZANO, Le incognite del referendum c.d. «sull’eutanasia», fra denominazione del quesito, contenuto costituzionalmente vincolato e contesto storico, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2021, 9 dicembre 2021, spec. 979 s., e, della stessa, ora, La proposta di legge sulle «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita»: una valutazione nella prospettiva costituzionale anche alla luce della sent. n. 50/2022, in Federalismi (www.federalismi.it), 9/2022, 23 marzo 2022, 53 ss.; P.F. Bresciani, Chi sono i “vulnerabili” che l’art. 579 c.p. deve proteggere?, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., cit., 45 ss.], per stato di bisogno economico [a riguardo dei quali, ora, R. Fattibene, Povertà e Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, nonché i contributi che sono in LavoroDirittiEuropa (www.lavorodirittieuropa.it), 1/2022], i minori, specie se stranieri, ancor più se non accompagnati [a riguardo dei quali, tra gli altri, A. Di Pascale - C. Cuttitta, La figura del tutore volontario dei minori stranieri non accompagnati nel contesto delle iniziative dell’Unione europea e della nuova normativa italiana, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 1/2019, 1 ss.; G. Moschella, La legislazione sull’immigrazione e le prospettive della tutela dei diritti fondamentali: L’ordinamento europeo e l’esperienza italiana, in Ord. int. dir. um (www.rivistaoidu.net), 3/2019, 15 luglio 2019, spec. 481 ss.; F. Izzo, La tutela internacional de los minores extranjeros no acompañados ¿Una facultad o una obligación para los Estados? La experiencia española a través del análisis de la comunicación n. 4/16 del Comité de los derechos del niño, in Ord. int. e dir. um. (www.rivistaoidu.net), 1/2020, 15 marzo 2020, 123 ss.; M. Tomasi, Verso la definizione di uno statuto giuridico dei minori stranieri non accompagnati in Europa? Modelli astratti e concreti di tutela della vulnerabilità, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 20 marzo 2020, 519 ss.; C. Cottatellucci, Minori stranieri non accompagnati: linee evolutive del quadro normativo e questioni aperte, in AA.VV., Ius migrandi. Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, a cura di N. Giovannetti e N. Zorzella, FrancoAngeli, Milano 2020, 327 ss.; pure ivi, E.S. Rizzi, I minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, 852 ss.; C. Di Stasio, La violazione del diritto all’unità familiare dei minori stranieri non accompagnati: quali le possibili soluzioni nel diritto internazionale privato?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2020, 13 maggio 2020, 273 ss. e, nella stessa Rivista, C. Valente, L’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati: un obiettivo raggiunto o raggiungibile?, 29 luglio 2020, 1439 ss.; F. Biondi Dal Monte, Il sistema di accoglienza e integrazione e i diritti dei minori stranieri. Riflessioni sulla disciplina introdotta dal d.l. n. 130/2020, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2021, 4 gennaio 2021, 120 ss.; A. Pitrone, La protezione dei minori stranieri non accompagnati nella giurisprudenza europea: quale possibile influenza sulle proposte contenute nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo?, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (http://www.fsjeurostudies.eu), 1/2021, 29 ss. e nella stessa Rivista, F. Di Gianni, Il “nuovo patto sulla migrazione e l’asilo” e la protezione dei minori migranti, 2/2021, 95 ss.; A. Amato - G. Mack, «Neanche per andare al bagno riuscivo a comunicare». Potersi esprimere ed essere ascoltati: un’indagine pilota tra i minori stranieri non accompagnati, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 3/2021, 168 ss., e nella stessa Rivista M. Benvenuti, Dubito ergo iudico. Le modalità di accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati in Italia, 1/2022, 172 ss.; A.M. Romito, I minori stranieri non accompagnati nell’Unione europea: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in AA.VV., Migrazioni internazionali. Questioni giuridiche aperte, a cura di I Caracciolo - G. Cellamare - A. Di Stasi - P. Gargiulo, Editoriale Scientifica, Napoli 2022, 643 ss.; M.C. Spena, La protezione del diritto alla salute per i minori stranieri non accompagnati tra integrazione sociosanitaria e profili di tutela, in Nuove aut., 1/2022] o i minori figli di madri detenute [su cui, per tutti, A. Vesto, Madri detenute e figli minori: il ruolo della responsabilità genitoriale tra affettività e tutela dei diritti umani, in Ord. int. dir. um. (www.rivistaoidu.net), 1/2019, 15 marzo 2019, 101 ss.], e via dicendo.
[38] Tema, quest’ultimo, particolarmente spinoso, a riguardo del quale è in corso da tempo un animato dibattito che tuttavia appare ad oggi caratterizzato da marcate divergenze di orientamenti. Su di esso, ex plurimis, R. Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale, FrancoAngeli, Milano 2008; AA.VV., Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, a cura di R. Bifulco e A. D’Aloia, Jovene, Napoli 2008; A. D’Aloia, Generazioni future (dir. cost.), in Enc. dir., Ann., IX (2016) e, dello stesso, Bioetica ambientale, sostenibilità, teoria intergenerazionale della Costituzione (2019), ora in Id., Il diritto e l’incerto del mestiere di vivere, Wolters Kluwer, Milano 2021, 159 ss.; AA.VV., Responsabilità verso le generazioni future. Una sfida al diritto all’etica e alla politica, a cura di F. Ciaramelli - F.G. Menga, Editoriale Scientifica, Napoli 2017; D. Porena, Il principio di sostenibilità. Contributo allo studio di un programma costituzionale di solidarietà intergenerazionale, Giappichelli, Torino 2017; A. Saitta, Dal bilancio quale “bene pubblico” alla “responsabilità costituzionale democratica” e “intergenerazionale”, in Giur. cost., 1/2019, 216 ss., spec. 223 ss.; G. Palombino, La tutela delle generazioni future nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale, in Federalismi (www.federalismo.it), 24/2020, 5 agosto 2020, 242 ss.; I. Ciolli, Diritti delle generazioni future, equità intergenerazionale e sostenibilità del debito. Riflessioni sul tema, in Bilancio Comunità Persona, 1/2021, 51 ss.; R. De Caria, Il principio della solidarietà tra generazioni tra mutualizzazione dei debiti e divieto di finanziamento monetario, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 28 giugno 2021, 120 ss.; AA.VV., Tutela dell’ambiente: diritti e politiche, a cura di M. Cecchetti - L. Ronchetti - E.B. Liberati, Editoriale Scientifica, Napoli 2021; v., poi, per taluni profili messi a fuoco da plurimi angoli visuali, i contributi che sono sotto il titolo I conflitti tra generazioni come questione di diritto costituzionale, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 3/2021, 25 febbraio 2022, ed ivi, in particolare, il saggio di A. Morelli, Ritorno al futuro. La prospettiva intergenerazionale come declinazione necessaria della responsabilità politica, 77 ss., e lo studio di M.A. Gliatta, Ambiente e Costituzione: diritti distributivi e riconfigurazione della responsabilità intergenerazionale, 102 ss.
[39] D’altronde, l’idea mazziniana di patria, nella sua densa e qualificante accezione – come ha fatto notare L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit. – è quella di “casa dell’uomo e non dello schiavo”, che a tutti coloro che vi alloggiano riconosce pari dignità ed opportunità di affermazione della loro personalità, secondo l’indicazione poi ripresa e mirabilmente espressa dalla Carta costituzionale.
[40] … sul quale ha opportunamente richiamato l’attenzione, in occasione del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit., part. A. Morelli. Sul significato e sui possibili effetti conseguenti alla innovazione costituzionale in parola il dibattito si è subito avviato coinvolgendo un numero cospicuo di commentatori: ex plurimis, G. Amendola, L’inserimento dell’ambiente in Costituzione non è né inutile né pericoloso, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 25 febbraio 2022; R. Cabazzi, Dalla “contrapposizione” alla “armonizzazione”? Ambiente ed iniziativa economica nella riforma (della assiologia) costituzionale, in Federalismi (www.federalismi.it), 7/2022, 9 marzo 2022, 31 ss., e F. Mucci, Dal diritto internazionale alla Costituzione italiana: per una tutela dell’ambiente inevitabilmente antropocentrica ma ecologica, lungimirante e coerente, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 15 marzo 2022, 447 ss.
[41] Riporta al dovere di fedeltà la trasmissione alle generazioni a venire del patrimonio dei valori fondanti la Repubblica A. Morelli, Ritorno al futuro. La prospettiva intergenerazionale come declinazione necessaria della responsabilità politica, cit., spec. 93 ss.
[42] Su di che, per tutti, P. Faraguna, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, FrancoAngeli, Milano 2015.
[43] Mi sono sforzato di mettere in luce la connotazione assiologica, emblematicamente espressiva dell’etica pubblica repubblicana, dei doveri costituzionali nel mio Doveri fondamentali, etica repubblicana, teoria della Costituzione (note minime a margine di un convegno), in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., 551 ss.
[44] Il rapporto tra i principi di struttura dell’Unione e quelli degli Stati che la compongono appare, nondimeno, essere complesso, presentando essi tratti comuni e tratti reciprocamente distintivi. È da essi che discende la doppia appartenenza di ciascun cittadino allo Stato ed all’Unione, con i vincoli ad essa conseguenti, specificati dalle discipline normative poste in funzione servente dei principi stessi.
[45] Si pensi solo a come è stato fin qui gestito il flusso imponente di migranti irregolari, a riguardo del quale per vero ci si attendeva (e ci si attende) una più credibile testimonianza di solidarietà [in tema, ex plurimis, in aggiunta agli scritti dietro citt., AA.VV., Italia, Europa: i diritti fondamentali e la rotta dei migranti, a cura di M. Miedico e G. Romeo, in Federalismi (www.federalismi.it), num. spec. 2/2019, 25 marzo 2019, 1 ss.; S. Quadri, Sovranità funzionale e solidarietà degli Stati a tutela dei diritti dei migranti, in Dir. pubbl. comp. eur., 3/2019, 663 ss.; R. Russo, I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 10 gennaio 2020, e, pure ivi, della stessa, Le Sezioni Unite si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro, 1° ottobre 2021; M. Messina, Il fallimento della solidarietà nella gestione dei flussi migratori: la responsabilità degli Stati membri con la complicità delle istituzioni dell’Unione, in AA.VV., Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A vent’anni dal Consiglio europeo di Tampere, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 475 ss.; G. Morgese, La solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione europea in materia di immigrazione e asilo, in Federalismi – focus Human Rights (www.federalismi.it), 35/2020, 28 dicembre 2020, 16 ss.; M. Borraccetti, L’integrazione dei migranti tra politiche europee, azioni e tutela dei diritti, in Dir. pubbl., 1/2020, 15 ss.; I. Rivera, Il coraggio e la paura. La problematica gestione del fenomeno migratorio tra istanze solidariste e spinte sovraniste, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 21 aprile 2020, 1354 ss.; AA.VV., Verso un quadro comune europeo ed una nuova governance della migrazione e dell’asilo, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (www.fsjeurostudies.eu), 2/2021; ivi, part., M.C. Carta, Il “nuovo” patto europeo sulla migrazione e l’asilo: recenti sviluppi in materia di solidarietà ed integrazione, 9 ss.; AA.VV., Migrazioni internazionali. Questioni giuridiche aperte, cit. ed ivi part. C.M. Pontecorvo, La tutela internazionale dei “migranti climatici”, tra (persistenti) limiti normativi e (recenti) prospettive giurisprudenziali, 325 ss.; della stessa, inoltre, Towards litigating climate-induced migration? Current limits adn emerging trends for the protection of “climatedinducend migrants” in international law, in Ord. int. dir. um (www.rivistaoidu.net), 1/2022, 99 ss. Infine, se si vuole, possono vedersi anche i miei Cittadini, immigrati e migranti, alla prova della solidarietà, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 2/2019, 1° luglio 2019; Cittadini, immigrati e migranti al bivio tra distinzione e integrazione delle culture (note minime su una spinosa e ad oggi irrisolta questione), in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 3/2021, 20 novembre 2021, 393 ss. e Per i migranti ambientali: non muri o respingimenti ma solidarietà e accoglienza in Ord. int. dir. um. (www.rivistaoidu.net), 5/2021, 5 novembre 2021, 1154 ss.].
E si pensi ancora a come si è affrontata la dilagante ed incontrollata diffusione della pandemia sanitaria che ha, in buona sostanza, portato ciascuno Stato a determinarsi in modo indipendente dagli altri componenti l’Unione al fine di farvi fronte, mettendosi peraltro a dura prova le capacità di tenuta dell’ordine costituzionale delle competenze sul duplice versante dei rapporti tra gli organi della direzione politica e di quelli Stato-Regioni e autonomie territoriali in genere.
Da ultimo, si faccia caso alla reazione manifestata dall’Unione nei riguardi della vile aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, in relazione alla quale si è, perlomeno ad oggi (in un quadro dunque fluido ed incerto), avuta una risposta cauta e ferma allo stesso tempo, nel tentativo di conciliare – fin dove possibile – l’esigenza di non esasperare ulteriormente gli animi, facendo ancora di più crescere una tensione che è già assai elevata, e l’esigenza di non far passare sotto silenzio la (o, come che sia, mettere la sordina alla) dura condanna nei riguardi di Putin per la scellerata decisione presa di muovere guerra ad un Paese che null’altro pretendeva (e pretende) che di essere riconosciuto pleno iure sovrano.
[46] Quanto ai primi due doveri, si rimanda ai richiami dietro fatti; in tema di cooperazione, come si sa stranamente qualificata di solito come “leale” (quasi che possa ammettersi che sia priva di siffatto attributo…), riferimenti ed indicazioni possono aversi da A. Gratteri, I doveri di leale collaborazione, in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., 206 ss.; F. Covino, Leale collaborazione e funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Jovene, Napoli 2018; E. Gianfrancesco, Dimensione garantista e dimensione collaborativa nel disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2019, 10 luglio 2019, 193 ss.; B. Guastaferro, Autonomia sovranità rappresentanza. L’evoluzione della forma di Stato in Italia e Regno Unito, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2020, spec. 107 ss.; A. Paiano, Forme di raccordo fra Stato e autonomie territoriali: il principio di leale collaborazione e il sistema delle Conferenze, in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 1/2020, 227 ss.; A. Saporito, Il principio di leale collaborazione al tempo dell’emergenza sanitaria, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2020, 15 giugno 2020, 870 ss.; C. Padula, La pandemia, la leale collaborazione e la Corte costituzionale, in Le Regioni, 1-2/2021, 169 ss., e, nella stessa Rivista, A. Bartolini, Superiorem non recognoscens, ovvero quando la leale collaborazione non funziona, 3/2021, 523 ss., e G. Di Cosimo, Le forme della collaborazione al tempo della pandemia, 543 ss.; C. Caruso, Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2021, 9 febbraio 2021, 283 ss. e, dello stesso, La leale collaborazione ai tempi del iudicial regionalism. Da metodo di governo a criterio di giudizio, in Quad. cost., 4/2021, 909 ss.; Q. Camerlengo, Le convenzioni costituzionali tra principio di leale collaborazione e teoria dei giochi, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2022, 10 gennaio 2022, 1 ss., spec. 9 ss.; A. Dirri, Pandemia e leale cooperazione: il modello regionale italiano alla luce di due “federalismi classici”, in Italian papers on federalism (www.ipof.it), 3/2021, 31 gennaio 2022, 96 ss.
[47] Forse, la più emblematica testimonianza dell’afflato in parola si rinviene nei doveri gravanti su ciascuno di noi verso sé stessi, sui quali Mazzini si sofferma nel cap. VII della sua opera, insistendo specificamente sul progresso che consegue all’adempimento dei doveri in parola. È per il loro tramite, infatti, che l’individuo afferma magis ut valeat la propria personalità della quale è parte integrante il godimento di diritti inviolabili e, non disgiunto da questo e in pari misura rispetto ad esso, l’adempimento di doveri a beneficio degli altri componenti il gruppo sociale e di quest’ultimo nella sua interezza. I doveri verso sé stessi, insomma, prendono forma – come si è venuti dicendo – anche per il tramite dell’esercizio dei doveri verso gli altri, in ispecie attraverso copiose e tangibili manifestazioni di solidarietà, in ciascuna delle sue plurime espressioni; e, quanto più tali doveri trovano opportunità e spazi per farsi valere, tanto più l’uomo dunque realizza sé stesso.
[48] V., infatti, quanto se ne dice nel mio Covid-19 e obbligo vaccinale, dal punto di vista della teoria della Costituzione, in Nuove aut. (www.nuoveautonomie.it), Speciale obbligo vaccinale, 1/2022, 21 febbraio 2022; nella stessa Rivista, altri punti di vista a commento di una decisione interlocutoria del CGA per la Regione siciliana (su quest’ultima, può inoltre utilmente vedersi B. Brancati, Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. pronuncia un’ordinanza istruttoria per valutare se sollevare questione di costituzionalità sull’obbligatorietà dei vaccini anti SARS-CoV-2, in Foro it., 3/2022, III, 170 ss.). Lo stesso CGA, all’esito dell’istruttoria avviata con la decisione suddetta, si è, da ultimo, determinato a sollevare una questione di costituzionalità che ci si augura possa essere quanto prima definita.
In senso avverso alla tesi da me patrocinata in merito all’obbligo vaccinale, v., di recente, C. Iannello, Le «scelte tragiche» del diritto a tutela della salute collettiva. L’irragionevolezza di una vaccinazione obbligatoria generalizzata per il Sars-Cov-2, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 20 gennaio 2022, 145 ss.
I papi del Novecento e le guerre
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Contro la «guerra mondiale a pezzi» - 2. Di fronte alla prima guerra mondiale - 3. I rapporti col nazismo e la seconda guerra mondiale - 4. Dalla guerra fredda ai giorni nostri - 5. Pace non è pacifismo.
1. Contro la «guerra mondiale a pezzi»
«La Guerra è una pazzia! Fermatevi per favore!». Le parole di papa Francesco, si riferiscono alla guerra in Ucraina, ma non valgono solo nei confronti di questo conflitto. Anche nel recente passato Francesco contro tutti quelli in corso in varie parti del mondo. Già durante l’Angelus del 9 agosto 2015 Francesco aveva esclamato: «Da ogni terra si levi un’unica voce: no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace! Con la guerra sempre si perde. L’unico modo di vincere una guerra è non farla».
Questo rifiuto della guerra come tale è del resto chiaramente espresso nell’enciclica «Fratelli tutti», dell’ottobre del 2020. In essa Francesco lanciava un allarme che oggi suona profetico: «La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti» (Fratelli tutti n. 256).
In quel documento si sottolineava la drammaticità di tutti i conflitti armati con parole che sembrano scritte alla luce delle più recenti vicende: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace» (Fratelli tutti n.261).
Altrettanto appropriate a quanto sta accadendo appaiono le parole di Francesco a proposito delle conseguenze che anche una guerra apparentemente “locale” determina a livello planetario: «È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale» (Fratelli tutti n.259).
2. Di fronte alla prima guerra mondiale
Questa denunzia dell’assurdità della guerra, da parte di un papa, non è peraltro una novità.
Già all’inizio della prima guerra mondiale, Pio X (1903-1914) all’ambasciatore austriaco che lo sollecitava a benedire le truppe austro-ungariche, aveva risposto: «Io benedico la pace».
Il 2 agosto 1914, pochi giorni prima della sua morte, il pontefice espresse, nell’esortazione Dum Europa, tutta la sua sofferenza di fronte a ciò che stava accadendo: «Mentre quasi tutta l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra (…) non possiamo (…) non sentirci straziare l’animo».
Ma toccò al suo successore, Benedetto XV (1914-1922), eletto papa poche settimane dopo l'inizio del conflitto, prendere più ampiamente posizione E lo fece, sia con la sua prima enciclica, «Ad Beatissimi Apostolorum principis», del novembre 1914, in cui si appellò ai governanti delle nazioni per far tacere le armi , sia con la «Nota di pace», indirizzata il primo agosto 1917 ai belligeranti, contenente la famosa espressione con cui il papa definiva la guerra in corso una «inutile strage».
3. I rapporti col nazismo e la seconda guerra mondiale
Il suo successore, Po XI (1922-1939), è soprattutto noto per aver firmato insieme a Mussolini, nel 1929 i Patti Lateranensi.
Non sempre si ricorda, però, che il 10 marzo 1937- quando Hitler era al culmine del suo potere - il papa pubblicò l’enciclica «Mit brennender Sorge» (“Con bruciante preoccupazione”), scritta direttamente in tedesco, ordinando di leggerla, durante la messa domenicale, in tutte le chiese della Germania (come effettivamente fu fatto, suscitando le ire del regime nazista). In essa si esortavano i fedeli tedeschi a respingere, malgrado le pressioni esercitate su di loro, «il mito del sangue e della razza». E si sottolineava che, quando «la razza o il popolo» o «lo Stato» vengono elevati «a suprema norma di tutto (…) divinizzandoli con culto idolatrico», si «perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato».
Il successore di papa Ratti, Pio XII (1939-1958), si trovò davanti alla scoppio della seconda guerra mondiale che egli – proprio all’indomani della sua elezione al pontificato, avvenuta nel marzo del 1939 - cercò disperatamente di fermare nel Radiomessaggio del 24 agosto, contenente il famoso appello: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra».
Poco prima, papa Eugenio Pacelli aveva inviato anche un messaggio personale a Hitler, esortandolo a occuparsi del vero benessere spirituale del popolo tedesco. E quando, infine, ormai si comprendeva chiaramente che la situazione stava precipitando, tentò un’ultima carta proponendo a Germania e Polonia di soprassedere per quindici giorni alle misure militari per incontrarsi in una conferenza internazionale di pace. Sappiamo che questi sforzi della Santa Sede furono vani, di fronte alla decisa volontà di Hitler di scatenare la guerra, che infatti cominciò il 1 settembre del 1939.
Il pontefice non si rassegnò. Un recente libro dello storico statunitense Mark Riebling («Church of Spies. The Pope’s Secret War against Hitler», del 2015) ha rivelato che nella prima fase del conflitto, egli prese parte, addirittura, a un complotto di alcuni generali tedeschi per spodestare Hitler e svolse il ruolo di intermediario nei contatti che intercorsi tra i cospiratori e la Gran Bretagna. Nell’aprile del 1940 ebbe diversi incontri segreti con i congiurati tedeschi e il rappresentante del governo inglese. Ma la cospirazione non andò in porto.
Dopo la guerra, nel 1946, Pio XII comprese il mutamento che l’irruzione dell’energia nucleare stava comportando e, in un Discorso al Sacro Collegio dei Cardinali, parlò della «potenza dei nuovi strumenti di distruzione che riconducono il problema del disarmo al centro delle discussioni internazionali con aspetti completamente nuovi».
A Pio XII è stato spesso rimproverato – come nel famoso dramma Il vicario, di Hochhuth, del 1963 - . di non avere mai condannato pubblicamente il nazismo, in particolare di non aver mai denunziato la politica di sterminio sistematico degli ebrei. Ed è sicuramente vero che, nei confronti delle spietate misure dei nazisti, papa Pacelli preferì affidarsi ad una occasionale negoziazione diplomatica per limitare l’asprezza delle persecuzioni e delle rappresaglie, convinto che una sua denuncia ufficiale dell'Olocausto non solo avrebbe provocato un incrudimento dell’atteggiamento dei tedeschi verso i cattolici, ma non avrebbe giovato agli stessi ebrei.
Le legittime perplessità di fronte a questa scelta, molto discussa e sicuramente discutibile, non devono però far dimenticare l’impegno del pontefice a favore delle vittime e dei perseguitati, come ad esempio la disposizione da lui data agli istituti religiosi di Roma di sospendere la regola della clausura per diventare luoghi di rifugio, nascondendo migliaia di ebrei Lo stesso accadde in Vaticano, dove trovarono rifugio diversi leader politici antifascisti.
E quando, il 27 settembre 1943, i tedeschi pretesero dalla comunità ebraica di Roma la consegna di 50 chili d’oro nel giro di 24 ore, minacciando la deportazione in Germania in caso di inadempienza, il rabbino capo di Roma Israel Zoller (il cui nome era stato cambiato, per ordine del fascismo, in Italo Zolli) chiese e ottenne l’aiuto proprio di Pio XII per avere i 15 kg che mancavano al totale richiesto. Un atto di pronta generosità che, terminata l'occupazione, venne ricordata in una solenne celebrazione nel Tempio Maggiore ebraico di Roma nel luglio del 1944, in cui la comunità ebraica espresse pubblicamente la sua riconoscenza al papa per l'aiuto dato loro durante la persecuzione nazista. Non è senza rapporto con tutto questo il fatto che, dopo la guerra, Zolli abbia abbandonato la carica di rabbino capo e si sia convertito al cattolicesimo, facendosi battezzare, in esplicito riferimento a papa Pacelli, col nome di Eugenio.
4. Dalla guerra fredda ai giorni nostri
Giovanni XXIII
Il successore di Pacelli, papa Giovanni XXIII (1958-1963) alla pace ha addirittura dedicato una enciclica, la «Pacem in terris», del 1963, scritta, quasi come un testamento spirituale, pochi mesi prima della sue morte. In essa egli sottolineava che «a tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (Pacem in terris n.87).
Nel 1962, in occasione della crisi provocata dall’invio di missili sovietici a Cuba, il pontefice non solo aveva rivolto attraverso Radio Vaticana un appello per la pace, ma si era rivolto anche direttamente al leader russo Kruscev, con un messaggio in cui lo invitava ad avere «il coraggio di richiamare le navi portamissili», motivando così la sua richiesta: «Potete sostenere di non essere religioso, ma la religione non è un insieme di precetti, bensì l’impegno all’azione nell’amore di tutta l’umanità, che quando è autentico si unisce all’amore di Dio, per cui anche se non se ne pronuncia il nome, si è religiosi».
Paolo VI
Anche Paolo VI (1963-1978) è stato strenuo assertore del valore, e al tempo stesso della precarietà, della pace. Nell’udienza generale del 26 agosto del 1964 egli sottolineava che la pace è «un bene supremo per l’umanità che vive nel tempo; ma è un bene fragile, risultante da fattori mobili e complessi, nei quali il libero e responsabile volere dell’uomo gioca continuamente. Perciò la pace non è mai del tutto stabile e sicura; deve essere ad ogni momento ripensata e ricostituita; presto si indebolisce e decade, se non è incessantemente richiamata a quei veri principii che soli la possono generare e conservare».
Anche in questo caso non si trattò solo di parole, ma di una costante azione volta a creare le condizioni della pace minacciata, soprattutto attraverso una costante azione diplomatica (emersa solo di recente dagli archivi di Washington) per porre fine alla guerra in Vietnam.
Giovani Paolo II
Il pontefice che più di ogni altro, dopo il secondo conflitto mondiale, si è messo personalmente in gioco contro la guerra è stato Giovanni Paolo II (1978-2005).
Nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, in una grande Preghiera per la pace, egli scriveva:
«Dio dei nostri Padri, (…)
Tu hai progetti di pace e non di afflizione, condanni le guerre e abbatti l’orgoglio dei violenti (…)
Ascolta il grido unanime dei tuoi figli, supplica accorata di tutta l’umanità:
mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza; fai cessare questa guerra nel Golfo Persico, minaccia per le tue creature, in cielo, in terra ed in mare. (…)
Mai più la guerra
Amen».
La preghiera seguiva uno sforzo concreto per evitare la guerra. Nel 1990, alla vigilia dell’inizio dell’operazione «Desert storm», Wojtyla aveva inviato un messaggio sia a Saddam Hussein che a George Bush sr, supplicandoli di soprassedere al conflitto e ad avviare negoziati. Nella lettera al presidente americano scriveva: «Desidero adesso ripetere la mia ferma convinzione che è molto difficile che la guerra porti un’adeguata soluzione ai problemi internazionali e che, anche se una situazione ingiusta potesse essere momentaneamente risolta, le conseguenze che con ogni probabilità deriverebbero dalla guerra sarebbero devastanti e tragiche. Non possiamo illuderci che l’impiego delle armi, e soprattutto degli armamenti altamente sofisticati di oggi, non provochi, oltre alla sofferenza e alla distruzione, nuove e forse peggiori ingiustizie».
Anche nel conflitto della ex Jugoslavia Giovanni Paolo II cercò di fare quanto poteva per fermarlo. La guerra del Kosovo era iniziata il 24 marzo 1999 con i bombardamenti Nato. Il primo aprile il papa inviò a Belgrado il “ministro degli esteri”, l’arcivescovo Jean Louis Tauran, latore di un messaggio personale a Milosevic, con la richiesta della cessazione immediata delle operazioni di pulizia etnica nel Kosovo. Nel messaggio si proponeva anche, con l’accordo della Nato, una tregua per la Pasqua ortodossa. Quattro giorni dopo in effetti la tregua venne dichiarata, ma poi la guerra riprese con immutata violenza.
Una terza iniziativa il pontefice l’ha messa in atto in occasione della seconda guerra del Golfo. Quando ormai era tutto pronto per l’offensiva, il 5 marzo 2003, egli inviò il cardinale Pio Laghi a incontrare il presidente George W. Bush jr per chiedergli di rinunziare all’imminente azione militare. Il Cardinale Laghi disse a Bush che, se gli Stati Uniti avessero scatenato la guerra, sarebbero successe tre cose. Primo, il conflitto avrebbe causato un gran numero di vittime. Secondo, esso avrebbe condotto a una guerra civile. E, terzo, gli Stati Uniti sarebbero sì stati in grado di entrare in guerra, ma avrebbero avuto molta difficoltà ad uscirne. Si trattava di una diagnosi profetica, ma Bush fu irremovibile in una decisione che, disse, «era convinto che fosse la volontà di Dio».
Benedetto XVI
Sulla stessa linea dei suoi predecessori si è mosso papa Benedetto XVI (2005-2013). Nel 2009, in occasione del concerto “Giovani contro la guerra”, Benedetto ha ricordato «la tragedia della seconda guerra mondiale, dolorosa pagina di storia intrisa di violenza e di disumanità, che ha causato la morte di milioni di persone, lasciando i vincitori divisi e l’Europa da ricostruire».
«Nessuno purtroppo» – aggiungeva il papa - «riuscì a fermare quell’immane catastrofe: prevalse inesorabile la logica dell’egoismo e della violenza. Ricordare quei tristi eventi sia monito, soprattutto per le nuove generazioni, a non cedere mai più alla tentazione della guerra».
Nel messaggio per la Giornata della pace del 2012, il pontefice scriveva: «La pace non è un sogno, non è un'utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all'edificazione di un mondo nuovo».
5. Pace non è pacifismo
Sono sufficienti queste incomplete testimonianze a evidenziare che l’opposizione di Francesco alla guerra non è un fatto isolato, ma si inserisce in una forte tradizione che si ritrova espressa in tutti i papi del Novecento. Non si ha, tuttavia, un’idea chiara della posizione della Chiesa cattolica e dei pontefici sulla guerra se non si tiene conto del loro concetto di pace. Una felice sintesi di ciò che essa significa si può trovare in un discorso fatto da papa Francesco durante l’Angelus del 4 gennaio 2015: «La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri. Tuttavia, far tacere le armi e spegnere i focolai di guerra rimane la condizione inevitabile per dare inizio ad un cammino che porta al raggiungimento della pace nei suoi differenti aspetti».
Anche Giovanni XXIII aveva fatto presente, aprendo la sua enciclica, che «la pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris n.1)
Echeggia in queste parole la definizione che Agostino aveva dato del concetto di pace come «tranquillità dell’ordine» (La Città di Dio, XIX,13). Dove “ordine” implica innanzi tutto verità e giustizia. Senza di esse, la pace si ridurrebbe a quella di cui parlava il ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca, con la famosa frase: «L’ordine regna a Varsavia».
In questa prospettiva, Giovanni Paolo II ha ribadito, nel messaggio per la pace del 2001, che «non c’è pace senza giustizia». Ciò spiega perché, nella stessa ricorrenza, nel 1984, papa Wojtyla abbia distinto il significato di “pace” da quello di “pacifismo”: l’uomo di pace, osservava il pontefice, «ha il coraggio di difendere gli altri che soffrono e rifiuta di capitolare davanti all'ingiustizia, di compromettersi con essa; e, per quanto ciò sembri paradossale, anche colui che vuole profondamente la pace rigetta ogni pacifismo che equivalga a debolezza o a semplice mantenimento della tranquillità. In effetti, quelli che sono tentati di imporre il loro dominio incontreranno sempre la resistenza di uomini e donne intelligenti e coraggiosi, pronti a difendere la libertà per promuovere la giustizia».
Ciò implica che, in casi estremi, la pace può aver bisogno, per essere salvata, del ricorso alla forza - contro un pacifismo che vuole mantenerla ad ogni costo - , per il semplice motivo che ci sono dei costi incompatibili con l’idea stessa di pace.
Perciò nella tradizione della Chiesa il concetto di “guerra giusta” è molto radicato. Il caso più tipico è quello della legittima difesa. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, si indicano le condizioni: «Occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione»
La novità è che papa Francesco sembra aver preso le distanze da questa posizione. Proprio in occasione della guerra in Ucraina, egli ha detto: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell'umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono».
E già in un libro-intervista con il sociologo Dominique Wolton, uscito nel 2017, Francesco, alla domanda dell’intervistatore: «Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?», aveva risposto: «Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace».
È vero, però, che, nella recente telefonata fatta a Zelins’kyi, non risulta che il papa abbia chiesto al presidente ucraino di deporre le armi. E, nell’agosto del 2014, di fronte al massacro di civili in Iraq e in Siria, è intervenuto affermando che «dove c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto - sottolineo il verbo, dico “fermare”, non bombardare o fare la guerra». E ha ribadito: «fermare l’aggressione ingiusto è lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista?».
La domanda finale forse aiuta a chiarire il senso complessivo della posizione del papa. Egli sembrerebbe soprattutto preoccupato dell’uso scorretto che si può fare del richiamo alla “guerra giusta”, senza per questo escludere che ci si difenda da una “guerra ingiusta” mossa da altri. È solo un’ipotesi. Il problema – per il papa, come per tutti noi - resta dolorosamente aperto.
«È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale».[239] Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare».[240] La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene».[241] Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra![242]» (Fratelli tutti n.258)
«E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (Fratelli tutti n.262).
«Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. “Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un`autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (Gaudium et spes, 79)» (Catechismo della Chiesa cattolica 2308).
«La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. “Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto” (Gaudium et spes n.79)» (Catechismo della Chiesa cattolica 2312).
«Si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono crimini. Non basta un`obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Così lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un “genocidio”. Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato. Un rischio della guerra moderna è di offrire l`occasione di commettere tali crimini a chi detiene armi scientifiche, in particolare atomiche, biologiche o chimiche» (Catechismo della Chiesa cattolica 2313).
«Si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, dati i mali e le ingiustizie di cui è causa» (Catechismo della Chiesa cattolica 2327).
Giovanni XXIII, Pacem in terris 1963
«La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris n.1).
«L’ordine tra gli esseri umani nella convivenza è di natura morale. Infatti, è un ordine che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall’amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani.» (Pacem in terris n.20)
«In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (Pacem in terris n.5).
«I diritti naturali (…) sono indissolubilmente congiunti, nella stessa persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri; e hanno entrambi nella legge naturale, che li conferisce o che li impone, la loro radice, il loro alimento, la loro forza indistruttibile» (Pacem in terris n.14).
«Le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggetti di diritti e di doveri; per cui anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà. La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche» (Pacem in terris n.47).
«Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Paem in terris n.67).
«Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa; giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche» (Pacem in terris n.68).
«Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite — nelle strutture e nei mezzi — si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti» (Pacem in terris n.75).
Lo sguardo sospeso. Aporìe pasoliniane tra normatività sociale e pratiche singolari
di Luca Peloso
Sommario: 1. La grande assente. Pasolini e la giustizia - 2. Società, autorità, terrore - 3. Il diritto come rovescio dell’omologazione - 4. La società come oppressione (legalizzata) della maggioranza - 5. Personale e impersonale, politico e giuridico - 6. L’intellettuale e il legislatore, l’intellettuale-legislatore - 7. Conclusioni.
1. La grande assente. Pasolini e la giustizia
Giustizia insieme: un binomio eloquente, quasi programmatico, nella misura in cui l'accostamento dei due termini già presuppone, se non una teoria, quantomeno una prospettiva sul consorzio civile, la quale a sua volta denota una sensibilità, un orientamento, un approccio determinato verso i fatti sociali. Qual è, in proposito, quello di Pasolini? Tentare di rispondere a questa domanda non può non condurci a constatare come la giustizia sia termine di riferimento del tutto assente dalla sua riflessione: e come quest'assenza, relativamente ad un intellettuale tanto eclettico, non possa in alcun modo costituire un semplice peccato di omissione, ma risulti di per sé significativa; da cui si deduce l'impossibilità di stare davvero insieme, come si fa in una comunità, anziché limitarsi semplicemente a convivere, come si fa tra estranei.
Scrive Pasolini nel 1968, inaugurando la sua rubrica Il caos sul settimanale Tempo:
appartengo fatalmente a una indifferenziata «AUTORITÀ»: né più né meno che come chi l'ha cercata di proposito: un burocrate, un uomo politico, un generale dei carabinieri, un professore, un industriale. […] Ebbene, io non voglio ammetterlo. […] A questo punto, credo che sia chiara anche la ragione per cui ho voluto intitolare queste mie pagine settimanali «Il caos», il cui sottotitolo ideale potrebbe essere: «Contro il terrore»: l'autorità, infatti, è sempre terrore, anche quando è dolce. Un padre dice dolcemente, cameratescamente, a un figlio piccolo: «Non calpestare le aiuole»: ebbene, questo comandamento negativo entrerà a far parte di un insieme di comandamenti negativi che regoleranno il comportamento di quel bambino; sicché la buona educazione, essendo in gran parte fondata su una serie di regole negative, è, per sua natura, terroristica: infatti essa, quasi a risarcire i sacrifici dell'obbedienza, diventa immediatamente un diritto, e, in nome di tale diritto, il bambino, ben educato, divenuto grande, eserciterà i suoi ricatti morali.[1]
Ecco, in una sorta di compendio, la teoria pasoliniana della società, che non può non gettar luce sulla sua non esplicitata concezione dell'universo giuridico, che da tale concezione discende. Pasolini sta dicendo: tutti i rapporti sociali sono rapporti di potere, perché ogni società, in quanto ordine, contempla per ciò stesso una o più autorità che la strutturino, presiedendo in tal modo tanto al suo funzionamento quanto alla sua perpetuazione. Ora, dire che il potere è per sua natura terroristico (fondato com'è sulla paura di ritorsioni), equivale ad affermare che è sempre arbitrario e prevaricante, cioè ingiusto. La giustizia dunque non compare nel lessico pasoliniano perché ai suoi occhi non si può dare giustizia – se non episodicamente, cioè accidentalmente – all'interno di un gruppo umano. E questo è un primo dato.
2. Società, autorità, terrore
Il secondo concerne la sua visione dell'autorità. Stando alle sue parole, l'autorità non farebbe altro che riprodurre la relazione tra padre e figlio, integralmente fondata sugli ordini, i quali, anche laddove siano formulati con gentilezza, generano un incondizionato terrore in chi li subisce, perché negativi e quindi castranti, associati come sono allo spettro del castigo (non fare questo, altrimenti ti capiterà quest'altro). Ed è proprio da qui che a suo avviso nascerebbero i diritti, risolti nella ricompensa per le sofferenze associate all'obbedienza; il ricatto diventa così il frutto naturale della consapevolezza di diritti inevitabilmente incorporati come valore di scambio, e perciò assunti come oggetto di rivendicazione. Fin da ora, a partire da un linguaggio che testimonia delle sue ascendenze bibliche (comandamento, sacrifici) viene da chiedersi: nei termini di un dominio integralmente vetero-testamentario, prigioniero di una dialettica dualistica-binaria tra le polarità vendetta-perdono, colpa-castigo, sacrificio-ricompensa, che genere di contributo ci si può attendere dalla giurisprudenza, dato che su queste basi ogni questione giuridica viene automaticamente ricondotta al dominio incontrastato della legge come imposizione dall'alto, e dunque l'eventualità della norma come deliberato e consapevole strumento di auto-regolazione è immediatamente scongiurata? Se ogni forma di potere non può che risolversi, nel suo esercizio effettivo, in terrorismo puro e semplice, come può la questione dei diritti (e l'ambito del diritto) non essere riflesso di un utilitaristico do ut des, di una meccanica alternanza di rivendicazioni dal basso e concessioni dall'alto? Davvero non c'è alternativa a questo potere? Pasolini sembra rispondere incondizionatamente di sì. E allora si tratta di chiedersi: in tutto questo che fine fa il desiderio, che della paura è l'altra faccia? Ciò che mi atterrisce è inscindibile da ciò che mi convoca: la fascinazione del potere, e quindi il desiderio di ottenerlo (o di subirlo), in Pasolini dov'è? Stando a quel che afferma, non c'è compromesso e quindi scappatoia da due opposti estremismi: subirlo, oppure esercitarlo. Nessuna ambiguità, nessuna sfumatura né gradazioni intermedie. Eppure verrebbe facile fargli notare come l'intera sua produzione letteraria, saggistica e cinematografica si configuri come provocatoria proprio nella misura in cui irresistibilmente esorta ad una reazione, la quale sempre costituisce l'altra faccia una richiesta di riconoscimento, il quale a sua volta infine altro non è che desiderio. Fuor di metafora: possibile che non sia in alcun modo concepibile la volontà profonda, autentica, sincera di lottare per i diritti (propri o altrui) intesa come impulso costruttivo? Possibile che tutto si lasci ridurre ad una egoistica richiesta di risarcimento seguito alla repressione dei propri impulsi? Inoltre: se la vita sociale si esaurisce interamente nella dialettica del potere, che senso ha, e che fine fa, la riflessione pasoliniana sulla carità, cioè sulla gratuità?
3. Il diritto come rovescio dell’omologazione
Cercare una risposta a questa domanda significa mettersi sulle tracce di quella Relazione al congresso del Partito Radicale del '75 che conclude le Lettere luterane. Nel paragrafo primo Pasolini afferma: “A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono, o addirittura ci rinunciano. C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)”[2]. Limitiamoci a trattenere, di questo passo, ciò che funge da collante e da motore: Pasolini prende sempre le mosse dalla simpatia (sym-pathein), cioè dal sentimento: ciò equivale a dire che resta poeta anche quando parla da cittadino (e infatti può dire, a proposito dei giovani, in apertura delle stesse Lettere, “il mio sentimento è di condanna”[3]). Un poeta politico, certo; o meglio, un poeta e un politico, uno scrittore che non può pensare alla matrice politica dei rapporti interpersonali senza muovere da uno sguardo poetico, cioè sacrale, non laico, personale e particolaristico (quindi infine non-politico, perlomeno in senso moderno e democratico; altra contraddizione strutturale). Come si traduce in effetti la lotta per i diritti civili, pasolinianamente intesa? Qui il suo discorso è inequivocabile: le persone delle categorie A e B, afferma Pasolini, finiscono per essere “carne da macello”[4], perché i membri della categoria C, che egli compendia nella figura dell'estremista, nei fatti insegnano a chi non è consapevole dei propri diritti che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè, nel caso migliore, una democratizzazione in senso borghese. […] La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.”[5]
Insomma, la lotta per i diritti civili, in qualità di sommovimento interno all'entropia borghese che tutto appiattisce, fagocita e omologa, si rivela pregiudicata e inconcludente sin dall'inizio, una non-lotta, poiché l'esito è già scritto, e i rapporti sociali sono ormai immodificabili: la storia è ora esclusivamente storia borghese, il suo svolgimento coincide col falso movimento del ciclo produzione-consumo. Nessuna via d'uscita, dunque? Pasolini a dire il vero afferma più volte che se davvero pensasse che non ci sia più nulla da fare, avrebbe già smesso di parlare. Ma cosa propone poi, concretamente? Di opporsi all'abrogazione forzata di ogni alterità, promossa dagli intellettuali progressisti con il ricongiungimento delle minoranze insipienti alle maggioranze interessate che essi rappresentano, seguitando ad essere “continuamente irriconoscibili”[6]. Ma è realmente una proposta questa? Nel contesto di una società democratica, il cui governo abbisogna di riconoscere le istanze dei suoi membri per deliberare, in che modo l'essere irriconoscibili può concorrere costruttivamente alla vita civile? Non si risolve, tale esortazione, in un principio di disordine fine a se stesso? In tal caso come può il puro caos mitigare il terrore? Non è già un modo, questo, di marginalizzarsi, ponendo le basi per il proprio auto-annullamento? Un singolo cittadino, in quanto soggetto privato, può permettersi di risultare irriconoscibile (Pasolini stesso può dire di sé, con formula emblematica e una volta tanto senza contraddirsi, “ho trasgredito ogni norma e limite”[7]); se l'autorità tuttavia, per definizione, non può permetterselo, perché la visibilità e la decisione costituiscono la sua ragion d'essere, non lo può neppure un soggetto pubblico (sociale) ad essa subordinato: perché agire in modo programmaticamente imprevedibile significa sporgere dal dominio stesso in virtù del quale leggi, norme, convenzioni, usi e costumi, pur nella loro arbitrarietà culturale, garantiscono ad una società quel tanto di stabilità necessaria ad impedirne il disgregamento. Una soggettività organizzata che agisca in modo costitutivamente irregolare e non riconoscibile ha già deciso, nei fatti, di collocarsi fuori dalle regole non scritte del gioco democratico.
4. La società come oppressione (legalizzata) della maggioranza
Maggioranza e minoranza. In Pasolini, le due parole-chiave al fondo dell'oppressione sociale. Qual è infatti il dinamismo interno ai rapporti di forza di una società, secondo lui? In buona sostanza il fatto che la fenomenologia del potere, nel concreto della vita associata, si traduce in una maggioranza che schiaccia, emargina, condanna – e in alcuni casi perseguita – una o più minoranze (che anche considerate nel loro insieme, risultano comunque minoritarie). Ora, una minoranza è tale in quanto composta da “diversi” spontaneamente contrapposti alla massa dei “più”, talmente simili tra loro da confondersi: tutti gli interventi civili di Pasolini, da quelli contenuti nel Caos a quelli presenti in Scritti corsari e Lettere luterane, sono inconcepibili senza questa premessa. Seguendo questo schema giudici, legislatori, magistrati e opinione pubblica stanno tutti dalla stessa parte, quella della maggioranza, perché – pur con mansioni diverse – operano in qualità di custodi o garanti di quelle stesse tendenze il cui tracciamento delimita i confini dell'agire possibile, cioè lecito. I pronunciamenti pasoliniani intorno a questioni giuridiche, a partire dal suo intervento sull'aborto, gravitano invariabilmente intorno a questa concezione, la quale sottintende la società non come insieme di cittadini che cercano – attraverso gli strumenti propri della vita democratica – di raggiungere obiettivi comuni (giustizia, uguaglianza ecc.), bensì come aggregato di individui che, in modalità più o meno casuali o interessate, si coagulano intorno a forme di vita che sull'onda della loro forza d'inerzia si diffondono, dando corpo al senso comune, e facendosi infine prescrittive, normative, ergo minacciose rispetto a tutto ciò che, estraneo ad esse, può minare l'equilibrio su cui si fondano. Nelle parole di Pasolini: “nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l'intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”[8]. Fino a che punto si può considerare fondata, in un dibattito democratico, questa concezione oltranzista del sociale, che non conosce sfumature, che rifiuta la mediazione e il compromesso?
Facciamo qualche passo indietro e risaliamo alle origini cioè alla natura. Un composto organico qualsiasi vede al suo interno elementi omologhi in maggior quantità, e altri (ugualmente simili tra loro) in minor quantità: è una legge naturale che i primi tendano ad imporsi sui secondi. Ora, se ammettiamo che le società umane non siano solo natura ma anche cultura (e perciò storia), dobbiamo anche concedere che tra le funzioni del diritto – per ragioni consustanziali alla cultura stessa – sia da annoverare quella di arginare, limitare, calmierare l'uso della forza, che è in se stessa natura (in caso contrario ci si riduce, appunto, al diritto del più forte che s'impone sul debole). Tradotto nel linguaggio pasoliniano, si potrebbe dire che una delle principali funzioni del diritto è precisamente quella di evitare che la forza dispieghi terroristicamente se stessa, travolgendo con la sua onda d'urto i diversi, cioè le minoranze (non integrate per definizione). Ciò significa che il diritto è tale perché (Pasolini stesso lo ammette quando definisce i diritti civili come “diritti degli altri”) ha facoltà di arginare il potere come correlato di sufficienti e necessarie prove di forza: temperandolo, frenandolo, limitando la sua azione distruttiva. Qui però ricordiamoci di quanto abbiamo detto all'inizio: per Pasolini il potere è sempre terroristico, anche quand'è dolce. Ma allora terroristica è anche, per estensione, la società in se stessa: e infatti la maggioranza in Pasolini è sempre brutalmente repressiva e intollerante. Ma se davvero così è, e per Pasolini non c'è ragione di dubitarlo, viene da domandarsi che senso possa avere il parlare in favore delle minoranze e battersi per esse, dato che se per assurdo dovessero acquisire maggiore influenza – cioè potere – si farebbero a loro volta, almeno idealmente, maggioranze, cioè (nei fatti) oppressive e terroristiche. Inoltre, se ogni società è una forma di terrore organizzato, e l'omologazione consumistica ha infine risolto ogni alterità nell'identità borghese, ciò significa che qualsiasi potere contemporaneo è intrinsecamente totalitario, come tale inarrestabile e imbattibile, e i suoi subordinati resi uguali dal giogo che li opprime: ecco perché Pasolini non distingue fra criminali e criminaloidi, e perché gli risulta irrilevante che il reato sia da essi stato compiuto o meno; un potere totalitario non contempla e non può contemplare la presunzione d'innocenza. Se si assumono le premesse di Pasolini da questi circoli viziosi non si esce. Dove conduce infatti, in ultima analisi, questa concezione parossistica della comunità, se non alla sua negazione? Proviamo allora a guardarla da un'altra angolazione e chiediamoci ora: da dove si origina?
5. Personale e impersonale, politico e giuridico
Ovvio: dalle sue vicende biografiche. Dal suo trauma sessuale, correlato del verdetto di condanna unanime che la società – per mezzo del costume e dei tribunali – ha pronunciato una volta per sempre contro di lui, al punto che egli è diventato inscindibile da questo marchio. Pasolini è la sua diversità. Ecco perché per lui solo ciò che è personale è reale e concreto, ecco perché gli importa solo di quest’uomo o di quest’operaio; ecco perché, riguardo la questione dell'aborto, è questo feto e questa vita che gli importano, e perché può rimproverare ai sociologi di fabbricare modelli da laboratorio giocando su due tavoli, quella sociologia (astratto) e quello della vita (concreto, irriducibile com'è, nella sua singolarità vivente, ad una media ponderata). Verrebbe da ribattere che anche l'uomo medio, contro cui Pasolini si scaglia senza tregua, è in fondo un'astrazione: non si sa com'è fatto e dove si trova, finché non lo si ha davanti e lo si può additare (come appunto qualsiasi altro campione sociologico). Ma al di là di questo, come si può rinfacciare una mancanza di concretezza[9] a coloro che per mestiere sono tenuti ad occuparsi della società nel suo insieme, se nell'ambito delle discipline in questione l'individuo concreto è in primo luogo e necessariamente il polo di una relazione biunivoca rispetto ad una collettività che di per sé non è figurabile? Pasolini sembra spesso confondere il mandato dello scrittore, che sempre si rivolge a qualcuno in particolare, inteso come destinatario determinato (fosse anche un altro se stesso) la cui semplice presenza esclude altri, e quello del sociologo o del legislatore, che viceversa osservano – e non possono non osservare – i fenomeni sociali da una certa distanza, proprio affinché il loro operato risulti il più equilibrato, equanime ed “inclusivo” possibile (quantomeno nelle società democratiche). Pasolini rimprovera ai legislatori un' “astrazione pragmatica”[10] che è nelle coordinate di base del loro mestiere. Un legislatore infatti non è tenuto ad aver presente quest'uomo, questa persona, questa donna, questo feto in particolare, perché è parte della sua deontologia (o, direbbe Lévi-Strauss, del suo “sguardo da lontano”) concepire il singolo come parte di un insieme che certo lo comprende, ma insieme lo integra e lo supera, possibilmente senza annullarlo. Il diritto, come la sociologia e l'antropologia (e al contrario della letteratura), è una scienza sociale.
6. L’intellettuale e il legislatore, l’intellettuale-legislatore
Che Pasolini a tratti demandi al giuridico funzioni che non gli competono, lo testimoniano i suoi affondi contro la lingua degli “avvocatucci provinciali e volgari”[11]. Ora, perché confondere l'estetico col politico? Pasolini ribatterebbe, sulle orme di Gramsci, che tutto è politico; eppure niente come la percezione e il sentimento, da cui si muovono tutti i suoi discorsi ideologici, affondano le radici nella soggettività, che è per sua natura rappresentativa di nient'altro se non del singolo che parla e scrive. A Pasolini la civiltà dei consumi non piace, il che è legittimo e pure comprensibile, nella misura in cui il suo avvento coincide con la scomparsa di quel mondo contadino e sottoproletario in passato così importante per lui; il fatto è che ciò lo conduce a rigettare in blocco tutta la società, tutto il presente, e di conseguenza ogni forma di vita possibile cioè futura: “non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l'individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata”[12]. Ma laddove il rifiuto diventa l'unica opzione possibile, e se l'unico avvicendamento ormai concepibile è quello che sfocia nell'allineamento degli oppressi con gli oppressori, che margine d'azione reale potranno avere infine leggi, decreti, riforme, emendamenti, lotte per i diritti civili? È lui stesso a dire che “bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile”[13]; ma questa non è forza, è istigazione al suicidio, da intendere se non altro metaforicamente come morte sociale; a questo punto la critica – fondata o meno – diventa irrilevante, perché, risolvendosi in uno sterile e incondizionato rigetto nei confronti dell'intero esistente, cessa di essere significativa, calcificandosi in una postura, quando non addirittura in una posa[14]. Questo negarsi ad ogni proposta, ad ogni coinvolgimento, questa preventiva negazione della possibilità d'incidere concretamente nella vita politica e democratica, non può che equivalere ad una pura e semplice dichiarazione d'impotenza (Pasolini presenta come ipotesi, e non come domanda retorica, quella che verte sul fatto se i rapporti sociali siano divenuti o meno, con la civiltà dei consumi, del tutto immodificabili: ma è evidente che lo dà per scontato; la sua prospettiva lo sottintende in modo inequivocabile). Tale dichiarazione è l'esito della convinzione, presente in Pasolini sin dalla seconda metà degli anni '60, che lo stesso nazismo e gli stessi Lager non siano stati altro che uno dei momenti nel processo di affermazione della civiltà dei consumi. Un momento, quindi una fase, una parte integrante: non un'aberrazione, non un unicum, non una misteriosa e imprevista deviazione (com'è invece in Primo Levi). Ma è chiaro che se si pensa questo, allora non c'è riforma del codice né mozione legislativa che tenga: la storia umana è al capolinea. Apocalisse; Fukuyama al contrario. O il vicolo cieco dato da un circolo vizioso, oppure la contraddizione paralizzante: perché Pasolini per soprammercato chiede alla società quel che è concepibile e praticabile solo per il singolo. Scrive infatti negli Scritti corsari: “condivido col partito radicale l'ansia della ratificazione, l'ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia”[15]. Ma come si può scrivere questo, e poi sostenere (come fa in continuazione) che i legislatori arrivano sempre in ritardo? La ratifica è procedura che segue a un rilevamento, è quindi necessariamente un atto a posteriori: arriva in ritardo per definizione. Si dirà: è l'entità del ritardo ad essere l'obiettivo di Pasolini, quel che intende dire è che i legislatori sono sempre troppo in ritardo, e questo inciderebbe sensibilmente sulla qualità della vita democratica. Ma allora quand'è che un ritardo diventa colpevole? Quando lo decide l'intellettuale? Ancora, è Pasolini stesso ad insistere costantemente sul fatto che ciò che si vive nell'esistenza è sempre infinitamente più avanti di ciò che si vive nella coscienza: che linguaggio del corpo, comportamenti e azioni sono i vincoli originari di una realtà umana e sociale antecedente a quella ufficiale, la pratica essendo sempre “una teoria ancora non detta”[16]. In questa luce le leggi scritte diventano l'espressione codificata di processi che, nella loro tensione normativa, sono già sostanza vivente di una comunità. E qui si perviene ad un'altra contraddizione irresolubile. Pasolini nel Caos riporta infatti, qualificandola come “nota lieta della magistratura” alla base del dissequestro del film Assoluto naturale di Bolognini, la sentenza di un giudice istruttore che così motiva la sua delibera: “le modificazioni del costume non possono essere, in sede giudiziaria, né assecondate né contrastate, dovendo il giudice limitarsi a prenderne atto in quanto obbligato per legge a riferirsi al comune sentimento e non alla propria personale sensibilità”[17]. Questo equivale a dire che una ratifica democratica è sempre una ratifica della maggioranza in favore della maggioranza (il “comune sentimento” cui il giudice è obbligato a riferirsi). La domanda diventa allora: che valore può avere la sottoscrizione formale di un principio democratico, laddove se ne contesta la validità nel momento in cui la sua applicazione ci discrimina?
7. Conclusioni
Pasolini inaugura le sue pubblicazioni sul Caos chiedendosi: “Perché ho accettato di scrivere per «Tempo» la presente rubrica? [...] Ci sono molte ragioni: la prima è il mio bisogno di disobbedire a Budda. Budda insegna il distacco dalle cose […] e il disimpegno […]: due cose che sono nella mia natura. Ma c'è in me, appunto, un irresistibile bisogno di contraddire a questa mia natura”[18]. Pasolini ci sta dicendo che la sua natura è doppia: che la sua vera cifra, che il suo tratto definitorio e definitivo è la contraddizione. Ed effettivamente il suo rapporto con la società e le sue istituzioni – l'abbiamo visto – è sotto il segno di una costante, onnipresente contraddittorietà: Pasolini sembra opporsi incondizionatamente alla società proprio in nome di ciò che la rende tale. Accetta, in coscienza, i principi costitutivi (formali, giuridici) della vita democratica, eppure, nei fatti, li contesta sistematicamente, votandosi ad una contestazione aprioristica di tutto ciò che è sociale proprio in quanto sociale (diffuso, massificato, “medio”, conformato e perciò conformistico). Da qui la tensione che confluisce nei suoi pronunciamenti pubblici, sprigionata da uno sguardo costantemente sospeso tra l'accettazione della tensione normativa intrinseca alla vita comunitaria (e connaturata alla scelta stessa di non chiamarsene fuori[19]) – con annesso il proposito di contribuire democraticamente alla tutela di ciò che questa tensione tende a violare –, e al contempo la sotterranea, sconsolata convinzione che qualsiasi forma di diritto si fondi su una consapevolezza che, in quanto sapere, non può far altro che tradursi prima o poi in rivendicazione e acquisizione di potere, cioè in volontà di potenza: prevaricazione su un debole che a questo punto diventa, in virtù della sua stessa natura e al di là di ogni ingannevole deterrente culturale, comunque destinato a soccombere. Da qui, ancora, la contraddizione tra riferimento alla persona come termine ultimo di ogni tensione civile indirizzata al progresso, e rifiuto dell'inevitabile gradiente impersonale che la stessa nozione di società comporta. Da qui, infine, l'oscillazione perenne tra militanza come intervento su temi e soggetti di natura giuridica (riforma del codice, legalizzazione dell'aborto, invocazione del processo ai gerarchi DC, riflessione sui diritti civili), e viceversa disimpegno come auto-affermazione di una diversità irriducibile, nei fatti, ad ogni compromesso democratico. Quella tra Pasolini e il diritto è insomma la storia di un rapporto irrisolto, perché irresolubile; in definitiva impossibile.
[1] Pier Paolo Pasolini, Il caos , Garzanti, Milano 2019, p. 8.
[2] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Milano 2020, p. 205 (cors. nostro).
[3] Id., p. 18.
[4] Id., p. 207.
[5] Id., p. 208-9.
[6] Id., p. 215.
[7] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2021, p. 211.
[8] Id., pp. 98-9.
[9] Di ascendenza (manco a dirlo) borghese, categoria buona per tutti i contesti e per tutte le stagioni.
[10] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, op. cit., p. 101.
[11] Id., p. 139.
[12] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, op. cit., p. 39.
[13] Id., p. 40.
[14] Quanto più saggio, quanto più sensato risulta viceversa l'approccio di chi cerca di “comprendere le trappole corrosive, autoreferenziali e autocontenute della critica fine a se stessa” (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019, p. 208). L'alternativa, come si vede, è l'auto-castrazione.
[15] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, op. cit., p. 98.
[16] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, p. 63.
[17] Pier Paolo Pasolini, Il caos, op. cit., p. 279.
[18] Id., p. 7.
[19] Come fa viceversa l'eremita.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Anna Rossomando
Nella proposta di revisione costituzionale l’Alta Corte sostituirebbe le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione quanto al sindacato sulle sentenze disciplinari emesse dalla Sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Con riferimento a questa previsione incuriosisce la circostanza che si ritenga di rimediare alla caduta di immagine del Consiglio operando su compiti affidati alle sezioni Unite civili della corte di Cassazione.
1. Quali sono le criticità rilevate in ordine al sindacato delle Sezioni Unite civili sulle sentenze emesse dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che fanno ritenere il sindacato dell’Alta Corte preferibile rispetto a quello delle Sezioni Unite?
La proposta di revisione costituzionale non è legata a criticità nell’operato delle Sezioni Unite (e nemmeno della giurisdizione amministrativa nel sindacato sui provvedimenti non disciplinari del CSM e sui provvedimenti degli altri organi di autogoverno). Allo stesso modo, la riforma non si lega ai recenti fatti di cronaca che riguardano la magistratura. Sebbene sia innegabile che essi abbiano inciso sulla fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura, la proposta di revisione costituzionale – così come il più generale contesto di riforme relative al processo e all’autogoverno – risponde ad esigenze di carattere sistematico. L’istituzione dell’Alta Corte si giustifica, dunque, in considerazioni di respiro più ampio, che attengono tanto all’irrobustimento degli strumenti costituzionali di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, quanto all’esigenza di rendere l’amministrazione della giustizia, complessivamente considerata, capace di rispondere in modo sempre più efficace alle concrete esigenze di tutela dei diritti delle persone. L’idea, peraltro, non è nuova: già la cd. Commissione dei Saggi, nominata nel 2013 dal Presidente Napolitano, ne caldeggiò l’introduzione. Nel documento finale, si rilevò infatti l’inopportunità - per un’istituzione così influente come la magistratura - del solo “giudizio disciplinare dei pari” e propose che “il giudizio disciplinare per tutte le magistrature [restasse] affidato in primo grado agli organi di governo interno e in secondo grado […] ad una Corte, istituita con legge costituzionale”.
Non siamo, dunque, di fronte a un intervento dettato dalla contingenza: semmai, si tratta esattamente del contrario. Attraverso l’istituzione dell’Alta Corte e l’affidamento ad essa – organo costituzionale di indiscussa indipendenza ed elevato prestigio (la sua composizione è modellata su quella della Corte costituzionale) – delle impugnazioni dei provvedimenti del CSM e degli altri organi di autogoverno delle magistrature, il quadro costituzionale viene completato con il trasferimento ad un più alto livello del controllo su fondamentali decisioni riguardanti lo di statuto e la disciplina dei magistrati. Ciò renderebbe ancor più evidente il rilievo costituzionale delle posizioni e degli interessi coinvolti nel sindacato su queste decisioni.
In questa prospettiva, e muovendo da queste premesse, l’intervento si collega armonicamente ai processi di riforma dell’autogoverno in atto, accompagnando e rafforzando il percorso di rigenerazione che la magistratura è chiamata a compiere nell’attuale momento di difficoltà.
2. L’ultimo comma dell’art. 105 bis della proposta di revisione costituzionale, nel disegnare la competenza del nuovo organo giurisdizionale, fa riferimento alle controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi (CSM, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, n.d.r.) riguardanti i magistrati. Questo amplissimo genus della materia non eccede la finalità che la proposta intende perseguire? E ancora, la diversa natura dei detti organismi – uno dei quali paracostituzionale – giustifica una loro assimilazione in punto di tutela giurisdizionale?
Come accennato, la proposta intende trasferire a livello costituzionale le impugnazioni dei provvedimenti in materia di autogoverno e disciplina dei magistrati, con riferimento a tutte le magistrature, prevedendo l’impugnazione dinanzi all’Alta Corte non solo dei provvedimenti disciplinari ma anche dei provvedimenti lato sensu amministrativi che riguardano i magistrati (come nomine o trasferimenti). Mediante la trasposizione a livello costituzionale di queste controversie si intende assicurarne una maggiore evidenza nello spazio pubblico ma anche ribadire il loro estremo rilievo e impatto sulle dinamiche della separazione dei poteri. Si intende, in una parola, irrobustire la radice costituzionale del principio di autonomia e indipendenza della magistratura, non solo rendendola più evidente, ma anche conferendo solennità ancora maggiore agli atti in cui essa si manifesta. E questo, sia con riferimento alla magistratura ordinaria che alle altre magistrature. Non ritengo d’altra parte, per rispondere alla seconda domanda, che la posizione costituzionale del CSM possa essere indebolita dall’introduzione di uno specifico organo costituzionale deputato al sindacato sui suoi atti: si tratta semmai esattamente del contrario. Prevedere un regime speciale di impugnazione degli atti del CSM, affidandolo ad un organo costituzionale ad hoc, significa riconoscere proprio la peculiare rilevanza costituzionale di quegli atti, salvaguardandola. Allo stesso modo, credo che assoggettare al medesimo organo di controllo gli atti di tutte le istituzioni di autogoverno – abbiano esse o meno rilievo costituzionale – sia ampiamente giustificato dall’analogia delle funzioni esercitate dagli organi di autogoverno ma anche – e soprattutto – dal principio di unità della giurisdizione. Tale principio trascende la distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali e si giustifica, in ultima analisi, nella comune funzionalizzazione dell’esercizio della giurisdizione alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi. Proprio alla luce di questa connessione funzionale ha senso far convergere in una unica sede il controllo sugli atti di autogoverno, pur nel rispetto delle specificità di ciascuna giurisdizione.
3. La creazione di un organo giurisdizionale che erode tanto la giurisdizione del giudice ordinario che quella del giudice amministrativo non rischia di delegittimarne la funzione di garanzia e di complicare il sistema di tutela giurisdizionale fondato non solo sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi ma anche sulle modalità di tutela offerte dai diversi plessi giurisdizionali, lasciando prefigurare difficoltà non marginali all’atto della definizione delle regole che dovrà avere il processo innanzi all’Alta Corte?
La logica, ripeto, non è quella di una competizione tra diversi rimedi giurisdizionali. Si tratta piuttosto di un cambio di prospettiva. E del riconoscimento del peculiare rilievo delle funzioni attribuite agli organi di autogoverno sul piano della tenuta del principio costituzionale di separazione dei poteri ma anche – più in generale – sul piano della stessa legittimazione del potere giudiziario, in tutte le sue articolazioni. Proprio per questo escluderei rischi di delegittimazione della giurisdizione in conseguenza dell’istituzione dell’Alta Corte. Ritengo invece che si tratti di uno strumento idoneo a rafforzare quella legittimazione, rendendone sempre più evidente il solido ancoraggio alla Costituzione. Quanto alle forme processuali, non vedo i rischi paventati nella domanda. Stiamo parlando di giudizi di impugnazione di categorie di atti che – pur inserendosi in sistemi diversi e richiamando parametri normativi diversi – restano molto simili tra loro dal punto di vista funzionale: provvedimenti disciplinari e provvedimenti amministrativi relativi alle carriere. Credo che in sede di definizione delle disposizioni di attuazione non sarà difficile adeguare il procedimento dinanzi all’Alta Corte alle eventuali specificità dovute alla diversa provenienza degli atti impugnati.
4. Quali punti di contatto e quali differenze, a suo giudizio, si possono cogliere, oltre all’idea di modificare l’impianto costituzionale che è propria della proposta di revisione costituzionale Rossomando, rispetto al disegno di legge del 22 maggio 2018 presentato alla Camera dei deputati (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”?
Si tratta di due interventi che hanno un perimetro e un ambito di azione molto diverso. Il ddl C. 649 mira all’istituzione di un Tribunale superiore dei conflitti, avente la funzione di risolvere esclusivamente le questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali. Per questo al Tribunale dei conflitti verrebbe attribuita in via esclusiva la cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione.
L’istituzione dell’Alta Corte risponde invece ad altra finalità che, come già sottolineato, è quella di costituzionalizzare l’impugnazione dei provvedimenti degli organi di autogoverno. Pertanto, il ddl C. 649 mira ad affrontare e risolvere la conflittualità (tecnica) interna alle giurisdizioni in punto di definizione dei reciproci confini di intervento e azione. Il ddl di revisione costituzionale riguarda piuttosto l’irrobustimento degli strumenti di controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno, riconoscendo lo specifico rilievo costituzionale di esse.
5. La proposta di legge Rossomando non rischia di limitare la funzione suprema riservata alla Corte di Cassazione quale organo giurisdizionale indipendente dal potere politico e chiamato a garantire l’uniforme interpretazione del diritto?
L’istituzione dell’Alta Corte sottrarrebbe alla Corte di cassazione esclusivamente la competenza sui giudizi di impugnazione dei provvedimenti disciplinari del Consiglio Superiore della Magistratura. Si tratta di una funzione specifica, che non si lega alla più generale funzione nomofilattica, la quale resta attribuita alla Suprema Corte e non viene affatto intaccata dalla proposta di revisione costituzionale.
6. Secondo quanto si legge nell’articolato è previsto un doppio grado di impugnazione, non è anomalo che la prima fase di impugnazione sia affidata a un collegio composto da tre componenti quando sono cinque i componenti della sezione disciplinare del Csm?
La composizione della Sezione disciplinare del CSM e quella delle sezioni giudicanti dell’Alta Corte corrispondono a logiche diverse. Non ritengo siano assimilabili e – di conseguenza – non vedo elementi di anomalia. Le motivazioni della scelta di affidare il primo giudizio di impugnazione a un collegio formato da tre membri sono peraltro rese esplicite dallo stesso articolo 105-quater, comma 2: i membri sono tre perché la sezione è composta in modo tale da rispecchiare le diverse modalità di selezione dei componenti dell’Alta Corte che sono, appunto, tre (nomina presidenziale, elezione parlamentare, elezione da parte delle supreme magistrature). Si prevede inoltre che il terzo componente provenga dallo stesso ordine giudiziario cui appartiene il magistrato destinatario del provvedimento impugnato, ovvero dalla Corte di cassazione se si tratta di magistrati militari o tributari. Infine, va segnalato che i provvedimenti adottati dalla sezione singola possono essere a loro volta impugnati dinanzi all’Alta Corte in composizione plenaria.
7. Una questione interessante, che peraltro rileva in termini di efficienza dell’azione dell’organo che si intende istituire, è quella connessa alla specializzazione, come è noto più un organo è specializzato, più esso è efficiente, rapido e prevedibile. Secondo la proposta l’Alta Corte avrebbe il compito di sindacare i provvedimenti disciplinari emessi dai rispettivi organi nei confronti di magistrati amministrativi, contabili, militari e tributari ovvero magistrati assoggettati a differenti ordinamenti disciplinari, qual è l’utilità di istituire un organo unico?
Come già accennato, l’istituzione di un unico organo deputato al sindacato dei provvedimenti adottati nell’esercizio delle funzioni di autogoverno ha una specifica giustificazione di ordine sistematico: si tratta, cioè, di conferire specifica evidenza costituzionale alle relative funzioni, enfatizzandone e valorizzandone il legame con il principio di separazione dei poteri, con il principio di autonomia e indipendenza della magistratura e anche con l’irrobustimento della sua legittimazione sul piano costituzionale. Nella scrittura del testo, ci si è posti il problema della specializzazione, al quale si è fatto fronte modellando i criteri di composizione dell’Alta Corte e i requisiti richiesti per farne parte su quelli già previsti per la composizione della Corte costituzionale. Anche la Corte costituzionale, infatti, è organo chiamato a pronunciarsi su materie molto diverse fra loro; ed è stata la stessa Costituzione a risolvere il problema della specializzazione ancorando la composizione della Corte costituzionale a standard di elevatissima competenza, che vengono ripresi dal disegno di legge per la composizione dell’Alta Corte.
8. Il recente annullamento delle delibera di nomina del Primo presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Presidente aggiunto, ha posto in luce la contraddittorietà di un sistema che consente di porre sub iudice provvedimenti che sono estrinsecazione di poteri rimessi in via esclusiva, secondo previsione costituzionale - art. 105 Cost.-, al Consiglio superiore della magistratura. La questione, come è noto, fu molto discussa nei primi anni ’50 e, alla fine risolta, dall’art. 17 legge n. 195/58, ma è innegabile che la tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall' art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt. 101 e 104 Cost.).
9. L’istituzione dell’Alta Corte potrebbe risolvere, o spostare, il punto della questione o permarrebbero immutate le criticità evidenziate in ragione dell’esclusività – per Costituzione - dei poteri Consiliari in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati?
Con l’istituzione dell’Alta Corte ci si fa carico di questo specifico problema, nella misura in cui alla Corte medesima è attribuita anche la competenza sulle impugnazioni di tali provvedimenti. Proprio perché si tratta di provvedimenti che non incidono soltanto sul buon andamento dell’amministrazione della giustizia, ma anche su diritti e interessi legittimi del singolo magistrato, si è ritenuto di assoggettarli al sindacato dell’Alta Corte. La convinzione è che ciò contribuisca in maniera significativa ad alleggerire la conflittualità in relazione all’esercizio di tali funzioni di autogoverno, valorizzando al contempo lo specifico rilievo costituzionale dell’amministrazione della giustizia, anche sotto il profilo del sindacato di legittimità dei provvedimenti riguardanti carriera, assegnazioni e trasferimenti.
10. Si prevede che l’Alta Corte sia composta da quindici giudici, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative. Con riferimento alle peculiarità della magistratura ordinaria e di quella amministrativa, la previsione di un terzo, composto promiscuamente da magistrati ordinari e amministrativi, è idoneo a garantire i principi di autonomia?
La previsione di una componente eletta dalle supreme giurisdizioni ordinaria e amministrativa rispecchia proprio la finalità di assicurare e valorizzare l’autonomia e le specificità dei diversi ordini, pur nella valorizzazione del principio di unità della giurisdizione. Come si è visto in relazione alla composizione delle sezioni giudicanti sulla prima impugnazione, ciò ha anche la funzione di consentire – nei limiti del possibile – un giudizio cui partecipino anche pari. In tal modo, si viene a creare un equilibrio tra l’istanza di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e la necessità di introdurre elementi di maggiore dialettica nell’esercizio delle funzioni di controllo.
11. Non ci sono criticità, secondo lei, con riferimento alla previsione che magistrati possano essere eletti dal Parlamento, come componenti dell’Alta Corte? Ciò, ad esempio, non potrebbe sollecitare, determinare o far apparire che esistano contatti, non trasparenti, tra magistrati e politica ovvero non potrebbe fa pensare a possibili opacità analoghe a quelle emerse dall’Hotel Champagne, ossia le stesse opacità che incrinano la fiducia dei cittadini e che la legge stessa intende combattere?
L’elezione parlamentare è modellata su quella prevista per i giudici costituzionali (ma anche, volendo, per l’elezione dei membri laici del CSM) che, come noto, avviene secondo quorum molto elevati (che hanno la funzione di sottrarre l’elezione del giudice alla conflittualità politica ordinaria) e sulla base di criteri di riconosciuta competenza e autorevolezza. Per questo, non vedo il rischio di commistioni, anzi semmai il contrario, considerato anche l’elevato tasso di trasparenza e pubblicità di una elezione affidata al Parlamento in seduta comune. Infine, l’analogia richiamata con le note vicende mi pare impropria e non ritengo possa imputarsi alle modalità di elezione e di individuazione dei componenti bensì piuttosto ad una concezione distorta delle relazioni di potere. È infatti da essa e non certo da un’eventuale elezione parlamentare che deriva il rischio di opacità paventato nella domanda.
12.Quale la ragione e il senso del sorteggio tra i due magistrati eletti dal Parlamento?
Il sorteggio è previsto dall’articolo 105-quinquies in via transitoria e con esclusivo riferimento alla prima composizione dell’Alta Corte. Giacché infatti la prima composizione sarà contestuale, la scelta mediante sorteggio di un giudice per componente destinato a decadere alla scadenza del primo quadriennio ha la funzione di evitare che – allo scadere del primo mandato – sia l’intera Corte a decadere, garantendo invece l’avvicendamento parziale tra i giudici. Il ricorso – in via eccezionale e transitoria – al sorteggio ha dunque motivazioni esclusivamente tecniche, finalizzate a garantire il corretto funzionamento dell’organo: e non già legato ad una preferenza per il sorteggio medesimo nella selezione di cariche pubbliche. A tale riguardo, colgo l’occasione per ribadire anzi la mia contrarietà assoluta al metodo del sorteggio per la formazione di organi costituzionali o di rilievo costituzionale – incluso il CSM – salvo eccezioni giustificate, come in questo caso, da ragioni tecniche. Non a caso, anche tale aspetto della disciplina dell’Alta Corte ricalca quanto a suo tempo previsto dall’articolo 4 della legge costituzionale n. 1/1953 (poi abrogato dalla legge costituzionale n. 2/1967) per il rinnovo parziale della Corte costituzionale a seguito della prima nomina e, poi, della diminuzione da dodici a nove anni della durata del mandato di giudice.
13. Attraverso quali percorsi l’Alta corte dovrebbe riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini - magistrati e restituire prestigio alla magistratura?
Dare evidenza e rilievo costituzionale al controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno contribuisce ad irrobustire la legittimazione della magistratura, rendendone ancora più saldo l’ancoraggio alla Costituzione. Questo è indubbiamente un primo aspetto che può rafforzare la fiducia dei cittadini nella magistratura. A ciò si aggiunga che, per il cittadino, può avere grande importanza sapere che la Repubblica attribuisce al controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno un’importanza tale da consacrarne forme, modalità e condizioni nella Costituzione, vale a dire il testo in cui è cristallizzata la formula di convivenza della nostra comunità politica. Anche questo può senza dubbio accrescere un clima di fiducia e restituire prestigio alla magistratura. Si tratta di essere, e soprattutto sentirsi, parte di una unica comunità di destino, che costantemente ritrova nella Costituzione la propria bussola.
Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo*
di Giuseppe Tropea
1. Un criterio sistematico per inquadrare le persistenti criticità in tema di acquisizione sanante può essere quello che parta dal lungo periodo per giungere all’accavallarsi più recente fra impostazione funzionalista e proprietaria nel giro di pochi anni[1].
Nell’espropriazione per p.u. sono presenti, sin dall’origine, due profili[2]: strutturale, attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.; funzionale, ovvero volto alla realizzazione dell’interesse pubblico. Il primo aspetto risolve un problema di appartenenza (norme di relazione); il secondo aspetto risolve un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione).
Corollari di tale inquadramento di larga massima, sono, sotto il profilo sostanziale l’esaltazione dei valori della certezza e della garanzia, la centralità delle forme di apprensione del bene. Nel secondo profilo, invece, le forme sono secondarie, in quanto volte a tutelare l’interesse pubblico. Quanto al corollario processuale della distinzione di cui sopra, il giudice dell’appartenenza è notoriamente il g.o., quello dell’interesse pubblico è il g.a. Ovviamente in questa sede semplifico, forse sin troppo, un tema che è stato capo delle tempeste di tutto l’ambito spinosissimo del riparto, basti pensare all’annoso scontro tra Corti sull’ampiezza della nozione di carenza di potere (in astratto o in concreto).
Nella versione originaria dell’istituto espropriativo il profilo strutturale è centrale, anche se rileva pure l’interesse pubblico, sia ab initio (d.p.u.) che ad espropriazione compiuta (retrocessione in caso di mancata realizzazione dell’interesse pubblico). In seguito, si accentua progressivamente l’accezione funzionalista[3], in cui prevale il pubblico interesse e risultano meno garantite certezza e forme. Ciò è legato alle tendenze metodologiche funzionaliste degli anni ‘70[4] ed alla esaltazione del valore conformativo della «funzione sociale» rispetto alla proprietà privata (art. 42 Cost.), sempre più “terribile diritto”[5].
L’assetto funzionalista trova quindi conferma nell’impianto del t.u. espropriazioni del 2001 (d.P.R. n. 327/2001), ma si scontra col “rinascimento proprietario“[6] derivante dalla giurisprudenza Corte Edu degli anni 2000[7], poi proseguito dalla Consulta, che si caratterizza essenzialmente per: istanze indennitarie agganciate al valore di mercato del bene; esigenze di garanzia stabilità e prevedibilità, anche nella giurisprudenza (principio di legalità intesa come prevedibilità, non solo della disposizione ma anche della giurisprudenza); lotta alle cd. espropriazioni “larvate”.
In un primo momento è la Cassazione ad apparire più legata al dogma funzionalista mentre il g.a. appare più filo-proprietario e in linea con la Cedu. Più di recente, come si dirà, le parti sembrano essersi invertite, specie dopo le due sentenze della Corte costituzionale che hanno fatto i conti prima con l’art. 43 poi con l’art. 42-bis del t.u. espropriazioni.
L’impostazione della Cassazione in tema di accessione invertita, risalente a un notissimo arresto del 1983, non muta dopo le sentenze Corte Edu dei primi del 2000. Si ritiene che l’occupazione acquisitiva non costituisca violazione della Cedu, in quanto l’interpretazione giurisprudenziale è divenuta costante, soddisfacendo il requisito della “prevedibilità“richiesto dalla Corte Edu a supporto del principio di legalità[8]. Ma la Corte Edu continua ad essere contraria[9]. E così pure la giurisprudenza amministrativa[10].
Sono dell’avviso che sia possibile adottare due chiavi di lettura per cogliere questi residui profili di criticità. Quella sostanziale: del rapporto fra istituti di diritto privato e loro declinazione in senso speciale-pubblicistico (es. usucapione, rinuncia abdicativa, etc.). Quella processuale: dell’acquisizione sanante come problema anche – se non soprattutto ormai – di diritto processuale e di tutele[11] (es. tema del riparto di giurisdizione, tema delle tutele e dei poteri del commissario ad acta, tema dei limiti oggettivi del giudicato).
Sviluppando questi due profili indagherò la giurisprudenza costituzionale e amministrativa degli ultimi anni in tema di acquisizione sanante.
2. Già dopo Corte cost. n. 293/2010 che ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega l’art. 43 t.u. espropriazioni, vi è stata una fase giurisprudenziale di passaggio con ricostruzioni funzionalizzanti del g.a., volte a colmare il vuoto lasciato da detta decisione.
Varie opzioni giurisprudenziali, più o meno estrose, sono state adottate per colmare la lacuna, e a fronte della scomunica di Strasburgo verso l’accessione invertita.
Da alcune sentenze che, nel richiamare con prosa significativamente imbevuta di concetti romanistici l’istituto della specificazione (art. 940 c.c.): acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’ente specificatore e indennizzo (valore venale) per il proprietario[12], ad altre che, in modo più lineare e meno enfatico, hanno affermato l’obbligo restitutorio facendo però salva l’acquisizione per usucapione ventennale e attribuendo rilievo alla eccessiva onerosità (art. 2058 c.c.) come causa di impedimento della restituzione ove «il costo del ripristino supererebbe il valore di mercato del bene»[13].
In tale scenario Corte cost. n. 71 del 2015 si rivela una decisione per nulla scontata.
Come noto, essa ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111, commi 1 e 2, e 117, comma 1, Cost., dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, in ragione delle significative innovazioni dell’art. 42 bis cit. rispetto al precedente art. 43 del medesimo T.U. espropri, che rendono il meccanismo compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropriazioni cosiddette indirette, ed anzi rispondente all’esigenza di trovare una soluzione definitiva ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione di un provvedimento formale della pubblica Amministrazione. Tali differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono, in particolare, nella previsione: del carattere non retroattivo dell’acquisto; della necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione attraverso uno stringente obbligo motivazionale; del riconoscimento al proprietario non solo del danno patrimoniale ma anche di quello non patrimoniale; della condizione sospensiva per il passaggio della proprietà data dal pagamento delle somme dovute; dell’applicazione dell’acquisizione non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o il decreto di esproprio; infine, della comunicazione del provvedimento di acquisizione alla Corte dei conti da parte della medesima autorità che acquisisce.
Restano aperti numerosi problemi.
Davvero l’art. 42-bis scoraggia le pratiche non conformi alle norme relative agli espropri in “buona e dovuta forma“? È necessario, in tal senso, un quadro giuridico in cui le acquisizioni sananti “costino“ più degli espropri legittimi, per evocare nozioni di analisi economica del diritto[14]. Davvero oggi c’è conformità con la Cedu quanto al rispetto del principio di legalità?
Su alcuni problemi aperti ancora non ci sono state ancora Plenarie o prese di posizione della Corte di Strasburgo. La valutazione della p.a. resta discrezionale, ma ci si può legittimamente chiedere se la motivazione sull’interesse pubblico sia realmente sindacabile). Si pensi al tema della potenziale omissione del “giusto procedimento“ espropriativo[15] che l’art. 42-bis di fatto autorizza.
A fronte di tanti problemi aperti vi sono stati vari interventi di Sezioni unite e Adunanza plenaria, a conferma della persistenza delicatezza della questione. In questa sede mi occuperò solo della giurisprudenza costituzionale e amministrativa pur essendo importante anche la questione del riparto di giurisdizione in tema di indennizzo[16].
In particolare, considererò con l’uso delle chiavi di lettura metodologiche sopra indicate il tema della rinuncia abdicativa (Ad. plen. n. 2 del 2020); della servitù e dell’applicabilità dell’art. 42-bis anche ad attività privatistiche viziate (Ad. plen. n. 5/2020); del giudicato implicito e dei limiti oggettivi del giudicato civile risarcitorio (Ad. plen. n. 6 del 2021). Sullo sfondo, non ancora direttamente decisa ma oggetto di un importante obiter nel 2016, si colloca la delicata questione dell’usucapione sanante, che probabilmente si riproporrà a breve: siamo vicini ai venti anni dal 2003…
3. Dopo l’epocale spartiacque rappresentato da Corte costituzionale n. 71/2015, il Consiglio di Stato inizia a riflettere, con una serie di importanti Adunanze plenarie, sui problemi residuali, che la Consulta lascia sul terreno. Le chiavi di lettura continuano ad essere quella sostanziale del rapporto pubblico-privato e quella processuale, relativa ai mezzi di tutela, nell’idea di fondo che si afferma dell’art. 42-bis come unico possibile «procedimento espropriativo semplificato» (Corte cost. n. 71/2015). Il Consiglio di Stato sembra riappropriarsi dell’approccio funzionalista, suscitando una serie di perplessità sul piano dell’efficacia della tutela del privato, ma che attengono anche al metodo di fondo nei rapporti pubblico/privato.
Dopo la sentenza della Consulta del 2015 si prospetta immediatamente un tema di tutele e di corretta perimetrazione dei tempi del potere di cui all’art. 42-bis, tra procedimento e processo. L’Adunanza plenaria n. 2/2016 parte proprio dal tema relativo all’incertezza sui tempi, problema che si riverbera sulle modalità di tutela del cittadino specie rispetto al silenzio della p.a., per poi fare un discorso a treccentosessanta gradi sull’acquisizione sanante.
Secondo i giudizi di Palazzo Spada nel caso in cui il giudicato disponga espressamente la restituzione del bene l’amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis. Questa preclusione, invece, non sussiste in alcune ipotesi: quando il privato non ha interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria, e non propone quindi una rituale domanda di condanna dell’amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino; quando il proprietario ha interesse alla restituzione ma il giudice non si pronuncia sulla relativa domanda o si pronuncia “in modo insoddisfacente”; quando il giudice amministrativo, ferma restando l’impossibilità di condannare direttamente in sede di cognizione l’amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione, imponga all’amministrazione, eventualmente anche nel rito sul silenzio, di decidere — ad esito libero, ma una volta e per sempre, e nel rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali — se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42-bis ovvero abbandonarla in favore di altre soluzioni (restituzione del fondo, accordo transattivo, etc.). Rigido garante del principio di riserva di amministrazione, il g.a. esclude la possibilità per il g.a. di condannare l’amministrazione a disporre l’acquisizione sanante, perché altrimenti si sostituirebbe alla discrezionalità amministrativa.
In sintesi, secondo Ad. plen. n. 2/2016 l’illecito permanente ex art. 2043 c.c. viene a cessare solo in conseguenza: a) della restituzione del fondo; b) di un accordo transattivo; c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; d) di una compiuta usucapione, a certe condizioni.
Al netto dei successivi interventi correttivi della stessa Plenaria, ad esempio in tema di rinuncia abdicativa, la sentenza suscita alcune perplessità. Intanto sul fronte dei casi in cui è possibile superare il giudicato restitutorio nell’impiego dell’acquisizione sanante. Quando può dirsi che il giudice si pronunci “in modo insoddisfacente” sulla domanda restitutoria? Potrebbe rientrarvi, magari, un perplesso caso relativo al suolo acquisito per compiere una bonifica nell’impossibilità di una restituzione immediata del bene libero da quanto residuo per il suo precedente impiego a discarica?[17]
E il tema dell’usucapione? L’usucapione sanante è “sanata” da Ad. plen. n. 2/2016. Alle seguenti condizioni: a) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; b) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; c) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003) perchè solo l'art. 43 del medesimo t.u. ha sancito il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Restano delle perplessità: anche in questo caso, infattti, pare di assistere all’impiego di categorie civilistiche piegate a finalità di interesse pubblico.
Talune obiezioni non sembrano essere fugate dalle assertive affermazioni della Plenaria, assertive forse anche perché nel 2016 si opera un consapevole “rinvio” della questione. A mio avviso è ancora solida l’obiezione volta a negare l’usucapibilità in base all’idea che l’attività illecita di costruzione di un’opera non realizzi una valida interversione del possesso, quanto un abuso della situazione di vantaggio cagionata dalla detenzione materiale del bene[18]. Si deve quindi dubitare della compatibilità con l’art. 1 Protocollo addizionale Cedu: l’usucapione in queste ipotesi sembra infatti un altro caso di espropriazione indiretta. Il potere di acquisizione, come oggi previsto dall’art. 42-bis, pare qualificare la p.a. come detentrice del bene e non mero possessore (ai fini dell’usucapione): permanendo il potere di acquisizione non c’è animus possidendi, ma detenzione. Per non parlare del paradosso di una tutela addirittura inferiore all’accessione invertita: l’estinzione della tutela reale e di quella obbligatoria. Visto il termine di decorrenza dell’usucapione individuato dalla Plenaria, il problema fra un anno inizierà a riproporsi[19]. Già il Consiglio di Stato ha operato un revirement su quanto detto dalla Plenaria sulla rinuncia abdicativa; ci si chiede se farà lo stesso per l’usucapione sanante. Verrebbe da ritenere di no, se manterrà l’approccio neo-funzionalista che ha assunto negli ultimi anni.
4. Rispetto a tale atteggiamento si segnala prima di tutto una pronuncia meno commentata, ma certamente da non sottovalutare.
Per Ad. plen. n. 5/2020 l’art. 42-bis del d.P.R 8 giugno 2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima la disponibilità del bene. Inoltre, il giudicato restitutorio (amministrativo o civile che sia), inerente l’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, poichè questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.
Qui la Plenaria adotta con nettezza un approccio di flessibile rilevanza dell’art. 42-bis, di chiara matrice funzionalista. Da un lato ritiene applicabile la disposizione nel caso di nullità o annullamento di un contratto di compravendita, posto che anche nei modelli privatistici la finalità di interesse pubblico resterebbe immanente al rapporto; dall’altro che il giudicato restitutorio non precluda l’emanazione di un atto di imposizione di servitù, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.
Il crinale dei tormentati rapporti pubblico/privato è qui con nettezza lambito: a detta del giudice amministrativo l’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11 l. n. 241/1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico. Una visione marcatamente pan-pubblicista e soggettiva che di fatto identifica il concetto di interesse pubblico e quello della parte pubblica, che si riscontra in molti luoghi della giurisprudenza amministrativa più recente, come quello relativo all’accesso alla fase esecutiva del contratto d’appalto[20], in una «una visione della materia, che fuoriesce dall’angusto confine di una radicale visione soggettivistica del rapporto tra il solo, singolo, concorrente e la pubblica amministrazione e che vede la confluenze la tutela di molteplici interessi anche in ordine alla sorte e alla prosecuzione del contratto». Ritiene ancora la Plenaria, ampliando il compasso applicativo dell’art. 42-bis anche per questo verso, che se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.
5. In Ad. plen. n. 2/2020 il tema è il rilievo nella fattispecie della rinuncia abdicativa. La Plenaria guarda indietro a modifica il proprio convincimento, precedentemente espresso, seppure in via di obiter, nella sentenza n. 2/2016.
Esclude così la configurabilità nel nostro ordinamento della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo.
Lo fa sulla base di tre macro-argomentazioni, molto criticate dai civilisti, ma anche alcuni amministrativisti.
Per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento.
La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis. Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato.
Questo è lo snodo argomentativo centrale che la Plenaria pretende di trarre, con talune forzature, dalla sentenza della Consulta del 2015. Questo assunto, come diremo, sconta dei preconcetti di fondo e presenta una serie di eterogenesi dei fini, specie in termini di tutela del privato.
Ma seguiamo ancora l’argomentare della Plenaria e guardiamo quali sono a detta del giudice amministrativo le criticità della rinuncia abdicativa.
a) essa non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante. Se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante. Ai sensi dell’art. 827 c.c. l’acquisto, peraltro a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’Autorità espropriante. Né l’effetto traslativo può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno, atteso che le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi.
b) la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, senza averne le caratteristiche essenziali. La rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura. La domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene; l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato.
c) infine: essa non è provvista di base legale, in un ambito, come quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo (CEDU). Si è ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare, in materia di espropriazione cd. indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd. occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica.
Rispetto a questa dirompente affermazione, il Consiglio di Stato si pone il problema delle sue ricadute sulla parte privata, un po' come aveva fatto con la sentenza n. 13/2017 con l’affermazione del cd. prospective overrulling.
Quale tutela, dunque, in caso in “erronea” domanda risarcitoria?
L’ordinamento processuale offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello: la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni (art. 32 c.p.a.); la rimessione in termini per errore scusabile (art. 37 c.p.a.); l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
Invero come accennato le criticità restano, e sono tante. Come diremo, peraltro, si trascineranno nella successiva sentenza n. 6 del 2021.
Prima di tutto, di nuovo, ad essere evocata è la cornice generale dei rapporti pubblico/privato: il diritto privato viene implicitamente bollato come «terra di nessuno»[21] ed emerge una velata diffidenza del g.a. per un meccanismo di tutela affidato al soggetto leso.
Da un punto di vista più strettamente tecnico, il riferimento alla teoria dell’atto amministrativo implicito sembra scarsamente pertinente rispetto alla rinuncia abdicativa alla proprietà, che è istituto del tutto differente per presupposti, ambito di operatività e conseguenze. Peraltro, le più recenti acquisizioni civilistiche ammettono la rinuncia abdicativa implicita. In questo senso i giudici si limitano a escludere la rilevanza dell’art. 827 c.c. (che disciplina l’appartenenza allo Stato dei beni vacanti), ma non richiamano altre norme come l’art. 1070 c.c. (rinunzia della proprietà a favore del proprietario del fondo dominante), l’art. 1104 c.c. (abbandono del diritto del comunista a favore degli altri partecipanti). Infine, si osserva che il mancato effetto traslativo in capo all’ente espropriante non impedisca di considerare legittima l’operazione di sussunzione della rinuncia abdicativa nella domanda giudiziale di risarcimento del danno[22].
Taluni sono arrivati a parlare, commentando questa operazione ermeneutica, di abdicazione di giustizia[23].
Secondo questa prospettiva critica il richiamo alla tutela proprietaria costituzionale e convenzionale europea si rivela singolare all’interno della decisione, sol che si osservi che l’affermazione del conseguente principio di diritto è la circoscrizione dei poteri di reazione del privato e, comunque, la riserva alla sola amministrazione occupante della decisione sulla sorte del bene (restituzione o acquisizione).
Sicché a fronte dell’illecita occupazione di un bene immobile la determinazione legislativa delle legittime modalità di esproprio non può essere considerata come limite all’ordinario potere dispositivo del proprietario. Si ritiene, in tal senso, che «il problema, all'evidenza, ruota tutto attorno all'effettività delle tutele. Nel nuovo assetto delineato dall'adunanza plenaria la palla passa dal privato (e dal giudice) alla pubblica amministrazione: nel che, beninteso, sta il rovesciamento di prospettiva che consente di sterilizzare l'insana ansia del privato di dettare i tempi della traiettoria che dovrebbe portare alla finale (magari, comunque, tardiva) soddisfazione delle sue ragioni e alla pubblica amministrazione di tornare alla compostezza del suo privilegio, con agio di decidere come le conviene»[24]. Si prospetta così un’opzione alternativa: trattandosi di illecito permanente funzionerebbe sempre il principio della property rule, che deve funzionare di default, al privato spetta comunque l’azione restitutoria, assuma essa carattere reale (art. 948 c.c.) o personale (art. 2043-2058 c.c.), oltre che risarcitoria.
Dall’asserita esaustività e autosufficienza dell’istituto dell’acquisizione ‘sanante’ non si potrebbe far derivare la limitazione o, meglio, l’elisione degli ordinari poteri, dispositivi e di azione, del privato che abbia sofferto l’illecita condotta dell’amministrazione, se non operando un salto logico e giuridico inammissibile. In ragione di tale impropria operazione logica, verrebbe creata una norma che non poggia su alcun fondamento e che è in contraddizione con la legge di Hume, ossia frutto di un salto logico dalla realtà dell’essere a quella del dover essere[25]. In altri termini, si compie una operazione di normogenesi, logicamente invalida e giuridicamente inammissibile, non foss’altro perché contraria al principio di divisione dei poteri. Peraltro, conducendo ad un esito abdicatorio del diritto di proprietà del privato.
Si arriva per questa via alla prospettazione di un possibile difetto di giurisdizione ex art. 111 Cost. (eccesso di potere giurisdizionale), tema alquanto delicato dopo la notissima vicenda che ha portato alla recente sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, nel caso Ranstad, che non a caso si colloca a metà strada tra questioni di stretto diritto processuale, come la nozione di “giurisdizione” o di interesse strumentale, e vicende profonde, di ordine perfino istituzionale di dialogo/scontro tra Corti, che toccano i confini disciplinari tra pubblico e privato.
6. Come detto i nodi della tutela vengono al pettine in Ad. plen. 6 del 2021, che evidenzia ulteriormente le criticità derivanti da Ad. plen. n. 2/2020. Nel contrasto tra certezza e stabilità dei rapporti vs. legalità nazionale e convenzionale ci troviamo dinanzi una giurisprudenza amministrativa all’apparenza molto sbilanciata sulla prima. Di nuovo quindi si misura uno scarto rispetto alla tradizione ante-sentenze della Corte costituzionale del 2010 e del 2015.
Il Tribunale di Cagliari nel 2006 ritiene che la fattispecie che gli viene portata all’attenzione è un caso di occupazione appropriativa, ma rigetta espressamente la domanda per prescrizione. Il Tar Sardegna respinge quindi un successivo ricorso sulla medesima vicenda ribadendo che si tratta di occupazione appropriativa, e che l’iniziale richiesta risarcitoria fosse da considerare come rinuncia abdicativa alla proprietà dell’opera. Nel frattempo, tuttavia, tale sistemazione viene superata da Ad. plen. n. 2/2020, secondo la quale l’acquisto della proprietà da parte della p.a. può ormai avvenire solo ex art. 42-bis, in base a una – pretesa – rigorosa applicazione del principio di legalità. Quindi, come detto, la Plenaria del 2020 affronta il conseguente tema dei riflessi processuali con riferimento ai giudizi già instaurati a seguito della proposizione dell’azione risarcitoria nel precedente assetto pretorio. Il punto è che nel caso all’esame della Plenaria del n. 6/2021 tali ausili alla parte privata finiscono per non operare, per la peculiarità della fattispecie. La domanda di fondo, infatti, è se il giudicato che si è formato sulle domande risarcitorie e petitorie proposte alla luce del precedente assetto pretorio «copra» anche l’acquisizione della proprietà in capo alla p.a. ovvero se residui uno spazio per attivare la tutela delineata nel 2020 della Plenaria.
Ad. plen. n. 6 del 2021 lo esclude perentoriamente.
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto (per prescrizione) della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327/2001. Insomma: un completo deficit di tutela. Al fine della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto.
Tale presa di posizione è passibile di critiche sul piano sostanziale e su quello processuale.
Per l’Adunanza Plenaria il giudicato civile si è «formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione», sia sul suo immediato e diretto presupposto logico-giuridico costituito dal «regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della c.d. ‘occupazione acquisitiva’» e, dunque, sull’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’amministrazione in virtù della sua “irreversibile trasformazione”. E tuttavia, dal momento della produzione dei fatti alla introduzione del giudizio civile e alla successiva sentenza, per poi arrivare alla Plenaria del 2021, si è verificato il completo e assoluto mutamento della qualificazione pretoria del fatto illecito (da istantaneo a permanente) ed è stato escluso che dal medesimo potessero scaturire effetti incidenti sul diritto di proprietà. L’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda attorea non è subordinato alla sussistenza nella pronuncia (e nel dispositivo) della formale chiara e univoca statuizione costitutiva del trasferimento del bene in favore dell’amministrazione in base alla “occupazione appropriativa” (né poteva essere così, perché ormai la tesi dell’occupazione acquisitiva era superata). Sicché, è lecito chiedersi, si può immaginare che il giudicato si estenda a una prassi (prima praeter, poi contra legem) ormai obsoleta o ci sarebbe stato invece un obbligo di interpretazione conforme a Cedu?[26].
A tal fine si propone, da parte di alcuni[27], l’autonomia fra due giudizi e la possibilità del g.a. di apprezzare autonomamente la fondatezza, in fatto e in diritto, della sentenza civile. Da escludere in questo caso, visto il superamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva. Resta il problema del giudicato e del suo potenziale contrasto alla Cedu, in particolare all’art. 1 Protocollo 1 annesso alla Cedu. Sul punto esiste, come noto, la chiusura della Corte costituzionale, che con sentenza n. 123/2017 ha dichiarato la questione di costituzionalità dell’art. 395 c.p.c. per un verso inammissibile per altro verso infondata. Si afferma ivi che è rimessa agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, senza indebitamente stravolgere i principi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare. Al netto delle criticità che tale sentenza poteva o meno presentare, il momento dell’intervento legislativo sembra finalmente arrivato, come conferma l’art. 1, comma 10, della legge delega di riforma del processo civile, n. 206/2021.
Sul fronte delle critiche più schiettamente processuali, invece, si ritiene che né il c.p.c. né il c.p.a. conferiscono alla sentenza civile efficacia di giudicato nel processo amministrativo[28].
Ma soprattutto è la discussa figura pretoria del “giudicato implicito”, da taluni criticamente definito «invisibile»[29], ove riferita alla cd. pregiudizialità logica ed alla cd. pregiudizialità tecnica, che fa discendere l’esistenza di una decisione vincolante per le parti su situazioni sostanziali diverse da quelle oggetto di domanda da un evento su cui le parti stesse non hanno esercitato alcun controllo. Tale evento è il ragionamento compiuto dal giudice per pronunciarsi sulla (unica e vera) domanda proposta: la logica dell’implicito è infatti inesorabile nell’attrarre tutte le premesse fondanti l’accertamento sulla domanda, solo in virtù del fatto che sono tali, alla stessa natura di tale accertamento. Ma quando tali premesse hanno consistenza di altra e diversa posizione sostanziale di cui nessuna parte ha chiesto la tutela, la loro semplice ricognizione in sentenza, benché logicamente necessaria, non è “decisione/accertamento” ma atto solipsistico del giudice insuscettibile di giustificare un vincolo da giudicato in capo a chi, come le parti del processo, vi è rimasto estraneo. Men che mai questo vincolo può ascriversi ad esigenze di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici come fa il Consiglio di Stato riprendendo affermazioni tralaticie della giurisprudenza civile di legittimità. Obiettivi di celerità dei giudizi e di armonia delle decisioni possono perseguirsi costruendo un giudicato dai limiti molto ampi, ma sempre e solo a patto di rispettare le regole del due process[30]. Proprio quelle regole che la lezione del giudicato implicito invece nega, e per mano di giudici ai quali, secondo la Costituzione repubblicana, neppure competono valutazioni di policy processuale. Il tema della ragionevole durata del processo e dell’economia processuale, declinato secondo il discorso del giudicato implicito, si è accompagnato ultimamente a un’idea utilitaristica di giustizia (es. abuso del processo e meritevolezza della tutela) che, sulla base di generiche clausole generali (es. buona fede, solidarietà sociale) ha portato a una normogenesi pretoria per principi alquanto discutibile[31].
7. Il tema dell’acquisizione sanante, nei suoi persistenti nodi aperti, conferma che la vicenda delle occupazioni illegittime dell’amministrazione continua a non avere pace, nonostante gli importanti assestamenti che si registrano da poco più di un lustro, grazie alla giurisprudenza finalmente confluente nel 2015 di Corte costituzionale e Cassazione.
E tuttavia i tanti aspetti problematici ancora non chiariti stentano a trovare, come visto, confluenze giurisprudenziali come avvenuto sull’an dell’istituto.
L’idea di fondo di chi scrive è che ciò è avvenuto perché, al fondo, si hanno visioni opposte su temi di respiro teorico generale, attinenti sotto il profilo sostanziale il rapporto pubblico/privato, sotto quello processuale il rapporto fra certezza e ragionevolezza dei tempi della tutela e legalità nazionale ed europea.
Da amministrativista, fermandomi a guardare il mio ambito disciplinare, e senza coinvolgere qui l’opinione del civilista, osservo che tali antitetiche opinioni si incontrano anche all’interno dei cultori della mia disciplina.
Per un verso, infatti, c’è chi critica la levata di scudi contro un diritto privato raffigurato come un mondo popolato da sterili e primitivi egoismi connotati soltanto da una rozza dimensione economico-patrimoniale, unitamente alla per contro insistita raffigurazione in chiave salvifica di un diritto amministrativo (e del suo giudice)[32].
Sul versante opposto c’è chi, richiamando i classici del pensiero liberale, su tutti Vittorio Emanuele Orlando, ritiene di fare un’apologia del diritto amministrativo e del suo giudice[33], e di criticare la dottrina che negli anni ha prefigurato una progressiva civilizzazione del diritto amministrativo, attaccando altresì taluni momenti di discutibile accondiscendenza nei confronti del giudice della giurisdizione, magari secondo quella logica confusiva della costruzione di un diritto “comune”, che, a ben vedere, sarebbe soltanto un cavallo di Troia del diritto amministrativo e della sua tradizionale anima garantista.
Il noto caso Randstad, deciso con una sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2021, costituisce la cartina di tornasole di tale dibattito, a volte anche aspro, tra settori disciplinari e ordini giurisdizionali.
È vero altresì che si registrano prospettive riconcilianti e ireniche, che teorizzano la conclamata crisi della dicotomia pubblico/privato e la necessità di ripensare i paradigmi dello Stato diritto.
Basta scorrere le pubblicazioni degli ultimi anni, tra le quali emerge un’elegante analisi in senso genealogico della parabola moderna della grande dicotomia e le ragioni della sua persistente crisi[34], accompagnandola magari con analisi in senso sincronico[35].
Si vedrà come la cifra di queste impostazioni sia quella che ravvede interconnessioni, sovrapposizioni, perdita di identità, che creerebbero maggiore ricchezza e ambiguità, richiedendo canoni e paradigmi nuovi, anche di carattere empirico[36].
Anche nella manualistica universitaria e per concorsi, spesso ascrivibile alla penna di magistrati, osserviamo questo riposizionamento sistematico: penso a testi quali “Dal diritto civile al diritto amministrativo”[37], nel quale si parla di due discipline in corso di allineamento, che si muovono lungo uno sky-line frastagliato, o ad recenti altri testi in cui si parla ormai di superamento della contrapposizione tra istituti di diritto pubblico e di diritto privato, vedendosi nel diritto amministrativo il nuovo diritto comune dei rapporti giuridici complessi[38].
Anche la teorica del “diritto debole”[39] si muove su tale linea: «occorre ripartire dalla neutralità del rapporto giuridico, inteso come relazione materiale» tra interessi sostanziali, «come substrato teorico e tecnico per una rivisitazione in senso funzionale della relazione tra diritto pubblico e privato».
Insomma: la sfida sistematica è aperta, e da essa passa la soluzione delle questioni che continuano a tormentare l’istituto dell’acquisizione sanante, prima che torni a farsi sentire la Corte di Strasburgo.
*Relazione al corso organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione su “Occupazioni illegittime e acquisizione sanante. Ancora nodi gordiani?”, Roma, 15 marzo 2022. Destinata agli Scritti in onore di C.E. Gallo.
[1] Per un affresco generale sui corsi e ricorsi della “grande dicotomia”, cfr. B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna, 2020.
[2] Cfr. A. Romano Tassone, Introduzione ai lavori, relazione al Convegno su “Espropriazione per pubblica utilità”, svoltosi a Reggio Calabria l’11 e 12 ottobre 2013, reperibile sul sito www.associazione111.it.
[3] Già a far data dal ventennio fascista. Emblematico, sul punto, S. Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di proprietà, in Atti del primo Congresso nazionale di diritto agrario (1935), ora in Id., La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, 1.
[4] N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Roma-Bari, 2007.
[5] S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, 1990.
[6] L. Nivarra, La proprietà europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, in Eur. dir. priv., 2011, 583 ss.
[7] R. Conti, L’occupazione acquisitiva: tutela della proprietà e dei diritti umani, Milano, 2006
[8] Cfr. ad. es. Cass., sez. un., n. 5902 e 6583 del 2003.
[9] V. il caso Scordino: Scordino c/Italia, Sez. I, 15 luglio 2004; Sez. I, 29 luglio 2004; Sez. IV, 17 maggio 2005; Grande Chambre, 29 marzo 2006; Sez. IV, 6 marzo 2007.
[10] Cons. St., ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2.
[11] In tal senso, mi permetto di rinviare già a G. Tropea, Le persistenti “valvole di sicurezza del sistema”: l’acquisizione sanante come questione di stretto diritto processuale?, in Dir. proc. amm., 2016, 591 ss.
[12] Tar Puglia, Lecce, n. 785/2011.
[13] Cons. St., sez. IV, n. 3561/2011.
[14] G. Veltri, La tutela restitutoria in materia espropriativa: lo stato della giurisprudenza ed i nodi ancora irrisolti, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] F. Saitta, Verso un “giusto” procedimento espropriativo, in Dir. amm., 2013, 627 ss.
[16] Sul tema v. Cass., sez. un., 20 luglio 2021, n. 20691.
[17] Cons. St., sez. IV, 21 settembre 2015, n. 4403.
[18] Cons. St., sez. IV, n. 3346/2014.
[19] Sull’attuale inapplicabilità dell’usucapione v., da ultimo, Tar Toscana, 15 febbraio 2022, n. 174.
[20] Ad. plen. n. 10/2020.
[21] G.D. Comporti, La strana metafora della terra di nessuno: le adiacenze possibili tra diritto pubblico e diritto privato alla luce dei problemi da risolvere, in Dir. pubbl., 2021, 529 ss.
[22] A. Vacca, Profili strutturali dell’attività di ius dicere nell’abdicazione del diritto di proprietà, in Riv. dir. proc., 2021, 158.
[23] C. Bona-R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, in Foro it., 2020, III, 134 ss.
[24] C. Bona-R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, cit.
[25] A. Vacca, Profili strutturali dell’attività di ius dicere nell’abdicazione del diritto di proprietà, cit., 166.
[26] W. Gasparri, Occupazione appropriativa, rigetto della domanda risarcitoria e acquisto del bene: alla ricerca dei limiti oggettivi del giudcicato, in Urb. app., 2021, 501.
[27] B. Merola-S. Perongini, Occupazione acquisitiva: giudicato implicito civile ed efficacia preclusiva nel processo amministrativo, in Urb. app., 2021, 507.
[28] B. Merola-S. Perongini, Occupazione acquisitiva: giudicato implicito civile ed efficacia preclusiva nel processo amministrativo, cit., 507.
[29] A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in www.judicium.it, n. 3/2019.
[30] C. Delle Donne, “Giudicato implicito” vs giusto processo: a che punto è la notte? (Intorno ad A.P. n. 6 del 2021), in pubblicazione in www.judicium.it.
[31] Sul punto sia consentito il rinvio a G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015. Cfr. anche C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1005 ss.
[32] G.D. Comporti, La strana metafora della terra di nessuno: le adiacenze possibili tra diritto pubblico e diritto privato alla luce dei problemi da risolvere, cit., passim.
[33] M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008. Per un’aggiornata difesa del giudice amministrativo cfr. C.E. Gallo, Attualità del giudice amministrativo, in www.giustiziainsieme.it, 15 giugno 2021.
[34] B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, cit.
[35] A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna, 2020.
[36] S. Cassese, Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà?, in Dialoghi con G. Alpa, un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, a cura di G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno-Zencovich, Roma, 2018, 56
[37] A. Plaisant, Dal diritto civile al diritto amministrativo, IV es., Udine, 2020.
[38] G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Padova, 2021. Ma v. già le pagine di M.S. Giannini, Diritto amministrativo, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, spec. 866.
[39] M. Protto, Il diritto debole, Torino, 2019.
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